Dragamine della classe RD 39. Dislocamento di 155 tonnellate standard e 203 in carico normale; lunghezza 33,15-36,5 metri, larghezza 5,80, pescaggio 2,20. Era armato con un cannone da 76/40 mm e due mitragliatrici da 6,5 mm (altra fonte parla di due mitragliere da 13,2 mm, altra ancora di quattro mitragliatrici), e raggiungeva una velocità massima di 13 o 14 nodi, con un’autonomia di 700 miglia a 12,5 nodi.
Breve e parziale cronologia.
24 ottobre 1919
Impostazione presso i cantieri Franco Tosi di Taranto.
6 giugno 1920
Varo presso i cantieri Franco Tosi di Taranto.
22 ottobre 1920
Entrata in servizio.
1941
Dislocato a Zara.
12 aprile 1941
Durante l'invasione della Jugoslavia, l'RD 44 viene incaricato di scortare due motopescherecci carichi di truppe inviate ad occupare il paese di Oltre/Preko, principale centro abitato dell’isola dalmata di Ugliano, antistante Zara.
Pur distando pochi chilometri da Zara (rispetto alla quale Oltre è posizionata esattamente di fronte, ben visibile anche ad occhio nudo), dalla quale è separata dall’omonimo Canale, Ugliano fa parte della Jugoslavia, cui è stata assegnata dai trattati firmati dopo la prima guerra mondiale (che hanno assegnato quasi tutta la Dalmazia alla Jugoslavia, ritagliando Zara come piccola enclave italiana), come del resto le isole circostanti e tutto l'entroterra di Zara. La città dalmata si è venuta a trovare, con l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia, in una posizione quanto mai precaria, essendo isolata dal resto dell'Italia e completamente circondata da territorio jugoslavo, con il confine italiano più vicino centinaia di chilometri più a nord: ciò ne farebbe l'obiettivo perfetto per un attacco concentrico jugoslavo, attacco che infatti è stato pianificato, ma che non vedrà mai la luce a causa della rapidità dell’avanzata delle truppe dell’Asse da nord e dell’altrettanto rapida disgregazione delle forze armate jugoslave.
Dopo giorni carichi di tensione in attesa di un attacco mai arrivato, i novemila uomini che costituiscono il presidio di Zara, al comando del generale Emilio Giglioli, hanno ricevuto il mattino dell'11 aprile l’inatteso ordine di passare invece all’offensiva; offensiva che, incontrando ben poca resistenza (in tre giorni le truppe di Zara faranno 2229 prigionieri e raggiungeranno Tenin nell’interno e Sebenico sulla costa, lamentando da parte loro un totale di sette morti e 27 feriti), sarà rivolta sia verso l’entroterra, sia verso le isole.
La vicinanza di Oltre a Zara ne fa logicamente uno dei primi obiettivi dell’avanzata italiana: già nel pomeriggio dell’11 aprile una barca a remi armata da marinai, con bandiera bianca parlamentare sulla prua, attraversa il Canale di Zara ed approda ad Oltre per chiedere la resa del presidio jugoslavo, ma ottiene un rifiuto e torna quindi indietro dopo un’ora. La reazione italiana consiste in attacchi aerei sull’isola di Ugliano, con bombardamento e mitragliamento delle truppe jugoslave; alle sei del mattino del 12, quando scatta l’offensiva italiana su tutti i fronti, le artiglierie del fronte a mare di Zara ed il pontone armato G.M. 240 aprono il fuoco contro la fortezza di San Michele, sede di un osservatorio dal quale gli jugoslavi possono agevolmente tenere d’occhio Zara ed il territorio circostante.
Dopo un’ora di questo cannoneggiamento, verso le sette del mattino dello stesso 12 aprile, vengono visti apparire qua e là dei drappi bianchi, e da Oltre parte una barca con una bandiera bianca sull’albero; alle 7.30 la barca approda a Zara e ne scendono dei civili che offrono la resa incondizionata e chiedono la cessazione del fuoco e l'immediata occupazione dell’isola, “recando, come ai tempi di San Marco e degli antichi costumi, una damigiana di vino ed un prosciutto, doni augurali e segno di sottomissione”. Il generale Giglioli ordina allora al comando del fronte a mare (retto dal maggiore di fanteria Andrea Badini) di cessare il fuoco e costituire una compagnia di formazione con marinai, fanti, carabinieri e camicie nere, requisire due motopescherecci e sbarcare ad Oltre dopo essersi sincerato dell'assenza di resistenza (della quale non si è certi, dal momento che non vi erano militari tra i “parlamentari” arrivati in barca), facendosi appoggiare dal G.M. 240. Se da Oltre verrà aperto il fuoco sui pescherecci, questi dovranno ritirarsi ed il pontone armato aprirà il fuoco sull’abitato, insieme alle batterie costiere di Zara.
Alle 10.45 i due pescherecci con la compagnia mista di formazione, posta agli ordini del tenente di vascello Pompeo Rispoli (ne fanno parte anche 30 marinai), lasciano Zara scortati dall'RD 44; al contempo, per ordine del generale Giglioli, il G.M. 240 riapre il fuoco contro il San Michele per scoraggiare un'eventuale reazione del presidio di Oltre. Alle 11.42 le truppe italiane sbarcano ad Ugliano senza incontrare resistenza: il maggiore al comando del presidio jugoslavo si arrende senza condizioni con il centinaio di uomini al suo comando, ed alle 12.06 il G.M. 240 cessa il fuoco.
Nel pomeriggio il generale Giglioli ordina al Comando Marina di Zara di provvedere all'occupazione delle isole, che si svolge senza intoppi: alle 18.50 del 13 aprile un distaccamento di 25 marinai al comando del sottotenente di vascello Romualdo Sissa sbarca a Sestrugno ed alle 20 raggiunge il villaggio, situato sulla sommità dell'isola, ed issa la bandiera italiana presso una delle abitazioni, senza destare reazioni nella popolazione locale; il giorno seguente il sottotenente di vascello Sissa lascia Sestrugno con parte del distaccamento alla volta di Eso, dove sbarca alle 11.13 e dove le autorità cittadine si pongono subito a sua disposizione: anche qui viene alzata la bandiera italiana e la popolazione viene invitata a consegnare le armi ed a seguire le disposizioni che saranno impartite dalle autorità italiane. Lasciata una squadra di quindici marinai ad Eso, Sissa torna a Sestrugno e dà ordini per la sorveglianza della vicina isola di Raviane, amministrativamente dipendente da Sestrugno ed abitata soltanto da una cinquantina di contadini in casolari sparsi.
14 aprile 1941
Per l'occupazione di Melada e dell'Isola Grossa, il Comando Marina di Zara costituisce una mezza compagnia con 55 marinai e 60 fanti della I Compagnia Mitraglieri del fronte a mare, ponendola agli ordini del sottotenente di vascello Vincenzo Galvani, coadiuvato da due ufficiali del fronte a mare. Queste truppe vengono imbarcate su due motopescherecci requisiti, che il mattino del 14 aprile le trasportano a Melada: a scortarli, di nuovo, è l'RD 44.
Il piccolo convoglio raggiunge l'isola alle 9.45 e provvede all’occupazione senza incontrare resistenza; sei gendarmi jugoslavi consegnano le armi ed un tenente serbo viene preso prigioniero. Nel corso della giornata si provvede al rastrellamento dell’isola, alzando la bandiera italiana sul fortino di Punta Banastra (trovato deserto e con molto materiale distrutto).
Nel pomeriggio il sottotenente di vascello Galvani sbarca a Božava, nell'Isola Grossa: anche qui le guardie di finanza jugoslave consegnano le armi. Una squadra viene inviata nei villaggi di Saline e Punte Bianche, dove vengono lasciati dei piccoli presidi; alle 16 viene occupato anche il paese di Sale, ed il mattino del 15 l'occupazione dell'Isola Grossa è completata con l'arrivo delle truppe italiane nella fortezza di Grpašcak, adibita a stazione di vedetta, trovata anch'essa abbandonata ma con armi, munizioni e materiale danneggiato.
Sempre il mattino del 15 aprile, il Comando Marina di Zara manda 50 marinai al comando del sottotenente di vascello Sissa ad occupare l'Isola Incoronata, abitata solo da pochi contadini e pescatori; anche qui l’occupazione si svolge senza incontrare resistenza.
Lo stesso giorno Pasman viene occupata da una squadra delle truppe di occupazione di Zaravecchia, al comando del sottotenente di vascello Bruno Barbarano.
Il 16 aprile due compagnie del fronte a terra danno il cambio ai marinai per l'occupazione stabile delle isole (cui partecipano anche i ragazzini delle organizzazioni giovanili fasciste: ad Ugliano vengono mandati in tutto quindici avanguardisti e 233 membri dei corsi premilitari, di cui 72 “pre-marinari”, 54 “pre-avieri” e 107 “pre-terrestri”).
17 aprile 1941
L'RD 44 ed il MAS 558 scortano a Sebenico la motonave requisita Laurana, avente a bordo due compagnie di fanti di Marina del Battaglione "Grado" del Reggimento "San Marco", inviate ad occupare quella città per ordine dell'ammiraglio Oscar Di Giamberardino (comandante del Dipartimento Militare Marittimo dell'Alto Adriatico), in seguito alla notizia che la popolazione civile ha iniziato a saccheggiare i magazzini dell’Arsenale (Sebenico, il cui presidio jugoslavo si è dissolto, è stata raggiunta già il 15 aprile da reparti della 52a Divisione Fanteria "Torino" e da truppe del presidio di Zara, che tuttavia sono subito proseguite verso Cattaro senza fermarsi ad occupare la città, che è così rimasta momentaneamente nell’anarchia).
Dopo una breve sparatoria, priva di conseguenze, con croati armati sostenitori del neonato Stato Indipendente di Croazia proclamato da Ante Pavelic, i fanti del "San Marco" occupano i forti di Sebenico; cadono in mano italiana anche il cacciatorpediniere Ljubljana (ai lavori in cantiere dopo essere naufragato per incaglio l'anno precedente), il posamine Marjen, la cisterna militare Lovcen e la motosilurante Uskok, i cui equipaggi hanno in gran parte disertato (gli ultimi ufficiali e marinai jugoslavi sbarcheranno il 20 aprile).
Epilogo in Tunisia
Agli inizi del maggio 1943, la sorte della Tunisia appariva ormai segnata. Superiori per numero e supportate da una schiacciante superiorità di armamento e dall'ormai completo dominio dei cieli, le truppe statunitensi da ovest e quelle britanniche da est avanzano rapidamente verso Tunisi e Biserta; quelle italo-tedesche, a corto di tutto e continuamente martellate dal cielo, ripiegavano verso la penisola di Capo Bon, ove si sarebbe consumato l'ultimo atto della guerra in Africa.
Essendo ormai chiaro che la caduta di Biserta era questione di giorni (le truppe della 9a Divisione Fanteria statunitense avrebbero infatti occupato la città il 7 maggio), il 5 maggio 1943 i dragamine ancora efficienti che vi avevano base ricevettero ordine dal locale Comando Marina di mollare gli ormeggi per rientrare in Italia: si cercava di salvare il salvabile prima che fosse troppo tardi.
Una delle unità ancora in efficienza era l'RD 44 (al comando del capo nocchiere di prima classe Giuseppe Ferrari, da Venezia), che lasciò Biserta diretto a Trapani dopo il tramonto del 5 maggio, insieme al similare RD 18 (armato dalla Guardia di Finanza e comandato da un sottufficiale delle Fiamme Gialle) ed alla cannoniera-dragamine Levanzo (al comando del sottotenente CREM Giuseppe Orrù).
Sulla plancia dell'RD 44 il comandante Ferrari, che con i suoi 38 anni era di gran lunga il più “anziano” in un equipaggio composto quasi interamente da ventenni, parlava con il marinaio nocchiere Giovanni Bianco, che era al timone: la conversazione verteva sulla guerra ormai persa, sull’avanzata travolgente degli inglesi e sugli americani che stavano per entrare a Biserta, sulla superiorità di armamento ed equipaggiamento del nemico e sulla sua abbondanza in ogni cosa, anche nei generi di conforto, impietosamente paragonata alle carenze italiane; sulle case e famiglie lontane e sulle speranze per il futuro.
Bianco, ventiduenne nativo di Gallipoli, conosceva bene il mare perché era pescatore: andava per mare fin dall’età di quattro anni, quando aveva iniziato ad aiutare il padre nelle battute di pesca notturne. Nato in una famiglia povera – molti anni dopo avrebbe ricordato che “Non avevamo niente, d’inverno facevamo la fame più nera, stavamo anche tre giorni senza mangiare… Non avevamo niente con cui giocare, dormivamo in tre in un letto, non c’erano gabinetti, non c’era luce elettrica, non c’era altro che freddo, fame e miseria” –, aveva passato tutta la sua giovinezza nella sua natia Gallipoli, e prima della chiamata alle armi non aveva mai visto nemmeno Lecce, suo capoluogo di provincia. Tutto era cambiato con la guerra, aveva lasciato Gallipoli – viaggiando in treno per la prima volta in vita sua – ed in poche settimane aveva visto per la prima volta Brindisi, poi Ancona ed infine Zara, dov’era stato con l'RD 44 al tempo dell'invasione della Jugoslavia: per mesi avevano dragato mine nelle acque dell'Istria, poi nell'aprile 1941 avevano scortato le navi che trasportavano i fanti di Marina del Reggimento "San Marco" a Sebenico e Spalato, avevano sparato con l’unico cannone contro le posizioni jugoslave ed assistito alla resa della fortezza di San Michele e delle isole zaratine; in quell’occasione Bianco aveva portato sull'RD 44 una giovane suora del convento che sorgeva sul Monte San Michele di Ugliano, ferita al seno sinistro: gli ricordava una delle sue cinque sorelle, aveva pregato per lei.
Aveva assistito all'affondamento di una motonave (“Era impressionante vedere quel bestione con la chiglia capovolta, sembrava un isolotto a fior d’acqua”) ed aiutato a salvare i 40 naufraghi, aveva liberato insieme al collega Carmelo Greco un marinaio gravemente ferito intrappolato tra i rottami nuotando nella densa nafta che gli era poi rimasta addosso per giorni (per questo era stato proposto dal comandante Ferrari per una promozione, ma il precipitare degli eventi in Tunisia aveva impedito di portare a termine il relativo iter burocratico), aveva visto un altro marinaio tagliato in due dalle cesoie usate per tranciare i cavi di ormeggio delle mine. Era diventato provetto avvistatore di mine: per ogni mina avvistata c’era un premio di 50 lire, così era sempre in coperta, sotto il sole cocente d’estate e con il freddo penetrante dell’inverno, ad aguzzare la vista nella foschia per avvistare gli ordigni di morte.
Il mare era piatto come una tavola, non c’era una bava di vento. Le tre piccole unità si erano appena lasciata Biserta alle spalle quando l'onnipresente aviazione angloamericana si abbatté su di esse: una squadriglia di cacciabombardieri Alleati, provenienti da sudest, piombò sui dragamine mitragliando e lanciando spezzoni. Sull'RD 44 fu immediatamente suonato l'allarme, tutti si precipitarono in pochi attimi ai posti di combattimento: la piccola nave rispose al fuoco con le due vecchie mitragliere che costituivano tutto il suo modesto armamento antiaereo e spinse al massimo le malandate macchine nel vano tentativo di seminare gli inseguitori, eruttando una densa colonna di fumo dal fumaiolo, ma non ci fu niente da fare. Raffiche di mitragliatrice colpirono ripetutamente l’RD 44 in più punti, lasciandolo immobilizzato con gravi danni; sul ponte di comando il mitragliere Orazio Giannone rimase ucciso mentre sparava contro gli aerei attaccanti, il comandante Ferrari si accasciò sul ponte gravemente ferito ad entrambe le gambe, ed il timoniere Giovanni Bianco rimase anch’egli gravemente ferito da una scheggia che gli si conficcò nel petto, a pochi centimetri dal cuore: per lo shock sulle prime non si rese nemmeno conto di essere stato colpito, solo quando tentò di aiutare il suo comandante si rese conto di avere il petto pieno di sangue e di non riuscire ad utilizzare il braccio sinistro.
La Levanzo si avvicinò all'RD 44 per prestargli soccorso, ma fu a sua volta colpita e dovette portarsi all'incaglio presso Capo Zebib per evitare l'affondamento.
Sull'RD 44 la situazione appariva grigia: la nave andava alla deriva ed imbarcava acqua da numerose falle, era evidente che era in procinto di affondare; riverso sul ponte, il comandante Ferrari si rivolse al suo timoniere: “Bianco, ce la fai a portare la nave su Capo Zebib?” “Sì, certo che ce la faccio” “Allora punta le colline di Cartagine, le vedi? Vira laggiù, piomba dritto (…) sul basso fondale di sabbia. Se ci arriviamo in tempo, se ci sediamo sul fondo, ci salviamo, altrimenti per noi è finita”. Bianco eseguì, virò a dritta, puntò verso Capo Zebib.
Le batterie contraeree sulla costa erano intanto entrate in azione, ma questo non impedì ai caccia nemici di tornare ad avvicinarsi da est ed attaccare di nuovo l'RD 44 con spezzoni e raffiche di mitragliatrice: colpito ancora, il dragamine morente sbandò e si appoppò pericolosamente, ma riuscì ancora ad adagiarsi su una secca non lontano da Capo Zebib, permettendo così all’equipaggio di mettersi in salvo. Il comandante Ferrari diede ordine di distruggere l’archivio segreto. Abbandonato dall’equipaggio, verso le nove di quella sera l'RD 44 affondò ad una decina di miglia da Biserta.
Non ebbe sorte migliore l'RD 18, che venne a sua volta affondato da aerei al largo di Capo Zebib.
Per la verità sembrano sussistere alcune contraddizioni sull’esatta sequenza e modalità degli affondamenti. Secondo il volume "La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia", dell'Ufficio Storico della Marina Militare, l'RD 44 fu colpito per primo ed affondò poco dopo; la Levanzo fu colpita mentre cercava di assisterlo ed andò ad incagliarsi in costa; poco dopo (quindi sempre la sera del 5 maggio) fu colpito anche l'RD 18, che affondò in pochi minuti, mentre il relitto incagliato della Levanzo venne definitivamente distrutto da un nuovo attacco aereo il mattino del 6 maggio. Diversa è la versione del volume "Navi militari perdute", che pure appartiene alla medesima collana sulla Marina italiana nella seconda guerra mondiale edita dall'USMM: in esso si afferma che l'RD 44 affondò verso le 21 del 5 maggio, poco dopo essere stato colpito, ad una decina di miglia da Biserta, che la Levanzo fu colpita mentre soccorreva l'RD 44 e portata all’incaglio a Capo Zebib (a circa dieci miglia da Biserta) dove fu distrutta da un nuovo attacco aereo il mattino successivo, e che l'RD 18 fu attaccato ed affondato solo il mattino del 6 maggio, anch’esso al largo di Capo Zebib. Sembra più verosimile la versione riportata da “La difesa del traffico”, dal momento che non si spiega altrimenti come mai l'illeso RD 18, partito da Biserta la sera del 5 insieme a Levanzo e RD 44, si sarebbe trovato ancora nelle pericolose acque di Capo Zebib il mattino del 6 maggio.
Altra discrepanza riguarda le esatte modalità della perdita dell'RD 44: nella motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare che fu conferita al comandante Ferrari (si veda più sotto) si afferma che la nave, gravemente danneggiata ed in procinto di affondare, venne portata all’incaglio; il che coincide con il ricordo di Giovanni Bianco, il timoniere che materialmente la portò in secco su ordine di Ferrari, e che più volte rievocò l’episodio nel dopoguerra. Tuttavia, entrambi i citati volumi dell'USMM sono concordi nell’affermare che l'RD 44 affondò poco dopo essere stato colpito, senza menzione alcuna di un incaglio, a differenza che per la Levanzo. D’altra parte, il fatto che tutto l'equipaggio (tranne un uomo rimasto ucciso sul colpo durante l’attacco), feriti compresi, si sia salvato sembrerebbe indirettamente confermare la versione dell'incaglio.
Una certa confusione sussiste anche sull’identità degli aerei che effettuarono gli attacchi che portarono all’affondamento delle tre unità. Il volume terzo, “Tunisia and the End of the War in Africa”, dell’opera “A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945” a cura di Christopher Shores, Giovanni Massimello, Russell Guest, Frank Olynyk e Winfried Bock afferma che l'RD 44 sarebbe stato affondato da bombardieri medi North American B-25 “Mitchell” sei miglia a nord di Marettimo, ma si tratta di un errore, sia per la posizione del tutto sbagliata, sia per il tipo di aerei, che dalle fonti italiane sarebbero risultati invece essere cacciabombardieri. La distruzione di Levanzo e RD 18 il 6 maggio è invece accreditata dal medesimo libro a caccia Supermarine Spitfire del XII Air Service Command.
Tra i 29 uomini che componevano l'equipaggio dell'RD 44 – 6 sottufficiali e 23 tra sottocapi e marinai, tutti richiamati o di leva tranne comandante e direttore di macchina, che erano sottufficiali in servizio permanente effettivo, ed il radiotelegrafista volontario Silvio Mustilli – l'unica vittima fu il marinaio cannoniere Orazio Giannone, da Modica, fulminato dal tiro nemico mentre rispondeva al fuoco con la sua mitragliera: mancavano tre giorni al suo ventunesimo compleanno. Alla sua memoria fu conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: "Destinato alla mitragliera di dragamine durante violento attacco di numerosi aerei, effettuava un fuoco preciso ed intenso sotto il mitragliamento e lo spezzonamento avversari. Colpito mortalmente, cadeva al suo posto di combattimento facendo olocausto della vita alla Patria".
Analoga decorazione, a vivente, fu conferita al comandante Ferrari (con motivazione "Comandante di dragamine attaccato in navigazione da stormo di apparecchi da caccia che sottoponevano l'unità ad intenso mitragliamento, benché ferito gravemente ad ambedue le gambe, manteneva saldo il proprio spirito combattivo, continuando a dirigere la reazione con le armi automatiche, mentre sul ponte di coniando altri militari cadevano uccisi o gravemente feriti. Manteneva il controllo dell'unità ordinando con freddezza e calma i provvedimenti d'emergenza necessari; provvedeva alla distruzione dell'archivio segreto e conduceva la nave – in procinto di affondare – in secco. Solo ad operazione ultimata, sfinito dallo sforzo, dal dolore e dalla notevole quantità di sangue perduto, accondiscendeva a farsi curare le gravi ferite riportate. Esempio di sereno e freddo coraggio, di spirito di sacrificio e dedizione al dovere") ed al marinaio nocchiere Giovanni Bianco (motivazione: "Destinato al timone del dragamine operante in acque fortemente contrastate, coadiuvava il comandante in occasione di un attacco da pane di numerosi aerei avversari, manovrando brillantemente sotto l'intenso mitragliamento e spezzonamento. Gravemente colpito al petto, rimaneva al suo posto eseguendo con calma e serenità gli ordini del comandante, pur esso gravemente ferito. Esempio di stoicismo, tenacia e grande attaccamento al dovere"). (Anche qui c’è un’ennesima discrepanza: la motivazione della MAVM al comandante Ferrari indica il luogo degli eventi come Capo Zebib, quella della MAVM di Bianco indica invece un fantomatico “Capo Djebel”).
L'elenco dell’equipaggio dell'RD 44 (Ufficio Storico della Marina Militare, via Armando Straulino)
Gettatisi in acqua, i naufraghi dell'RD 44 raggiunsero a nuoto la vicina spiaggia, dove si trovava in quel momento a passare un reparto del Reggimento "San Marco" in ripiegamento: furono quei fanti di Marina a prestare loro i primi soccorsi e fu il medico di quel reparto a prestare le prime cure al timoniere Giovanni Bianco, crollato svenuto sulla spiaggia per la grave ferita e l’immane sforzo sostenuto – nonostante il dolore lancinante ed il sangue perso, era rimasto al timone fino a quando non era riuscito a portare la nave all’incaglio – e sistemato dai compagni su una barella di fortuna. Tagliato con delle forbici il corpetto insanguinato, il medico dovette “operare” Bianco seduta stante, senza anestesia: usando bisturi e garza sterile (altro non aveva) tagliò la carne ai bordi della ferita ed estrasse delicatamente la scheggia, poi medicò la ferita. Dovettero tenerlo fermo in quattro. Non si fece in tempo ad imbarcare Bianco e gli altri feriti su una nave ospedale che a pochi chilometri di distanza stava completando l'imbarco degli ultimi feriti evacuati dalla Tunisia prima di partire per l'Italia: tutti i superstiti dell'RD 44, feriti e illesi, caddero poco dopo prigionieri degli Alleati, che il 7 maggio presero Tunisi e Biserta e sei giorni dopo ricevettero la resa delle ultime truppe dell’Asse in Tunisia.
Seguirono tre anni di prigionia, da cui fecero ritorno nell’estate del 1946, a guerra finita da tempo. Giovanni Bianco avrebbe in seguito ricordato: “Con gli altri salentini prigionieri ci incontrammo alla stazione di Lecce . Eravamo magrissimi, sporchi, dei pezzenti assaliti dai pidocchi , dalla commiserazione, dall’ingratitudine della nostra patria che ci aveva dimenticati, e anche fra noi non c’era alcuna solidarietà”. Deluso e amareggiato, tornò a fare il pescatore; soltanto cinque anni più tardi, il 25 aprile 1951, avrebbe finalmente ricevuto un segno tangibile della riconoscenza dell'Italia per il suo servizio, con la consegna – avvenuta direttamente dal sindaco in municipio, dov’era stato convocato – della Medaglia d’Argento al Valor Militare. Passati gli ultimi anni prima della pensione lavorando come bidello in una scuola media della sua città natale, dove si era intanto sposato ed aveva avuto numerosi figli, Bianco si spense in tarda età nella sua Gallipoli.
Giovanni Bianco, l’ultimo eroe di Gallipoli
Cannoniere, posamine e dragamine della Regia Marina
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