lunedì 20 maggio 2024

RD 44

L'RD 44 a Zara nel 1942 circa (g.c. Mauro Millefiorini, via www.naviearmatori.net)

Dragamine della classe RD 39. Dislocamento di 155 tonnellate standard e 203 in carico normale; lunghezza 33,15-36,5 metri, larghezza 5,80, pescaggio 2,20. Era armato con un cannone da 76/40 mm e due mitragliatrici da 6,5 mm (altra fonte parla di due mitragliere da 13,2 mm, altra ancora di quattro mitragliatrici), e raggiungeva una velocità massima di 13 o 14 nodi, con un’autonomia di 700 miglia a 12,5 nodi.

Breve e parziale cronologia.

24 ottobre 1919

Impostazione presso i cantieri Franco Tosi di Taranto.

6 giugno 1920

Varo presso i cantieri Franco Tosi di Taranto.

22 ottobre 1920

Entrata in servizio.

1941

Dislocato a Zara.

12 aprile 1941

Durante l'invasione della Jugoslavia, l'RD 44 viene incaricato di scortare due motopescherecci carichi di truppe inviate ad occupare il paese di Oltre/Preko, principale centro abitato dell’isola dalmata di Ugliano, antistante Zara.

Pur distando pochi chilometri da Zara (rispetto alla quale Oltre è posizionata esattamente di fronte, ben visibile anche ad occhio nudo), dalla quale è separata dall’omonimo Canale, Ugliano fa parte della Jugoslavia, cui è stata assegnata dai trattati firmati dopo la prima guerra mondiale (che hanno assegnato quasi tutta la Dalmazia alla Jugoslavia, ritagliando Zara come piccola enclave italiana), come del resto le isole circostanti e tutto l'entroterra di Zara. La città dalmata si è venuta a trovare, con l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia, in una posizione quanto mai precaria, essendo isolata dal resto dell'Italia e completamente circondata da territorio jugoslavo, con il confine italiano più vicino centinaia di chilometri più a nord: ciò ne farebbe l'obiettivo perfetto per un attacco concentrico jugoslavo, attacco che infatti è stato pianificato, ma che non vedrà mai la luce a causa della rapidità dell’avanzata delle truppe dell’Asse da nord e dell’altrettanto rapida disgregazione delle forze armate jugoslave.

Dopo giorni carichi di tensione in attesa di un attacco mai arrivato, i novemila uomini che costituiscono il presidio di Zara, al comando del generale Emilio Giglioli, hanno ricevuto il mattino dell'11 aprile l’inatteso ordine di passare invece all’offensiva; offensiva che, incontrando ben poca resistenza (in tre giorni le truppe di Zara faranno 2229 prigionieri e raggiungeranno Tenin nell’interno e Sebenico sulla costa, lamentando da parte loro un totale di sette morti e 27 feriti), sarà rivolta sia verso l’entroterra, sia verso le isole.

La vicinanza di Oltre a Zara ne fa logicamente uno dei primi obiettivi dell’avanzata italiana: già nel pomeriggio dell’11 aprile una barca a remi armata da marinai, con bandiera bianca parlamentare sulla prua, attraversa il Canale di Zara ed approda ad Oltre per chiedere la resa del presidio jugoslavo, ma ottiene un rifiuto e torna quindi indietro dopo un’ora. La reazione italiana consiste in attacchi aerei sull’isola di Ugliano, con bombardamento e mitragliamento delle truppe jugoslave; alle sei del mattino del 12, quando scatta l’offensiva italiana su tutti i fronti, le artiglierie del fronte a mare di Zara ed il pontone armato G.M. 240 aprono il fuoco contro la fortezza di San Michele, sede di un osservatorio dal quale gli jugoslavi possono agevolmente tenere d’occhio Zara ed il territorio circostante.

Dopo un’ora di questo cannoneggiamento, verso le sette del mattino dello stesso 12 aprile, vengono visti apparire qua e là dei drappi bianchi, e da Oltre parte una barca con una bandiera bianca sull’albero; alle 7.30 la barca approda a Zara e ne scendono dei civili che offrono la resa incondizionata e chiedono la cessazione del fuoco e l'immediata occupazione dell’isola, “recando, come ai tempi di San Marco e degli antichi costumi, una damigiana di vino ed un prosciutto, doni augurali e segno di sottomissione”. Il generale Giglioli ordina allora al comando del fronte a mare (retto dal maggiore di fanteria Andrea Badini) di cessare il fuoco e costituire una compagnia di formazione con marinai, fanti, carabinieri e camicie nere, requisire due motopescherecci e sbarcare ad Oltre dopo essersi sincerato dell'assenza di resistenza (della quale non si è certi, dal momento che non vi erano militari tra i “parlamentari” arrivati in barca), facendosi appoggiare dal G.M. 240. Se da Oltre verrà aperto il fuoco sui pescherecci, questi dovranno ritirarsi ed il pontone armato aprirà il fuoco sull’abitato, insieme alle batterie costiere di Zara.

Alle 10.45 i due pescherecci con la compagnia mista di formazione, posta agli ordini del tenente di vascello Pompeo Rispoli (ne fanno parte anche 30 marinai), lasciano Zara scortati dall'RD 44; al contempo, per ordine del generale Giglioli, il G.M. 240 riapre il fuoco contro il San Michele per scoraggiare un'eventuale reazione del presidio di Oltre. Alle 11.42 le truppe italiane sbarcano ad Ugliano senza incontrare resistenza: il maggiore al comando del presidio jugoslavo si arrende senza condizioni con il centinaio di uomini al suo comando, ed alle 12.06 il G.M. 240 cessa il fuoco.

Nel pomeriggio il generale Giglioli ordina al Comando Marina di Zara di provvedere all'occupazione delle isole, che si svolge senza intoppi: alle 18.50 del 13 aprile un distaccamento di 25 marinai al comando del sottotenente di vascello Romualdo Sissa sbarca a Sestrugno ed alle 20 raggiunge il villaggio, situato sulla sommità dell'isola, ed issa la bandiera italiana presso una delle abitazioni, senza destare reazioni nella popolazione locale; il giorno seguente il sottotenente di vascello Sissa lascia Sestrugno con parte del distaccamento alla volta di Eso, dove sbarca alle 11.13 e dove le autorità cittadine si pongono subito a sua disposizione: anche qui viene alzata la bandiera italiana e la popolazione viene invitata a consegnare le armi ed a seguire le disposizioni che saranno impartite dalle autorità italiane. Lasciata una squadra di quindici marinai ad Eso, Sissa torna a Sestrugno e dà ordini per la sorveglianza della vicina isola di Raviane, amministrativamente dipendente da Sestrugno ed abitata soltanto da una cinquantina di contadini in casolari sparsi.

14 aprile 1941

Per l'occupazione di Melada e dell'Isola Grossa, il Comando Marina di Zara costituisce una mezza compagnia con 55 marinai e 60 fanti della I Compagnia Mitraglieri del fronte a mare, ponendola agli ordini del sottotenente di vascello Vincenzo Galvani, coadiuvato da due ufficiali del fronte a mare. Queste truppe vengono imbarcate su due motopescherecci requisiti, che il mattino del 14 aprile le trasportano a Melada: a scortarli, di nuovo, è l'RD 44.

Il piccolo convoglio raggiunge l'isola alle 9.45 e provvede all’occupazione senza incontrare resistenza; sei gendarmi jugoslavi consegnano le armi ed un tenente serbo viene preso prigioniero. Nel corso della giornata si provvede al rastrellamento dell’isola, alzando la bandiera italiana sul fortino di Punta Banastra (trovato deserto e con molto materiale distrutto).

Nel pomeriggio il sottotenente di vascello Galvani sbarca a Božava, nell'Isola Grossa: anche qui le guardie di finanza jugoslave consegnano le armi. Una squadra viene inviata nei villaggi di Saline e Punte Bianche, dove vengono lasciati dei piccoli presidi; alle 16 viene occupato anche il paese di Sale, ed il mattino del 15 l'occupazione dell'Isola Grossa è completata con l'arrivo delle truppe italiane nella fortezza di Grpašcak, adibita a stazione di vedetta, trovata anch'essa abbandonata ma con armi, munizioni e materiale danneggiato.

Sempre il mattino del 15 aprile, il Comando Marina di Zara manda 50 marinai al comando del sottotenente di vascello Sissa ad occupare l'Isola Incoronata, abitata solo da pochi contadini e pescatori; anche qui l’occupazione si svolge senza incontrare resistenza.

Lo stesso giorno Pasman viene occupata da una squadra delle truppe di occupazione di Zaravecchia, al comando del sottotenente di vascello Bruno Barbarano.

Il 16 aprile due compagnie del fronte a terra danno il cambio ai marinai per l'occupazione stabile delle isole (cui partecipano anche i ragazzini delle organizzazioni giovanili fasciste: ad Ugliano vengono mandati in tutto quindici avanguardisti e 233 membri dei corsi premilitari, di cui 72 “pre-marinari”, 54 “pre-avieri” e 107 “pre-terrestri”).

17 aprile 1941

L'RD 44 ed il MAS 558 scortano a Sebenico la motonave requisita Laurana, avente a bordo due compagnie di fanti di Marina del Battaglione "Grado" del Reggimento "San Marco", inviate ad occupare quella città per ordine dell'ammiraglio Oscar Di Giamberardino (comandante del Dipartimento Militare Marittimo dell'Alto Adriatico), in seguito alla notizia che la popolazione civile ha iniziato a saccheggiare i magazzini dell’Arsenale (Sebenico, il cui presidio jugoslavo si è dissolto, è stata raggiunta già il 15 aprile da reparti della 52a Divisione Fanteria "Torino" e da truppe del presidio di Zara, che tuttavia sono subito proseguite verso Cattaro senza fermarsi ad occupare la città, che è così rimasta momentaneamente nell’anarchia).

Dopo una breve sparatoria, priva di conseguenze, con croati armati sostenitori del neonato Stato Indipendente di Croazia proclamato da Ante Pavelic, i fanti del "San Marco" occupano i forti di Sebenico; cadono in mano italiana anche il cacciatorpediniere Ljubljana (ai lavori in cantiere dopo essere naufragato per incaglio l'anno precedente), il posamine Marjen, la cisterna militare Lovcen e la motosilurante Uskok, i cui equipaggi hanno in gran parte disertato (gli ultimi ufficiali e marinai jugoslavi sbarcheranno il 20 aprile).


Epilogo in Tunisia


Agli inizi del maggio 1943, la sorte della Tunisia appariva ormai segnata. Superiori per numero e supportate da una schiacciante superiorità di armamento e dall'ormai completo dominio dei cieli, le truppe statunitensi da ovest e quelle britanniche da est avanzano rapidamente verso Tunisi e Biserta; quelle italo-tedesche, a corto di tutto e continuamente martellate dal cielo, ripiegavano verso la penisola di Capo Bon, ove si sarebbe consumato l'ultimo atto della guerra in Africa.

Essendo ormai chiaro che la caduta di Biserta era questione di giorni (le truppe della 9a Divisione Fanteria statunitense avrebbero infatti occupato la città il 7 maggio), il 5 maggio 1943 i dragamine ancora efficienti che vi avevano base ricevettero ordine dal locale Comando Marina di mollare gli ormeggi per rientrare in Italia: si cercava di salvare il salvabile prima che fosse troppo tardi.

Una delle unità ancora in efficienza era l'RD 44 (al comando del capo nocchiere di prima classe Giuseppe Ferrari, da Venezia), che lasciò Biserta diretto a Trapani dopo il tramonto del 5 maggio, insieme al similare RD 18 (armato dalla Guardia di Finanza e comandato da un sottufficiale delle Fiamme Gialle) ed alla cannoniera-dragamine Levanzo (al comando del sottotenente CREM Giuseppe Orrù).

Sulla plancia dell'RD 44 il comandante Ferrari, che con i suoi 38 anni era di gran lunga il più “anziano” in un equipaggio composto quasi interamente da ventenni, parlava con il marinaio nocchiere Giovanni Bianco, che era al timone: la conversazione verteva sulla guerra ormai persa, sull’avanzata travolgente degli inglesi e sugli americani che stavano per entrare a Biserta, sulla superiorità di armamento ed equipaggiamento del nemico e sulla sua abbondanza in ogni cosa, anche nei generi di conforto, impietosamente paragonata alle carenze italiane; sulle case e famiglie lontane e sulle speranze per il futuro.

Bianco, ventiduenne nativo di Gallipoli, conosceva bene il mare perché era pescatore: andava per mare fin dall’età di quattro anni, quando aveva iniziato ad aiutare il padre nelle battute di pesca notturne. Nato in una famiglia povera – molti anni dopo avrebbe ricordato che “Non avevamo niente, d’inverno facevamo la fame più nera, stavamo anche tre giorni senza mangiare Non avevamo niente con cui giocare, dormivamo in tre in un letto, non c’erano gabinetti, non c’era luce elettrica, non c’era altro che freddo, fame e miseria” –, aveva passato tutta la sua giovinezza nella sua natia Gallipoli, e prima della chiamata alle armi non aveva mai visto nemmeno Lecce, suo capoluogo di provincia. Tutto era cambiato con la guerra, aveva lasciato Gallipoli – viaggiando in treno per la prima volta in vita sua – ed in poche settimane aveva visto per la prima volta Brindisi, poi Ancona ed infine Zara, dov’era stato con l'RD 44 al tempo dell'invasione della Jugoslavia: per mesi avevano dragato mine nelle acque dell'Istria, poi nell'aprile 1941 avevano scortato le navi che trasportavano i fanti di Marina del Reggimento "San Marco" a Sebenico e Spalato, avevano sparato con l’unico cannone contro le posizioni jugoslave ed assistito alla resa della fortezza di San Michele e delle isole zaratine; in quell’occasione Bianco aveva portato sull'RD 44 una giovane suora del convento che sorgeva sul Monte San Michele di Ugliano, ferita al seno sinistro: gli ricordava una delle sue cinque sorelle, aveva pregato per lei.

Aveva assistito all'affondamento di una motonave (“Era impressionante vedere quel bestione con la chiglia capovolta, sembrava un isolotto a fior d’acqua”) ed aiutato a salvare i 40 naufraghi, aveva liberato insieme al collega Carmelo Greco un marinaio gravemente ferito intrappolato tra i rottami nuotando nella densa nafta che gli era poi rimasta addosso per giorni (per questo era stato proposto dal comandante Ferrari per una promozione, ma il precipitare degli eventi in Tunisia aveva impedito di portare a termine il relativo iter burocratico), aveva visto un altro marinaio tagliato in due dalle cesoie usate per tranciare i cavi di ormeggio delle mine. Era diventato provetto avvistatore di mine: per ogni mina avvistata c’era un premio di 50 lire, così era sempre in coperta, sotto il sole cocente d’estate e con il freddo penetrante dell’inverno, ad aguzzare la vista nella foschia per avvistare gli ordigni di morte.


Giovanni Bianco (da www.aracne-galatina.it)

Il mare era piatto come una tavola, non c’era una bava di vento. Le tre piccole unità si erano appena lasciata Biserta alle spalle quando l'onnipresente aviazione angloamericana si abbatté su di esse: una squadriglia di cacciabombardieri Alleati, provenienti da sudest, piombò sui dragamine mitragliando e lanciando spezzoni. Sull'RD 44 fu immediatamente suonato l'allarme, tutti si precipitarono in pochi attimi ai posti di combattimento: la piccola nave rispose al fuoco con le due vecchie mitragliere che costituivano tutto il suo modesto armamento antiaereo e spinse al massimo le malandate macchine nel vano tentativo di seminare gli inseguitori, eruttando una densa colonna di fumo dal fumaiolo, ma non ci fu niente da fare. Raffiche di mitragliatrice colpirono ripetutamente l’RD 44 in più punti, lasciandolo immobilizzato con gravi danni; sul ponte di comando il mitragliere Orazio Giannone rimase ucciso mentre sparava contro gli aerei attaccanti, il comandante Ferrari si accasciò sul ponte gravemente ferito ad entrambe le gambe, ed il timoniere Giovanni Bianco rimase anch’egli gravemente ferito da una scheggia che gli si conficcò nel petto, a pochi centimetri dal cuore: per lo shock sulle prime non si rese nemmeno conto di essere stato colpito, solo quando tentò di aiutare il suo comandante si rese conto di avere il petto pieno di sangue e di non riuscire ad utilizzare il braccio sinistro.

La Levanzo si avvicinò all'RD 44 per prestargli soccorso, ma fu a sua volta colpita e dovette portarsi all'incaglio presso Capo Zebib per evitare l'affondamento.

Sull'RD 44 la situazione appariva grigia: la nave andava alla deriva ed imbarcava acqua da numerose falle, era evidente che era in procinto di affondare; riverso sul ponte, il comandante Ferrari si rivolse al suo timoniere: “Bianco, ce la fai a portare la nave su Capo Zebib?” “Sì, certo che ce la faccio” “Allora punta le colline di Cartagine, le vedi? Vira laggiù, piomba dritto (…) sul basso fondale di sabbia. Se ci arriviamo in tempo, se ci sediamo sul fondo, ci salviamo, altrimenti per noi è finita”. Bianco eseguì, virò a dritta, puntò verso Capo Zebib.

Le batterie contraeree sulla costa erano intanto entrate in azione, ma questo non impedì ai caccia nemici di tornare ad avvicinarsi da est ed attaccare di nuovo l'RD 44 con spezzoni e raffiche di mitragliatrice: colpito ancora, il dragamine morente sbandò e si appoppò pericolosamente, ma riuscì ancora ad adagiarsi su una secca non lontano da Capo Zebib, permettendo così all’equipaggio di mettersi in salvo. Il comandante Ferrari diede ordine di distruggere l’archivio segreto. Abbandonato dall’equipaggio, verso le nove di quella sera l'RD 44 affondò ad una decina di miglia da Biserta.

Non ebbe sorte migliore l'RD 18, che venne a sua volta affondato da aerei al largo di Capo Zebib.


Per la verità sembrano sussistere alcune contraddizioni sull’esatta sequenza e modalità degli affondamenti. Secondo il volume "La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia", dell'Ufficio Storico della Marina Militare, l'RD 44 fu colpito per primo ed affondò poco dopo; la Levanzo fu colpita mentre cercava di assisterlo ed andò ad incagliarsi in costa; poco dopo (quindi sempre la sera del 5 maggio) fu colpito anche l'RD 18, che affondò in pochi minuti, mentre il relitto incagliato della Levanzo venne definitivamente distrutto da un nuovo attacco aereo il mattino del 6 maggio. Diversa è la versione del volume "Navi militari perdute", che pure appartiene alla medesima collana sulla Marina italiana nella seconda guerra mondiale edita dall'USMM: in esso si afferma che l'RD 44 affondò verso le 21 del 5 maggio, poco dopo essere stato colpito, ad una decina di miglia da Biserta, che la Levanzo fu colpita mentre soccorreva l'RD 44 e portata all’incaglio a Capo Zebib (a circa dieci miglia da Biserta) dove fu distrutta da un nuovo attacco aereo il mattino successivo, e che l'RD 18 fu attaccato ed affondato solo il mattino del 6 maggio, anch’esso al largo di Capo Zebib. Sembra più verosimile la versione riportata da “La difesa del traffico”, dal momento che non si spiega altrimenti come mai l'illeso RD 18, partito da Biserta la sera del 5 insieme a Levanzo e RD 44, si sarebbe trovato ancora nelle pericolose acque di Capo Zebib il mattino del 6 maggio.

Altra discrepanza riguarda le esatte modalità della perdita dell'RD 44: nella motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare che fu conferita al comandante Ferrari (si veda più sotto) si afferma che la nave, gravemente danneggiata ed in procinto di affondare, venne portata all’incaglio; il che coincide con il ricordo di Giovanni Bianco, il timoniere che materialmente la portò in secco su ordine di Ferrari, e che più volte rievocò l’episodio nel dopoguerra. Tuttavia, entrambi i citati volumi dell'USMM sono concordi nell’affermare che l'RD 44 affondò poco dopo essere stato colpito, senza menzione alcuna di un incaglio, a differenza che per la Levanzo. D’altra parte, il fatto che tutto l'equipaggio (tranne un uomo rimasto ucciso sul colpo durante l’attacco), feriti compresi, si sia salvato sembrerebbe indirettamente confermare la versione dell'incaglio.

Una certa confusione sussiste anche sull’identità degli aerei che effettuarono gli attacchi che portarono all’affondamento delle tre unità. Il volume terzo, “Tunisia and the End of the War in Africa”, dell’opera “A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945” a cura di Christopher Shores, Giovanni Massimello, Russell Guest, Frank Olynyk e Winfried Bock afferma che l'RD 44 sarebbe stato affondato da bombardieri medi North American B-25 “Mitchell” sei miglia a nord di Marettimo, ma si tratta di un errore, sia per la posizione del tutto sbagliata, sia per il tipo di aerei, che dalle fonti italiane sarebbero risultati invece essere cacciabombardieri. La distruzione di Levanzo e RD 18 il 6 maggio è invece accreditata dal medesimo libro a caccia Supermarine Spitfire del XII Air Service Command.


Tra i 29 uomini che componevano l'equipaggio dell'RD 44 – 6 sottufficiali e 23 tra sottocapi e marinai, tutti richiamati o di leva tranne comandante e direttore di macchina, che erano sottufficiali in servizio permanente effettivo, ed il radiotelegrafista volontario Silvio Mustilli – l'unica vittima fu il marinaio cannoniere Orazio Giannone, da Modica, fulminato dal tiro nemico mentre rispondeva al fuoco con la sua mitragliera: mancavano tre giorni al suo ventunesimo compleanno. Alla sua memoria fu conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: "Destinato alla mitragliera di dragamine durante violento attacco di numerosi aerei, effettuava un fuoco preciso ed intenso sotto il mitragliamento e lo spezzonamento avversari. Colpito mortalmente, cadeva al suo posto di combattimento facendo olocausto della vita alla Patria".

Analoga decorazione, a vivente, fu conferita al comandante Ferrari (con motivazione "Comandante di dragamine attaccato in navigazione da stormo di apparecchi da caccia che sottoponevano l'unità ad intenso mitragliamento, benché ferito gravemente ad ambedue le gambe, manteneva saldo il proprio spirito combattivo, continuando a dirigere la reazione con le armi automatiche, mentre sul ponte di coniando altri militari cadevano uccisi o gravemente feriti. Manteneva il controllo dell'unità ordinando con freddezza e calma i provvedimenti d'emergenza necessari; provvedeva alla distruzione dell'archivio segreto e conduceva la nave – in procinto di affondare – in secco. Solo ad operazione ultimata, sfinito dallo sforzo, dal dolore e dalla notevole quantità di sangue perduto, accondiscendeva a farsi curare le gravi ferite riportate. Esempio di sereno e freddo coraggio, di spirito di sacrificio e dedizione al dovere") ed al marinaio nocchiere Giovanni Bianco (motivazione: "Destinato al timone del dragamine operante in acque fortemente contrastate, coadiuvava il comandante in occasione di un attacco da pane di numerosi aerei avversari, manovrando brillantemente sotto l'intenso mitragliamento e spezzonamento. Gravemente colpito al petto, rimaneva al suo posto eseguendo con calma e serenità gli ordini del comandante, pur esso gravemente ferito. Esempio di stoicismo, tenacia e grande attaccamento al dovere"). (Anche qui c’è un’ennesima discrepanza: la motivazione della MAVM al comandante Ferrari indica il luogo degli eventi come Capo Zebib, quella della MAVM di Bianco indica invece un fantomatico “Capo Djebel”).



L'elenco dell’equipaggio dell'RD 44 (Ufficio Storico della Marina Militare, via Armando Straulino)


Gettatisi in acqua, i naufraghi dell'RD 44 raggiunsero a nuoto la vicina spiaggia, dove si trovava in quel momento a passare un reparto del Reggimento "San Marco" in ripiegamento: furono quei fanti di Marina a prestare loro i primi soccorsi e fu il medico di quel reparto a prestare le prime cure al timoniere Giovanni Bianco, crollato svenuto sulla spiaggia per la grave ferita e l’immane sforzo sostenuto – nonostante il dolore lancinante ed il sangue perso, era rimasto al timone fino a quando non era riuscito a portare la nave all’incaglio – e sistemato dai compagni su una barella di fortuna. Tagliato con delle forbici il corpetto insanguinato, il medico dovette “operare” Bianco seduta stante, senza anestesia: usando bisturi e garza sterile (altro non aveva) tagliò la carne ai bordi della ferita ed estrasse delicatamente la scheggia, poi medicò la ferita. Dovettero tenerlo fermo in quattro. Non si fece in tempo ad imbarcare Bianco e gli altri feriti su una nave ospedale che a pochi chilometri di distanza stava completando l'imbarco degli ultimi feriti evacuati dalla Tunisia prima di partire per l'Italia: tutti i superstiti dell'RD 44, feriti e illesi, caddero poco dopo prigionieri degli Alleati, che il 7 maggio presero Tunisi e Biserta e sei giorni dopo ricevettero la resa delle ultime truppe dell’Asse in Tunisia.

Seguirono tre anni di prigionia, da cui fecero ritorno nell’estate del 1946, a guerra finita da tempo. Giovanni Bianco avrebbe in seguito ricordato: “Con gli altri salentini prigionieri ci incontrammo alla stazione di Lecce . Eravamo magrissimi, sporchi, dei pezzenti assaliti dai pidocchi , dalla commiserazione, dall’ingratitudine della nostra patria che ci aveva dimenticati, e anche fra noi non c’era alcuna solidarietà”. Deluso e amareggiato, tornò a fare il pescatore; soltanto cinque anni più tardi, il 25 aprile 1951, avrebbe finalmente ricevuto un segno tangibile della riconoscenza dell'Italia per il suo servizio, con la consegna – avvenuta direttamente dal sindaco in municipio, dov’era stato convocato – della Medaglia d’Argento al Valor Militare. Passati gli ultimi anni prima della pensione lavorando come bidello in una scuola media della sua città natale, dove si era intanto sposato ed aveva avuto numerosi figli, Bianco si spense in tarda età nella sua Gallipoli.



L'RD 44 su WarshipsWW2

Giovanni Bianco, l’ultimo eroe di Gallipoli

Cannoniere, posamine e dragamine della Regia Marina

Dragamine italiani su Navyworld

I dragamine classe RD su Navypedia

A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945: Volume Three, Tunisia and the End in Africa, Novembre 1942-May 1943

Il filo di Aracne

mercoledì 1 maggio 2024

Sant'Antioco

Disegno di come doveva apparire il Sant’Antioco, ricavato da una foto della gemella Hoxie. Non sono state finora rintracciare fotografie di questa nave

Piroscafo da carico di 5047,76 tsl, 3023,62 tsn e 7900 tpl, lungo 120,1 metri, largo 15,93 e pescante 8,23-8,99, con velocità di 9,5 nodi. Di proprietà dell'Azienda Carboni Italiana, con sede a Roma, ma in gestione a Carlo Martinolich & Figlio di Trieste (altra fonte lo dà invece come di proprietà della Ditta Martinolich); iscritto con matricola 388 al Compartimento Marittimo di Trieste, nominativo di chiamata ICGV.

Breve e parziale cronologia.

30 ottobre 1919

Completato dai cantieri di Sparrows Point (Maryland) della Bethlehem Shipbuilding Corporation Ltd. come Orient (numero di costruzione 4184), per lo United States Shipping Board (ente governativo statunitense creato nel 1916 ed avente sede a Washington, originariamente con lo scopo di sostenere lo sviluppo della Marina Mercantile statunitense, finalità poi trasformatasi l’anno seguente, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, nella gestione della flotta mercantile statunitense durante il conflitto e nella sua espansione per soddisfare le esigenze belliche americane ed alleate mediante acquisizioni, requisizioni e programmi di costruzione basati su progetti standardizzati, per conto dell’appositamente costituita Emergency Fleet Corporation).

Originariamente si sarebbe dovuto chiamare Huffton, ma il nome è stato cambiato in Gosport prima del varo ed in Orient prima del completamento. Fa parte di un gruppo di dieci navi gemelle, progetto 1046 della Emergency Fleet Corporation, tutte costruite dalla Bethlehem Steel: sei nel cantiere di Sparrows Point (War Dragon, War Mercury, War Shark, War Dolphin, costruite per il Regno Unito ma requisite dallo U.S.S.B. con i nuovi nomi di Hatteras, Cape Romain, Cape Lookout e Cape Henry; Hoxie, Huffton, Huachuca, costruite direttamente per lo U.S.S.B.; l’ordine per altre tre o quattro navi del tipo nel medesimo cantiere sarebbe stato cancellato per la sopravvenuta cessazione delle ostilità) e tre in quello di Wilmington (Benwood, Bercair, Bercamot, costruite per lo U.S.S.B.). Le navi del progetto 1046 sono piroscafi da carico con scafo in acciaio di 7400 tpl, propulsi da una macchina a vapore a triplice espansione a nafta, dimensioni standard metri 114,6 per 15,8 per 8,23.

Stazza lorda 4986 o 4994 tsl.

1920

Acquistato dalla Oriental Navigation Corporation di New York.

1929

Acquistato dalla Pacific-Atlantic Steamship Company di Portland (in gestione alla States Steamship Company) e ribattezzato San Diego. Stazza lorda 4995 tsl, netta 3058 tsn, nominativo di chiamata LTMP, porto di registrazione Portland.

1934

Il nominativo di chiamata viene cambiato in KOLO.

1935

Acquistato dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico e registrato a Trieste.

1936

Rivenduto all'Azienda Carboni Italiani, avente sede a Genova, e ribattezzato Sant'Antioco.

14 aprile 1941

Il Sant'Antioco entra in collisione con il piroscafo Pascoli proprio nel porto di Sant'Antioco.

16 novembre 1942

Requisito a Livorno dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.

25 novembre 1942

Il Sant'Antioco ed il piroscafo Honestas salpano da Napoli per Tunisi alle 4.30, scortati dalle moderne torpediniere di scorta Procione (capitano di corvetta Renato Torchiana, caposcorta), Ardente (tenente di vascello Rinaldo Ancillotti) e Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di Paola). Successivamente si aggrega al convoglio anche la motozattera tedesca F 477, proveniente da Trapani. Sulle torpediniere sono imbarcate anche modeste aliquote di personale del Reggimento "San Marco", diretto in Tunisia.

26 novembre 1942

Alle 21.15 il convoglio viene avvistato da ricognitori nemici, ed a partire dalle 22 – a nordovest di Capo Bon – viene ripetutamente e pesantemente attaccato dal cielo (gli attacchi proseguiranno durante la notte); ma nessun mercantile viene colpito, grazie al violento tiro di sbarramento aperto dalle torpediniere, che crea una vera “barriera di fuoco” attorno ai piroscafi.

27 novembre 1942

Alle 00.04 il convoglio viene avvistato, su rilevamento 235°, anche dal sommergibile britannico Una (tenente di vascello John Dennis Martin), che dopo essersi immerso alle 00.06 (mentre il convoglio accosta per 185°), lancia tre siluri da 1370 metri alle 00.47, in posizione 37°34' N e 10°33' E (nella zona settentrionale del Golfo di Tunisi), contro uno dei piroscafi, di stazza stimata in 4000 tsl. Nessuna nave viene colpita; le unità del convoglio avvertono due esplosioni subacquee ed anche sull'Una, 50 secondi dopo il lancio, viene avvertita una violenta esplosione, tanto forte da rompere parecchi vetri a bordo. Sull'Una si crede trattarsi di un siluro andato a segno, ma non è così; forse sono i siluri giunti a fine corsa. Martin decide di non lanciare un quarto siluro, contrariamente a quanto deciso in precedenza, e l'Una si allontana con azione evasiva, ma non subisce contrattacchi.

Il convoglio giunge a Tunisi alle 8.

4 dicembre 1942

Alle 3.30 Sant'Antioco e Honestas lasciano Tunisi per rientrare in Italia, scortati dalle torpediniere Groppo (caposcorta) ed Orione.

Alle 14.53 il sommergibile britannico P 219 (tenente di vascello Norman Limbury Auchinleck Jewell), in agguato a ponente di Marettimo, avvista del fumo su rilevamento 240°, ed alle 15.11 avvista il convoglio italiano (identificate come "due navi trasporto di 5000 tsl scortate da un cacciatorpediniere e due motosiluranti con un idrovolante in pattugliamento sul loro cielo") mentre questo procede a 10 nodi su rotta 050° (verso nordest). Al sommergibile britannico è rimasto un solo siluro, nei tubi di poppa; di conseguenza il P 219 manovra per attaccare con un lancio di poppa, ma alle 15.45, mentre sta per lanciare, l'equipaggio perde il controllo dell'assetto, ed il battello giunge quasi ad affiorare in superficie. Jewell deve quindi ricominciare da capo; alle 17.07, infine, il P 219 lancia il suo ultimo siluro in posizione 38°13' N e 11°44' E, da 3100 metri di distanza, mirando al secondo mercantile (l'orario indicato dalle fonti italiane per questo attacco sono le 17.15). L'arma non va a segno (il Sant'Antioco avvista la scia del siluro, che lo manca), ed il convoglio prosegue per la sua rotta senza che la scorta lanci un contrattacco.

5 dicembre 1942

Alle 14.35 il sommergibile britannico P 217 (poi Sibyl, tenente di vascello Ernest John Donaldson Turner), avvista i fumaioli e le alberature di Sant'Antioco e Honestas e delle unità di scorta (identificate come “tre cacciatorpediniere o torpediniere”) su rilevamento 140°, a 12.800 metri di distanza, una decina di miglia a sudovest di Capri. Alle 15.15, nel punto 40°27' N e 14°02' E (o 40°26' N e 14°06' E), il P 217 lancia quattro siluri da 5500 metri, due contro ciascuno dei piroscafi, ambedue valutati in circa 5000 tsl. Nessuna nave viene colpita, nonostante Turner ritenga di aver sentito tre esplosioni (attribuite ad altrettanti siluri a segno) alle 15.20; la Groppo viene mancata da un siluro ed inizia il contrattacco con bombe di profondità alle 15.35, proseguendo sino alle 17.30 con il lancio in tutto di 62 bombe, ma nessuna viene gettata tanto vicina da danneggiare il P 217 (tanto che alle 15.45 questi può portarsi a quota periscopica ed osservare Groppo e Orione impegnate nel contrattacco). Non avendo ottenuto risultati apprezzabili, la Groppo si riunisce al convoglio e viene rilevata nella caccia da cacciasommergibili della difesa locale.

Le navi giungono a Napoli alle 20.


Disegno ricavato da un altro gemello del Sant’Antioco, l’USS Gold Star


L'affondamento


Alle 15.15 del 13 dicembre 1942 il Sant'Antioco, al comando del capitano Marco Cucchi, salpò da Napoli diretto a Biserta con un grosso carico di benzina in fusti ed oltre duecento uomini a bordo (un sito Internet afferma che sul Sant'Antioco si sarebbero trovati 292 uomini tra equipaggio e personale di passaggio, ma non è chiara quale sia la fonte). Viaggiava in convoglio con un piccolo piroscafo tedesco, il Brott, e con la scorta delle moderne torpediniere Groppo (capitano di corvetta Beniamino Farina, caposcorta) ed Orione (capitano di corvetta Luigi Colavolpe), le stesse che l'avevano scortato nella traversata precedente.

Superate le Egadi intorno alla mezzanotte del 14 dicembre, il convoglio incontrò mare vivo in prora che costrinse a ridurre la velocità ad appena tre o quattro nodi: di più il Brott, con la sua modesta potenza motrice, non poteva fare in quelle condizioni di mare, e non si poteva lasciarlo indietro.

Ma a quella velocità da lumaca le navi del convoglio costituivano un bersaglio perfetto, e ad approfittarne fu il comandante tenente di vascello John Samuel Stevens, comandante del sommergibile britannico P 46 (successivamente ribattezzato Unruffled).

Il P 46 era partito da Malta cinque giorni prima, il 10 dicembre, per la sua nona missione di guerra (l'ottava in Mediterraneo), un pattugliamento nelle acque a nord della Tunisia. Grazie alle decrittazioni di “ULTRA” i comandi britannici sapevano fin dal 9 dicembre che il Sant'Antioco ed altri due piroscafi, Castelverde e Honestas, si apprestavano a partire per l'Africa, con arrivo previsto a Tunisi a partire dall'11 dicembre; il 12 dicembre “ULTRA” aveva aggiunto che «Honestas e Castelverde dovranno lasciare Napoli alle 13.00 di oggi 12 (…) Sant'Antioco, Brott e Skotfoss dovranno salpare da Napoli alle 16.00 del 12, velocità 7 nodi, e giungere Biserta alle 13.30 del giorno 14», informazione confermata il giorno seguente, ed il 15 che «Sant'Antioco e Brott hanno lasciato Napoli alle 15.00 del giorno 13 e devono giungere a Biserta alle 13.00 del 15».

Il 14 dicembre il P 46 aveva attaccato al largo di Capo Bon il convoglio formato da Castelverde ed Honestas, affondando il Castelverde (simultaneamente, anche l'Honestas era stato silurato e affondato da un altro sommergibile britannico, il P 212). Dopo questo attacco il P 46 non si era spostato di molto da quella fruttuosa “zona di caccia”, posta proprio lungo la rotta seguita dai convogli dell'Asse diretti in Tunisia, e non passarono neanche ventiquattr’ore prima che a Stevens fosse offerta la possibilità di mietere la vittima successiva. Alle 10.50 del 15 dicembre il P 46 avvistò un aereo che volava in cerchio all’orizzonte, su rilevamento 050°: il sommergibile accostò per avvicinarsi, ed alle 12.40 avvistò due navi mercantili in avvicinamento, con rotta apparente verso Biserta. Il comandante britannico fu molto accurato nell’identificazione delle navi che si presentavano ai suoi occhi: stimò che una delle due navi fosse un mercantile di circa 4000 tsl (era il Sant'Antioco) e l'altra una nave da carico che assomigliava ad una nave cisterna di medie dimensioni (il Brott, che aveva la plancia a centro nave ma macchine e fumaiolo a poppa, come le navi cisterna ed a differenza della maggior parte delle navi da carico dell'epoca), scortate da due torpediniere. Alle 13.30, in posizione 37°32' N e 10°39' E, il P 46 lanciò quattro siluri contro il Sant'Antioco, da 3660 metri di distanza; poi scese in profondità. Alle 13.33, trascorso il tempo previsto dal lancio dei siluri, Stevens avvertì due esplosioni.


E infatti due siluri erano andati a segno: caso raro nella storia della guerra sul mare, l'orario indicato dalle fonti italiane coincide alla perfezione con quello menzionato nel rapporto dell’attaccante, le 13.33 del 15 dicembre. A quell’ora il Sant'Antioco venne colpito sul lato sinistro da uno o due siluri: avvolto dalle fiamme scatenante dall’incendio del carico di benzina, affondò in un paio di minuti in posizione 37°37' N e 10°44' E, a 35 miglia per 335° da Capo Bon (cioè a nord/nordovest del Capo).

I caccia Macchi Mc 202 del 17° Gruppo da Caccia della Regia Aeronautica, che costituivano la scorta aerea (erano decollati dalla base di El Aouina, vicino a Tunisi, dove erano stati dislocati proprio per la scorta ai convogli: la loro missione di scorta era iniziata alle 13.20 e sarebbe terminata due ore più tardi), avevano avvistato quattro scie di siluri e si erano buttati in picchiata su di esse, mitragliandole, nel tentativo cercare di distruggere i siluri e mettere in allarme il convoglio, ma senza successo. (Questo secondo "A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945", volume III; il volume USMM "La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia" non fa invece menzione di quest’azione, limitandosi ad affermare che contemporaneamente al siluramento del Sant'Antioco, la scorta aerea segnalò un sommergibile a circa seimila metri dalla nave. Per coincidenza quello stesso giorno, alcune ore più tardi, un attacco aereo britannico distrusse o danneggiò otto dei dieci Mc 202 del 17° Gruppo di base ad El Aouina).

Groppo ed Orione si avventarono sulla posizione segnalata e per mezz’ora sottoposero l’attaccante ad intensa caccia, finché il caposcorta Farina non ritenne di averlo affondato o quanto meno gravemente danneggiato; in realtà, il P 46 aveva subito soltanto danni leggeri. (Secondo il rapporto del comandante Stevens, alle 13.36 venne lanciata una prima bomba di profondità, seguita da un paio di altre e poi da una quarta, di nuovo lanciata singolarmente; alle 14.06 venne lanciato un pacchetto di dodici bombe di profondità, che esplosero molto vicine e causarono alcuni leggeri danni, e la caccia si protrasse fino alle 18.30 circa. Il P 46 riemerse alle 20.08).

Terminata la caccia, la Groppo riprese la navigazione verso Biserta scortando il Brott (le due navi giunsero indenni a destinazione il giorno seguente), mentre all'Orione venne affidato il compito di recuperare i molti naufraghi del Sant'Antioco: in mare c’erano più di duecento uomini (per altra fonte, anche la Groppo avrebbe recuperato dei naufraghi prima di proseguire). Per aiutarla nell’opera di salvataggio, venne dirottata sul posto anche la Squadriglia cacciatorpediniere «Mitragliere» (Ascari, Corazziere, Mitragliere), che aveva lasciato Tunisi alle 12.45 per fare ritorno in Italia dopo una missione di trasporto truppe.


Le operazioni di soccorso, ostacolate dal mare agitato, si protrassero fino a tarda sera; nonostante il maltempo, l’incendio e la bassa temperatura dell'acqua venne recuperata la grande maggioranza del personale imbarcato sul Sant'Antioco, compreso il comandante Cucchi, comportatosi valorosamente nella tragica circostanza. Orione (che aveva recuperato 62 superstiti, tra cui cinque feriti gravi e dieci feriti lievi), Ascari e Corazziere sbarcarono i naufraghi a Trapani (dove i due cacciatorpediniere giunsero alle 21.30 del 15 dicembre), mentre il Mitragliere portò i 139 superstiti che aveva raccolto a Palermo, dove giunse all’una di notte del 16.

Nell'affondamento del Sant'Antioco persero la vita 29 uomini. Tra di essi il commissario militare, capitano del Regio Esercito Giuseppe Rea, sedici membri dell'equipaggio civile:


Enrico Barranci (o Marranci), cuoco, 34 anni, da Livorno

Francesco Borriello, fuochista, 40 anni, da Torre del Greco

Giovanni Brozzas, fuochista, 30 anni, da Carloforte

Giuseppe Calci, fuochista, 35 anni, da Tupliaco (fuochista)

Salvatore Cannizzaro, marinaio, 51 anni, da Trapani

Antonio Faiman, secondo ufficiale di macchina, 43 anni, da Valdarsa

Santo Giassi, ufficiale di macchina, 46 anni, da Pirano

Giuseppe Lenci, 28 anni, da Viareggio

Francesco Mazzella, fuochista, da Torre del Greco

Guido Miculicich, cameriere, 27 anni, da Lussinpiccolo

Leonetto Razzanti, marinaio, 30 anni, da Livorno

Emilio Ruozzi, cameriere, 36 anni, da Scandiano

Terzo Solari, carbonaio, 32 anni, da Porto Santo Stefano

Rosario Sorrentino, fuochista, 26 anni, da Torre del Greco

Paolo Testa, cuoco, 38 anni, da Brà

Pietro Venturini, capitano di lungo corso, 34 anni, da Pirano



Verbale di scomparizione in mare dei marittimi del Sant’Antioco, citato in una sentenza del tribunale di Trieste (g.c. Michele Strazzeri)


Verbale di irreperibilità del capitano Giuseppe Rea (g.c. Vincenzo Marasco)


Vicenda curiosa è quella del marittimo istriano Serafino Tercovich, originario di Buie, noto come “Barba Serafin”. Tercovich era al suo terzo naufragio dall'inizio della guerra: fu anche l’ultimo, perché insieme ad altri sette uomini, venne recuperato non dagli italiani, ma dai britannici, e fatto quindi prigioniero. Mentre annaspava in mare, Tercovich aveva fatto un voto alla Madonna, promettendo di costruirle una cappella se si fosse salvato; recuperato dai britannici in stato di ipotermia, con una gamba semicongelata, si oppose strenuamente ai medici britannici che avrebbero voluto amputarla, e riuscì infatti a salvarla. Emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra, poté finalmente adempiere al suo voto nel 1992, dopo il crollo della Jugoslavia comunista, facendo erigere una cappella che venne consacrata il 5 agosto di quell'anno, in occasione della festa della Madonna delle Nevi; in quell'occasione venne celebrata una messa in memoria di quanti erano morti nell’affondamento del Sant'Antioco. Tercovich morì pochi mesi dopo.

La vicenda di Tercovich, riportata dal giornale “Istarska Danica” nel 1993 e dal sito “Istria on the Internet”, è strana sotto diversi aspetti: in primo luogo, non è chiaro quale fosse l'unità britannica che recuperò Tercovich ed i suoi compagni – certo non il P 46, che non recuperò nessun naufrago –; secondariamente, le fonti italiane non fanno menzione di naufraghi del Sant'Antioco recuperati dai britannici. Non è del tutto impossibile che Tercovich ed il suo gruppetto (che credettero di essere gli unici sopravvissuti tra gli uomini imbarcati sul Sant'Antioco) fossero stati separati dagli altri dal mare mosso e siano stati successivamente recuperati da un'unità britannica. Se così fosse, rimane il dubbio se quegli otto uomini vadano dedotti dal numero dei 29 dispersi, riducendo quindi il totale delle vittime dell’affondamento a ventuno, o se l'USMM seppe di questo salvataggio, pur senza menzionarlo nel citato "La difesa del traffico", e quindi anche questi otto naufraghi fossero già contati nel numero dei salvati. Più semplicemente, esiste anche la possibilità che Serafino Tercovich sopravvisse all'affondamento del Sant'Antioco, fu tra i naufraghi recuperati dalle unità italiane e venne catturato dai britannici in seguito ad un altro, successivo affondamento, confondendo poi gli episodi nella sua memoria a distanza di tanti anni.

Un'altra vicenda singolare è quella del secondo ufficiale di macchina del Sant'Antioco, Antonio Faiman, anch'egli istriano: era iscritto nelle matricole della gente di mare di Trieste con lo stesso numero di matricola del fratello Pietro (6359), disperso nella prima guerra mondiale, il che portò erroneamente la Capitaneria di Porto di Trieste a dichiarare scomparso nell'affondamento del Sant'Antioco Pietro Faiman, in realtà morto da più di vent’anni, ed il Comune di Trieste (dove Antonio Faiman risiedeva da anni) a redigere il suo atto di morte. Ci vollero alcuni mesi perché l'equivoco venisse chiarito.




Documenti relativi allo scambio di persona tra Pietro ed Antonio Faiman (g.c. Michele Strazzeri)




Il 16 dicembre “ULTRA” poté aggiornare i comandi britannici, sulla base di nuove decrittazioni, sull'affondamento del Sant'Antioco.

Neppure sul fondo del mare il Sant'Antioco poté riposare in pace: tre giorni dopo il suo affondamento, il 18 dicembre 1942, il suo relitto venne bombardato con bombe di profondità dalla torpediniera Orione, impegnata in un rastrello antisommergibili insieme a Cigno, Ardente e Sagittario, che aveva localizzato il relitto al sonar e l'aveva scambiato per un sommergibile immerso.


L'affondamento del Sant'Antioco nel giornale di bordo del P 46 (da Uboat.net):

"1050 hours - Aircraft circling on the horizon bearing bearing 050°. Altered course to close.

1240 hours - Sighted two merchant vessels approaching on a course for Bizerta. These two ships were later seen to be a 4000-ton merchant vessel and a medium sized tanker (which was a merchant ship that looked like a tanker). They were escorted by two torpedo boats.

1330 hours - In position 37°32'N, 10°39'E fired four torpedoes at the 4000-ton merchant ship. Range was 4000 yards.

1333 hours - Heard two timed torpedo explosions. The result could not be observed as P 46 had gone deep.

1336 hours - A depth charge was dropped. This was followed by a pair of charges and then another single one.

1406 hours - A pattern of 12 depth charges was dropped very close causing some minor damage. The hunt continued until about 1830 hours. By then a total of 62 depth charges were counted.

2008 hours - Surfaced".


Il Sant'Antioco su Wrecksite

Il Sant'Antioco sul Libro Registro del RINA del 1938

L'HMS P 46 su Uboat.net

Steel Shipbuilding Under the U. S. Shipping Board, 1917-1921

Cappella di Serafino Tercovich