L’Euro a La Spezia negli anni Trenta (g.c. STORIA militare) |
Cacciatorpediniere
della classe Turbine (1220 tonnellate di dislocamento standard, 1560 in carico
normale e 1715 a pieno carico). Durante la seconda guerra mondiale fu
inizialmente impiegato, dal 1940 all’estate del 1942, principalmente in
missioni di scorta tra l’Italia e l’Africa Settentrionale, mentre tra la
seconda metà del 1942 ed il 1943 operò soprattutto in Egeo, specie nella zona
dei Dardanelli, sempre con compiti di scorta convogli.
In tutto svolse 162
missioni di guerra, percorrendo complessivamente 47.855 miglia e trascorrendo
4011 ore in mare. Fu l’ultimo cacciatorpediniere italiano ad andare perduto per
azione di guerra nel secondo conflitto mondiale: il primo era stato, quaranta
mesi prima, il gemello Espero.
Breve e parziale cronologia.
24 gennaio 1925
Impostazione nei
Cantieri Navali del Tirreno di Riva Trigoso. È la seconda nave della classe Turbine
ad essere impostata.
7 luglio 1927
Varo nei Cantieri
Navali del Tirreno di Riva Trigoso.
Durante le prove in
mare l’Euro toccherà una velocità
massima di 38,9 nodi, anche se in condizioni operative la velocità massima
effettiva risulterà attorno ai 33 nodi.
Il varo
dell’Euro (sopra: Coll. Luigi
Accorsi, da www.associazione-venus.it;
sotto: dal “Riva Trigoso. Il cantiere e la sua storia” di Edoardo Bo, via
Franco Lena e www.naviearmatori.net)
22 dicembre 1927
Entrata in servizio.
È la quinta unità della classe Turbine ad essere completata.
L’Euro ed il gemello Nembo a San Remo nel 1927 (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net) |
1929
Fa parte, con i gemelli Turbine, Nembo ed Aquilone, della II Squadriglia della 1a Flottiglia della I Divisione Siluranti, facente parte della 1a Squadra Navale, di base a La Spezia. Nei primi anni Trenta la II Squadriglia compie crociere addestrative nel Mediterraneo.
Fa parte, con i gemelli Turbine, Nembo ed Aquilone, della II Squadriglia della 1a Flottiglia della I Divisione Siluranti, facente parte della 1a Squadra Navale, di base a La Spezia. Nei primi anni Trenta la II Squadriglia compie crociere addestrative nel Mediterraneo.
Maggio 1929
L’Euro fa parte di una squadra navale
italiana, al comando dell’ammiraglio Ferdinando di Savoia-Genova (principe di
Udine), che salpa da La Spezia e si reca in visita a Barcellona.
A La Spezia nel 1930 (foto Ugo Pucci, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
1931
Insieme ai gemelli Zeffiro, Espero e Nembo, all’esploratore Ancona ed a due flottiglie di cacciatorpediniere (rispettivamente quattro e sei unità, più un esploratore ciascuna), l’Euro forma la II Divisione della 1a Squadra Navale.
1932 o 1933
Insieme ai gemelli Zeffiro, Espero e Nembo, all’esploratore Ancona ed a due flottiglie di cacciatorpediniere (rispettivamente quattro e sei unità, più un esploratore ciascuna), l’Euro forma la II Divisione della 1a Squadra Navale.
1932 o 1933
Viene dotato, tra i
primi, di una centralina di tiro tipo «Galileo-Bergamini», progettata dal capitano
di vascello Carlo Bergamini, comandante della I Squadriglia Cacciatorpediniere
di cui l’Euro fa parte (le altre
unità sono Nembo, Turbine ed Aquilone). Le navi della squadriglia compiono un intensivo
addestramento con la nuova centrale di tiro; tale addestramento ha come il
risultato la formazione di equipaggi esperti e qualificati, e la decisione,
visti i risultati positivi dell’impiego di tale apparecchiatura, di imbarcare
altre centraline di tiro «Galileo-Bergamini» su numerose altre unità.
Un’altra foto dell’Euro nel 1930 (Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
1933
Presta servizio sull’Euro il sottocapo macchinista Tullio
Tedeschi, futura Medaglia d’Oro al Valor Militare.
1934
Euro, Nembo, Turbine ed Aquilone formano la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla IV Squadriglia (Espero, Borea, Ostro e Zeffiro), è aggregata alla II Divisione Navale, composta dagli incrociatori pesanti Fiume e Gorizia.
Euro, Nembo, Turbine ed Aquilone formano la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla IV Squadriglia (Espero, Borea, Ostro e Zeffiro), è aggregata alla II Divisione Navale, composta dagli incrociatori pesanti Fiume e Gorizia.
L’Euro nel 1935 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
1935-1937
Posto in riserva.
1937
Viene impiegato nel
contrasto al contrabbando di rifornimenti per le forze spagnole repubblicane,
durante la guerra civile spagnola.
L’Euro ed il Nembo in una foto datata 15 febbraio 1938 (Naval History and Heritage Command, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
1938
Dislocato nelle acque
della Cirenaica e della Tripolitania.
Il complesso poppiero da 120 mm dell’Euro nel 1939 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
1939-1940
Lavori di modifica
dell’armamento: vengono sbarcate le due mitragliere singole Vickers-Terni 1917
da 40/39 mm, mentre vengono installate quattro mitragliere binate Breda 1935 da
20/65 mm e due scaricabombe per bombed i profondità. (Per altra fonte la nave
avrebbe avuto originariamente tre mitragliere Vickers/Terni da 40/39 mm, una a
poppa e due a centro nave, in plancette
collocate ai lati; la mitragliera di poppa sarebbe stata eliminata nel 1939 e
sostituita con due mitragliere binate da 13,2 mm – una al posto di quella da
40/39, l’altra in una plancetta in
posizione centrale – mentre le altre due sarebbero state eliminate nel 1942 e
rimpiazzate con altrettante mitragliere binate da 20 mm. Per fonte ancora
differente l’armamento contraereo nel 1942 sarebbe stato composto da 7
mitragliere da 20/65 mm, in due impianti binati e tre singoli).
L’Euro nel 1939 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
Primavera 1940
Dislocato a Tobruk. Dal marzo 1940 la I Squadriglia Cacciatorpediniere, di cui l’Euro fa parte, ha base in tale porto.
Dislocato a Tobruk. Dal marzo 1940 la I Squadriglia Cacciatorpediniere, di cui l’Euro fa parte, ha base in tale porto.
6 giugno 1940
L’Euro e le altre unità della I
Squadriglia Cacciatorpediniere posano 6 campi minati difensivi antinave, di 40
mine ciascuno (160 in tutto), nelle acque di Tobruk.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. L’Euro (capitano di corvetta Michele Morisiani, da Napoli),
insieme ai gemelli Turbine
(caposquadriglia), Nembo ed Aquilone, forma la I Squadriglia
Cacciatorpediniere, di base a Tobruk ed alle dipendenze di Marina Tobruk.
17 giugno 1940
L’Euro esce da Tobruk per compiere alcune
prove di macchina; in tutto rimane in mare per meno di tre ore, prima di
rientrare in porto.
Durante questo lasso
di tempo, l’Euro viene avvistato dal
sommergibile britannico Parthian
(capitano di corvetta Michael Gordon Rimington), in pattugliamento al largo di
Tobruk: questi avvista un cacciatorpediniere “classe Nembo” che sembra
incrociare avanti e indietro ad una velocità stimata di oltre 30 nodi. La
distanza è di 7,3-8,2 km; il Parthian
tenta di avvicinarsi per attaccare, ma non vi riesce.
19 giugno 1940
Nel pomeriggio, l’Euro cede parte delle sue bombe di
profondità al gemello Turbine,
intento a dare la caccia ad un sommergibile britannico – è sempre il Parthian – che alle 12.43 ha
infruttuosamente lanciato due siluri contro l’incrociatore corazzato San Giorgio, ancorato in rada a Tobruk
con funzione di nave antiaerei. In una prima serie di attacchi, il Turbine ha lanciato tutte le sue cariche
di profondità; non essendo convinto di aver affondato il sommergibile, pur
avendo avvistato quella che sembra una chiazza di nafta (in realtà, infatti, il
Parthian non ha subito danni, perché
le bombe sono esplose lontane), il comandante del cacciatorpediniere ha deciso
di rientrare in porto per rifornirsi di bombe di profondità prelevate dall’Euro, per poi uscire nuovamente e
riprendere la caccia. In questo lasso di tempo, però, il Parthian riesce ad allontanarsi e far perdere le proprie tracce.
4 luglio 1940
Mentre l’Euro si trova a Tobruk, ormeggiato in
rada alla boa A2 (nella parte occidentale della rada), dalle 10 alle 11.15 del
mattino la piazzaforte è messa in allarme perché sorvolata da un idrovolante da
ricognizione Short Sunderland, che tenendosi in quota (1500-2000 metri)
effettua diversi passaggi sulla rada nel giro di una decina di minuti,
inutilmente bersagliato dal tiro della contraerea, scattando numerose foto,
dopo di che si allontana verso nordest.
Il Sunderland
appartiene all 228th Squadron della Royal Air Force ed è decollato
dall’idroscalo di Alessandria d’Egitto, per vagliare l’opportunità di lanciare
un attacco di aerosiluranti contro il naviglio in rada a Tobruk: ed in effetti
le foto scattate, e le informazioni rilevate dall’idrovolante, mostrano ai
comandi britannici che il porto di Tobruk è gremito di navi, offrendo agli
attaccanti solo l’imbarazzo della scelta in termini di bersagli: oltre all’Euro, infatti, ci sono ben cinque altri
cacciatorpediniere (Turbine, Nembo, Ostro, Aquilone, Zeffiro), tutti della classe Turbine; i piroscafi Sabbia (usato temporaneamente come nave
caserma per gli equipaggi dei cacciatorpediniere), Sereno, Serenitas, Liguria e Manzoni (tutti scarichi ed in attesa di tornare in Italia); il
vecchio incrociatore corazzato San
Giorgio, impiegato come unità antiaerea in appoggio alle difese terrestri;
sette sommergibili e svariate unità minori. A parte i sommergibili ed il Turbine, che sono ormeggiati in
banchina, tutte le navi si trovano in rada; i piroscafi formano una fila più o
meno al centro della rada (nell’ordine Sereno,
Sabbia, Liguria, Serenitas e Manzoni, da ovest verso est), con lo Zeffiro affiancato al Sabbia, mentre Aquilone, Nembo ed Ostro sono anch’essi ormeggiati “in
fila”, alle boe, nella parte meridionale della rada. L’Euro è ormeggiato in disparte, un po’ più ad ovest della fila del
piroscafi, con la prua rivolta verso nord anziché (come quasi tutte le altre
navi) verso est o verso ovest.
Sulla scorta di
queste informazioni il comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew
Browne Cunningham, ordina per l’indomani un attacco di aerosiluranti contro
Tobruk. L’attacco sarà soltanto la componente principale di un’operazione
complessa articolata su più punti: sono infatti previsti anche il contemporaneo
bombardamento dell’aeroporto T2 di Derna (da parte di undici bombardieri
Bristol Blenheim, scortati da dodici caccia Gloster Gladiator), allo scopo di
impedire alla caccia italiana di intervenire, ed un’azione di bombardamento
navale della piazzaforte di Bardia da parte della 3rd Cruiser
Division del contrammiraglio Edward de Faye Renouf (incrociatori leggeri Caledon e Capetown, più i cacciatorpediniere Janus, Juno, Imperial ed Ilex), che avrà anche il compito secondario di dare assistenza agli
aerosiluranti di ritorno dall’attacco a Tobruk (il Capetown dovrà facilitare il rientro degli aerei emettendo
periodicamente segnali con il fanale di testa d’albero, ed i cacciatorpediniere
verranno inviati in soccorso qualora qualche aereo, per danni o per avarie, sia
costretto all’ammaraggio). Quest’ultimo sarà eseguito da nove aerosiluranti
Fairey Swordfish dell’813th Squadron della Fleet Air Arm, assegnati
alla portaerei Eagle ma dislocati al momento nella base egiziana di Dakheila,
al comando del capitano di corvetta Nicholas Kennedy. Prima dell’attacco, un
bimotore Bristol Blenheim del 211st Squadron R.A.F. compirà un
ultimo volo di ricognizione per accertarsi che non vi siano stati mutamenti
significativi nella situazione precedentemente osservata. Gli Swordfish, per
compiere l’attacco, vengono trasferiti nel tardo pomeriggio dello stesso giorno
da Dakheila alla base avanzata di Sidi el Barrani (in verità, più che una base
una pista in terra battuta con i soli servizi minimi indispensabili), da dove
decolleranno per l’attacco. È previsto che bersagli prioritari debbano essere i
cacciatorpediniere, con le navi mercantili in subordine. L’attacco avrà luogo
nella fase terminale del crepuscolo, quando le condizioni di luce saranno più
sfavorevoli per gli italiani (che con l’arrivo del buio faticheranno ad
avvistare gli aerei) ed invece ancora favorevoli per gli attaccanti britannici
(la luminosità diffusa che caratterizza la conclusione del crepuscolo, infatti,
sarà ancora sufficiente a permettere ai piloti di avvistare le navi italiane:
essendo queste verniciate di color grigio cenerino chiaro – la mimetizzazione
verrà adottata soltanto diversi mesi dopo –, esse saranno ben distinguibili
contro il profilo scuro della costa).
5 luglio 1940
Nel primo pomeriggio
un ricognitore Blenheim del 211st Squadron, come pianificato,
decolla da Dakheila, raggiunge Tobruk e sorvola la rada per controllare la
situazione, dopo di che rientra alla base; la disposizione delle navi, rispetto
al giorno precedente, è immutata. Le informazioni raccolte dal Blenheim sono
subito comunicate per telescrivente alla base di Sidi el Barrani, dove gli
aerei destinati all’attacco sono in attesa; il capitano di corvetta Kennedy
illustra ai suoi piloti il piano d’attacco ed assegna a ciascuno un bersaglio.
Ricevuto alle 18, da Alessandria, l’ordine di dare inizio all’operazione, gli
Swordfish decollano da Sidi el Barrani alle 18.50, preceduti di venti minuti
dai Blenheim che dovranno attaccare l’aeroporto T2 (i quali invece partono da
Dakheila), che devono raggiungere il loro obiettivo mezz’ora prima che gli
aerosiluranti attacchino il porto (l’attacco, con mitragliamento degli aerei al
suolo e bombardamento degli edifici della base, verrà eseguito in orario, ma
causerà danni contenuti, limitandosi al danneggiamento di otto caccia FIAT CR.
42, parte dei quali poi riparati, ed a danni limitati alle installazioni a
terra). Dopo il decollo i nove Swordfish salgono fino alla quota di 1500 metri
e seguono la costa egiziana e poi libica verso Tobruk, distante circa 110
miglia. Arrivati nei pressi dell’obiettivo, effettuano una larga virata in modo
da arrivare sulla rada di Tobruk provenendo dal mare; si dividono quindi in tre
sezioni di tre aerei ciascuna, disposti a cuneo.
Il sole tramonta alle
19.21.
Gli Swordfish, sempre
volando a 1500 metri di quota, arrivano davanti a Tobruk intorno alle 20.15,
come previsto; la difesa italiana, messa sul chi va là dagli aerofoni di Bardia
e di Belafarid, è in allarme dalle 20.06 ed accoglie gli attaccanti con un
rabbioso tiro di sbarramento. Anche i cacciatorpediniere aprono il fuoco con le
loro armi antiaeree, ma il loro campo di tiro è in parte ostruito dagli altri
bastimenti ormeggiati in rada.
La reazione della
contraerea è stata più sollecita di quanto i britannici avessero preventivato,
pertanto gli Swordfish devono modificare la loro formazione per non presentarsi
troppo concentrati ai mitraglieri italiani, e si devono “tuffare” rapidamente a
bassa quota, per poi lanciare i siluri in rapida successione, uno dopo l’altro.
Nonostante questo cambio di tattica all’ultimo momento, l’attacco degli
Swordfish è preciso e devastante.
I siluri vengono
sganciati da 400-500 metri di distanza, da una quota di una trentina di metri. Primo
ad attaccare è il capo formazione, capitano di corvetta Kennedy: questi sgancia
il suo siluro alle 20.20 contro lo Zeffiro,
che viene colpito nel deposito munizioni prodiero ed affonda rapidamente
spezzandosi in due, con la morte di 21 uomini.
Il secondo siluro è
proprio per l’Euro: il secondo
Swordfish ad attaccare (secondo una fonte, che però potrebbe essere erronea, pilotato
dal sottotenente di vascello S. T. Tracy con i sergenti Taylor ed A. T.
Cullinan come equipaggio), infatti, effettua la sua cOrsa d’attacco nella scia di Kennedy e sgancia il suo siluro contro
l’Euro, bersagli più ad ovest di
tutti, che viene colpito a prua, sul lato di dritta, proprio sotto l’ancora in
quel momento appennellata. L’esplosione del siluro dilania la prua del
cacciatorpediniere, troncando di netto il fuso dell’ancora ed aprendo un enorme
squarcio che si estende anche al lato sinistro dello scafo; dato però che il
siluro ha colpito a prora estrema, e le paratie prodiere – subito rinforzate
dall’equipaggio – reggono bene, l’Euro
mantiene la sua galleggiabilità. Nondimeno, si deciderà di portarlo ad
incagliarsi su un bassofondale vicino alla darsena.
Anche gli altri
Swordfish, subito dopo, vanno all’attacco: il terzo ed il quarto, a causa dello
spazio ristretto in cui devono agire e del nutrito tiro contraereo dei
cacciatorpediniere, rinunciano al lancio; il quinto, invece, colpisce il piroscafo
Manzoni, che si abbatte su un fianco
ed affonda rapidamente. Il sesto colpisce con un siluro il grande trasporto
truppe Liguria, che dev’essere
portato all’incaglio per evitarne l’affondamento (non sarà, però, mai
disincagliato, andando perduto sei mesi più tardi alla caduta di Tobruk); il
settimo e l’ottavo lanciano senza successo contro il piroscafo Sereno, grazie al forte tiro contraereo
che impedisce loro di eseguire una corretta manovra di lancio, mentre il nono
ed ultimo colpisce col suo siluro il piroscafo Serenitas, che viene anch’esso portato all’incaglio per
scongiurarne l’affondamento (e, come il Liguria,
non verrà mai disincagliato e sarà perduto nel gennaio 1941 alla caduta della
città).
Compiuto l’attacco,
gli Swordfish si allontanano per rientrare alla base. Atterreranno tutti a
Dakheila verso le 22.30, come previsto; sono stati quasi tutti più o meno
sforacchiati dal tiro della contraerea, ma nessuno è stato abbattuto. Alle
21.31, dato che gli aerofoni di Bardia e Belafarid hanno perso ogni contatto
acustico con gli aerei, viene suonato a Tobruk il cessato allarme.
In uno degli attacchi
aerosiluranti più riusciti della guerra del Mediterraneo, gli Swordfish hanno
affondato due navi (Manzoni e Zeffiro) e danneggiato gravemente altre
tre (Euro, Serenitas, Liguria,
questi ultimi due di fatto perduti, in quanto gli eventi successivi ne
impediranno il recupero). Da parte britannica, l’attacco è stato molto ben
eseguito, mostrando un’eccellente coordinazione tra Royal Navy e Royal Air
Force, un ottimo addestramento degli equipaggi degli aerosiluranti e la
notevole manovrabilità e robustezza degli Swordfish, che ha dispetto dell’apparenza
antiquata si sono rivelati in grado di manovrare abilmente in spazi ristretti e
di resistere bene ai colpi subiti. Da parte italiana, la reazione della
contraerea e soprattutto quella dei cacciatorpediniere (sui quali, come
previsto dalle disposizioni vigenti, le mitragliere da 40/39 e da 13,2 mm erano
mantenute costantemente armate), pur non ottenendo abbattimenti, è riuscita a
costringere quattro aerei su nove (il terzo, quarto, settimo ed ottavo) a
rinunciare ai lanci o a lanciare in modo affrettato ed impreciso, fallendo i
bersagli. A determinare un esito così disastroso è stata soprattutto
l’eccessiva concentrazione di navi in un solo porto, e la totale mancanza di
reti parasiluri a loro protezione.
L’Euro fotografato a Tripoli a inizio settembre
1940 (?), con i vistosi danni causati dal siluramento del luglio precedente (g.c.
STORIA militare)
Particolare della prua dilaniata dell’Euro, sempre a Tripoli a inizio settembre 1940 (g.c. STORIA militare) |
Luglio-Agosto 1940
Dopo aver provveduto
a tamponare e rinforzare provvisoriamente le paratie stagne prodiere con i
mezzi disponibili presso l’officina di Tobruk, l’Euro viene alleggerito del carburante, dell’armamento principale e
delle relative munizioni e rimesso in condizioni di galleggiamento, per essere
trasferito in Italia per le riparazioni.
Una parte
dell’originario equipaggio dell’Euro,
secondo una testimonianza (quella del marinaio Michele Sorrentino), è stata
però sbarcata dopo il siluramento e rimane a Tobruk, integrando le difese della
piazzaforte con alcune armi prelevate dalla nave. Questi uomini resteranno a
Tobruk anche dopo la partenza dell’Euro
per l’Italia e cadranno prigionieri dei britannici alla caduta di Tobruk, il 22
gennaio 1941, durante l’operazione "Compass", passando il resto della
guerra nel grande campo di prigionia di Zonderwater (Sudafrica).
10 agosto 1940
Rimorchiato di poppa
dal Turbine e scortato dalla
torpediniera Calliope, l’Euro lascia Tobruk iniziando il suo
viaggio di trasferimento, facendo una prima sosta a Bengasi e proseguendo poi
per Tripoli.
13 agosto 1940
Arriva a Tripoli,
dove sosta due giorni.
15 agosto 1940
Lascia Tripoli,
sempre a rimorchio, ed in tali condizioni attraversa il Canale di Sicilia.
Altro
particolare dei danni causati dal siluro alla prua dell’Euro, fotografati durante la sosta a Tripoli prima del rientro in
Italia (g.c. STORIA militare e Marcello Risolo)
27 settembre (?) 1940
Arriva a Trapani,
sostandovi per un giorno.
28 settembre 1940
Lascia Trapani,
ancora a rimorchio, diretto a Palermo.
6 ottobre 1940
Arriva a Palermo,
dove dovranno essere effettuate le riparazioni dei danni causati dall’attacco
degli aerosiluranti a Tobruk.
16 ottobre 1940
L’Euro entra nei cantieri navali di
Palermo (Cantieri Navali Riuniti del Tirreno) per dare inizio alle riparazioni.
1° marzo 1941
Completamento dei
lavori di riparazione. (Secondo qualche fonte tali lavori sarebbero stati
compiuti a Taranto, e Palermo sarebbe stato solo uno scalo intermedio nel
trasferimento dalla Libia a Taranto; ma ciò appare errato).
1° aprile 1941
Alle 11 l’Euro ed i cacciatorpediniere Baleno e Luca Tarigo (caposcorta, capitano di fregata Pietro De
Cristofaro) salpano da Napoli per Tripoli scortando i trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria. Da Tripoli escono successivamente le torpediniere Polluce e Partenope, per rinforzare la scorta.
Il convoglio segue la
rotta di levante (che è quella solitamente seguita dai convogli veloci per
trasporto truppe): attraversa lo stretto di Messina, poi passa circa 150 miglia
ad est di Malta (in modo da restare al di fuori del raggio d’azione degli
aerosiluranti là basati) a 15-17 nodi di velocità. Di giorno, le navi fruiscono
di una scorta aerea assicurata da due-tre idrovolanti CANT Z. 501 per
protezione antisommergibili e due caccia FIAT CR. 42 per protezione da attacchi
aerei.
Durante il viaggio,
una sola volta viene segnalato un sommergibile in zona; la scorta reagisce al
possibile attacco zigzagando e lanciando bombe di profondità a scopo
intimidatorio.
2 aprile 1941
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 19.30.
7 aprile 1941
Euro, Lampo, Tarigo (caposcorta) e Baleno
ripartono da Tripoli alle 17, scortando Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria che tornano a Napoli. La rotta seguita è ancora
quella di levante.
8 aprile 1941
Alle 00.05 il
sommergibile britannico Upright (tenente
di vascello Edward Dudley Norman) avvista il convoglio in posizione 34°30’ N e
12°51’ E (un centinaio di miglia a nord-nord-ovest di Tripoli), su rilevamento
143° e con rotta 350°. Alle 00.21 il battello lancia due siluri contro i
mercantili di testa delle due colonne del convoglio (che si “sovrappongono”
nella visuale del periscopio) e poi altri due al mercantile di coda.
Nessun’arma va a segno, e probabilmente l’attacco non viene nemmeno notato.
9 aprile 1941
Le navi giungono a
Napoli alle 7.30.
13 aprile 1941
L’Euro viene assegnato, insieme al
cacciatorpediniere Strale, alla
scorta al convoglio «Tarigo», formato dai piroscafi Arta, Adana, Aegina, Iserlohn e Sabaudia (tutti
tedeschi, tranne quest’ultimo) ed avente per caposcorta il cacciatorpediniere Luca Tarigo. Prima della partenza, Euro e Strale vengono però sostituiti dai cacciatorpediniere Lampo e Baleno. Una sostituzione provvidenziale per l’Euro: l’intero convoglio, infatti, verrà distrutto da un attacco
britannico nella notte del 16 aprile.
24 aprile 1941
L’Euro salpa da Napoli alle 23
insieme al cacciatorpediniere Fulmine ed
alle torpediniere Castore, Procione (capitano di corvetta
Riccardo Imperiali, caposcorta) ed Orione,
per scortare a Tripoli un convoglio formato dalle motonavi italiane Birmania e Rialto e dai piroscafi
tedeschi Reichenfels, Marburg e Kybfels (convoglio «Birmania» o «Seetransportstaffel. 23»).
25 aprile 1941
Al convoglio si
unisce anche il trasporto truppe Marco
Polo, scortato dalla torpediniera Orsa.
A causa sia di
movimenti delle forze navali britanniche sia ad est che ad ovest del Canale di
Sicilia (e conseguente allarme navale) sia del mare tempestoso, il convoglio
viene dirottato in porti della Sicilia, diviso in due gruppi: piroscafi e
torpediniere vengono fatti rifugiare a Palermo alle 21.30 del 25, mentre le
motonavi riparano a Messina alle 18.
Ripartiranno solo
nella notte tra il 29 ed il 30 aprile.
30 aprile 1941
I due gruppi salpano
da Palermo a Messina nelle prime ore della notte e riformano il convoglio al
largo di Augusta. Quest’ultimo passa a nord della Sicilia e poi imbocca la
rotta delle Kerkennah, la più adatta per restare il più lontano possibile dalle
navi britanniche ancora in movimento nel Mediterraneo Orientale.
Per ordine di
Supermarina, le Divisioni incrociatori III (incrociatori pesanti Trieste e Bolzano) e VII (incrociatore leggero Eugenio di Savoia) ed i cacciatorpediniere Ascari, Carabiniere (per la III Divisione) e Gioberti (per la VII Divisione) escono in mare per
proteggere il convoglio da eventuali attacchi da parte delle forze di
superficie britanniche che sono ancora in mare.
L’Euro durante una missione di scorta nell’aprile-maggio 1941 (Coll. Aldo Fraccaroli, dal libro “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia) |
1° maggio 1941
Alle 12.51, ottanta
miglia a nord di Tripoli, la Rialto viene
mancata di stretta misura da un siluro che la passa a poppa: a lanciarlo è
stato il sommergibile britannico Undaunted (tenente
di vascello James Lees Livesey), che alle 12.44 ha lanciato un
segnale di scoperta per un grosso convoglio scortato in posizione 34°40’ N e
12°20’ E, su rotta 205° e con velocità 8 nodi.
Il convoglio viene
anche infruttuosamente attaccato da aerei; da Malta prende il mare per
intercettarlo una formazione composta dall’incrociatore leggero Gloucester e dai
cacciatorpediniere Kelly, Kelvin, Kashmir, Kipling, Jersey e Jackal, ma non riesce a rintracciarlo.
Tutte le navi
raggiungono indenni Tripoli alle 23 (o 21).
3 maggio 1941
L’Euro si trova nel porto di Tripoli,
insieme ad altre unità mercantili (tra cui il trasporto truppe Marco Polo) e militari (tra cui Fulmine, Castore, Procione ed Orione) quando saltano in aria, per
cause controverse, la motonave Birmania e
l’incrociatore ausiliario Città di
Bari, cariche di munizioni. Il disastro provoca danni e vittime in buona
parte dell’area portuale.
5 maggio 1941
Euro,
Fulmine, Procione (caposcorta) e le torpediniere Orsa, Cigno, Centauro e Perseo salpano da Tripoli per Palermo
(la destinazione finale è Napoli) alle 9.30, scortando la motonave
italiana Rialto, il trasporto
truppe Marco Polo ed i
piroscafi tedeschi Reichenfels, Marburg e Kybfels: il convoglio è denominato «Marco Polo».
Il convoglio segue la
rotta ad est di Malta; per proteggere il suo movimento e quello di un altro
convoglio (in navigazione da Napoli a Tripoli), essendo state avvistate a Malta
delle unità leggere britanniche, esce in mare la VII Divisione Navale
dell’ammiraglio Ferdinando Casardi, con gli incrociatori leggeri Eugenio di Savoia, Muzio Attendolo ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta ed
i cacciatorpediniere Antonio Pigafetta, Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Nicoloso Da Recco e Nicolò Zeno.
La visibilità è
cattiva durante tutta la giornata del 5.
Alle 14.26 la VII
Divisione, di scorta indiretta al convoglio diretto a Tripoli, avvista il
convoglio «Marco Polo»; l’ammiraglio Casardi manda il Da Verrazzano a segnalare otticamente alla Procione (essendo quest’ultima
sprovvista di apparato radio ad onde ultracorte, avente portata abbastanza
limitata da non essere radiogoniometrabile) gli ordini di Supermarina sulla
rotta da seguire, ed ad impartirgli istruzioni in merito al dispositivo di
marcia notturna ed a come il convoglio dovrà manovrare in caso di attacco
aereo. Alle 19.50 la VII Divisione si posiziona 4 km a proravia del convoglio.
Al calare del buio,
il convoglio si dispone come ordinato dall’ammiraglio Casardi: i mercantili su
tre colonne, con scorta laterale, gli incrociatori in linea di fila 3 km a
proravia del convoglio, ed i cacciatorpediniere in posizione di scorta
avanzata.
La navigazione
notturna si svolge senza inconvenienti; il convoglio esegue le accostate senza
difficoltà, nonostante la loro ampiezza.
6 maggio 1941
Alle 5.45 la VII
Divisione lascia la scorta ravvicinata del convoglio, posizionandosi alla sua
sinistra; alle 6.04 viene avvistato il primo velivolo della scorta aerea.
Alle 13.25 il
convoglio viene avvistato in posizione 37°36’ N e 15°28’ E, su rilevamento
070°, dal sommergibile britannico Unique (tenente
di vascello Anthony Foster Collett), ma questi, che dista una decina di miglia
dalle navi dell’Asse e non è nella posizione prevista a causa di un errore di
navigazione, non è in grado di attaccare.
7 maggio 1941
Il convoglio arriva a
Palermo alle 6.30.
16 maggio 1941
Lascia Napoli alle
18.30 insieme ai cacciatorpediniere Folgore (caposcorta), Fulmine, Turbine e Strale,
scortando in Libia il «26. Seetransport Konvoi», composto dai mercantili
tedeschi Preussen e Sparta, dagli italiani Motia, Capo Orso e Castelverde.
17 maggio 1941
Il convoglio viene
dirottato a Palermo per allarme navale, giungendovi alle 19.
19 maggio 1941
Il convoglio riparte
da Palermo alle 9.30; ad esso si sono unite le navi cisterna Panuco e Superga.
Alle 19 salpa da
Palermo anche una forza di copertura, costituita dagli incrociatori
leggeri Luigi di Savoia Duca degli
Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi con i cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino.
Alle 11.30 un
sommergibile lancia una salva di siluri contro il convoglio; per
evitarli, Preussen e Panuco entrano in collisione, ma
non riportano danni di rilievo e possono proseguire entrambe.
20 maggio 1941
Alle 9.32 il
sommergibile britannico Urge (tenente
di vascello Edward Philip Tomkinson) avvista su rilevamento 020° un
cacciatorpediniere seguito da altre navi, che due minuti dopo identifica come
una formazione composta da due incrociatori e tre cacciatorpediniere, che
passano a 6 miglia di distanza: è la forza di copertura del «26. Seetransport
Konvoi». Poco dopo, l’Urge avvista su
rilevamento 315° un’altra nave, troppo distante per poter essere identificata,
ed alle 9.40 scende a 27 metri e modifica la rotta per evitare un idrovolante
che ha avvistato su rilevamento 080°, a distanza di soli 730 metri, diretto
proprio verso di lui. Tornato a quota periscopica alle 9.47, il sommergibile si
avvede che la nave avvistata in precedenza è un cacciatorpediniere, che procede
a zig zag davanti ad un convoglio di quattro navi, che navigano a 12 nodi su
rotta 135° con la scorta di cinque cacciatorpediniere.
L’Urge passa quindi all’attacco (in
posizione 35°44’ N e 11°59’ E, una quarantina di miglia a nordovest di
Lampedusa), lanciando quattro siluri contro il Capo Orso e la Superga,
poi s’immerge a maggiore profondità; nonostante l’Urge rivendichi tre centri e l’affondamento di entrambi i
mercantili, in realtà nessuno dei siluri va a segno, e l’Euro ne risale le scie e contrattacca con bombe di profondità. Al
termine della caccia l’Euro ritiene
di aver affondato il sommergibile, ma anche in questo caso si tratta di una
rivendicazione errata; in realtà l’Urge,
che è sceso a 85 metri di profondità, è riuscito a scampare senza subire danni
seri. Il sommergibile britannico rileva lo scoppio di dieci bombe di profondità
nei 10 minuti successivi all’attacco, nessuna delle quali molto vicina; va però
notato che Tomkinson registra anche, poco dopo gli “scoppi” dei “siluri” (che
in realtà non sono tali, non avendo colpito), “una tremenda esplosione” che
arreca alcuni lievi danni all’Urge e
provoca il ferimento di diversi membri dell’equipaggio. Siccome, contrariamente
a quanto ritenuto da Tomkinson, nessuna nave è stata colpita, e tanto meno è
esplosa, sembra logico supporre che questi danni e feriti siano stati in realtà
causati dalle bombe di profondità dell’Euro.
21 maggio 1941
Il convoglio giunge a
destinazione alle 11.
25 maggio 1941
Euro,
Fulmine, Folgore (caposcorta) e Turbine
lasciano Tripoli alle 9 per scortare a Napoli un convoglio formato dai
piroscafi tedeschi Duisburg e Preussen (con a bordo 568 prigionieri), dagli
italiani Bosforo e Bainsizza e dalle navi
cisterna Superga e Panuco.
26 maggio 1941
Alle 15, a seguito dell’avvistamento
di luci sospette nella zona di Linosa/Lampedusa, il convoglio ritorna a
Tripoli.
27 maggio 1941
Alle 8 il convoglio
riparte da Tripoli alla volta di Napoli. Stavolta è in mare anche una forza di
copertura costituita dall’incrociatore leggero Luigi Cadorna e dai cacciatorpediniere Maestrale e Grecale.
29 maggio 1941
Duisburg e Superga entrano
rispettivamente a Trapani e Palermo alle 23 ed alle 24, mentre il resto del
convoglio prosegue per Napoli. La forza di scorta indiretta è già rientrata a
Palermo in mattinata.
30 maggio 1941
Il convoglio giunge a
Napoli all’1.30.
19 giugno 1941
L’Euro ed i cacciatorpediniere Folgore (caposcorta), Fulmine e Saetta partono da Napoli alle 23.30 per Tripoli, scortando i
piroscafi Preussen (tedesco), Motia, Bainsizza, Maddalena
Odero e Nicolò Odero.
Successivamente si
aggregano al convoglio anche la torpediniera Antonio Mosto e la nave cisterna Ardor, usciti da Palermo.
22 giugno 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 19.30, dopo aver superato indenne diversi attacchi aerei
britannici.
1° luglio 1941
Euro,
Folgore (caposcorta), Fulmine e Saetta lasciano Tripoli per Napoli alle 20, scortando i piroscafi
italiani Bainsizza, Giuseppe Leva, Nicolò Odero e Maddalena Odero, il piroscafo tedesco Preussen e la nave cisterna italiana Ardor.
5 luglio 1941
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 00.10.
21 luglio 1941
Alle 5.15 Euro, Folgore (caposcorta, capitano di fregata Giurati), Fulmine, Saetta ed Alpino partono
da Napoli per scortare a Tripoli il convoglio lento «Nicolò Odero», formato dai
piroscafi Maddalena Odero, Nicolò Odero, Caffaro e Preussen
(quest’ultimo tedesco).
Il piano prevede che
dall’alba del 23, a sud di Pantelleria, si accodi al convoglio anche la nave
cisterna Brarena, partita da
Palermo e scortata dal Fuciliere
(capitano di fregata Cerrina Feroni): la Brarena
non entrerebbe a far parte del convoglio vero e proprio, essendo più lenta di
un nodo (8 nodi, contro i 9 nodi raggiunti dal convoglio), ma si terrebbe a
breve distanza soprattutto nella notte del 22-23, in modo che ciascun gruppo
possa recare aiuto all’altro se necessario, dopo di che il convoglio «Odero»
“scavalcherebbe” la Brarena senza
comunque allontanarsene eccessivamente.
Alle 13.27 il
sommergibile britannico Olympus (capitano
di corvetta Herbert George Dymott) avvista il convoglio in posizione 39°53’ N e
11°49’ E, ed alle 13.58 lancia infruttuosamente un siluro da 5490 metri;
alle 14.23 lancia un secondo siluro da 5030 metri, di nuovo senza colpire.
L’attacco non viene notato.
Poche ore dopo la
partenza, alcuni cacciatorpediniere della scorta iniziano a lamentare una serie
di avarie, causate dal logorio che colpisce le navi impiegate senza sosta sulle
rotte per la Libia, costrette a saltare le normali revisioni degli apparati
motori e dei macchinari: dopo che già il Fulmine
è dovuto tornare momentaneamente a Napoli per una riparazione urgente in sala
macchine (si riunirà al convoglio nel pomeriggio), il Saetta si ritrova con una caldaia inutilizzabile a causa di una
grave perdita al fascio tubiero. Può comunque proseguire la navigazione.
I velivoli della
scorta aerea si avvicendano sul cielo del convoglio con regolarità, soprattutto
a sud di Lampedusa.
22 luglio 1941
Alle 9.45 Supermarina
mette in allarme sia il convoglio «Odero» che il gruppo Brarena-Fuciliere, in
seguito alla segnalazione di importanti movimenti di forze navali nemiche nel
Mediterraneo occidentale; più tardi, Supermarina – avendo intercettato e
decifrato, intorno alle 10, la comunicazione di un aereo britannico da
ricognizione – informa entrambi i capiscorta che i convogli sono stati
localizzati da ricognitori britannici, i quali ne hanno informato il Comando di
Malta.
Dopo le 19, poco
prima del tramonto, il convoglio «Odero» viene attaccato trenta miglia a sudest
(oppure ad ovest) di Pantelleria da due bombardieri Bristol Blenheim (altra
fonte parla di Fairey Swordfish dell’830th Squadron della Fleet
Air Arm) che si avvicinano volando bassissimi, a soli 15 metri dalla superficie
del mare. Mentre la reazione dell’armamento contraereo dei mercantili è
debolissima, quasi inconsistente, Folgore
ed Alpino aprono subito un violento
fuoco contraereo, ma i due aerei superano questo “sbarramento”, passano tra le
due colonne di navi ed attaccano uno il Preussen
e l’altro il Nicolò Odero.
Quest’ultimo esce quasi indenne dall’attacco, perché l’intenso tiro del Folgore impedisce al Blenheim di
completare la manovra d’attacco: il velivolo, che forse viene anche colpito e
danneggiato, sgancia le sue bombe che però cadono tutte in mare accanto al
piroscafo, eccetto una che colpisce di striscio l’Odero senza scoppiare, rimbalzando in mare. Non ha altrettanta
fortuna il Preussen: in questo caso,
il Blenheim riesce a completare la manovra d’attacco e colpisce la nave tedesca
con diverse bombe, scatenando un incendio che diviene rapidamente
incontrollabile. Equipaggio e truppe imbarcate si gettano in mare e si
allontanano a nuoto, e dopo un quarto d’ora il Preussen esplode.
Muoiono 180 uomini
dei 440 che si trovavano sul Preussen;
Euro e Fulmine vengono distaccati dal caposcorta per salvare i naufraghi.
Le due unità recuperano dal mare 260 uomini, che portano poi a Porto Empedocle.
Il marinaio Mario
Esposito (21 anni, da Napoli) dell’Euro
riceverà la Medaglia di Bronzo al Valor Militare per aver recuperato una
cassetta con documenti segreti abbandonata su un’imbarcazione del Preussen («Imbarcato su cacciatorpediniere, di scorta a convoglio, durante le operazioni di salvataggio del
personale di un piroscafo alleato da aerei nemici, si lanciava spontaneamente
in mare, dando prova di elevato senso del dovere, per raggiungere
un’imbarcazione, sulla quale trovavasi una cassetta con documenti segreti e,
recuperatala, la portava, a nuoto, a bordo dell’unità. Con la sua iniziativa,
improntata a sereno coraggio ed audacia, riusciva a porre in salvo, presso i
camerati germanici, i preziosi documenti»).
La scorta aerea – due
Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero”, che incrociavano a proravia del convoglio
a circa 200 metri di quota per vigilanza antisommergibili, e due aerei da
caccia – non sembra essere intervenuta contro i due velivoli nemici, il che
porta il caposcorta a supporre che non li abbia visti a causa della quota da essa
tenuta, inadeguata ad un tempestivo intervento.
Poco dopo l’attacco
che affonda il Preussen, anche il
gruppo formato da Brarena e Fuciliere, che non ha ancora raggiungo
il convoglio «Odero», viene ripetutamente attaccato da aerei: la Brarena viene colpita ed immobilizzata;
dopo un inutile tentativo, da parte del Fuciliere, dapprima di rimorchiarla verso Lampedusa e poi di
finirla a cannonate, viene abbandonata alla deriva (affonderà definitivamente
dopo alcuni giorni).
Il resto del
convoglio raggiungerà Tripoli alle 17 del 23 luglio.
16 agosto 1941
L’Euro, i cacciatorpediniere Dardo e Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè) e le
torpediniere Procione, Pegaso e Giuseppe Sirtori salpano
da Napoli per Tripoli alle 00.30, scortando un convoglio composto dai
piroscafi Nicolò Odero, Maddalena Odero e Caffaro, dalla nave cisterna Minatitlan e dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo.
Alle 9.13 il
sommergibile olandese O 23 (tenente
di vascello Gerardus Bernardus Michael Van Erkel) avvista il convoglio, che
procede con rotta 212° a dieci nodi di velocità, a 10 miglia per 057°, ed alle
10.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a sudovest di Capri), lancia due siluri
da cinque miglia per poi scendere subito a 40 metri. Nessuna delle armi
colpisce, ma dopo undici minuti alcune unità della scorta si portano al
contrattacco e lanciano, fino alle 13.30, un centinaio di bombe di profondità.
L’O 23 evita danni scendendo a
95 metri; terminata la caccia, alcune unità continuano a lanciare una carica di
profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio
il convoglio, mentre procede a 9 nodi a sud di Pantelleria, viene avvistato da
ricognitori nemici.
Alle 20.45 (o 20.47),
17 minuti dopo che la scorta aerea ha lasciato le navi per rientrare alle basi,
il convoglio viene attaccato da aerosiluranti britannici: due sezioni di due
aerei ciascuna, provenienti dai fianchi, appaiono ai lati del convoglio,
defilando lungo i mercantili e sganciando i loro siluri da poca distanza. Le
navi della scorta reagiscono con opportune manovre, l’apertura del fuoco (sia
con le artiglierie che con le mitragliere) e l’emissione di cortine nebbiogene
per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro
siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche all’azione della scorta (e
soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che disorientano gli ultimi
aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero, immobilizzandolo. Il piroscafo danneggiato
dev’essere preso a rimorchio della Pegaso,
assistito dalla Sirtori; viene
portato fino in un’insenatura sulla costa di Lampedusa, ma qui il piroscafo,
colpito ancora da bombe d’aereo, esplode e trascina nella sua fine anche la
cannoniera Maggiore Macchi della
Guardia di Finanza, inviata a prestargli assistenza.
Il resto del
convoglio prosegue per Tripoli.
19 agosto 1941
Verso le 15.30 il
sommergibile britannico P 32 (tenente
di vascello David Anthony Bail Abdy), in agguato a quota periscopica fuori
Tripoli, avvista il convoglio di cui fa parte l’Euro. Il P 32 scende
a 15 metri e si avvicina ad elevata velocità, preparandosi ad attaccare, ma
verso le 15.40, mentre sta tornando a quota periscopica, il sommergibile viene
scosso da un’esplosione ed affonda, adagiandosi sul fondale a 60 metri di
profondità.
L’esplosione viene
notata anche dalle navi del convoglio italiano, ormai in arrivo a Tripoli. Un
MAS inviato sul posto dalla base libica recupera due sopravvissuti (gli unici
superstiti su 34 membri dell’equipaggio), che sono fuoriusciti dal relitto del
sommergibile attraverso il portello della torretta: uno dei due è il comandante
Abdy. Un terzo membro dell’equipaggio è annegato nel tentativo di fuoriuscire,
mentre di parecchi altri uomini del P 32,
che hanno tentato la fuoriuscita dal portello d’emergenza del locale motori,
non si saprà più nulla.
Sul momento si
ritiene che il P 32 sia
saltato sulle mine dei campi minati posti a difesa del porto, mentre un
successivo esame del relitto mostrerà che probabilmente il battello è rimasto
vittima dell’esplosione accidentale di uno dei suoi stessi siluri.
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 17.30.
Alle 15 Euro, Freccia (caposcorta), Dardo e
Procione ripartono da Tripoli per
scortare in Italia le motonavi Rialto,
Gritti, Barbaro, Pisani e Venier.
21 agosto 1941
Alle due di
notte Euro e Rialto, separatisi dal resto del
convoglio, entrano a Palermo. Le altre navi raggiungono Napoli alle 8.
26 agosto 1941
L’Euro, le torpediniere Procione, Orsa, Clio ed
il cacciatorpediniere Alfredo Oriani (caposcorta, capitano di
fregata Vittorio Chinigò) salpano da Napoli alle 5.30 scortando i
piroscafi Ernesto, Aquitania e Bainsizza, le motonavi Col di Lana e Riv e la nave cisterna Pozarica, dirette a Tripoli.
Da Trapani esce per
rinforzare la scorta anche la Pegaso.
27 agosto 1941
Alle 6.30 il
sommergibile britannico Urge (tenente
di vascello Edward Philip Tomkinson) avvista il convoglio italiano, ed alle
6.42, in posizione 38°11’ N e 12°07’ E (una decina di miglia a nord di
Marettimo), lancia quattro siluri contro uno dei mercantili (quello di testa
della colonna più vicina; sono nella “linea di tiro” anche la nave di testa
della colonna più lontana e la Pozarica),
da 4115 metri di distanza. Uno dei siluri, quello nel tubo numero 3, rimane
però bloccato per metà dentro e per metà fuori dal tubo; l’Urge finisce così con l’affiorare involontariamente in
superficie.
Alle 6.50 (ora
italiana), poco dopo che il convoglio ha superato Punta Mugnone (Trapani), l’Aquitania viene colpito.
Sull’Urge, intanto, l’equipaggio ripristina
però l’assetto, ed a questo punto il siluro esce dal tubo; l’Urge torna ad immergersi
rapidamente, mentre la Clio (distante
2740 metri), che l’ha visto affiorare, gli si dirige incontro. Anche un
idrovolante CANT Z. 501 della 144a Squadriglia della Regia
Aeronautica, di scorta al convoglio, sgancia una bomba contro l’Urge,
precedendo l’arrivo della Clio;
quest’ultima giunge sul posto quando l’attaccante si è ormai immerso, e getta
in tutto una dozzina di bombe di profondità. Anche la Procione inverte la rotta e partecipa al contrattacco,
lanciando sette bombe di profondità. L’Urge,
benché la Clio ritenga di
averlo certamente danneggiato se non affondato, si ritira verso nordovest senza
subire danni.
Preso a rimorchio
dapprima dall’Orsa e poi dai
rimorchiatori Marsigli e Montecristo (con la scorta
della Clio), l’Aquitania potrà essere condotto in
salvo a Trapani, dove giungerà alle 20.45.
Il resto del
convoglio prosegue nella navigazione.
29 agosto 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 7.45.
Alle 18.30 l’Euro ne riparte insieme all’Oriani (caposcorta) ed alle
torpediniere Orsa, Calliope e Pegaso, scortando un convoglio formato dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo, dai piroscafi Caffaro e Nicolò
Odero, dalla nave cisterna Minatitlan
e dal dragamine ausiliario DM 6
Eritrea.
31 agosto 1941
Orsa e Marin Sanudo, separatesi dal convoglio,
raggiungono Trapani alle 11.45.
L’Euro in una vecchia cartolina del cantiere di Riva Trigoso (da www3.comune.sestri-levante.ge.it) |
1° settembre 1941
Il resto del
convoglio giunge a Napoli alle 12.30.
17 settembre 1941
L’Euro lascia Napoli alle cinque del
mattino, insieme a Freccia, Folgore (caposcorta) e Dardo, per scortare a Tripoli un
convoglio («Caterina») formato dal piroscafo Caterina, dalle motonavi Marin
Sanudo e Col di Lana e
dalla nave cisterna Minatitlan.
18 settembre 1941
Alle quattro del
mattino il convoglio, mentre naviga sulle rotte interne di Favignana, viene attaccato
da aerosiluranti britannici a tre miglia da Marsala. Le navi della scorta, come
al solito, cercano di nascondere i mercantili con cortine nebbiogene ed aprono
il fuoco con l’armamento contraereo; data la vicinanza della costa, anche le
batterie di terra sparano contro gli aerei. Uno degli attaccanti viene
abbattuto, ma un siluro colpisce la Col
di Lana, che viene rimorchiata a Trapani dai rimorchiatori Liguria e Montecristo, scortati dal Dardo.
In serata, il
convoglio viene nuovamente attaccato da aerosiluranti, decollati a Malta dopo
il tramonto; questa volta, però, le abbondanti cortine nebbiogene emesse dalle
navi scorta riescono a frustrare l’attacco.
19 settembre 1941
In mattinata si
unisce alla scorta il cacciatorpediniere Vincenzo
Gioberti, proveniente da Tripoli. Qui
il convoglio giunge alle 12.30 (o 17.30).
20 settembre 1941
Euro, Freccia (caposcorta, capitano di
fregata Giorgio Ghè), Folgore e Gioberti lasciano Tripoli per Napoli
alle 20.20, scortando i piroscafi Tembien, Giulia, Nirvo e Bainsizza,
seguendo la rotta di ponente.
21 settembre 1941
Alle 19.45, dopo il
tramonto, il convoglio viene attaccato a sorpresa da due bombardieri; il Tembien viene colpito. L’Euro riceve ordine dal caposcorta
di avvicinarsi alla nave danneggiata per prestarle assistenza, mentre il resto
del convoglio prosegue.
Giunto nei pressi
del Tembien, l’Euro vede che sono già in mare tre
imbarcazioni con naufraghi, che hanno inopinatamente abbandonato la nave;
avvicinate una dopo l’altra le prime due, recupera da esse 38 naufraghi, tra
cui dieci feriti (tre gravi e sette lievi). L’Euro manovra poi per accostare la terza lancia, ma mentre le
si avvicina viene attaccato da un aereo, che lo mitraglia sorvolandolo a volo
radente, ed al contempo avvista sulla sinistra altri due velivoli, che si
avvicinano molto bassi sull’acqua per attaccare: il cacciatorpediniere accosta
rapidamente e si allontana a tutta forza per vanificare l’attacco, poi ritorna
verso il Tembien, che non è
ancora riuscito ad avvicinare. Avvicinandosi al piroscafo, l’Euro nota che esso è ancora in
moto; il cacciatorpediniere si mette a cercare la terza imbarcazione,
precedentemente avvistata in mare, ma non ne trova traccia. Vedendo che
il Tembien dirige verso
nord, il comandante dell’Euro rinuncia
a cercarla ulteriormente (verrà inviata a cercarla, più tardi, la nave
ospedale Arno) e – alle 22 –
raggiunge il piroscafo, ordinandogli di seguirlo. Da bordo rispondono che la
nave è rimasta senza bussola.
22 settembre 1941
Alle 00.06 Euro e Tembien raggiungono il convoglio, ed il Tembien riassume il suo posto in formazione. Alle 7.30, su
ordine del caposcorta, il Tembien lascia
nuovamente il convoglio, sempre scortato dall’Euro (per ordine del caposcorta), e dirige verso Pantelleria. In
prossimità del porto dell’isola, l’Euro trasborda
sul Tembien i 28 naufraghi
illesi recuperati in precedenza, dopo di che sbarca i 10 feriti a Pantelleria.
Subito dopo, l’Euro dirige per
ricongiungersi al convoglio, mentre ad assumere la scorta del Tembien (che arriverà a Trapani alle 17)
è il Gioberti. (Per altra fonte
il Tembien sarebbe invece
giunto a Napoli con le altre navi, alle 17.30 del 23 settembre.)
23 settembre 1941
L’Euro ed il resto del convoglio giungono
a Napoli alle 17.30.
2 ottobre 1941
L’Euro parte da Napoli per Tripoli
alle 22.30, insieme ai cacciatorpediniere Antonio Da Noli (capitano di fregata Luigi Cei Martini,
caposcorta), Vincenzo Gioberti ed Antoniotto Usodimare,
scortando un convoglio composto dalle motonavi Vettor Pisani, Rialto, Fabio Filzi e Sebastiano Venier, italiane, Ankara e Reichenfels, tedesche. In tutto le navi del convoglio trasportano
828 veicoli, 12.110 tonnellate di materiali vari, provviste e munizioni, 3162
tonnellate di carburante e 1060 uomini: circa metà della loro portata, per
frazionare il carico tra più navi in modo da ridurre le perdite nel caso
dell’affondamento di una di esse.
Il convoglio,
denominato «Pisani», segue la rotta di levante, per lo stretto di Messina ed ad
est di Malta (a circa 90 miglia dall’isola, perché la recente introduzione dei
bombardieri ed aerosiluranti Vickers Wellington, dotati di maggiore autonomia
dei Fairey Swordfish ed Albacore sino ad ora impiegati, rende inutile viaggiare
a distanza maggiore: in tali condizioni, allora, tanto vale viaggiare più
vicini a Malta, per ridurre la durata della traversata e prolungare il tempo in
cui la caccia proveniente dalla Sicilia può tenere il convoglio sotto la
propria protezione).
La velocità del
convoglio dovrebbe essere di 14 nodi, ma il Reichenfels ha problemi di macchina che costringono a ridurla
a 10 nodi, che più avanti è possibile portare a 13.
4 ottobre 1941
Alle 14 il Da Noli ordina a Rialto e Reichenfels di scambiarsi di posto nella formazione.
Nelle giornate del 3
e 4 ottobre, di giorno, il convoglio fruisce della scorta aerea di bombardieri
Savoia Marchetti SM. 79 "Sparviero" della Regia Aeronautica e di
caccia Messerschmitt della Luftwaffe, ma poco dopo le dieci del mattino del 4
ottobre viene avvistato da ricognitori britannici provenienti da Malta, che
informano subito i propri comandi.
Supermarina
intercetta i segnali di scoperta lanciati dai ricognitori, e richiede a
Superaereo di sottoporre Malta, in serata, ad un violento bombardamento, così
da impedire che gli aerei destinati ad attaccare il convoglio nottetempo
possano decollare; il bombardamento avrà luogo, ma per “ragioni di forza
maggiore” non sarà intenso come richiesto da Supermarina, così gli aerei di
Malta possono decollare egualmente.
Dopo
l’intercettazione del segnale di scoperta, Supermarina ne mette al corrente
anche il caposcorta, che dopo il tramonto fa coprire tutto il convoglio con
cortine nebbiogene, così che i ricognitori nemici non lo vedano accostare, poi
modifica la rotta nel tentativo di ingannare gli aerei britannici.
Il provvedimento sembra
avere un temporaneo successo, ma tra l’una e le due di notte del 5 ottobre i
ricognitori nemici ritrovano il convoglio.
5 ottobre 1941
Alle 00.45, un
sommergibile attacca infruttuosamente il convoglio e l’Usodimare contrattacca, ritenendo di averlo danneggiato.
Poco dopo le 2.52 del
5 ottobre ha inizio un attacco aereo; viene dato l’allarme, ed i
cacciatorpediniere della scorta riescono ad occultare i mercantili con cortine
di nebbia. L’Euro, che procede in
coda al convoglio chiudendo la formazione, segnala la presenza degli aerei con
una breve raffica di mitragliera (alle 2.30, secondo il rapporto del regio
commissario della Rialto). Non appena
gli aerei si avvicinano, tutte le navi del convoglio aprono un violento fuoco
di sbarramento, che costringe gli attaccanti a ritirarsi. La navigazione
prosegue, con vigilanza rafforzata.
Alle 3.52, una
settantina di miglia a nord di Misurata (per altra fonte, 80 miglia a
nord-nord-est di tale città), ha inizio un secondo attacco, da parte di quattro
aerosiluranti Fairey Swordfish dell’830th Squadron della Fleet
Air Arm decollati da Malta. Il caposcorta fa emettere nuovamente cortine
fumogene, ma si accorge che, con il vento che spira dai settori poppieri, la
cortina non è efficace; risale quindi il convoglio su rotta invertita ed
emettendo fumo, così riuscendo ad occultare tutto il lato sinistro. Il lato
dritto, quello opposto alla luna, resta però scoperto; e da quel lato attaccano
gli aerosiluranti, che alle 3.57 colpiscono la Rialto con uno o due siluri. Uno degli aerei viene abbattuto,
ma la motonave rimane immobilizzata ed inizia a sbandare fortemente. Il caposcorta ordina
all’Euro di assisterla; poco dopo, quest’ultimo
risponde di essere ancora sorvolato da aerei, pertanto il caposcorta distacca
anche il Gioberti con l’ordine
di sostituire l’Euro, in modo che per
breve tempo rimangano sul posto due cacciatorpediniere, dopo di che rimarrà
solo quello dei due dotato di miglio armamento contraereo.
Fermatosi ad una
certa distanza dalla Rialto, che è
fortemente appoppata e sbandata di 35° sulla sinistra, l’Euro viene raggiunto dalla scialuppa di sinistra della motonave, e
ne prende a bordo gli occupanti. La scialuppa di dritta non può fare lo stesso,
perché è rimasta senza remi; pertanto, mezz’ora dopo l’abbandono della nave, i
suoi occupanti attraggono l’attenzione dell’Euro
facendo delle segnalazioni con una piccola lampada tascabile, e gli
gridano di avvicinarsi. Accortosi della presenza della lancia, l’Euro le si dirige lentamente incontro;
dato che per effetto del mare il cacciatorpediniere si trova sottovento
rispetto alla scialuppa, uno dei suoi occupanti, il capitano del Genio Navale
Mario Maccarone (regio commissario della Rialto),
gli chiede di portarsi sopravvento. Così viene fatto, dopo di che l’Euro si ferma con la scialuppa alla sua
sinistra, le si accosta, cala una corda che viene fissata alla fragile
imbarcazione e prende a bordo i naufraghi. Questi salgono uno per volta; per
ultimo, il regio commissario Maccarone.
Dal mare si sentono
le grida di aiuto dei naufraghi in acqua; diversi uomini nuotano verso l’Euro, dal quale vengono lanciate loro
delle corde, ma nell’oscurità i naufraghi sfiniti non riescono a vederle e vengono
gettati dalle onde contro la murata del cacciatorpediniere, e poi trascinati più
lontano.
Il regio commissario
Maccarone, pur sofferente da varie contusioni e da vecchi reumatismi (è bagnato
fradicio), chiede ed ottiene al comandante dell’Euro di mettere a mare un battellino per la ricerca dei
naufraghi, offrendosi di guidarlo e chiedendo volontari per aiutarlo; tre
marinai dell’Euro si fanno
avanti, offrendosi due di remare ed uno di assistere nella ricerca.
Guidato dalle
altissime ed incessanti grida dei naufraghi, il battellino coi quattro uomini
affronta i cavalloni – lo stato del mare è proibitivo – e riesce a raggiungere
diverse persone che lottano in acqua. Parte di esse possono essere tirate
faticosamente a bordo, mentre altre rimangono aggrappate ai bordi. L’acqua
allaga rapidamente l’imbarcazione, che in breve si trova a dover usare i remi
solo per tenere la prua al mare, senza nemmeno pensare di poter avanzare.
Il Gioberti, intento anch’esso a recuperare
naufraghi, si avvicina al battellino, e Maccarone grida per farsi notare e
gli chiede di portarsi sopravvento, per coprirli e permettere così di manovrare,
visto che altrimenti lo stato del mare preclude ogni manovra della piccola
imbarcazione. I naufraghi vengono trasferiti sul Gioberti (uno di essi è ferito, e viene imbragato con cime per
essere trasbordato), dopo di che il suo comandante ordina a Maccarone di
tornare sull’Euro; è quasi l’alba.
Il battellino
allagato affronta di nuovo il mare, il cui stato seguita a peggiorare; si sentono
ancora grida lontane, ma Maccarone non trova nessun naufrago sulla sua rotta o
nelle vicinanze.
Tornato sull’Euro, Maccarone riferisce al comandante
dell’esito del tentativo ed aiuta poi l’equipaggio a recuperare altri
sopravvissuti. Infine giunge dal Da
Noli l’ordine urgente che l’Euro si
riunisca subito al convoglio, lasciando il Gioberti ad ultimare il recupero dei naufraghi; quest’ultimo
dice all’Euro di raggiungere la
propria motobarca, ancora in mare per recuperare naufraghi, e trasbordarvi il
regio commissario Maccarone ed il comandante civile della Rialto. Così viene fatto, ed insieme ai
due scendono sulla motobarca anche il secondo ufficiale della Rialto, Ramiro Magris, il suo direttore
di macchina Antonio Zanin ed il commissario al carico Zorzi.
L’Euro si riunisce dunque al convoglio.
Ogni tentativo di salvare la Rialto
sarà vano; la motonave affonderà infine alle dieci del mattino, nel punto
33°30’ N e 15°33’ E. Dei 165 uomini imbarcati, complessivamente, 145 sono stati
salvati da Euro e Gioberti. Nel suo rapporto, il
commissario Maccarone esprimerà il proprio ringraziamento nei confronti di
comandanti ed equipaggi di Euro e Gioberti, che si sono prodigati con
abnegazione per salvare i naufraghi e dare loro assistenza.
Il resto del
convoglio, proseguito dopo il siluramento, viene raggiunto dalle
torpediniere Partenope (dopo
rastrello antisommergibile) e Calliope (per
pilotaggio e rinforzo alla scorta) inviate da Tripoli, ed arriva nel porto
libico alle 15 (o 15.30) dello stesso giorno.
6 ottobre 1941
L’Euro lascia Tripoli per Napoli alle
12.45, scortando il piroscafo lento Una,
scarico.
8 ottobre 1941
Alle 18.38, in
posizione 38°12’ N e 11°11’ E (una cinquantina di miglia ad ovest-nord-ovest di
Marettimo), il sommergibile britannico Thorn
(capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk) avvista una nave mercantile di
circa 3000 tsl, scortata da un cacciatorpediniere “classe Sauro o Sella”, a 7300 metri di distanza, su
rilevamento 120°. Si tratta probabilmente dell’Euro (la sagoma della classe Turbine è piuttosto somigliante a
quella delle classi Sauro e Sella) e
dell’Una. Il mercantile procede a 8
nodi su rotta 055°, il cacciatorpediniere procede a zig zag a proravia di
quest’ultimo, ma poco dopo l’avvistamento cessa lo zigzagamento ed assume la
stessa rotta del piroscafo. Il Thorn
manovra per attaccare, ed alle 18.56 lancia due siluri contro il
cacciatorpediniere da 5500 metri, seguiti due minuti dopo da altri due siluri
contro il mercantile, da analoga distanza. Nessuno dei siluri va a segno, e le
due navi proseguono per la propria rotta, senza essersi apparentemente accorte
dell’attacco.
9 ottobre 1941
Euro
ed Una arrivano a Napoli alle 23.30,
senza aver incontrato contrasto durante la navigazione.
10 ottobre 1941
Assume il comando dell’Euro, avvicendando il capitano di corvetta Morisiani, il parigrado Giuseppe Cigala Fulgosi (31 anni, da Piacenza), che manterrà tale ruolo per un anno. (Per altra fonte, Cigala Fulgosi avrebbe assunto il comando dell'Euro già nel luglio 1941).
7 novembre 1941
Alle cinque del
mattino l’Euro (capitano di corvetta
Giuseppe Cigala Fulgosi) salpa da Napoli insieme ai cacciatorpediniere Maestrale (caposcorta, capitano di
vascello Ugo Bisciani) e Fulmine (capitano
di corvetta Mario Milano), per scortare a Tripoli il convoglio «Beta» (poi
divenuto meglio noto come “Duisburg”), formato in origine dai piroscafi
tedeschi Duisburg (capitano di lungo
corso Arno Ostermeier, capoconvoglio) e San Marco (capitano di lungo corso Paul Ossemberg),
dall’italiano Sagitta (capitano
di lungo corso Domenico Ingegneri), dalla motonave Maria (capitano di lungo corso Angelo Pogliani) e dalla grande
e moderna nave cisterna Minatitlan (capitano
di lungo corso Guido Incagliati). Le prime navi iniziano ad uscire dal porto
alle 2.20, ma un attacco aereo scatenatosi su Napoli proprio mentre i
bastimenti cominciano la manovra di partenza (il Duisburg viene anche illuminato e mitragliato, pur senza subire
danni) rallentano l’uscita, così che solo dopo le 6.30 il convoglio è formato
fuori del porto, ed ha inizio la navigazione verso sud. Il convoglio viene
seguito a distanza dalla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (caposquadriglia
capitano di vascello Ferrante Capponi, del Granatiere),
con Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino.
Alle nove del
mattino, giunto il convoglio nelle acque della Sicilia, Euro, Fulmine e Maestrale ricevono ordine dal Comando in
Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Napoli di lasciare il convoglio ed
entrare a Messina (dove dirigono a 17 nodi) per rifornirsi, venendo sostituiti
nella scorta diretta dalla XIII Squadriglia.
8 novembre 1941
Nelle prime ore della
notte Euro, Fulmine e Maestrale, una
volta rifornitisi, lasciano Messina e tornano ad assumere la loro posizione di
scorta, mentre è la XIII Squadriglia ad entrare a Messina per rifornirsi.
Alle 3.30 escono da
Messina le altre navi che dovranno far parte del convoglio «Beta»: il piroscafo Rina Corrado (capitano di lungo
corso Guglielmo Schettini) e la pirocisterna Conte di Misurata (capitano di lungo corso Mario Penco),
scortati dai cacciatorpediniere Grecale (capitano
di fregata Giovanni Di Gropello), Libeccio
(capitano di fregata Corrado Tagliamonte) ed Alfredo Oriani (capitano
di fregata Vittorio Chinigò).
La riunione tra i due
gruppi del convoglio avviene alle 4.30, a sud dello stretto di Messina; si
forma un unico convoglio di sette mercantili scortati da Euro, Fulmine, Maestrale, Grecale, Libeccio ed Oriani,
mentre i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, dopo essersi
riforniti a Messina, si uniscono alla III Divisione (incrociatori pesanti Trento e Trieste, nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Bruno
Brivonesi), uscita in mare per fornire scorta indiretta al convoglio.
Durante la mattina
vengono avvistati alcuni aerei nemici diretti verso ovest: vanno ad attaccare
un altro convoglio diretto in Libia, il convoglio “Pegaso”.
Alle 16.45, con
l’arrivo della III Divisione (che raggiunge il convoglio in posizione 37°40’ N
e 15°57’ E, a 19 miglia per 155° da Capo dell’Armi, e si posizionò a poppavia
dello stesso) la formazione è completa.
Il convoglio procede
su tre colonne: destra, composta da San
Marco e Conte di Misurata preceduti
dal Maestrale e seguiti
dall’Oriani; centrale, composta
da Duisburg, Sagitta e Rina Corrado; sinistra, formata da Minatitlan e Maria precedute
dall’Euro e seguite dal Grecale. Il Fulmine è posizionato a dritta della terza colonna, il Libeccio a sinistra della prima
colonna. Le navi procedono a 8 nodi di velocità.
In tutto i sette
mercantili trasportano 34.473 tonnellate di materiali, 389 autoveicoli e 243
uomini. Vi è anche – ma solo di giorno – una scorta aerea per la quale sono
mobilitati in tutto 64 aerei (58 dell’Armata Aerea e 6 idrovolanti
antisommergibili), mantenendo sempre otto velivoli costantemente in volo sul
cielo del convoglio.
Dalle 7.30 fino alle
17.30, sul cielo del convoglio e della III Divisione si alternano dieci idrovolanti
CANT Z. 506 della Ricognizione Marittima, due bombardieri Savoia Marchetti SM.
79 “Sparviero” e 66 caccia (34 Macchi MC 200 del 54° Stormo della Regia
Aeronautica, due FIAT CR. 42 del medesimo stormo, 22 CR. 42 del 23° Gruppo e
otto Messerschmitt Bf 110 della 9° Squadriglia del 3° Gruppo del 26° Stormo da
Caccia della Luftwaffe). I caccia si alternano sul convoglio in numero di
quattro per volta: una coppia ad alta quota per contrastare eventuali attacchi
di bombardieri, e una
coppia a 1000 metri
di quota per contrastare attacchi a volo radente e di aerosiluranti.
Tre coppie di SM. 79
decollano dalla Sicilia ed effettuano ricognizione marittima verso sudest;
altri aerei dell’Aeronautica della Sicilia sono incaricati di effettuare
missioni di ricognizione e bombardamento sul porto della Valletta.
Ad ulteriore
protezione del convoglio, Supermarina ha inviato nelle acque di Malta, dove si
è da poco dislocata una formazione navale britannica – la Forza K – i
sommergibili Delfino e Luigi Settembrini, con compiti
esplorativi ed offensivi nei confronti di unità britanniche in partenza
dall’isola.
L’incrociatore
pesante Gorizia (anch’esso
appartenente alla III Divisione) ed i cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere della XII Squadriglia
sono a Messina, pronti a muovere in due ore qualora se ne manifestasse la
necessità.
I
mercantili del convoglio “Duisburg” fotografati da bordo dell’Euro l’8 novembre 1941. La nave cisterna
a sinistra nella seconda immagine è la Minatitlan
(dal saggio di Francesco Mattesini su www.societaitalianastoriamilitare.org)
Una volta in franchia
dello stretto di Messina (la riunione avviene subito dopo il suo superamento da
parte del primo gruppo di navi), il convoglio mette la prua verso est (rotta
90°), per imboccare la rotta che passa ad est di Malta, al largo della costa
occidentale greca (così da restare fuori dal raggio d’azione degli
aerosiluranti di Malta, stimato in 190 miglia), nonché per ingannare i
britannici circa la destinazione del convoglio, facendo credere che questa sia
un porto della Grecia oppure Bengasi. Durante la navigazione verso est,
inoltre, le unità effettuano diverse accostate verso ovest per confondere le
idee ad eventuali ricognitori circa la loro rotte; ciò non basta ad impedire
che, nel pomeriggio dell’8 novembre – alle 16.45, poco prima del tramonto,
secondo il resoconto italiano; già alle 13.55, secondo quello britannico – il
convoglio (ma non la III Divisione) venga comunque localizzato, in posizione
37°38’ N e 17°16’ E (40 miglia ad est di Capo Spartivento Calabro), da un
ricognitore Martin Maryland della Royal Air Force (69th
Reconnaissance Squadron), decollato da Luqa (Malta) e pilotato dal tenente
colonnello John Noel Dowland.
L’Euro avvista il ricognitore da 5000
metri di distanza, e lo segnala subito al Maestrale,
con il messaggio ad ultracorte «Aerei in vista Rb 200 – quota superiore quota
3.000», nonché a tutte le unità in navigazione ed a Supermarina, lanciando
all’aria il segnale radio di scoperta. In quel momento (16.40 per le fonti
italiane) sul cielo del convoglio sono ancora presenti diversi aerei italiani e
tedeschi; le navi della scorta fanno segnali luminosi alla scorta aerea – con
cui non è possibile comunicare via radio – per richiedere che attacchi il
velivolo nemico, ma gli aerei della scorta non fanno nulla (per altra fonte,
invece, le segnalazioni previste per avvisare gli aerei della presenza del
ricognitore non vengono effettuate, “per grave disservizio”). (Contrariamente a
molte altre occasioni, il servizio di intercettazione e decrittazione
britannico “ULTRA” non ha alcun ruolo nelle vicende del convoglio «Beta»). Il
Maryland si trattiene in vista del convoglio solo il tempo strettamente
necessario a rilevarne gli elementi del moto, che comunica prontamente a Malta
(«Un convoglio di 6 navi mercantili e 4 cacciatorpediniere diretto verso
levante, nel punto 40 miglia per 95° da Capo Spartivento», anche se la
velocità, nella realtà 9 nodi, è sovrastimata in 10-12 nodi). L’orientamento
verso est della rotta del convoglio (che vira verso sud solo più tardi) non
inganna i comandi britannici: un convoglio tanto grande non può essere diretto
né in Grecia né a Bengasi (porto dalle capacità ricettive insufficienti).
L’unica destinazione plausibile è Tripoli, e le navi italiane cercheranno di
raggiungerla tenendosi al di fuori del raggio della portata degli
aerosiluranti: il che permette ai britannici di intuire che il convoglio dovrà
passare circa 200 miglia ad est di Malta, per poi puntare verso un porto della
Libia.
Alle 17.30, di
conseguenza, salpa da Malta la Forza K britannica, formata dagli incrociatori
leggeri Aurora (capitano di
vascello William Gladstone Agnew, comandante della Forza K) e Penelope (capitano di vascello Angus
Dacres Nicholl) e dai cacciatorpediniere Lance (capitano di corvetta Ralph William Frank Northcott)
e Lively (capitano di
corvetta William Frederick Eyre Hussey): una forza costituita appositamente per
intercettare e distruggere i convogli italiani diretti in Libia. La partenza
della Forza K è tanto fulminea che il comandante del Penelope, capitano di vascello Nicholl, deve raggiungere la sua
nave con un’imbarcazione, in quanto l’incrociatore sta già manovrando per
uscire dal porto.
La ricognizione aerea
italiana (due CANT Z. 1007 dell’Aeronautica dell’Egeo) e tedesca (due Junkers
Ju 88 del X Fliegerkorps) non avvista le navi britanniche.
Anche un bombardiere
Wellington munito di radar (del 211st Squadron della RAF) ed
otto aerosiluranti Fairey Swordfish (dell’830th Squadron della
Fleet Air Arm, di base a Hal Far) decollano da Malta per rintracciare il
convoglio (il primo per seguirlo e mantenere il contatto con esso, i secondi
per attaccarlo), ma non riescono a trovarlo: il Wellington per malfunzionamento
della radio e del radar, gli Swordfish perché il convoglio segue appunto una
rotta che lo tiene al di fuori del loro raggio d’azione.
Niente di tutto ciò è
a conoscenza delle navi del convoglio «Beta», che proseguono regolarmente per
la loro rotta. Il tempo è buono: mare calmo, nubi leggere e vento debole, forza
3. La scorta aerea viene ritirata al tramonto.
Tra le 18 e le 18.30,
mentre la III Divisione Navale e la XIII Squadriglia Cacciatorpediniere
zigzagano sulla sinistra del convoglio, quest’ultimo manovra per passare dalla
formazione su tre colonne a quella su due colonne, distanziate di 1000-1500
metri. La nuova formazione è così composta: a destra, nell’ordine, Duisburg, San Marco e Conte
di Misurata; a sinistra, nell’ordine, Minatitlan, Maria e Sagitta, mentre il Rina Corrado procede più a poppavia
degli altri sei mercantili, in posizione centrale rispetto alle due colonne.
Tutt’intorno la scorta diretta: Maestrale in
testa al convoglio, Grecale in
coda, Euro seguito
dal Fulmine sul lato
destro, e Libeccio seguito dall’Oriani sul lato sinistro.
Fino alle 19.30 il
convoglio segue rotta 090°, poi accosta per 122°, ed alle 19.55 per 161°,
sempre per tenersi al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti.
Alle 20.45 la III
Divisione si porta a poppa del convoglio, e tra le 22 e le 24 le navi di
Brivonesi risalgono il convoglio sino a portarsi a 30° di prora a dritta
del Maestrale (distante da loro
4 km); poi, a mezzanotte, invertono la rotta a un tempo per defilare di
controbordo al convoglio.
Intanto, la Forza K
naviga verso la sua ignara preda: avendo inizialmente assunto rotta verso est,
la formazione britannica vira verso sudest subito dopo il tramonto, ed
attraversa, senza essere avvistata, la zona d’agguato del Settembrini. Le unità
britanniche sono disposte in linea di fila, con l’Aurora in testa seguito nell’ordine da Lance, Penelope e Lively,
distanziati tra loro di 750 metri.
Agnew ha già da tempo
preparato e discusso con i comandanti dipendenti un piano d’azione in caso di
attacco ad un convoglio: le navi britanniche rimarranno in linea di fila, per
evitare problemi di riconoscimento e per poter lanciare liberamente siluri;
prima di attaccare dei mercantili, la Forza K neutralizzerà le navi di scorta
presenti sul lato attaccato; nel caso altre unità di scorta dovessero apparire
durante l’attacco ai mercantili, esse diverranno immediatamente bersaglio
prioritario; l’Aurora (capofila)
manterrà ogni nave di scorta bene di prora fino ad averla posta fuori uso.
9 novembre 1941
Alle 00.39 il
convoglio viene avvistato otticamente – il radar non ha alcun ruolo di rilievo
nell’individuazione del convoglio: le navi italiane vengono avvistate perché
illuminate dalla luce lunare, il radar verrà poi impiegato nel puntamento dei
cannoni durante il combattimento – dalla Forza K. Secondo il rapporto britannico,
in quel momento le navi italiane si trovano in posizione 36°55’ N e 17°58’ E
(135 miglia a sud di Siracusa, 100 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento e
180 miglia ad est di Malta), a 5 miglia per 30° dalla Forza K (per altra fonte,
a 7 miglia per 30° dall’Aurora,
autore dell’avvistamento); la documentazione italiana indica invece il punto
dell’attacco come 37°00’ N e 18°10’ E, a circa 120 miglia dalle coste della
Calabria (altra fonte: 37°08' N e 18°09' E, circa 130 miglia a sudovest della
Calabria). Secondo Agnew, la visibilità notturna è ottimale, la luna splendente
e luminosa, e le condizioni perfette per un’intercettazione (vento forza 3 da
nord-nord-ovest, nubi leggere e calma di mare); nel suo rapporto, il caposcorta
Bisciani registra brezza moderata verso sud-est, nuvolaglia leggera e luna
scoperta, con «orizzonte ottimo nel secondo quadrante, buono nel terzo, fosco
nel quarto».
Il convoglio avanza
su rotta 170° alla velocità di 9 nodi, nella formazione su due colonne assunta
alle 18.30; la III Divisione, quale scorta indiretta, segue a quattro
chilometri a poppavia. La formazione del convoglio è sempre la stessa del
giorno precedente, con i mercantili su due colonne di tre navi ciascuna più il Rina Corrado in posizione centrale ed
arretrata, circondati dai cacciatorpediniere; Euro e Fulmine proteggono
il lato di dritta.
Qualcuna delle unità
della scorta diretta, grazie alla luna piena, avvista anche la Forza K, 3-5 km
a poppavia, ma ritiene trattarsi della III Divisione. Il Bersagliere, che avvista le navi britanniche meno di un minuto
prima che aprano il fuoco, è l’unico a capire che sono navi nemiche ed a
lanciare immediatamente il segnale di scoperta, ma già troppo tardi; il segnale
sarà ricevuto da Maestrale e Trieste proprio mentre la Forza K inizia
a sparare.
Anziché attaccare
subito il convoglio, il comandante Agnew manovra flemmaticamente per portarsi
nella posizione più favorevole all’attacco, approfittando del fatto che nessuna
nave italiana sembri accorgersi della sua presenza. La Forza K riduce la
velocità da 28 a 20 nodi ed accosta a sinistra per 350°, quindi aggira il
convoglio con una manovra che richiede 17 minuti, portandosi a poppa dritta
rispetto ad esso, di modo che i bersagli si staglino contro la chiara luce
lunare. I bersagli vengono identificati e scelti dai puntatori, i cannoni
puntati e preparati ad aprire il fuoco a colpo sicuro. L’Aurora punta l’armamento principale, asservito al radar tipo
284, sui cacciatorpediniere della scorta, ed i cannoni da 100 mm di sinistra,
asserviti al radar tipo 290, sui mercantili Alle 00.52 la Forza K avvista la
III Divisione, della cui presenza nessuno, da parte britannica, ha fino a quel
momento avuto sentore; ma ciò non modifica le intenzioni di Agnew, il quale
poco dopo conclude che le due “navi maggiori” (che sono, in effetti, il Trento ed il Trieste) ed i cacciatorpediniere che le
accompagnano debbano essere degli altri mercantili con la loro scorta. Alle
00.56 il Lively stima che
il convoglio abbia rotta 150° e velocità 8 nodi; in base ai dati del suo radar,
il Maestrale (che al
momento dell’attacco si trova al traverso a poppavia della Forza K, a sud della
stessa) dista 10.060 metri, i mercantili che lo seguono 8230 metri.
Solo alle 00.57 la
Forza K, giunta circa 5 km a sudest del convoglio, apre il fuoco sulle ignare
navi italiane da una distanza di 5200 metri, orientando il tiro con l’ausilio
dei radar tipo 284 e defilando lungo il fianco dei mercantili. Per primo spara
l’Aurora, subito imitato da Lance e Penelope.
Il tiro britannico si
abbatte per primo sui cacciatorpediniere che proteggono il lato più vicino alla
Forza K, quello di dritta: Fulmine, Grecale e, appunto, proprio l’Euro. I primi due vengono ripetutamente
centrati senza avere il tempo di poter imbastire una reazione efficace:
il Fulmine affonda dopo
pochi minuti, il Grecale rimane
alla deriva con danni gravissimi e decine di morti e di feriti gravi,
completamente fuori combattimento.
Diversa è la sorte
dell’Euro. All’1.06 vengono visti in
plancia una coppiola di proiettili illuminanti che scoppiano sul convoglio;
subito dopo, i mercantili divengono oggetto di tiro battente da parte di navi
nemiche. Il comandante Cigala Fulgosi vede due navi al suo traverso, e ne trae
l’impressione che siano quelle che stanno sparando sul convoglio: di
conseguenza, ordina di mettere in comunicazione la terza caldaia, e l’Euro inizia subito a stendere una
cortina di nebbia artificiale per cercare di occultare i mercantili. Anche Maestrale e Libeccio fanno fumo, ed il Maestrale
accosta di circa 60° a sinistra, seguito dal convoglio; l’Euro aumenta la velocità e cerca di coprire la testa del convoglio
con la sua cortina fumogena. L’Aurora
ed il Penelope fanno fuoco contro di
esso (il Penelope, in particolare,
dopo aver sparato su due piroscafi tira dall’1.20 all’1.24 su due
cacciatorpediniere che vengono visti sottrarsi al fuoco facendo fumo: uno è
certamente l’Euro); anche il Lively, dopo aver sparato le prime
cinque salve contro il Duisburg
(aprendo il fuoco all’una), sposta il suo tiro sull’Euro. All’1.10, mentre l’Euro
sta aumentando la velocità per stendere la cortina fumogena, un proiettile
esplode in mare a pochi metri dal suo lato di dritta, all’altezza della
plancia: quest’ultima viene investita da una pioggia di schegge, che colpiscono
mortalmente il capo centrale sull’aletta di dritta, che si accascia sul ponte,
feriscono il puntatore della colonnina e feriscono gravemente anche il sergente
furiere addetto ai telegrafi di macchina, Nario Aspromonti, che si abbatte sul telegrafo. Anche
Cigala Fulgosi viene ferito, ma in modo lieve; il comandante dell’Euro scampa alla morte per puro
miracolo, perché una scheggia colpisce il binocolo che porta al collo,
perforandolo. Se non l’avesse avuto, la scheggia lo avrebbe colpito in pieno
petto. Gli organi di governo rimangono indenni.
Sopra: il
comandante Cigala Fulgosi, dopo la battaglia, mostra il binocolo che gli ha
salvato la vita; sotto, particolare del binocolo con il vistoso foro causato
dalla scheggia (dal saggio di Francesco Mattesini su www.societaitalianastoriamilitare.org)
L'ordinanza del
comandante Cigala Fulgosi racconterà poi così al giornalista Vero Roberti la
drammatica scena, ricordata da Roberti nel suo libro “Con la pelle appesa a un
chiodo”: «[Il sergente furiere Aspromonti] cadde
senza lamentarsi. “Nane [nomignolo dell'ordinanza di Cigala Fulgosi] – gridò – sono ferito alla schiena, sta’
attento ai telegrafi!” Il comandante gli si avvicinò e gli disse: “Fatti
coraggio ancora per qualche minuto. Adesso mettiamo un po’ di siluri in corpo a
quegli inglesi, poi ti curerò!” Anche il comandante era ferito. Una piccola
scheggia lo aveva colpito all’orecchio. Il suo viso era macchiato di sangue e
così il cappotto e la sua sciarpa. Il sergente furiere, morente, si rivolse al
comandante e sussurrò: “Non pensi a me, comandante”. Poi, con le sue ultime
forze, urlò: “Forza Euro, viva l’Ita…». Il sergente furiere Nario Aspromonti, da Poggio Mirteto (Rieti), sopravvivrà alle gravi ferite riportate (ed anche al conflitto: si spegnerà in tarda età nel 1997) e sarà in seguito decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare per il suo comportamento, con motivazione: "Volontario di guerra già distintosi in precedenti missioni e proposto per decorazione al valore, dovendo sbarcare, alla vigilia della partenza insisteva per rimanere a bordo. In uno scontro navale notturno dava prova di calma e sprezzo del pericolo. Gravemente colpito al posto di combattimento rispondeva al suo comandante che gli rivolgeva parole di incoraggiamento: "Non pensate a me, forza EURO, Viva l'Italia". Sottoposto a gravissima operazione ripeteva di essere fiero del suo sacrificio per la sua nave e per il suo paese".
All’1.18, ritenendo
di aver portato abbastanza avanti la cortina nebbiogena e di aver così
adempiuto alla prima parte del suo compito – nascondere i mercantili –, Cigala
Fulgosi decide di passare al contrattacco. A questo scopo, l’Euro accosta a dritta (prua 220° circa),
verso il nemico, e manda in punteria l’apparecchio di punteria generale
(A.P.G.) sulle navi intraviste a proravia, che si ritiene essere nemiche; serra
le distanze fino ad appena 3-4 km, preparandosi ad attaccare. Intanto, tre o
quattro mercantili sono già stati incendiati: da bordo dell’Euro li si vede esplodere. Il comandante
Cigala Fulgosi non riesce a distinguere le sagome delle navi verso le quali si
sta dirigendo: vede soltanto due ombre più grandi e due o tre più piccole
leggermente più a sinistra. Si tratta, effettivamente, della Forza K: ma Cigala
Fulgosi è assalito dai dubbi. In serata, infatti, aveva già intravisto due
volte la III Divisione al traverso a dritta, cioè nella direzione in cui ora
vede le presunte navi nemiche; e le sagome che vede sembrano quelle di due navi
maggiori e due o tre minori, il che corrisponde alla composizione della III
Divisione e della XIII Squadriglia Cacciatorpediniere. Per giunta, Cigala
Fulgosi trova strano che, sebbene l’Euro
si stia certamente profilando distintamente sullo sfondo dei piroscafi in
fiamme, le navi che vede non stiano sparando su di lui (stanno facendo fuoco,
ma contro altri bersagli la cui identità non si riesce a capire), nonostante l’Euro disti ormai meno di 3000 metri
dall’incrociatore di testa. (Per altre fonti, l’Euro sarebbe arrivato fino a meno di 2000 metri dalle navi della
Forza K durante il suo contrattacco, riuscendo a portarsi in una posizione ideale
per lanciare i suoi siluri contro l’Aurora;
Cigala Fulgosi stava per dare l’ordine di lancio quando ricevette dal Maestrale l’ordine di portarsi sul lato
sinistro del convoglio e fu colto dal dubbio sull’identità delle navi che aveva
davanti). Tutto ciò porta il comandante dell’Euro a pensare che forse le navi che vede non siano quelle nemiche,
bensì la III Divisione, che si trovi a dritta del convoglio e che stia sparando
su un nemico che sta attaccando il convoglio da poppa: dubbio che a poco a poco
si trasforma in convinzione. (Per alcune fonti, tale errato apprezzamento
sarebbe stato influenzato anche dalla ricezione dell’ordine del caposcorta
Bisciani, diramato a tutte le unità della scorta, di radunarsi attorno al Maestrale sul lato opposto del convoglio:
sarebbe stato anche questo a portare Cigala Fulgosi a credere che il nemico si
trovasse da quella parte, e che le navi che stava per attaccare fossero quelle
di Brivonesi. Di questo però non si parla nel rapporto del comandante Cigala
Fulgosi, riportato in appendice nel volume USMM “La difesa del traffico con
l’Africa Settentrionale dall’1.10.1941 al 30.9.1942”, che invece menziona le
altre ragioni sopra descritte. La Sezione Storica dell’Ammiragliato britannico
ha commentato che l’errore di valutazione dell’Euro fu dovuto al fatto che la Marina italiana non disponeva di un
adeguato sistema di riconoscimento notturno). Temendo di stare attaccando navi
amiche, pertanto, Cigala Fulgosi abbandona l’attacco ed accosta a sinistra,
invertendo la rotta, per raggiungere il Maestrale
e gli altri cacciatorpediniere, che dirigono all’incirca verso est continuando
ad emettere fumo, inquadrati dal tiro della Forza K. Si spegne così l’unico
concreto tentativo di contrattacco da parte di un cacciatorpediniere della scorta
durante tutta la terribile notte del convoglio “Duisburg”. L’Euro mette le macchine alla massima
forza, ed all’1.35 giunge 400-500 metri di poppa agli altri tre
cacciatorpediniere rimasti intatti (Maestrale,
Libeccio e Oriani), i quali navigano grosso modo in linea di fronte.
Resti di proiettili britannici esplosi a bordo dell’Euro durante lo scontro (dal saggio di Francesco Mattesini su www.societaitalianastoriamilitare.org) |
A questo punto, salve
nemiche iniziano a cadere sul gruppo dei quattro cacciatorpediniere, che ne
vengono presto inquadrati; l’Euro
compie continue, brusche accostate, dirigendo sempre dal lato del punto in cui
è caduta l’ultima salva. Due salve, in rapida successione, centrano l’Euro: diversi proiettili cadono a bordo
o nelle immediate vicinanze della nave, crivellandola di scheggie. (Per alcune
fonti, l’Euro sarebbe stato
pesantemente bersagliato prima dal Lively
e poi dai due incrociatori circa un minuto dopo aver interrotto l’attacco per
ritornare verso il convoglio, venendo colpito in rapida successione da 6
proiettili da 152 mm, che però passano lo scafo da parte a parte senza
scoppiare, e senza così causare danni gravi). Poi, le salve smettono di cadere.
Cigala Fulgosi non riesce a distinguere niente, a causa del contrasto tra il
punto in cui bruciano i mercantili ed il resto dell’orizzonte, oltre che delle
cortine fumogene; di conseguenza, si limita a seguire gli altri cacciatorpediniere
per imitazione di manovra.
Nel frattempo,
neutralizzata parte della scorta diretta, mentre il resto di quest’ultima
brancola nel buio, alle 00.59 l’Aurora accosta
a dritta e guida la Forza K in una manovra avvolgente, una sorta di volta tonda
nella quale aggira i mercantili da ovest verso est, facendo fuoco su ognuno di
essi finché questo s’incendia od esplode. Primi ad essere colpiti sono Maria e Sagitta, i più vicini alla zona di provenienza della Forza K, poi
anche gli altri, uno dopo l’altro. Nessun trasporto è in grado di sfuggire,
data la bassa velocità massima sviluppabile; le cortine fumogene non servono a
nulla, né serve il violento e confuso fuoco di mitragliere che molti dei
mercantili – alcuni dei quali credono ancora di avere a che fare con un attacco
aereo – aprono disordinatamente. Molte delle navi, continuando a non capire se
siano sotto attacco navale od aereo, non tentano nemmeno di fuggire: Agnew
scriverà poi che sembrava che aspettassero il loro turno per essere distrutte.
Il Lance colpisce ripetutamente Maria e Sagitta (oltre al Fulmine),
mentre il Lively, che apre il
fuoco per ultimo (all’una di notte), colpisce il Duisburg. L’Aurora cannoneggia
ed incendia il Rina Corrado,
quindi mitraglia il già danneggiato Fulmine,
che viene poi finito dal Penelope.
Il Conte di Misurata tenta
di dare la poppa al fuoco nemico per allontanarsi, ma viene rapidamente colpito
ed incendiato dall’Aurora.
Quest’ultimo prende poi di mira la Minatitlan,
che non ha miglior fortuna, ed all’1.15 impegna un cacciatorpediniere, forse
il Maestrale.
All’1.25 l’Aurora accosta a sinistra, di prora
al convoglio, per tagliargli la rotta ed assicurarsi che nessun mercantile
possa sfuggire, ed all’1.45 dirige verso ovest per girargli intorno: tutti i
mercantili sono ormai avvolti dalle fiamme. Alle 2.06, completata la propria
opera di distruzione, la Forza K accelera a 25 nodi e dirige per rientrare a
Malta, senza aver subito alcun danno (eccetto uno lievissimo, un foro da
scheggia, al fumaiolo del Lively).
Deludente la reazione
della III Divisione: avvistate, all’1.01, le vampe dei cannoni della Forza K
che aprono il fuoco sul convoglio, le navi di Brivonesi accostano a dritta, su
rotta 240°, poi a sinistra; il Trieste apre
il fuoco all’1.03 ed il Trento due
minuti dopo, da grandissima distanza (8 km). All’1.08 la III Divisione assume
rotta 180°; pur potendo raggiungere velocità superiori ai 30 nodi, Brivonesi
mantiene inspiegabilmente la velocità delle sue navi a 15-16 nodi (la Forza K
procede a 20 nodi), aumentandoli a 18 solo all’1.12, ed a 24 all’1.18.
All’1.25, essendo la distanza divenuta ormai eccessiva (alzo 17 km), la III
Divisione cessa il fuoco: a quell’ora il convoglio “Duisburg” non esiste già
più. Gli incrociatori di Brivonesi hanno sparato 207 colpi da 203 mm e 82 da
100 mm, senza metterne uno solo a segno. All’1.29 l’ammiraglio fa assumere alle
sue navi rotta nord e velocità 24 nodi, per intercettare le unità britanniche
dirette verso Malta, ma l’incontro non avviene, perché Brivonesi, informato da Supermarina
del possibile pericolo di un attacco di aerosiluranti, crede di trovarsi nel
raggio d’azione di una portaerei britannica ed all’1.35 assume rotta nordovest,
allontanandosi dal luogo dello scontro e dalla Forza K.
All’1.41 Euro, Maestrale, Libeccio
ed Oriani assumono rotta
90° (verso est), che seguono per un po’ a 30 nodi di velocità, mentre il
comandante Bisciani attende che giunga qualche ordine o notizia sugli
accadimenti in corso.
(Secondo una fonte, i
quattro cacciatorpediniere si ritirano una decina di miglia ad est del
convoglio per riorganizzarsi, poi vanno al contrattacco, guidati dal Maestrale, aprendo il fuoco con le
proprie artiglierie, ma astenendosi dal lanciare siluri per evitare di colpire
i mercantili, che si trovano al di là della Forza K. Le quattro unità seguitano
poi a fare fumo ed ad impegnare le navi britanniche ogni volta che queste
divengono visibili, senza però riuscire a concludere nulla. Niente di tutto
ciò, però, risulta dall’approfondita ricostruzione dello scontro fatta dallo
storico Francesco Mattesini).
All’1.44 l’ammiraglio
Brivonesi ordina al caposcorta Bisciani di tornare presso i mercantili per
recuperarne i naufraghi; alle due di notte i cacciatorpediniere, tutti
spostatisi verso est seguendo il caposcorta, distano ormai ben 17 miglia da
quel che resta del convoglio.
Nel corso del
combattimento, l’Euro è stato
centrato da ben sei proiettili da 152 mm, due al galleggiamento e quattro
all’opera morta, oltre che da un’infinità di schegge: miracolosamente, nessuno
dei proiettili è esploso (a differenza che sul Fulmine, anch’esso colpito da sei proiettili nella fase iniziale
dello scontro: in quel caso, i proiettili andati a segno sono esplosi tutti,
provocando danni letali e l’affondamento in pochi minuti del cacciatorpediniere),
il che ha salvato l’Euro da certa
distruzione. I danni causati dal tiro nemico non sono tali da minacciare la
sopravvivenza della nave, ma il cacciatorpediniere di Cigala Fulgosi è
piuttosto malridotto: verso le due di notte i telegrafi di macchina hanno
smesso di funzionare; a prua c’è una falla dalla quale entra copiosa molta
acqua, la girobussola non funziona più, ed inizia anche a mancare la luce.
Cigala Fulgosi dà ordine di ridurre la velocità, in modo da mettere i paglietti
turafalle, e ne dà comunicazione al Maestrale.
Alle 2.15 le vie d’acqua principali sono state tamponate, ma la turbodinamo si
è fermata del tutto; un colpo in sala caldaie ha messo fuori uso anche
l’impianto delle luci di sicurezza, così l’Euro
si ritrova completamente al buio. Sono andate distrutte anche tutte le antenne
radio, e non è possibile fare segnali; le macchine sono però sempre in
efficienza, così come siluri ed artiglieria. Nel frattempo, l’Euro ha perso di vista le altre navi;
pertanto, Cigala Fulgosi ordina di invertire la rotta, dirigendosi verso il
punto in cui stanno ancora bruciando i mercantili. Ormai la battaglia è finita.
Alle 2.55 l’Euro è giunto nei pressi di quel che
resta del convoglio; poco dopo viene raggiunto dall’Oriani, al quale segnala con un lampadino di fortuna che, a parte
l’impossibilità di fare segnali ed il fatto che, per le comunicazioni, funziona
solo il radiosegnalatore, la nave è in efficienza, e seguirà l’Oriani per imitazione di manovra. L’Oriani segnala allora di recuperare naufraghi;
l’Euro inizia dunque il mesto
compito. Non vi è a galla un solo piroscafo che sia salvabile; alcuni sono già
affondati, altri lo faranno più tardi. La Minatitlan, con le sue novemila tonnellate di carburante in fiamme,
illumina la notte in uno spaventoso rogo. Continuerà a bruciare fino al mattino
seguente. L’Euro recupera dal mare
parecchi naufraghi, tra cui molti superstiti della Conte di Misurata, inclusi 20 mitraglieri dell’Esercito.
Alle 3.20 l’Euro può comunicare al Maestrale, col radiosegnalatore, che
tutte le falle sono state tamponate, e di essere ritornato sul punto dove si è
riunito all’Oriani.
L’operazione di
soccorso, cui molto più tardi si uniscono anche alcuni cacciatorpediniere della
XIII Squadriglia, proseguirà per tutta la mattinata del 9 novembre. Intanto, il
malconcio Grecale arranca
verso nord; alle quattro del mattino rimane definitivamente immobilizzato, per
cui il caposcorta distacca l’Oriani
con l’ordine di rimorchiarlo a Crotone.
Dalle 7.30 iniziano a
sopraggiungere anche gli aerei: nel corso della giornata, si alternano sui
cieli delle navi superstiti numerosi caccia Messerschmitt Bf 110 del 26° Stormo
da Caccia della Luftwaffe, dieci SM. 79 del 10° Stormo Bombardieri della Regia
Aeronautica e 22 caccia italiani tra CR. 42 e Reggiane Re 2000 del 23° Gruppo
Autonomo e Macchi Mc 200 del 7° Gruppo del 54° Stormo. Tali velivoli esercitano
vigilanza sia antiaerea sia antisommergibili.
La III Divisione
Navale, invertita la rotta, sta anch’essa dirigendo per tornare sul luogo dove
il convoglio è stato distrutto (vi giunge alle 9.20, unendosi ai superstiti
cacciatorpediniere della scorta diretta in posizione 37°02’ N e 18°03’ E).
All’insaputa delle
navi italiane, intanto, è giunta sul posto una nuova unità britannica: il
sommergibile Upholder, al
comando del capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn. Informato della
presenza del convoglio alle 18.22 dell’8 novembre, a seguito dell’avvistamento
da parte del ricognitore britannico, si è diretto sul posto per partecipare
all’attacco. Durante la notte, per evitare di attaccare unità amiche (Wanklyn
non sa se e quanto la Forza K si deve trattenere sul posto), il sommergibile si
astiene dall’attaccare, limitandosi a navigare in superficie tra i piroscafi in
fiamme; giunta l’alba, si immerge e si prepara ad attaccare i
cacciatorpediniere fermi a recuperare i naufraghi, bersagli perfetti.
La scelta cade
sul Libeccio, che ha appena
rimesso in moto dopo aver completato il recupero di circa 150 naufraghi, in
gran parte del Fulmine. Dall’Upholder, in posizione 37°08’ N e 18°30’
E, partono tre siluri diretti contro il cacciatorpediniere, distante 1830
metri.
Alle 6.40 un siluro
colpisce il Libeccio,
asportandogli la poppa (e uccidendo molti dei naufraghi appena salvati, che
erano stati sistemati in quei locali): danneggiato mortalmente, il
cacciatorpediniere si appoppa e sbanda sulla dritta, minacciando di affondare
subito. Invece rimane a galla, e dopo una ventina di minuti l’Euro attracca sul suo lato dritto
per imbarcarne l’equipaggio; si prepara il trasbordo, mentre la situazione del Libeccio sembra tornare sotto controllo,
facendo sperare che lo si possa salvare. Intanto, il comandante Cigala
Fulgosi riferisce a voce al comandante Tagliamonte del Libeccio che, quando si è attraccato
al Libeccio, il Maestrale gli ha ordinato di
mollarlo: i due comandanti, nelle rispettive plance, si parlano da qualche metro di distanza in linea d’aria.
Tagliamonte dice a Cigala Fulgosi “Fai quello che ti dicono, può essere
pericoloso per te stare qui, credo si tratti di un sommergibile”, poi si
rivolge verso l’equipaggio della sua nave, radunato a prua, ed ordina al
personale che si prepara al trasbordo di restare a bordo, dicendo “Libeccio, noi rimaniamo a bordo!”. Poi
si rivolge di nuovo verso Cigala Fulgosi, e lancia un’accusa bruciante contro
l’ammiraglio Brivonesi, che ritiene il colpevole di questo disastro.
Il Maestrale ribadisce l’ordine all’Euro, e Cigala Fulgosi ordina di mollare
definitivamente le cime; un marinaio del Libeccio, nel mollare l’ultima cima a prua, dice “Noi del Libeccio non abbiamo bisogno di
trasbordare”. Poi, l’Euro si
allontana.
Intanto, il Maestrale si avvicina al Libeccio per imbarcare i naufraghi
precedentemente recuperati da quest’ultimo; il trasbordo viene effettuato
mediante la motolancia del Libeccio.
Nel mentre, l’Upholder avverte le esplosioni di
quelle che a Wanklyn paiono cinque bombe di profondità, pertanto si ritira
verso nordest alla profondità di 21 metri. In realtà, il Maestrale, dopo aver inviato l’Euro in aiuto del Libeccio (altri cacciatorpediniere
disponibili non ve ce ne sono, con l’Oriani
impegnato nel rimorchio del Grecale),
si è mantenuto nei loro pressi incrociando ad alta velocità, ma senza lanciare
bombe di profondità: il suo comandante preferisce correre il rischio di un
nuovo attacco da parte del sommergibile, rispetto a quello di uccidere, con le
esplosioni delle bombe di profondità, i molti uomini caduti o gettatisi in mare
dal Libeccio.
Quando l’Upholder torna ad osservare il
risultato dei suoi lanci, tre quarti d’ora dopo il primo attacco, Wanklyn vede
che il Libeccio galleggia
ancora, ma immobilizzato e privo della poppa, con Euro e Maestrale che
lo assistono; avendo ancora tre siluri, il comandante britannico pensa di
usarne uno per finire il Libeccio e
di lanciare i due restanti contro gli altri due cacciatorpediniere, ma l’arrivo
di tre aerei lo induce a rinunciare, per il momento, ad ulteriori attacchi, ed
a scendere in profondità per attendere sviluppi.
Frattanto,
l’equipaggio del Libeccio riesce a
rimettere in funzione gli apparati radio dell’unità, ed il suo comandante si
mette allora in contatto per radiosegnalatore col comandante Bisciani del Maestrale, riferendo che la paratia del
locale macchina prodiero regge, pur dando luogo ad infiltrazioni, e che ritiene
possibile il contenimento delle vie d’acqua per qualche ora: pertanto, chiede
ed ottiene di essere preso a rimorchio.
Subito sul Libeccio vengono preparate il cavo
e la braga; non appena essi sono pronti, il Libeccio comunica per radiosegnalatore al Maestrale «sono pronto al rimorchio». Alle otto del mattino
Bisciani ordina all’Euro di
prendere il Libeccio a
rimorchio. Il Maestrale li proteggerà
lanciando bombe di profondità a scopo precauzionale.
L’Euro, pertanto, si porta subito
sottobordo al Libeccio («con
brillante manovra», scriverà Tagliamonte nel suo rapporto); ma, ritenendo
giustamente che il cavo dato dal Libeccio sia
troppo corto, Cigala Fulgosi manda a bordo il suo cavo d’acciaio. Ha finalmente
inizio al rimorchio, tra mille difficoltà ed ad una lentezza esasperante –
stimata da Tagliamonte in appena due nodi – a causa del precario stato
del Libeccio e delle condizioni
del mare. Rapidamente l’Euro provvede
a preparare un rimorchio più pesante, con catena, da dare al Libeccio per tentare di aumentare la
velocità (Cigala Fulgosi ne informa Tagliamonte); ma la situazione sul
cacciatorpediniere danneggiato va precipitando: nonostante gli sforzi
dell’equipaggio, gli allagamenti si estendono.
Sopra, l’Euro tenta di rimorchiare il Libeccio danneggiato; sotto, il Libeccio agonizzante fotografato da
bordo dell’Euro (Coll. Cigala
Fulgosi, dal saggio di Francesco Mattesini su www.societaitalianastoriamilitare.org)
Alla fine, dinanzi
all’estendere degli allagamenti, all’aumentato appoppamento ed al graduale
incremento dello sbandamento, il comandante Tagliamonte deve rassegnarsi al
fatto che la nave è perduta, e dà l’ordine di abbandonare la nave.
Tagliamonte comunica
all’Euro la propria decisione,
dicendogli di abbandonare il rimorchio; così viene fatto, poi il comandante
Cigala Fulgosi riferisce a Tagliamonte che attraccherà subito con l’Euro sul fianco del Libeccio, per recuperarne l’equipaggio.
Su ordine del
comandante, tutto l’equipaggio del Libeccio si
raduna sulla murata di sinistra; l’Euro,
nonostante i problemi causati dall’instabilità e dallo scarroccio
dell’agonizzante Libeccio,
attracca sul lato sinistro di quest’ultimo e getta a prua una cima, cui però
non risulta possibile dar volta: nel frattempo, lo sbandamento del Libeccio è aumentato così
velocemente da far apparire che la nave stia per capovolgersi da un momento
all’altro.
Alle 11.18 il Libeccio si abbatte sul lato di dritta,
impenna la prua verso il cielo e s’inabissa nel punto 36°50’ N e 18°10’ E. Così
il comandante Cigala Fulgosi, che assiste all’affondamento dall’Euro, descriverà la scena nel suo
rapporto: «l’ultima visione che ho di
questa unità [il Libeccio] è la sua prua dritta verso il cielo ed il
suo magnifico comandante che aggrappato in alto, in tenuta di panno, con
colletto duro e berretto, senza salvagente, salutava col braccio. Ho fischiato
l’“attenti” ma non ce n’era bisogno perché tutto il mio equipaggio dopo mollate
le cime si era spontaneamente messo in riga per rendere l’ultimo onore al Regio
Cacciatorpediniere Libeccio».
Il comandante Cigala
Fulgosi elogerà in seguito, nel suo rapporto, sia il comportamento
dell’equipaggio del Libeccio durante
i tentativi di salvare e rimorchiare la nave (avevano fatto tutto il possibile
per agevolare la sua opera), sia il comportamento dei naufraghi di Libeccio e Fulmine: nessuno di essi si è lamentato
od aveva chiesto aiuto, e tutti – feriti compresi – hanno fatto il possibile
per assistere l’equipaggio dell’Euro nel
prestare aiuto a chi più necessita di cure.
L’Euro, insieme al Maestrale e più tardi anche al Fuciliere,
provvede al salvataggio dei naufraghi del Libeccio.
Tra quelli raccolti dall’Euro è anche
il comandante Tagliamonte; questi, finito in acqua al momento
dell’inabissamento e portato a galla da delle bolle d’aria fuoriuscite dalla
nave, si è arrampicato su una zattera con la quale, insieme ad altri naufraghi
del suo equipaggio, rema verso l’Euro,
a bordo del quale sale una ventina di minuti più tardi. L’Euro recupera anche 51 naufraghi del Fulmine precedentemente raccolti dal Libeccio, tra i quali un solo ufficiale.
L’Euro recupera i naufraghi del Libeccio, tarda mattinata del 9 novembre 1941 (g.c. STORIA militare) |
Ai cacciatorpediniere
della scorta diretta si uniscono, per il soccorso ai naufraghi, anche le navi
ospedale Virgilio, fatta
appositamente uscire da Augusta ed arrivata alle 16.30, ed Arno, dirottata sul posto durante la navigazione da Bengasi
all’Italia e giunta sul posto alle undici del mattino (guidata dal fumo
dell’incendio della Minatitlan).
Queste due unità continueranno ad ispezionare la zona del disastro fino
all’alba del 10 novembre.
In tutto, vengono
tratti in salvo 764 naufraghi delle nove navi affondate: l’Euro ne raccoglie in tutto 189, tra superstiti del Libeccio e delle navi mercantili. Il Maestrale ne salva 401, l’Oriani 48, l’Alpino 35, la Virgilio
34, l’Arno 21, il Fuciliere 20, il Bersagliere 11. Una lancia del Rina
Corrado con 13 superstiti, evidentemente sfuggita alle ricerche,
raggiungerà Valona, in Albania, dopo quattro giorni di navigazione.
Sono quattro i membri
dell’equipaggio dell’Euro uccisi
nello scontro notturno: i marinai Ernesto Feliciani, 22 anni, da Cassano
d’Adda; Luigi Forlai, 20 anni, da Bologna; Aniello Savarese, 21 anni, da Vico
Equense; ed il capo S.D.T. di terza classe Celeste Punturiero, 32 anni da
compiere il 10 novembre, da Rosarno. Altri otto uomini sono rimasti feriti.
Alla memoria di
Celeste Punturiero verrà conferita la Croce di Guerra al Valor Militare con
motivazione: “Capo servizio vedette,
addetto agli smistamenti sull’ala di plancia di un C.T. di scorta a convoglio,
durante un violento scontro notturno con forze nemiche, assolveva il suo
compito con slancio e Sereno coraggio, finché, gravemente colpito da una
scheggia di proiettile, immolava la vita nell’adempimento del dovere”.
Anche Ernesto Feliciani ed Aniello Savarese riceveranno la Croce di Guerra al
Valor Militare alla memoria; motivazione: “Addetto
all’armamento di un impianto da 120 di un C.T., di scorta a convoglio, durante
un violento scontro notturno con forze nemiche, assolveva il suo compito con
slancio e Sereno coraggio, finché, gravemente colpito da una scheggia di
proiettile, immolava la vita nell’adempimento del dovere”.
30 dicembre 1941
L’Euro scorta da Bari a Patrasso il
piroscafo tedesco Macedonia, carico
di truppe e materiali.
29 gennaio 1942
L’Euro scorta da Bari a Corfù il Macedonia, con un carico di materiali
vari. Il convoglio ha destinazione finale Patrasso.
30 gennaio 1942
A Corfù l’Euro ed il Macedonia si uniscono al Turbine
ed al piroscafo Absirtea, provenienti
da Brindisi e diretti anch’essi a Patrasso. Le quattro navi formano un unico
convoglio che dirigerà per Patrasso; sostano a Corfù fino al giorno seguente
prima di proseguire.
1° febbraio 1942
Euro,
Turbine, Absirtea e Macedonia
lasciano Corfù alla volta di Patrasso. Caposcorta è il Turbine (capitano di corvetta Rocca).
In mattinata, il
convoglio procede su rotta 173° con i due piroscafi linea di fronte (Macedonia a dritta ed Absirtea a sinistra), ad una
velocità di appena cinque nodi, in conseguenza del mare molto agitato con venti
di scirocco. L’Euro zigzaga a dritta
del convoglio, il Turbine fa lo
stesso a sinistra.
Alle 10.45, a sei
miglia per 320° (per altra fonte 290°) da Capo Dukato (Isola di Santa Maura,
nell’arcipelago delle Isole Ionie), l’Absirtea avvista
le scie di tre siluri a sinistra: nonostante la contromanovra subito iniziata,
solo uno può essere evitato, mentre gli altri due colpiscono l’Absirtea a poppa, alle 10.46. Il Macedonia accosta subito a dritta e
riceve ordine di allontanarsi alla massima velocità, mentre Euro e Turbine si portano sulla sinistra dell’Absirtea e lanciano bombe di profondità, per impedire al
sommergibile di attaccare anche il Macedonia.
Non si conosce però l’esatta posizione del sommergibile, non avendone visto il
periscopio né, a causa del mare mosso, le scie dei siluri.
L’attaccante è il
sommergibile britannico Thunderbolt
(capitano di corvetta Cecil Bernard Crouch), che alle 10.30, a 4,4 miglia per
291° da Capo Dukato, ha avvistato – in condizioni di scarsa visibilità – il
convoglio italiano mentre procedeva su rotta 130°, da una distanza di 3800
metri. Il sommergibile è penetrato all’interno dello schermo dei
cacciatorpediniere ed alle 10.43 ha lanciato una salva di tre siluri contro l’Absirtea, da soli 915 metri di distanza.
Anche dopo il lancio, il Thunderbolt
è rimasto a quota periscopica allo scopo di attaccare anche il secondo
mercantile; ha visto uno dei siluri andare a segno sull’Absirtea, ma la rapida accostata a dritta del Macedonia ha venificato il proposito di attaccarlo, pertanto Crouch
ha ordinato di scendere in profondità. Sul Thunderbolt
vengono contate 21 esplosioni di bombe di profondità, delle quali sono vicine
le prime, che causano alcuni danni di minore entità.
L’Absirtea, intanto, assume un marcato
appoppamento e viene subito abbandonato dall’equipaggio. Prima di proseguire
per Patrasso scortando il Macedonia,
il Turbine ordina all’Euro di assistere la nave colpita.
Il mare mosso
costringe l’Euro a rinunciare al
tentativo di rimorchiare l’Absirtea
in costa; può soltanto recuperarne i naufraghi (35, cinque dei quali feriti)
dopo di che, verso le 13, abbandona il piroscafo alla deriva, in stato di lento
affondamento (quando l’Euro se ne va,
il piroscafo ha l’acqua al livello della coperta a poppa, e la prua che va
sollevandosi), a circa 7 miglia per 320° da Capo Dukato. L’Absirtea colerà a picco poco dopo le
13.35, nel punto 38°35' N, 20°27' E. Il comandante dell’Euro chiede a quello dell’Absirtea
se abbia distrutto i documenti segreti prima di abbandonare la nave,
ricevendone risposta affermativa.
7 febbraio 1942
Euro
e Turbine scortano da Patrasso a
Brindisi, via Corfù, il piroscafo Andrea
Contarini, la motonave Apuania e
la pirocisterna Giorgio. In mare, nel
tratto da Patrasso a Corfù, si uniscono al convoglio anche la torpediniera Sagittario e la cisterna militare Devoli, provenienti da Argostoli e
diretti a Corfù.
11 marzo 1942
L’Euro, il cacciatorpediniere Sebenico, l’incrociatore ausiliario Città di Genova e la
torpediniera Solferino scortano
da Bari a Patrasso un grosso convoglio formato dai piroscafi Francesco Crispi, Aventino, Piemonte, Galilea, Italia e Ivorea e dalla motonave Viminale, aventi a bordo truppe e rifornimenti. Il convoglio è
anche scortato da idrovolanti della Ricognizione Marittima con compito
antisommergibili.
Sopra: l’Euro fotografato l’11 marzo 1942 da
bordo di uno dei mercantili del convoglio (g.c. STORIA militare); sotto: l’Euro il 12 marzo 1942, presumibilmente
fotografato durante la stessa missione (Coll. E. Bagnasco, via M. Brescia e www.associazione-venus.it)
14 marzo 1942
Euro
e Città di Genova scortano da
Patrasso a Bari la motonave Calino ed
il piroscafo Re Alessandro.
2 aprile 1942
L’Euro parte da Taranto alle 12.50,
insieme ai cacciatorpediniere Da Noli
e Pigafetta (caposcorta) ed
alla torpediniera Cigno, per scortare
a Tripoli le motonavi Unione e Lerici, nell’ambito dell’operazione
«Lupo».
A mezzanotte dello
stesso giorno, la Cigno è
sostituita dalla gemella Pallade.
3 aprile 1942
Alle otto del
mattino, una sessantina di miglia ad est di Capo Murro di Porco, il convoglio
che comprende l’Euro si unisce –
come prestabilito – ad un secondo proveniente da Taranto e composto dalle
motonavi Nino Bixio e Monviso, scortate dai
cacciatorpediniere Emanuele Pessagno e Folgore e dalla torpediniera Centauro. Si forma così un unico convoglio,
che imbocca una rotta che passa a 110 miglia da Malta per raggiungere
Tripoli.
Al tramonto si
aggregano al convoglio anche le motonavi Gino Allegri e Monreale,
provenienti da Augusta con la scorta dei cacciatorpediniere Freccia e Nicolò Zeno.
4 aprile 1942
Il convoglio viene
avvistato da ricognitori britannici e sottoposto a diversi attacchi aerei, ma
non subisce alcun danno e giunge a Tripoli tra le 9 e le 10.30, portando a
destinazione un prezioso carico di 14.955 tonnellate di munizioni e materiali
vari, 6190 tonnellate di carburante, 769 tra automezzi e rimorchi, 82 carri
armati e 327 militari.
11 aprile 1942
L’Euro e l’incrociatore ausiliario Arborea scortano da Bari a Durazzo il
piroscafo Aventino, carico di truppe
e materiali.
12 aprile 1942
L’Euro scorta l’Aventino che rientra da Durazzo a Bari con militari che
rimpatriano.
25 aprile 1942
L’Euro e l’incrociatore ausiliario Zara scortano da Bari a Durazzo i
piroscafi Italia e Quirinale, carichi di truppe e
materiali.
1° maggio 1942
L’Euro, l’incrociatore ausiliario Città di Napoli e la torpediniera Antonio Mosto scortano da Bari a Durazzo
i piroscafi Rosandra e Città di Catania, con truppe e
materiali.
2 maggio 1942
L’Euro scorta da Valona a Bari la nave
cisterna Dora C.
5 maggio 1942
L’Euro e l’incrociatore ausiliario Brioni scortano Rosandra e Città di Catania
che rientrano con truppe rimpatrianti da Durazzo a Bari.
29 maggio 1942
L’Euro (capitano di fregata Giuseppe
Cigala Fulgosi) salpa da Taranto per Tripoli alle 17, scortando la motonave Rosolino Pilo, con la quale
costituisce il convoglio «P».
30 maggio 1942
Verso le 6.30, un
centinaio di miglia a sudest di Punta Stilo, il convoglio «P» si unisce al
convoglio «L», cioè la motonave Gino
Allegri ed il cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco, provenienti da Brindisi. Il convoglio unico così
formato (caposcorta è il capitano di vascello Aldo Cocchia, del Da Recco) imbocca la rotta di levante
per la Libia, passando a circa 200 miglia ad est di Malta ad una velocità di
15,5 nodi.
Nella notte del 30, a
seguito della segnalazione della presenza di un sommergibile sul percorso,
nonché della presenza di ricognitori britannici, la rotta viene cambiata più
volte per confondere le idee al nemico. Il Da Recco lancia delle bombe di profondità contro un sommergibile
dalla nazionalità dubbia. Alle 11.03 un aereo britannico avvista il convoglio.
Alle 22.30 il
convoglio si scinde di nuovo, ma scambiandosi le navi scorta: la Pilo dirige per Tripoli con la
scorta del Da Recco, mentre l’Allegri fa rotta verso Bengasi,
scortata dall’Euro.
31 maggio 1942
Alle 00.15 Euro ed Allegri vengono localizzate da ricognitori britannici decollati
dalle basi cirenaiche, che indirizzano su di esse gli aerei di base a Malta
(che proprio in questo periodo, a seguito della riduzione dell’intensità dei
bombardamenti tedeschi e dell’arrivo di nuovi velivoli decollati da delle
portaerei, stanno iniziando a rimettere i denti ed a riprendere ad attaccare i
convogli, dopo un periodo di scarsissima attività aerea). Il primo attacco
aereo si verifica alle 00.35 e passa senza causare alcun danno; ma alle prime
luci dell’alba gli aerei, dei bombardieri Vickers Wellington del 221st Squadron
della Royal Air Force, tornano alla carica.
Nel frattempo, alle
4.20 (ora italiana, d’ora in poi usata; 5.20 ora di bordo del Proteus) il sommergibile
britannico Proteus (capitano di
corvetta Philip Stewart Francis) ha avvistato le due navi oscurate su
rilevamento 300°, in posizione 32°28’ N e 18°52’ E. Alle 4.22 il Proteus si immerge, non potendo
attaccare in superficie a causa della luce lunare, ed alle 4.30 avvista di
nuovo il convoglio al periscopio, riconoscendolo correttamente come composto da
un mercantile scortato da un cacciatorpediniere.
Alle 4.41 il Proteus lancia due siluri da 1370
metri, con i tubi di poppa, contro l’Allegri,
per poi scendere in profondità ed allontanarsi verso nordovest.
Colpita, alle 4.45,
sia dalle bombe degli aerei che dai siluri del Proteus, la motonave – carica di munizioni – prende fuoco e dopo
sei minuti salta in aria nel punto 32°31’ N e 18°36’ E (o 32°27’ N e 18°54’ E),
un’ottantina di miglia ad ovest di Bengasi, ricoprendo tutto il mare
circostante con una coltre di fumo nero. L’esplosione è tanto violenta che
anche il Proteus, immerso ad
elevata profondità e notevole distanza, viene scosso violentemente e subisce
anche alcuni danni. (Le fonti italiane attribuiranno inizialmente la perdita
all’attacco aereo, e successivamente, appreso dell’attacco del Proteus, ad una coincidenza che abbia
portato le bombe degli aerei ed i siluri del Proteus a colpire contemporaneamente l’Allegri; il Proteus però
non parla minimamente della presenza di aerei nel suo giornale di bordo. Alcune
fonti parlano anche di partecipazione all’attacco da parte del sommergibile
britannico Taku, ma in realtà
il Taku lancia, alle 4.43 e
60 miglia più a nord, contro la Rosolino Pilo,
senza riuscire a colpirla).
All’Euro non rimane che riferire
l’accaduto a Supermarina e raccogliere i pochi superstiti: 21, tutti feriti, su
circa 300 uomini che erano a bordo dell’Allegri.
Il cacciatorpediniere prosegue poi per Bengasi, dove arriva a mezzogiorno e
dieci (raggiunto, per una fonte, anche dalla torpediniera Generale Marcello Prestinari, inviata da Bengasi per rinforzare la
scorta).
Una bella foto dell’Euro con colorazione mimetica, nella primavera del 1942 (dal saggio di Francesco Mattesini su www.societaitalianastoriamilitare.org) |
4 giugno 1942
Alle 20 l’Euro lascia Bengasi e viene inviato a
rinforzare la scorta (cacciatorpediniere Freccia,
torpediniere Pallade, Partenope e Pegaso) della motonave Reginaldo
Giuliani, che alle 5.30 di quel mattino è stata silurata da aerosiluranti
britannici a 130 miglia da Bengasi, mentre procedeva da Taranto verso il porto
cirenaico. Ogni tentativo di rimorchio (prima da parte del Freccia, poi del rimorchiatore tedesco Max Berendt) e di salvataggio della nave risulta vano; dopo aver
tratto in salvo i 225 uomini imbarcati, la scorta dovrà accelerare
l’affondamento dell’ormai irrecuperabile Giuliani
nelle prime ore del 5 giugno.
5 giugno 1942
Le navi da guerra
giungono a Bengasi in mattinata.
9 giugno 1942
L’Euro, il Freccia (caposcorta) e la Pallade
lasciano Bengasi per Taranto alle 5.30, scortando la motonave Monviso, che ha a bordo circa 200
prigionieri.
10 giugno 1942
A seguito della
segnalazione dell’avvistamento di un sommergibile nemico, il convoglio viene
fatto entrare a Gallipoli alle 20.45, sostandovi per alcune ore.
11 giugno 1942
Alle due di notte le
navi lasciano Gallipoli per riprendere il viaggio verso Taranto, dove arrivano
alle 9.30.
16 giugno 1942
L’Euro, il Turbine e la torpediniera Partenope,
trovandosi in porti della Grecia, vengono fatti salpare nelle prime ore della notte
per andare a rinforzare la scorta antisommergibili delle corazzate Littorio (nave di bandiera del
comandante della Squadra Navale, ammiraglio Angelo Iachino) e Vittorio Veneto, che stanno rientrando a
Taranto dopo aver partecipato, in Mediterraneo orientale, alla battaglia
aeronavale di Mezzo Giugno. Il rinforzo alla scorta antisommergibili è stato
disposto da Supermarina per proteggere il più possibile le navi da attacchi di
sommergibili, specialmente dato che la Littorio
è stata danneggiata da un aerosilurante: alcune ore prima l’incrociatore
pesante Trento, immobilizzato da un
aerosilurante, è stato affondato dal sommergibile britannico Umbra mentre si tentava di prenderlo a
rimorchio.
Euro
e Turbine raggiungono la squadra
navale all’alba (la formazione procede a 20 nodi, la velocità massima che la Littorio può raggiungere dopo il
siluramento) e ne assumono la scorta antisommergibili. Più o meno nello stesso
momento la Littorio, che dopo il
siluramento è passata dietro alla Vittorio
Veneto, torna ad assumere il suo posto in testa alla formazione, sul cui
cielo arriva al contempo la prima pattuglia di caccia della Regia Aeronautica.
Alle 5.06 la squadra navale accosta per 315°, dirigendosi verso il punto in cui
cominciano le rotte di sicurezza costiere tra i campi minati difensivi, a sud
di Santa Maria di Leuca. Nella supposizione che possano esservi sommergibili in
agguato, le navi iniziano al contempo a zigzagare; varie unità comunicano
infatti avvistamenti di periscopi, inducendo ad accostate d’urgenza di tutta la
formazione per sottrarsi ad eventuali attacchi, anche se è possibile che si sia
in realtà trattato di falsi allarmi. I sommergibili britannici della I
Flottiglia si sono effettivamente spostati, nel corso della notte, poco a sud
di Santa Maria di Leuca; pur essendosi ben posizionati nei pressi delle rotte
percorse dalla squadra italiana, non riusciranno ad attaccare.
Verso le 8.30 Euro e Turbine vengono sostituiti nel compito di scorta antisom dalle
torpediniere Sagittario, Antares ed Aretusa, inviate da Taranto per ordine di Supermarina; a questo
punto, i due cacciatorpediniere fanno rotta per Brindisi.
2 luglio 1942
L’Euro salpa alle 13 da Taranto
insieme ai cacciatorpediniere Turbine e Giovanni Da Verrazzano (caposcorta)
ed alle torpediniere Antares, San Martino, Castore, Polluce e
Pegaso per scortare a Bengasi un
convoglio composto dalle moderne motonavi Monviso, Nino Bixio ed Ankara (quest’ultima tedesca).
Si tratta del primo
importante convoglio dopo la riconquista di Tobruk da parte dell’Asse, con un
carico complessivo di 8182 tonnellate di munizioni e materiali, 1247 tonnellate
di carburanti e lubrificanti, sette carri armati e 439 veicoli; la Monviso ha a bordo 128 automezzi,
due carri armati, 300 tonnellate di carburanti e lubrificanti e 3020 tonnellate
di altri materiali (tra cui materiale d’artiglieria e munizioni), oltre a 165
militari.
Già alle 14.18 il
servizio di decrittazione britannico “ULTRA” intercetta e decifra un messaggio
codificato dalla macchina “Enigma”, apprendendo così della partenza del
convoglio; successive decrittazioni precisano la composizione della scorta e la
rotta che il convoglio seguirà (rotte costiere e di sicurezza fino alle 4.30
del 3 luglio, quando Sagittario e San Martino si devono unire alla
scorta, dopo aver completato un rastrello in quelle acque; indi riunione con
convoglio che deve passare probabilmente a sudovest di Capo Gherogambo).
Vengono dunque disposti attacchi aerei contro il convoglio, ed un ricognitore
viene inviato a cercarlo, in base alle informazioni di “ULTRA”, per precisarne
meglio la posizione.
Tuttavia, anche
l’Ufficio Beta del Servizio Informazioni Segrete (il servizio segreto della
Regia Marina) è al lavoro: la sera del 2 luglio gli uomini del SIS intercettano
e decrittano un messaggio radio inviato alle 20.40 da Malta ai ricognitori YU3Y
e 86KK, con l’ordine di cambiare rotta e cercare 30 miglia più ad est delle
posizioni assegnate. Il messaggio è codificato col sistema SYKO, che i
decrittatori del SIS sono riusciti a decifrare; inoltre, rilevazioni
radiogoniometriche permettono di localizzare i ricognitori britannici (a 150
miglia per 350° da Bengasi l’uno, a 90 miglia per 350° da Bengasi l’altro).
Alle 21.40, così, Supermarina invia al convoglio dell’Euro un messaggio PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze
Assolute) ed informa il capoconvoglio che i britannici conoscono la loro
posizione: in tal modo, il capoconvoglio cambia rotta.
La Pegaso rileva all’ecogoniometro un
sommergibile nemico e lo attacca con intenso lancio di bombe di profondità,
ritenendo di averlo affondato, ma in realtà non è stato colpito nulla (è
possibile che il sommergibile stesso fosse solo un falso contatto).
3 luglio 1942
Nonostante il
cambiamento di rotta, alle 3.30 il ricognitore H3TL riesce a trovare il
convoglio, e lo comunica per radio a Malta. Di nuovo, però, il SIS intercetta e
decifra il messaggio, e nel giro di mezz’ora Supermarina invia un nuovo
avvertimento al convoglio, che cambia di nuovo rotta. La mattina ed il
pomeriggio il convoglio procede senza incontrare forze britanniche.
Alle 15.13 ed alle
16.13, però, il SIS intercetta nuovi messaggi in codice britannici, e scopre
che da Malta sono decollati otto aerosiluranti Bristol Beaufort.
Infatti il convoglio
è stato avvistato da ricognitori nel pomeriggio, ed alle 18.30 sono decollati
per attaccarlo otto aerosiluranti Bristol Beaufort, scortati da cinque caccia
Bristol Beaufighteer; due degli aerei, però, non sono riusciti a decollare, ed
altri due sono stati costretti a tornare indietro poco dopo il decollo. I
rimanenti attaccano il convoglio alle 20.10, da est, provenendo dalla direzione
opposta del crepuscolo e delle navi della scorta. Due aerei attaccano il
mercantile al centro (la Bixio),
altri due il mercantile di coda; questi ultimi due vengono abbattuti dal tiro
contraereo della scorta (per altra fonte i Beaufort attaccanti erano sei, di
cui tre abbattuti). Nonostante la coordinazione con i Beaufighters, che
mitragliano le navi per contrastare il loro tiro contraereo, l’attacco
britannico fallisce completamente: nessuna nave è colpita.
(Secondo una fonte,
sempre in serata il convoglio viene attaccato da tre aerosiluranti Vickers
Wellington, guidati da un Wellington VIII dotato di radar ASV – Air to Surface
Vessel, per l’individuazione delle navi da parte di un aereo –, ma anche in
questo caso non vengono subiti danni. È però probabile una confusione col
successivo attacco di Wellington del 4 luglio).
4 luglio 1942
Alle 00.18 ed alle
00.42 il ricognitore N1KL invia due segnali di scoperta del convoglio, seguiti
all’una di notte da un terzo segnale, lanciato dal ricognitore ZZ7P. Sono
decollati da Malta cinque velivoli Vickers Wellington, due dei quali armati con
siluri e tre con bombe da 227 kg: la scorta del convoglio, però, occulta i
mercantili con cortine fumogene, e gli attaccanti devono sganciare bombe e
siluri pressoché a caso, senza riuscire a vedere i bersagli. Nessuna bomba o
siluro va a segno.
Nella mattinata del 4
luglio, nuovo attacco: stavolta da parte di tre Wellington e tre bombardieri
quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, tutti della Royal Air Force,
decollati dall’Egitto. I Wellington non riescono a trovare il convoglio; i B-24
invece sì, ma le loro bombe non vanno a segno.
Alle 10.30 ed alle
14.15 (quando l’Ankara viene mancata
da quelli che sembrano dei siluri) il convoglio viene attaccato da sommergibili
(ma è probabile che si sia trattato di falsi allarmi).
Il britannico Turbulent (capitano di fregata John
Wallace Linton) avvista le alberature e poi le navi italiane alle 11.10, in
posizione 33°30’ N e 20°30’ E (un’ottantina di miglia a nord di Bengasi), ma
viene localizzato dal sonar della Pegaso alle
11.41, prima di poter attaccare, e subisce poi una caccia antisom che inizia
alle 11.48: la prima scarica di 6 bombe di profondità, lanciata in posizione
33°28’ N e 20°28’ E, esplode molto vicina ma causa soltanto danni minori;
successivamente vengono gettate molte altre bombe di profondità, che però
esplodono più lontane. Da parte italiana si ritiene, erroneamente, di avere affondato
il sommergibile; comunque, l’attacco è sventato.
Il convoglio giunge
indenne a Bengasi alle 18.45.
Un gruppo di marinai dell’Euro. Primo a sinistra, in piedi, il marinaio furiere Francesco De Rizzo (g.c. Alberto De Rizzo) |
21 settembre 1942
L’Euro salpa da Taranto nella notte tra il
21 ed il 22, insieme al cacciatorpediniere Lampo ed alla torpediniera Partenope, scortando la nave cisterna Proserpina, diretta in Libia con scalo intermedio al Pireo ed a
Suda. La petroliera ha a bordo un prezioso carico di 5316 tonnellate di benzina
(la sua portata sarebbe in realtà quasi doppia: ma in Italia non c’è altro
carburante disponibile da inviare in Africa).
22 settembre 1942
In serata il
convoglio viene attaccato da nove aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron
della Royal Air Force (guidati dal tenente colonnello Maurice ‘Larry’ Gaine,
che ha da poco assunto il comando del 39th Squadron), scortati
da sei caccia Bristol Beaufighter del 227th Squadron (guidati
dal tenente colonnello Donald Shore). Volando a bassa quota, gli aerei intercettano
il convoglio al largo di Antipaxo, per colpire prima che riesca ad entrare nel
Golfo di Corinto. Il piano britannico prevede che i Beaufort, agendo suddivisi
in “coppie fluide”, dovranno attaccare contemporaneamente da tutte le
direzioni, in modo da provocare una maggior dispersione del tiro contraereo
(data la scarsità delle risorse disponibili a Malta, i piloti degli
aerosiluranti hanno l’ordine di attaccare solo navi di stazza pari o superiore
alle 5000 tsl), mentre i Beaufighter si divideranno in due gruppi da tre con
differenti compiti: tre Beaufighter dovranno attaccare le navi per “sopprimere”
il loro fuoco contraereo, e gli altri tre dovranno restare sul cielo degli
aerosiluranti per fornire loro protezione in quota.
I britannici
subiscono una perdita prima ancora prima di incontrare il convoglio: uno dei
tre Beaufighter della sezione “anti-contraerea”, pilotato dal sergente
australiano A. J. Phillips, entra in collisione con un Beaufort pilotato dal
sottotenente canadese Aubrey F. Izzard, il quale riporta alla coda danni tali
da precipitare in mare, uccidendo tutto l’equipaggio. L’aereo di Phillips
riesce ad evitare tale tragica sorte, ma è costretto a rientrare a Luqa (Malta)
senza poter partecipare all’attacco. Quando i restanti tredici aerei
raggiungono il convoglio, sul cui cielo sono visibili due caccia Macchi M.C.
200 e diversi bombardieri Junkers Ju 88, le tre unità della scorta iniziano a
girare in cerchio intorno alla Proserpina,
emettendo cortine fumogene ad alta velocità; il capitano Terry A. McGarry spara
un razzo Very giallo, segnale di attaccare, ed i Beaufort vanno all’attacco. Il
Beaufighter del tenente colonnello Shore, addetto alla soppressione del fuoco
contraereo, compie due passaggi mitragliando una delle navi scorta con
cannoncini e mitragliere, poi mitraglia anche la Proserpina; viene a sua volta colpito, e sarà costretto ad un
atterraggio d’emergenza a Luqa. Il Beaufort del sottotenente canadese Dallas
Schmidt mitraglia un cacciatorpediniere, ritenendo di aver colpito delle
munizioni (avendo visto quella che sembra una piccola esplosione a proravia
della plancia); viene poi attaccato da uno Ju 88, che riesce però ad eludere,
mentre gli altri Beaufighter attaccano gli altri Ju 88 senza particolari
risultati da una parte o dall’altra. Un mitragliere del Beaufort del tenente
colonnello Gaine rivendica il probabile abbattimento o danneggiamento di uno Ju
88. Tutti i Beaufort, sebbene attaccati ripetutamente dagli aerei
italo-tedeschi, lanciano i loro siluri contro la Proserpina, che è parzialmente nascosta dal fumo; ma la petroliera
riesce ad evitarli tutti con abili manovre. (Secondo la versione italiana gli
aerosiluranti avrebbero dapprima lanciato senza risultato i loro siluri, poi
mitragliato sia la Proserpina che
le navi della scorta, mentre da parte britannica risulterebbe il contrario).
L’attacco britannico termina così nell’insuccesso; le navi italiane lo superano
con pochi lievi danni causati dal mitragliamento.
Il cacciatorpediniere
mitragliato dal sottotenente Schmidt, con esplosione di munizioni a bordo, è
con ogni probabilità proprio l’Euro,
che in questo attacco deve lamentare due vittime tra l’equipaggio: il marinaio
cannoniere Antonio Locatelli, da Milano, ed il sottocapo S.D.T. Giuseppe Noseda
Pedraglio, da Brunate, entrambi di vent’anni. Entrambi sono decorati alla
memoria con la Croce di Guerra al Valor Militare: per Giuseppe Noseda Pedraglio,
la motivazione è “Imbarcato su C.T. di
scorta a convoglio attaccato da aerosiluranti nemici, assolveva il suo incarico
sull’ala di plancia bersagliata dalla mitraglia avversaria e, benché
mortalmente colpito, continuava ad adempiere il suo dovere fino all’estremo
limite della resistenza, immolando la vita nella più completa dedizione alla
Patria.”
23 settembre 1942
Euro,
Proserpina, Lampo e Partenope, dopo
aver attraversato il Canale di Corinto, raggiungono il Pireo alle 23. Da lì la
nave cisterna proseguirà per l’Africa con diversa scorta, giungendo indenne a
destinazione.
28 settembre 1942
L’Euro ed il cacciatorpediniere tedesco Hermes scortano dal Pireo ai Dardanelli
le navi cisterna Albaro e Celeno.
16 ottobre 1942
L’Euro ed il piroscafetto requisito F 110 Giorgio Orsini scortano il
piroscafo Pola dal Pireo a Rodi.
20 ottobre 1942
Euro
ed Orsini scortano di nuovo il Pola in un altro viaggio dal Pireo a
Rodi.
29 ottobre 1942
L’Euro ed il cacciatorpediniere tedesco Hermes scortano dal Pireo ai Dardanelli
la nave cisterna tedesca Ossag.
31 ottobre 1942
Euro
ed Hermes scortano da Salonicco al
Pireo la nave cisterna Adriana e la
motonave Col di Lana.
1° novembre 1942
L’Euro, proveniente da Istmia, assume la
scorta dell’incrociatore ausiliario Francesco
Morosini, salpato da Taranto a
mezzogiorno per una missione di trasporto verso Tobruk.
3 novembre 1942
Euro
e Morosini sostano a Suda durante la
giornata.
4 novembre 1942
Euro
e Morosini arrivano a Tobruk alle
17.10.
5 novembre 1942
Alle 16 l’Euro (caposcorta) lascia Tobruk per
scortare il Morosini al Pireo,
insieme alla torpediniera di scorta Fortunale.
6 novembre 1942
Le tre navi giungono
al Pireo alle 21.
8 dicembre 1942
L’Euro e le torpediniere Castore e Libra scortano la motonave Donizetti
ed il piroscafo Argentina dal Pireo a
Rodi.
9 dicembre 1942
L’Euro e le torpediniere Libra e Calatafimi scortano da Rodi al Pireo la Donizetti, l’Argentina ed
il piroscafo greco Ardena.
14 dicembre 1942
Euro,
Castore e Libra scortano dal Pireo a Rodi Donizetti,
Argentina, Ardena ed il piroscafo Hermada.
18 dicembre 1942
Euro
e Solferino scortano dal Pireo a
Salonicco il piroscafo Fanny Brunner e la pirocisterna Celeno.
Marinai dell’Euro, tra cui il marinaio furiere Francesco De Rizzo (a sinistra, unico con il berretto in testa), probabilmente in una foto ricordo davanti al Partendone (g.c. Alberto De Rizzo) |
5 gennaio 1943
L’Euro scorta il Fanny Brunner da
Salonicco a Lero.
29 gennaio 1943
Euro
e Calatafimi scortano da Iraklion al
Pireo il piroscafo Re Alessandro.
Durante la navigazione, a sudovest di Polikandro, il convoglio viene bombardato
da aerei, ma nessuna bomba va a segno.
3 febbraio 1943
Euro,
Turbine, Solferino e Calatafimi
scortano Donizetti, Argentina e Ardena dal Pireo a Rodi.
6 febbraio 1943
Euro,
Turbine, Solferino e Calatafimi
scortano Donizetti, Argentina e Ardena da Rodi al Pireo.
14 febbraio 1943
Euro,
Turbine e Calatafimi scortano la nave cisterna tedesca (ex greca) Petrakis Nomikos da Salonicco a Trikiri.
16 febbraio 1943
L’Euro scorta il piroscafo Goggiam da Iraklion al Pireo.
25 febbraio 1943
Assume il comando
dell’Euro il capitano di fregata
Vittorio Meneghini, che sarà il suo ultimo comandante.
17 marzo 1943
L’Euro, l’Hermes ed il posamine tedesco Drache
scortano da Iraklion al Pireo le motonavi Città
di Savona, Città di Alessandria e
Donizetti ed il piroscafo Ardena.
26 marzo 1943
Euro
e Solferino scortano Città di Savona, Città di Alessandria, Donizetti
ed Ardena dal Pireo a Rodi.
27 marzo 1943
Euro
e Solferino scortano Città di Savona, Città di Alessandria, Donizetti
ed Ardena da Rodi al Pireo.
7 aprile 1943
Euro,
Turbine e Solferino scortano Donizetti
e Re Alessandro dal Pireo a Rodi, via
Lero.
11 aprile 1943
L’Euro scorta la Donizetti da Rodi a Lero.
18 aprile 1943
Euro
e Turbine scortano il Re Alessandro dal Pireo a Lero.
19 aprile 1943
Euro
e Turbine scortano il Re Alessandro da Lero al Pireo.
22 aprile 1943
L’Euro, la torpediniera Castelfidardo ed il cacciatorpediniere Quintino Sella scortano dal Pireo a Rodi Ardena,
Città di Savona, Donizetti e Re Alessandro.
24 aprile 1943
Euro,
Sella e Castelfidardo scortano da Rodi al Pireo Ardena, Città di Savona, Donizetti e Re Alessandro.
1° maggio 1943
Euro
e Castelfidardo scortano dal Pireo ad
Iraklion Re Alessandro ed Ardena.
3 maggio 1943
Euro
e Castelfidardo scortano Re Alessandro ed Ardena da Iraklion al Pireo.
11 maggio 1943
L’Euro scorta il piroscafo Hermada dal Pireo a Rodi.
25 maggio 1943
L’Euro e due cacciasommergibili tedeschi
scortano la Donizetti da Rodi al
Pireo.
8 giugno 1943
Euro,
Solferino e due cacciasommergibili
tedeschi scortano dal Pireo a Rodi la Donizetti
e la piccola nave cisterna Helli.
9 giugno 1943
L’Euro e due cacciasommergibili tedeschi
scortano Helli e Donizetti da Rodi al Pireo.
19 giugno 1943
Euro,
Turbine e la torpediniera Monzambano scortano Donizetti, Ardena e Re Alessandro dal Pireo a Lero e poi a
Rodi.
Il marinaio dell’Euro Francesco De Rizzo con alcuni commilitoni davanti al palazzo del Parlamento di Atene, il 20 giugno 1943 (g.c. Alberto De Rizzo) |
21 giugno 1943
Euro,
Turbine e Monzambano scortano Donizetti,
Ardena e Re Alessandro da Rodi al Pireo.
26 giugno 1943
L’Euro e le torpediniere Castelfidardo e Calatafimi scortano Donizetti,
Ardena e Re Alessandro dal Pireo a Rodi, via Lero.
28 giugno 1943
Euro,
Castelfidardo e Calatafimi scortano Donizetti,
Ardena e Re Alessandro da Rodi al Pireo.
25 luglio 1943
Euro
e Monzambano scortano il Re Alessandro da Rodi a Salonicco.
28 luglio 1943
Euro
e Solferino scortano il Re Alessandro da Salonicco a Rodi.
Alle 16.45, mentre il
convoglio si trova 25 miglia a sudest della penisola di Cassandra, un
sommergibile tenta infruttuosamente di attaccarlo; la scorta aerea va al
contrattacco, e viene osservata una chiazza di nafta. Non risulta, comunque,
che il sommergibile attaccante sia stato affondato.
30 luglio 1943
Euro
e Solferino scortano il Re Alessandro da Rodi al Pireo.
2 agosto 1943
L’Euro e la torpediniera San Martino scortano il piroscafo Re Alessandro dal Pireo a Rodi.
8 agosto 1943
Euro
e Monzambano scortano il Re Alessandro da Rodi al Pireo.
10 agosto 1943
Euro,
Turbine, Monzambano ed il cacciatorpediniere Francesco Crispi scortano Helli,
Donizetti e Re Alessandro dal Pireo a Rodi.
12 agosto 1943
Euro,
Turbine, Crispi e Monzambano
scortano Helli, Donizetti e Re Alessandro
da Rodi al Pireo.
Agosto 1943
Mentre l’Euro si trova ormeggiato al Pireo, nella
prima metà del mese, l’equipaggio assiste a delle esercitazioni da parte delle
truppe tedesche, il cui fine appare sul momento incomprensibile. Si saprà in
seguito, come scriverà il direttore di macchina Gennaro Caronna, che quelle
esercitazioni erano volte alla preparazione di un colpo di mano contro i locali
comandi italiani e contro le navi italiane in porto: i soldati tedeschi si
stavano addestrando ad impadronirsene di sorpresa, se ciò si fosse reso
necessario, in vista della probabile defezione dell’Italia. Qualche tempo dopo,
l’equipaggio dell’Euro riceverà delle
istruzioni segrete in merito alle precauzioni da adottare per difendersi da
eventuali azioni di forza da parte tedesca.
L’Euro nel 1930-1931 (da “Cacciatorpediniere in guerra” di Carlo De Risio, supplemento alla “Rivista Marittima” dell’ottobre 2009, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
Lero, l’ultima isola
Quando fu annunciata
al mondo la notizia della firma dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, l’8
settembre 1943, l’Euro si trovava ormeggiato
a San Giorgio nella baia di Portolago, nell’isola di Lero, sede della maggiore
base navale italiana del Dodecaneso.
Delle quattro navi (Euro, Turbine, Crispi, Sella) che formavano all’8 settembre la
IV Squadriglia Cacciatorpediniere, dislocata nel Dodecaneso agli ordini del
Comando Marina Egeo (Rodi), l’Euro
era l’unica a trovarsi nell’arcipelago in quel momento: Turbine e Crispi,
infatti, erano al Pireo, dove furono catturati dai tedeschi, mentre il Sella era a Venezia per lavori (partito
l’11 settembre per raggiungere un porto del sud, venne affondato in Adriatico
da motosiluranti tedesche). In tal modo l’Euro,
al comando del capitano di fregata Vittorio Meneghini, si ritrovò ad essere la
nave da guerra italiana più grande e potente presente nel Dodecaneso.
La situazione nel
Dodecaneso andò rapidamente precipitando dopo l’armistizio, quando le forze
tedesche passarono all’azione con l’obiettivo di occupare l’intero arcipelago
prima che potessero farlo gli Alleati, schiacciando qualsiasi reazione da parte
delle forze italiane, che dal canto loro non avevano chiari ordini su come
comportarsi nei confronti degli ex alleati. I primi scontri tra truppe italiane
e tedesche scoppiarono nell’isola principale dell’arcipelago, Rodi, sede del
governatore del Dodecaneso, ammiraglio Inigo Campioni, e dei comandi delle
forze armate italiane nell’Egeo (Egeomil, Mariegeo); era a Rodi che era
concentrata la quasi totalità delle truppe tedesche nell’Egeo (circa 8000
uomini), comandate dal generale Ulrich Kleeman.
A Lero la notizia
dell’armistizio, che fu annunciato dagli Alleati (proclama del generale Dwight
Eisenowher a Radio Algeri) prima che dalle autorità italiane, fu ricevuta alle
18.30 dell’8 settembre, per tramite del locale servizio intercettazioni radio
straniere. Sulle prime, la notizia venne ricevuta con incredulità e tenuta
segreta; ma dopo poco più di un’ora, con il giornale radio italiano delle 20,
giunse la conferma ufficiale da parte italiana, sotto forma del proclama del
maresciallo Badoglio. Come altrove, la notizia dell’armistizio, che molti
credettero significasse la fine di quella guerra disastrosa, diede luogo ad
inconsulte esplosioni di euforia, soprattutto da parte degli operai della
locale Officina Mista ma ancor più, per ovvie ragioni, da parte della
popolazione civile greca: le chiesette dei paesi dell’isola suonarono le campane
a distesa fino a notte. Ben più tesa l’atmosfera nel Comando, dove si intuì
subito che sarebbe stata prevedibile una dura reazione tedesca: i comandi
subordinati, insieme alla notifica dell’armistizio, ricevettero l’ordine di
tenere consegnato il personale; venne disposto lo stato di emergenza
eccezionale, e l’ordine di Badoglio di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza [cioè, non
angloamericana]» venne subito interpretato, a differenza che in tanti altri
ambiti, come una espressa autorizzazione a rispondere con le armi a qualsiasi
atto ostile da parte degli ex alleati tedeschi. Nel giro di qualche ora,
dunque, tutte le difese di Lero vennero allertate e preparate a reagire ad
eventuali attacchi.
A bordo dell’Euro si trovavano imbarcati, al momento
dell’armistizio, alcuni segnalatori tedeschi; vennero immediatamente sbarcati e
trasferiti presso il locale campo d’aviazione, dove furono posti sotto
sorveglianza. Erano questi gli unici tedeschi presenti a Lero, insieme ad un
sottufficiale della Luftwaffe che si trovava di passaggio e che fu sottoposto
ad analoghe misure cautelative. (Secondo alcune fonti, dopo l’annuncio
dell’armistizio "fu ordinato di
entrare a Lero a tutte le unità che si trovavano in mare, ordine che solo
il cacciatorpediniere Euro fu in grado di eseguire", il che
sembrerebbe significare che al momento dell’armistizio l’Euro si trovava in mare, e che raggiunse Lero per ordine di quel
Comando; ma di questo non si parla nel volume USMM "Avvenimenti in Egeo
dopo l’armistizio", il quale sembra invece dare ad intendere che l’Euro si trovasse già a Lero in quel
momento).
Le prime ore
successive all’armistizio furono cariche di tensione ed incertezza; da Rodi
giungevano poche e parziali notizie su quanto vi stava accadendo, ed a Lero non
si era sicuri di come comportarsi con mezzi aerei e navali tedeschi che non
manifestassero intenzioni ostili, come il ricognitore della Luftwaffe che compì
due sorvoli sopra l’isola nella mattina del 9 settembre. Da Rodi venne risposto
che gli aerei tedeschi andavano considerati nemici soltanto se compivano atti
ostili. Sull’Euro l’ordine fu di
stare ai posti di combattimento, ma senza fare fuoco.
Proprio a Rodi,
intanto, si stavano accendendo i primi scontri tra italiani e tedeschi nel Dodecaneso.
Dopo l’armistizio l’ammiraglio Campioni aveva ordinato alle truppe di stare
all’erta ed aveva intimato ai tedeschi di non compiere spostamenti, che
avrebbero potuto provocare reazioni da parte italiana; alle 2.15 era arrivata
una comunicazione del Comando Supremo che assumeva il controllo diretto
dell’Egeo (dalle 23 dell’8 settembre) e dava al Comando la “libertà” di
assumere nei confronti dei tedeschi “l’atteggiamento che si ritenesse più
conforme alla situazione”, prescrivendo tuttavia di disarmarli nel caso fossero
prevedibili atti ostili. Quest’ultimo ordine presupponeva che i tedeschi
fossero disposti a lasciarsi disarmare: e non era proprio così; in verità,
mentre il Comando Supremo ed i vertici del governo e della monarchia avevano
tenuto i Comandi oltremare all’oscuro dell’armistizio fino al momento del suo
annuncio, i comandi tedeschi si erano preparati già da mesi alla probabile
defezione dell’Italia, e sapevano già cosa fare. Mentre l’ammiraglio Campioni,
incerto sul da farsi, alternava le discussioni con il locale comandante tedesco
(che sosteneva di non avere intenzioni ostili contro gli italiani) a quelle con
la missione britannica inviata a Rodi per persuaderlo ad agire decisamente
contro i tedeschi, le truppe tedesche, che da una parte prendevano tempo con
inutili trattative, dall’altra cercavano di assumere il controllo dei due
aeroporti di Gadurrà e Maritza, vitali per il controllo dei cieli nel
Dodecaneso (in tutto l’arcipelago c’era un solo altro aeroporto, a Coo; a Lero
vi era soltanto un idroscalo con dieci idroricognitori CANT Z. 501, di cui
sette in condizioni di efficienza), e troncavano le comunicazioni fra i diversi
reparti italiani. La missione britannica, guidata dal maggiore George Jellicoe
(figlio dell’ammiraglio che aveva comandato la flotta britannica allo Jutland),
tentò di convincere Campioni a resistere ai tedeschi in attesa di rinforzi,
senza però promettere nulla su quando questi ultimi sarebbero arrivati, e quale
sarebbe stata la loro consistenza. Il generale Kleeman andava ripetendo ai suoi
ormai ex alleati italiani che suo intento era soltanto respingere eventuali
attacchi britannici, siccome la Germania ed il Regno Unito erano ancora in
guerra, e che le forze italiane, ora che l’armistizio era stato firmato, avrebbero
dovuto lasciargli libertà d’azione: non intendeva attaccare gli italiani. E
intanto, i suoi uomini conquistavano Maritza e Gadurrà – dopo scontri con i
locali presidi italiani, con perdite da a ambo le parti – e catturavano il
comandante e lo stato maggiore della Divisione "Regina".
Nel primo pomeriggio
del 9 settembre, appunto in seguito all’occupazione della base area di Maritza
da parte di truppe corazzate tedesche, il comandante della Zona Militare
Marittima dell'Egeo (con sede a Rodi), contrammiraglio Carlo Daviso di
Charvensod, propose all’ammiraglio Campioni di far venire l’Euro da Lero, per fargli bombardare con
le sue artiglierie l’aeroporto ormai in mano tedesca; ma la proposta fu
respinta. Alle 19.30 di quello stesso giorno, invece, Egeomil (il Comando
Superiore delle Forze Armate dell’Egeo, con sede a Rodi) ordinò a Marina Lero,
con un messaggio di precedenza assoluta, che l’Euro si recasse nell’isola di Coo, vi imbarcasse una compagnia di
fanteria (200 soldati) e la trasportasse a Rodi città («EGEOMIL 14689 ALT Prego disporre che C.T. Euro si rechi subito at Coo
per imbarcare immediatamente una compagnia destinata at Rodi alt Assicurate
inviando previsione anche at Coo»). Contestualmente, Egeomil ordinò che
anche il piroscafetto requisito Eolo,
adibito ai collegamenti di linea nel Dodecaneso, sbarcasse a Lero tutte le
merci ed i passeggeri che aveva a bordo e si recasse anch’esso a Coo per
imbarcarvi truppe da trasportare a Rodi.
Nella notte tra il 9
e il 10 settembre, pertanto, l’Euro
lasciò Lero e si recò a Coo; l’attracco notturno a Coo risultò piuttosto
difficoltoso, ma alla fine i 200 soldati vennero imbarcati, e l’Euro ripartì per Rodi. L’Eolo seguì l’Euro a Coo, ma poi non proseguì per Rodi, in quanto Mariegeo gli
ordinò di restare a Coo.
Alle dieci del
mattino del 10 settembre, mentre navigava lungo la rotta di sicurezza ad ovest
di Rodi (a otto miglia dall’isola secondo una fonte, a trenta secondo
un’altra), l’Euro venne attaccato da
un sommergibile non identificato, che gli lanciò tre siluri a ventaglio. Il
cacciatorpediniere li evitò con una pronta manovra (cui assistette anche
l’ammiraglio Daviso, che in quel momento si trovava sulla costa di Rodi, presso
la batteria Majorana), e le tre armi passarono a meno di cento metri dalla sua
poppa.
Solo molto tempo dopo
si sarebbe saputo che il sommergibile attaccante non era tedesco, ma
britannico: si trattava del Trespasser,
al comando del capitano di corvetta Richard Molyneux Favell. Alle 9.05 del 10
settembre (ora di bordo del Trespasser),
infatti, il battello britannico aveva avvistato l’Euro sette miglia a sudest di Capo Alupo, e siccome esso batteva
bandiera italiana ma non un “pennello blu” che indicasse la sua adesione
all’armistizio (in realtà, il pennello avrebbe dovuto essere nero; comunque, da
parte italiana non vi sono notizie su questo dettaglio, dunque non risulta qui
possibile sapere se effettivamente l’Euro
ne fosse sprovvisto o se il comandante britannico non lo vide), Favell aveva
deciso di attaccarlo. Il Trespasser
aveva lanciato ben cinque siluri, che l’Euro
aveva evitato con la sua manovra, riuscendo così a non diventare la prima
vittima di “fuoco amico” degli ormai nuovi alleati angloamericani a soli due
giorni dall’armistizio.
Alla fine, però, la
missione dell’Euro a Rodi si rivelò
soltanto uno spreco di tempo: nel frattempo, infatti, erano affluite a Rodi
città altre truppe provenienti dall’interno dell’isola, rendendo superfluo
l’invio di 200 soldati da Coo. Quando già l’Euro
era arrivato in prossimità del porto di Rodi, Mariegeo gli ordinò pertanto di
non entrare in porto, ma di restare al largo, fuori dal tiro delle batterie, aspettando
ordini; dopo non molto gli diede ordine di riportare le truppe a Coo e poi
tornare a Lero. Così fu fatto. Il comandante Meneghini ebbe modo di osservare
che a Rodi si stavano svolgendo combattimenti tra italiani e tedeschi, con
utilizzo di artiglieria da parte di entrambi, cosa che riferì al suo ritorno a
Lero. Il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Gennaro Caronna,
scrisse poi nella sua relazione che verso le otto del mattino del 10 settembre,
quando l’Euro giunse in vista di
Rodi, vennero avvistate le colonne di fumo che indicavano i combattimenti in
corso sull’isola.
Rientrato a Lero, l’Euro tentò inutilmente di mettersi in
contatto radio con il suo caposquadriglia, il Francesco Crispi: ma
quella nave, che si trovava al Pireo, era già caduta in mano tedesca, e
ovviamente non giunse risposta. L’Euro
passò dunque agli ordini del Comando Marina di Lero.
A Rodi, nel mentre, la
situazione precipitava: nell’isola si erano accesi vari scontri tra italiani e
tedeschi, ma non c’era da parte italiana una difesa coordinata; i tedeschi
erano riusciti a troncare i collegamenti tra diversi reparti e specialmente tra
Rodi città, sede del comando di Campioni, ed il grosso delle truppe, dislocato
nel resto dell’isola. Qua e là si combatteva confusamente, senza avere un’idea
della situazione generale nel resto dell’isola; le artiglierie italiane e
tedesche si scambiavano colpi ed un attacco tedesco ad uno degli aeroporti
venne respinto, ma i tedeschi tornarono alla carica con l’appoggio di mezzi
corazzati ed occuparono la base. Le truppe italiane persero parecchie armi
pesanti, mentre le loro artiglierie, in gran parte antiquate, andavano incontro
a rapido logoramento; anche la Luftwaffe, ormai incontrastata, intervenne
all’alba dell’11 settembre bombardando la periferia di Rodi città, colpendo le
batterie Santo Stefano e Majorana e distruggendo la stazione radio, il che rese
l’ammiraglio Campioni ancor più isolato dalle sue truppe. Alle undici di quel
mattino un ufficiale tedesco, inviato da Kleeman, intimò a Campioni la resa,
minacciando in caso contrario di bombardare la città di Rodi e di scatenare
un’offensiva aerea su tutta l’isola; Campioni aveva mezz’ora per decidere.
L’ammiraglio esitò ancora, ma alle 11.30, come previsto, gli Stukas tedeschi
iniziarono a bombardare, colpendo dapprima obiettivi militari; giudicando la
situazione molto grave, essendo rimaste ormai in mano italiana poche artiglierie,
scarseggiando le munizioni e ritenendo di non poter ricevere aiuto
dall’esterno, Campioni si rassegnò a capitolare. Aveva influito su questa
decisione anche il collasso della rete di comunicazioni, che impediva
all’ammiraglio di controllare le sue truppe e di comprendere il quadro generale
della situazione: in altre parti dell’isola, infatti, la situazione sul campo
non pareva così disperata, e in molte parti la notizia della resa fu accolta
dai soldati con rabbia e incredulità. Ma Rodi era caduta.
Le truppe tedesche
mossero progressivamente all’occupazione del resto dell’Egeo: prima le Cicladi,
peggio difese, poi varie isole minori delle Sporadi e del Dodecaneso. Alcune
caddero combattendo, altre furono sgomberate dalle loro guarnigioni, o si arresero
subito giudicando la loro situazione – presidi isolati, poco armati, privi di
veri e propri apprestamenti difensivi e di appoggio aereo che potesse
contrastare lo strapotere della Luftwaffe – senza speranza. I britannici
corsero ai ripari inviando rinforzi a Lero, a Coo, a Samo, a Castelrosso, a
Simi ed in qualche altra isola: troppo poco, troppo tardi, come avrebbero
mostrato i fatti.
In seguito alla
caduta di Rodi, il comando delle forze armate italiane nell’Egeo passò al
generale Mario Soldarelli, che aveva il suo quartier generale nell’isola di
Samo; il comando della Zona Militare Marittima dell'Egeo (Mariegeo) venne
assunto dal capitano di vascello Luigi Mascherpa, comandante militare di Lero,
che era rimasto l’ufficiale di grado più elevato della Regia Marina nel
Dodecaneso. Mascherpa, dopo le incertezze dei primi giorni, era giunto alla
conclusione che i tedeschi dovevano essere ormai inequivocabilmente considerati
come nemici, dato che si erano comportati come tali fin da subito dopo l’armistizio;
da essi ci si doveva difendere con decisione. Riconfermò la propria lealtà al
Governo italiano e richiese di sapere chi non condividesse tale linea di
pensiero. Nei successivi due mesi, si registrarono soltanto due casi di
“dissidenza” in tutta la guarnigione di Lero; l’adesione alla decisione del
comandante Mascherpa di resistere ai tedeschi fu praticamente unanime,
condivisa persino dalle camicie nere della 402a Compagnia
mitraglieri della M.V.S.N. (centurione Dante Calise), che avrebbero poi partecipato
ai combattimenti contro i tedeschi, insieme a soldati e marinai. Prima
preoccupazione del comandante Mascherpa, una volta chiarita la situazione, fu
dunque di provvedere a rafforzare le difese dell’isola: soprattutto quelle
contraeree, perché c’era da aspettarsi che la Luftwaffe non sarebbe rimasta con
le mani in mano.
Presa Rodi, le forze
tedesche avrebbero ora attaccato, uno dopo l’altro, tutti i presidi italiani
nelle rimanenti isole dell’Egeo; i comandi Alleati, rimasti inattivi nei primi
giorni dopo l’armistizio, iniziarono ad inviare rinforzi alle truppe italiane
in Egeo, per scongiurare la caduta di tutto l’arcipelago in mano tedesca. Il 12
settembre arrivò a Lero una prima missione britannica, seguita da una seconda
il giorno seguente; vennero così stabiliti i collegamenti con i comandi
britannici del Medio Oriente, mentre truppe britanniche iniziavano ad affluire
a Coo. Il 13 settembre Lero subì il primo degli innumerevoli attacchi aerei
tedeschi che l’avrebbero martoriata nei due mesi a venire. Il 14 settembre
giunse a Lero una terza e più completa missione britannica (colonnello
Turnbull, tenente colonnello Wheeles, capitano di fregata Heilstone, maggiori
Blagden e Lloyd Owen, capitano Fassnidge) che iniziò a studiare i piani della
difesa insieme al comandante Mascherpa; tra le questioni affrontate vi fu anche
la sorte del naviglio militare italiano presente a Lero: cioè l’Euro, i posamine Azio e Legnano, la nave
appoggio sommergibili Alessandro Volta
e la flottiglia MAS e motosiluranti. In base alle disposizioni armistiziali,
queste navi avrebbero dovuto trasferirsi nella più vicina base navale Alleata,
cioè Haifa (Palestina), ma da parte italiana fu avanzata la richiesta che esse
fossero invece trattenute a Lero, restando agli ordini del Comando italiano,
per appoggiare la difesa dell’isola. Il Comando britannico del Medio Oriente
accolse in toto tale proposta, così l’Euro
e le altre navi rimasero a Lero.
Nella notte tra il 15
ed il 16 arrivarono a Lero i primi rinforzi britannici, seguiti il 17 da altri
400 soldati britannici; il 20 settembre arrivò un altro e più nutrito
contingente britannico (600 uomini) e con esso il generale Frank G. R.
Brittorous, che assunse il comando delle forze britanniche a Lero; non mancò un
certo attrito tra lui e Mascherpa, nel frattempo promosso a contrammiraglio,
dal momento che l’inglese fece affliggere proclami in cui si parlava delle
truppe britanniche come “occupanti” dell’isola. Dopo la protesta da parte
italiana, il testo dei proclami venne modificato; all’ammiraglio Mascherpa fu
riconosciuto il comando sulle truppe italiane ed anche sulla popolazione
civile, ma la sua posizione rimase subordinata a quella di Brittorous. Anche
Brittorous convenne con il comando italiano che l’Euro sarebbe rimasto a Lero «per eventuali missioni», al pari di Volta, Azio, Legnano ed il
piroscafo frigorifero Ivorea (carico
di carne congelata per la guarnigione), mentre gli altri piroscafi sarebbero
stati inviati a Cipro. Per diminuire il rischio che un singolo bombardamento
aereo potesse distruggere in un sol colpo questa sparuta flottiglia, venne
disposto il decentramento degli ancoraggi: ogni unità fu fatta ormeggiare in un
posto diverso, e all’Euro, in
particolare, venne assegnato un posto d’ormeggio in località San Giorgio.
Vennero richiesti
rinforzi in armi, munizioni e viveri: per quanto riguardava le armi, giunsero
una cinquantina di fucili ed una novantina di mitra.
Il 17 settembre
arrivò a Lero anche la piccola guarnigione dell’isoletta di Alimia, che aveva
lasciato quell’isola la sera del 15 su due motopescherecci: giudicando Alimia
indifendibile con le poche forze a sua disposizione, il comandante di quel
presidio aveva preferito sottrarre i suoi uomini alla cattura andando a
rinforzare la guarnigione di Lero. Avevano portato con loro armi e provviste.
Il 22 settembre
sbarcarono a Lero altri mille soldati britannici, mentre nei giorni successivi
cominciò a spargersi la preoccupante notizia dell’eccidio di Cefalonia. Per
rincarare la dose, aerei tedeschi lanciarono sull’isola volantini firmati dal
generale Ulrich Kleeman (comandante delle truppe tedesche nel Dodecaneso), nei
quali si annunciava: «Marinai di Lero!
Conosciamo i nomi di coloro che vi hanno venduti agli inglesi. Quando
sbarcheremo li sottoporremo a terribili torture».
Il 26 settembre, dopo
alcuni giorni di frequenti ricognizioni aeree, cominciò lo stillicidio di
attacchi aerei della Luftwaffe.
Alle nove di quel
mattino un gruppo di circa 25 bombardieri Junkers Ju 88 (altre fonti parlano di
Junkers Ju 87, i famosi “Stukas”) piombarono su Portolago cogliendo tutti di
sorpresa: la caduta dell’isola di Sira, il cui comando aveva deciso per la
capitolazione ai tedeschi senza opporre resistenza, aveva infatti eliminato
ogni possibilità di avvistamento e preallarme per gli attacchi aerei
provenienti da ovest; i britannici avevano portato a Lero dei radar per la
scoperta aerea, ma in quel momento non avevano ancora finito di montarli.
Gli Ju 88 scesero
così in picchiata su Portolago prima ancora che la DICAT (Difesa Contraerea
Territoriale) potesse dare l’allarme; in rada si trovavano in quel momento l’Euro ed altri due cacciatorpediniere, il
britannico Intrepid ed il greco Vasilissa Olga, nonché alcune unità
minori e navi mercantili. A bordo del Vasilissa
Olga si trovava in quel momento in visita una scolaresca greca, che col
permesso del Comando italiano (che aveva invece rifiutato la richiesta di una
visita ufficiale da parte della popolazione locale) aveva voluto visitare la
prima nave greca che fosse giunta in quelle acque dallo scoppio della guerra.
Disgrazia volle che proprio il Vasilissa
Olga venisse colpito in pieno dalle bombe tedesche: in poco tempo la nave
affondò capovolgendosi in un mare di nafta in fiamme. Decine di naufraghi
vennero soccorsi da varie barche e motolancie armate da volontari italiani del
Comando Marina e del vicino aeroporto, ma 72 membri dell’equipaggio del Vasilissa Olga persero la vita, insieme
ad un imprecisato numero di scolari. Venne distrutto dalle bombe il MAS 534, mentre l’Intrepid, colpito e fortemente sbandato, venne portato a poggiare
su un bassofondale. Il rimorchiatore militare Tavolara, che stava rimorchiando una bettolina carica di fusti di
nafta, fu attaccato a più riprese; non venne mai colpito da bombe, ma le
schegge degli ordigni scoppiati vicini provocarono nello scafo sia del Tavolara che della bettolina una
quantità di fori, dai quali entrambi i natanti iniziarono ad imbarcare acqua.
Per evitare l’affondamento, il comandante del Tavolara portò la sua nave e la bettolina ad arenarsi su una vicina
spiaggia.
L’Euro ebbe maggior fortuna: pur
trovandosi anch’esso ormeggiato e costituendo dunque un bersaglio perfetto
(parecchie bombe caddero infatti nelle sue vicinanze), il cacciatorpediniere
non riportò danni, anche se due membri dell’equipaggio rimasero feriti. Riuscì,
anzi, ad abbattere un aereo, e a danneggiarne un altro.
Mentre la prima
ondata di bombardieri si concentrò sulla rada e sulle navi ivi presenti, la
seconda attaccò anche la zona di San Giorgio, con effetti particolarmente
distruttivi per le installazioni militari: furono colpiti l’officina mista, la
caserma sommergibili, la caserma della base, l’officina accumulatori ed altri
impianti minori.
Nel pomeriggio, alle
15.30, la Luftwaffe effettuò un secondo pesante bombardamento su Portolago:
anche questa volta l’attacco fu rapido e violento, ma stavolta la contraerea
reagì con prontezza un po’ maggiore rispetto al mattino. L’Intrepid fu colpito ancora ed incendiato; venne raggiunto da mezzi
di soccorso italiani (li armavano gli stessi volontari della mattina, tra cui i
capitani di corvetta Corradini e Napoli, che vennero per questo elogiati da
Tilney con un apposito ordine del giorno) che prelevarono una trentina di
feriti gravi, dopo di che affondò lentamente, capovolgendosi. Il resto
dell’equipaggio raggiunse a nuoto la vicina riva; le vittime furono 15. Da
parte italiana, furono danneggiati la motosilurante MS 11 ed i piroscafi Prode
e Taganrog (quest’ultimo era un
piroscafo tedesco, catturato a Rodi durante gli scontri svoltisi in quell’isola
e mandato a Lero con equipaggio italiano). Tra le installazioni a terra,
l’officina mista, la caserma della base e la caserma sommergibili vennero
colpite ancora e completamente distrutte; furono distrutti anche quattro
depositi carburante su un totale di cinque che esistevano nella base, ma
fortuna volle che fossero tutti vuoti e che l’unico rimasto intatto fosse
proprio quello pieno (il quale rimase integro fino alla caduta di Lero).
In tutto, i
bombardamenti del 26 settembre causarono oltre 300 morti, tra italiani (in
maggioranza), britannici e greci, oltre ad un imprecisato numero di feriti. La
difesa contraerea ritenne di aver abbattuto almeno sette aerei.
Il secondo
bombardamento sorprese l’Euro proprio
mentre stava per lasciare l’ormeggio alla banchina di San Giorgio: il
cacciatorpediniere si difese accanitamente con le proprie mitragliere
contraeree, e di nuovo non ebbe danni, anche se caddero a bordo diverse
schegge. Una bomba lo mancò di pochissimo, cadendo in mare a pochi metri di
distanza. Scrisse poi il direttore di macchina Caronna: «Molto è da attribuire al perfetto tiro delle mitragliere di bordo che
disturbarono decisamente gli attacchi aerei nei momenti più decisivi ed al
comportamento degli ufficiali e dell’equipaggio».
Subito dopo questa
incursione, al fine di sottrarsi ad altri attacchi aerei, l’Euro si spostò nella baia di Parteni
(sulla costa settentrionale dell’isola), ormeggiandosi a pochissima distanza
dalla riva (nei limiti di quanto era permesso dalla profondità dei fondali);
l’equipaggio cercò meticolosamente di mimetizzare la nave con rami e frasche,
ma le continue apparizioni dei ricognitori tedeschi vanificarono questo
tentativo, anche se per quattro giorni non si ebbero attacchi.
Con la distruttiva
incursione del 26 settembre era iniziato l’«assedio aereo» di Lero, il
sistematico martellamento dell’isola volto ad annichilirne le difese e le
installazioni militari in preparazione dello sbarco dal mare della forza
d’invasione tedesca. Per l’operazione contro Lero, la Luftwaffe trasferì in
Egeo aerei sia dalla Francia che dal fronte orientale; gli aerei che
attaccavano Lero partivano dalle basi di Eleusi (bombardieri), Megara e Maritza
(cacciabombardieri), Kalamaki ed Argo (caccia).
Il 27 un secondo
bombardamento colpì le installazioni dell’Aeronautica, danneggiando gli
impianti a terra e distruggendo due idrovolanti; il 29 ottobre Lero venne
bombardata da ben 60 aerei. L’offensiva aerea non risparmiò neanche gli
abitati, a partire da Lero città e da Portolago, che furono duramente colpiti.
La fine per l’Euro giunse il 1° ottobre 1943, quando
Lero fu sottoposta ad un nuovo bombardamento da parte di 40 velivoli della
Luftwaffe. Alle undici di quel mattino, dei bombardieri Junkers Ju 88 (alcune
fonti Internet parlano di Junkers Ju 87 “Stuka”, ma la storia ufficiale
dell’USMM afferma che l’attacco fu compiuto dagli Ju 88, e di aerei di
quest’ultimo tipo parla la relazione del direttore di macchina Caronna) presero
di mira proprio il cacciatorpediniere italiano, ancora ormeggiato a Parteni;
parte dell’equipaggio dell’Euro era
in quel momento a terra, a poppa della nave, per dei lavori in corso. Le
mitragliere dell’Euro aprirono subito
il fuoco, ma la prima ondata di bombardieri, sopraggiunti volando ad alta quota
e buttatisi in picchiata, fu subito letale per la nave italiana: alcune bombe
scoppiarono a terra, proiettando sul vicino Euro
dei cumuli di fango che coprirono ed incepparono le mitragliere, impedendo di
continuare il tiro; altre bombe caddero in mare, vicinissime alla nave, e con
le loro esplosioni provocarono falle e sconnessioni nelle lamiere dello scafo,
che iniziò ad imbarcare acqua. Per effetto di queste vie d’acqua, che
provocarono il rapido allagamento di diversi locali, l’Euro cominciò ben presto a sbandare sulla dritta, assumendo in
breve una marcata inclinazione (40°, il che impedì l’utilizzo delle mitragliere
rimaste efficienti) per poi adagiarsi sul fondale, sempre sbandato. Inutile
ogni tentativo di salvataggio da parte degli uomini presenti a bordo: la nave
venne sommersa quasi completamente, e dovette essere abbandonata
dall’equipaggio. Così si concluse la vita dell’Euro: fu l’ultimo cacciatorpediniere italiano ad essere affondato
durante la seconda guerra mondiale.
Anche dopo che l’Euro fu affondato, altre ondate di aerei
tedeschi si abbatterono su quello che ormai era niente più che un relitto,
bombardandolo ancora. I velivoli della Luftwaffe mitragliarono anche gli uomini
che, gettatisi in mare, avevano cercato riparo tra le rocce della riva: morì
così il marinaio Francesco De Rizzo, che insieme all’amico sergente furiere Giovanni
Ralla era riuscito a raggiungere a nuoto la riva dopo l’affondamento dell’Euro. Giunti a terra, si erano divisi:
Ralla si era rifugiato sotto un albero, De Rizzo sotto una vicina batteria
contraerea. Poco dopo la batteria venne mitragliata da alcuni degli aerei
tedeschi, e De Rizzo fu colpito da dei proiettili alle gambe: morì dissanguato,
senza che Ralla o chiunque altro potesse portargli aiuto, a causa del
mitragliamento che continuava.
Il marinaio furiere Francesco De Rizzo, 22 anni, da Schio (Vicenza), morto il 1° ottobre 1943 nell’attacco aereo in cui fu affondato l’Euro (per g.c. del nipote Alberto De Rizzo) |
Parte di una lettera scritta da un parente di Francesco De Rizzo, in cui si narra l’incontro con Giovanni Ralla ed il suo racconto della morte di Francesco (g.c. Alberto De Rizzo) |
Secondo la relazione
del direttore di macchina Caronna ed il volume dell’USMM "Avvenimenti in
Egeo dopo l’armistizio" (che sembra basarsi su tale relazione nel redigere
la descrizione di quegli avvenimenti), sette uomini dell’Euro rimasero uccisi nell’attacco; tutti gli ufficiali furono
feriti da schegge, anche se nessuno in modo grave.
Sull’identità delle
vittime dell’affondamento, però, sembra esistere una certa confusione. L’Albo
dei Caduti della Marina Militare nella seconda guerra mondiale elenca cinque
uomini dell’Euro deceduti o dispersi
il 1° ottobre 1943, data dell’affondamento, nonché altri undici membri
dell’equipaggio che sarebbero morti o scomparsi a Lero tra l’ottobre ed il
novembre 1943, ma in date diverse; le vittime dell’affondamento (in data
1/10/1943) sarebbero state:
Sergio Gabici, marinaio, 21 anni, da Ravenna,
disperso
Pietro Giardina, marinaio nocchiere, 20 anni,
da Lipari, deceduto
Giovanni Grasso, sergente cannoniere, 25 anni,
da Bagheria, deceduto
Gastone Saltini, capo cannoniere di terza
classe, 39 anni, da Firenze, deceduto
Giordano Testa, marinaio fuochista, 22 anni,
da Milano, disperso
Il tenente di
vascello Oscar Ciani, comandante in seconda dell’Euro, nella relazione stesa al rientro dalla prigionia (dicembre 1944)
affermò che le vittime dell’azione che portò all’affondamento dell’Euro furono sette, e che si trattava di:
Francesco De Rizzo, marinaio furiere, 22 anni,
da Schio
Giorgio Gianfranchi, marinaio nocchiere, 20
anni, da La Spezia
Pietro Giardina, marinaio nocchiere, 20 anni,
da Lipari
Giovanni Grasso, sergente cannoniere, 25 anni,
da Bagheria
Emilio Russo, marinaio motorista, 23 anni, da
Castellammare di Stabia
Gastone Saltini, capo cannoniere di terza
classe, 39 anni, da Firenze
Giovanni Tantillo, sottocapo nocchiere, 21
anni, da Palermo
Ciani precisò inoltre
che le salme di De Rizzo, Santini, Grasso, Russo e Giardina furono sepolte nel
locale cimitero italiano, mentre quella di Tantillo venne trovata due giorni
dopo l’affondamento e fu sepolta a Parteni, e quella di Gianfranchi non fu mai
ritrovata.
Stranamente, nell’Albo
dei Caduti della Marina Militare la data di morte di Francesco De Rizzo, Emilio
Russo, Giorgio Gianfranchi e Giovanni Tantillo è indicata nel 5 ottobre 1943,
sebbene dalla relazione di Ciani risulti che essi morirono il 1° ottobre
nell’attacco che affondò la nave, e le circostanze della morte di De Rizzo sono
ulteriormente confermate dal racconto che Giovanni Ralla fece allo zio al
rientro dalla prigionia. Appare qui evidente un errore dell’Albo.
Ulteriore confusione
è causata dalle decorazioni alla memoria conferite ad alcuni dei caduti:
secondo le motivazioni di tali onorificenze, sarebbero morti nell’affondamento:
Saverio Bergamin, marinaio fuochista, 20 anni,
da San Martino di Lupari
Giorgio Gianfranchi, marinaio nocchiere, 20
anni, da La Spezia
Pietro Giardina, marinaio nocchiere, 20 anni,
da Lipari
Giovanni Grasso, sergente cannoniere, 25 anni,
da Bagheria
Gastone Saltini, capo cannoniere di terza
classe, 39 anni, da Firenze
Giovanni Tantillo, sottocapo nocchiere, 21
anni, da Palermo, deceduto
Il capo cannoniere
Gastone Saltini, il sottocapo nocchiere Giovanni Tantillo, il marinaio
fuochista Saverio Bergamin ed i marinai nocchieri Giorgio Gianfranchi e Pietro
Giardina furono decorati alla memoria con la Medaglia di Bronzo al Valor
Militare, con motivazione “Imbarcato su
ct. restava al suo posto di combattimento sino al momento dell’affondamento
dell’unità contrastando validamente gli attacchi in picchiata degli aerei
nemici ed immolando la propria vita al servizio della Patria”. Anche il
sergente cannoniere armarolo Giovanni Grasso fu decorato con la Medaglia di
Bronzo alla memoria, con la motivazione “Imbarcato
su cacciatorpediniere dislocato in base navale avanzata che all’armistizio si
opponeva con eroica resistenza agli attacchi di forze preponderanti tedesche,
nel corso di violento attacco aereo rimaneva impavido al proprio posto di
combattimento fino a che, colpito mortalmente, immolava la propria vita al servizio
della Patria. Esempio di dedizione al dovere e spirito di sacrificio”.
Secondo la relazione
di Ciani, tuttavia, il marinaio fuochista Saverio Bergamin non morì
nell’affondamento dell’Euro, bensì
durante i successivi combattimenti terrestri contro i tedeschi, presso una
posizione antisbarco. La data della sua morte è indicata dall’Albo dei Caduti
della Marina Militare nel 10 novembre 1943.
Tra i feriti
nell’attacco che provocò l’affondamento dell’Euro erano il sottocapo furiere Nario Aspromonti, i cannonieri
Raffaele Ardolino e Mario Casalin, il militarizzato Nunzio Scolaro.
Alcuni
documenti relativi all’affondamento dell’Euro:
un elenco (probabilmente approssimativo ed incompleto) dell’equipaggio presente
a bordo, la relazione del direttore di macchina Gennaro Caronna, un documento
con i nomi delle vittime dell’attacco aereo (Ufficio Storico della Marina
Militare, via Alberto De Rizzo)
L’equipaggio dell’Euro, dopo la perdita della nave, si
aggregò inizialmente al Distaccamento di Parteni, venendo in parte alloggiato
in una grotta, nella quale furono portati feriti ed ammalati. La maggior parte
degli illesi si offrì per armare batterie costiere e contraeree e per servizi
di stazione segnali, centrali elettriche ed officine. Gli specialisti rimasti
illesi vennero immediatamente “assorbiti” dalla Difesa, venendo assegnati a
diversi servizi nelle varie batterie in base alle rispettive categorie; del
resto dell’equipaggio, una parte andò ad armare una batteria anticarro da 47/32
mm (su quattro pezzi, divisi in due sezioni, dotati esclusivamente di granate
perforanti) ceduta dai britannici e piazzata nella baia di Gurna (Settore
Centro, sulla costa occidentale, in corrispondenza della “strozzatura” centrale
di Lero), un’altra armò una sezione di cannoni da 76/17 mm nella baia di
Xerocampo (Settore Sud, più precisamente a sudest), ed un’altra ancora andò a
formare un plotone destinato alla difesa ravvicinata del caposaldo della
batteria P.L. 989 (Capo Timari-Parteni, sulla costa occidentale di quella
baia), nel Settore Nord. A Parteni (Settore Nord) fu creato un Gruppo "Euro".
Questi plotoni
facevano parte – insieme ad altri formati anch’essi da naufraghi di navi
affondate o danneggiate, da uomini in eccedenza rispetto al personale delle
batterie e dei servizi, e da altri racimolati alla meglio dove era stato
possibile – della forza creata dal Comando della Difesa con il compito della
difesa terrestre; in tutto, 22 ufficiali e 700-800 uomini, di cui un centinaio
nel settore Nord, circa 400 nel settore Centrale e circa 300 in quello Sud,
suddivisi in plotoni. Ogni plotone era formato da 36 uomini, suddivisi in tre
squadre e comandati da un ufficiale; si trattava di reparti eterogenei, formati
con personale di svariate categorie e specialità, poco addestrati al
combattimento terrestre (trattandosi di marinai imbarcati sulle navi o di
personale addetto ai servizi) e con armamento scarso e superato (molti di essi
erano armati con gli antidiluviani fucili Vetterli, ceduti dall’Esercito:
risalivano al 1870 ed erano superati già ai tempi della Grande Guerra), ma
nonostante questi problemi «questi plotoni erano moralmente sani, pieni di
buona volontà e diedero, nei giorni della prova, ottimi risultati».
Così suddivisi, gli
uomini dell’Euro avrebbero continuato
a partecipare alla difesa di Lero.
Lo stesso avvenne per
gli ufficiali: il comandante Meneghini assunse il comando del Settore Nord-Est,
in cooperazione con il colonnello britannico Douglas Iggulden; il capitano del
Genio Navale Gennaro Caronna, direttore di macchina, fu assegnato alla
Direzione Officina Mista (secondo la sua relazione, terminati i lavori di
recupero armi e materiali dal relitto dell’Euro
Caronna si presentò al tenente colonnello del Genio Navale Ciucci, chiedendogli
di prenderlo alle sue dipendenze, e durante la successiva battaglia proseguì il
suo lavoro con anche numerose missioni su unità in mare); il tenente di
vascello Giulio Bernoni, direttore del tiro, venne destinato ai servizi di
rifornimento delle batterie e di riparazione delle artiglierie e delle
mitragliere (siccome l’incessante utilizzo delle artiglierie e mitragliere
determinava il loro logorio, in aggiunta ai tecnici dell’Officina Mista vennero
formate piccole squadre di cannonieri ed armaioli, sbarcati dalle navi
affondate dai bombardamenti, per provvedere al ripristino delle armi logorate:
lavoro eseguito alla meglio, «con una esasperata volontà di raggiungere lo
scopo», nelle grotte in cui erano state trasferite le officine, con gli
attrezzi che si erano potuti salvare dai bombardamenti). Il tenente di vascello
Oscar Ciani, comandante in seconda dell’Euro,
rimase invece con il personale residuato per occuparsi delle sue numerose
esigenze.
Essendo l’Euro affondato in acque basse, anche se
era quasi interamente sommerso (ne emergeva una ridotta porzione del ponte di
coperta a sinistra), fu possibile recuperare dal relitto parte delle armi e
munizioni ed altri materiali (tra cui materiale elettrico e meccanico), che
furono assegnati alla Difesa; non vennero rimossi i cannoni, perché le loro
munizioni erano state allagate nei loro depositi, mentre le mitragliere furono
recuperate per ricavarne parti di ricambio per quelle della difesa contraerea
dell’isola. L’opera di recupero fu condotta dal direttore di macchina Caronna,
in base agli ordini del comandante Meneghini, nelle ore dell’alba e del
tramonto, quando gli attacchi aerei tedeschi si facevano più rari.
Il 3 ottobre giunse
la notizia che Coo era caduta: ora le forze italo-britanniche nel Dodecaneso
non avevano più basi aeree a loro disposizione. Il dominio dei cieli era
saldamente in mano alla Luftwaffe, che continuò imperterrita a martellare Lero:
il 5 ottobre fu affondato il posamine Legnano,
l’indomani il piroscafo Ivorea. Il 6
ottobre il presidio britannico nell’isola di Calino, antistante Lero, venne
ritirato, essendo l’isola giudicata ormai indifendibile; il giorno seguente,
Calino fu occupata dai tedeschi. Questi lanciarono un attacco anche contro
l’isola di Simi, ma furono respinti. Il 9 ottobre fu bombardato l’abitato di
Lero, e venne danneggiato il posamine Azio.
Il 10 ottobre le batterie italiane di Lero iniziarono a cannoneggiare Calino,
allo scopo di disturbare i preparativi da parte dei tedeschi, i quali usavano
l’isola appena conquistata per preparare l’assalto contro Lero. L’11, per
ordine del comando britannico, Simi venne evacuata; il suo presidio fu
trasferito a Cipro. Il 22 ottobre, mentre proseguivano incessanti i
bombardamenti tedeschi su Lero, anche l’isola di Stampalia cadde in mano
tedesca. Il 25 ottobre un attacco aereo su Portolago affondò la motosilurante MS 15 e danneggiò la MS 11. Il 30 ottobre arrivarono a Lero
trecento soldati britannici del Royal East Kent Regiment, quanti rimaneva di un
intero battaglione che cinque giorni prima aveva perso 134 uomini
nell’affondamento del cacciatorpediniere Eclipse,
saltato su una mina.
Negli ultimi giorni
di ottobre l’intensità e la frequenza degli attacchi aerei tedeschi andò
scemando, e dall’1 al 6 novembre, mentre i comandi tedeschi concentravano
truppe e mezzi in preparazione dello sbarco, Lero fu lasciata in pace. Durante
questa pausa, il 5 novembre, arrivò a Lero il generale britannico Robert
Tilney, inviato a sostituire Brittorous, giudicato non adatto al suo compito.
Anche con Mascherpa crescevano i dissapori, tanto che i britannici richiesero
che si recasse al Cairo per discutere della situazione di Lero, ma intanto
domandavano al Comando italiano di sostituirlo con un ufficiale più
“collaborativo”: prevedendo che una volta al Cairo gli sarebbe stato impedito
di tornare a Lero, l’ammiraglio decise di restare nell’isola per condurne la
difesa.
Il 7 novembre
ripresero i bombardamenti aerei, ed il giorno seguente, mentre proseguivano
incursioni sempre più violente, sbarcò a Lero un altro battaglione britannico.
Alla fine, le forze italo-britanniche a Lero giunsero a contare quasi 12.000
uomini: 8320 italiani ed oltre 3500 britannici. Contro di essi, i tedeschi
avrebbero impiegato una forza numericamente di molto inferiore – tra i 1700 e i
2800 uomini, a seconda delle fonti – godendo però dell’incontrastato appoggio
della Luftwaffe.
Tra il presidio
italiano, il grosso era costituito da personale della Marina: 6065 tra
ufficiali e marinai, più 697 militarizzati. Solo un migliaio, però, erano
truppe di “prima linea”; il resto era personale dei servizi, o addetto alla
difesa costiera e contraerea. C’erano poi circa 1200 soldati dell’Esercito (il
I Battaglione del 10° Reggimento Fanteria della Divisione "Regina"),
400 avieri della Regia Aeronautica (il personale addetto alla base idrovolanti
"Rossetti" di Portolago e gli uomini della 147a Squadriglia
da Ricognizione Marittima), una quarantina di carabinieri ed una ventina di
guardie di finanza. Le difese costiere consistevano in cinque batterie
antinave, armate complessivamente con 4 cannoni da 152/50 mm, 15 da 152/40 mm
ed uno da 102/35 mm; otto batterie antisilurante, con 4 cannoni da 102/35 mm, 8
da 76/50 mm e 12 da 76/40 mm; dodici batterie a doppio scopo antisilurante e
contraereo, con 14 pezzi da 102/35 mm, 6 da 90/53 mm e 28 da 76/40 mm. In gran
parte si trattava però di artiglierie obsolete. Erano armate da personale della
Marina, comandato però da ufficiali dell’Esercito, che a loro volta
rispondevano al Comando FAM-DICAT che era retto da un ufficiale di Marina. Le
batterie contraeree comprendevano anche tre mitragliere pesanti da 37 mm, 15
mitragliere da 20 mm e 31 da 13,2 mm. Comandante della difesa terrestre era il
tenente colonnello Giuseppe Li Volsi dell’Esercito; comandante della difesa
marittima e della base navale il capitano di fregata Luigi Re; comandante del
fronte a mare e della difesa contraerea territoriale (FAM-DICAT) il capitano di
fregata Virgilio Spigai.
Le truppe britanniche
consistevano nel 2° Battaglione dei Royal Irish Fusiliers, nel 2° Battaglione
del Queen’s Own Royal West Kent Regiment, nel 4° battaglione del Royal East
Kent Regiment (detti anche “Buffs”) e nel 1° battaglione del King’s Own Royal
Regiment.
Secondo le fonti
ufficiali italiane, dal 26 settembre al 31 ottobre vi fu su Lero una media di
quattro bombardamenti al giorno, con l’impiego di 41 bombardieri, mentre dal 7
all’11 novembre la media fu di otto attacchi giornalieri, con 37 aerei
utilizzati in media in un giorno. Altre fonti parlano di 185 attacchi aerei
registrati in 35 giorni, cioè una media di cinque al giorno.
Il cannoneggiamento
contro Calino e l’incessante fuoco contraereo ebbero l’effetto di provocare una
forte usura nelle artiglierie di Lero, e soprattutto di consumare gran parte
delle munizioni (nel corso della “battaglia aerea” di Lero le artiglierie
dell’isola spararono circa 150.000 colpi); l’ammiraglio Mascherpa chiese ed
ottenne dal Comando Supremo, col permesso britannico, l’invio di due
cacciatorpediniere in missione di trasporto munizioni, ma le due navi furono
inesplicabilmente fermate ad Alessandria d’Egitto e non raggiunsero mai Lero.
Vennero invece impiegati dei sommergibili, sia italiani che britannici, i quali
però non potevano trasportare che miserrime quantità di rifornimenti: in un
totale di otto missioni non giunsero a Lero che 225 tonnellate di materiali, 17
uomini, dodici moderni cannoni Bofors da 40/56 mm ed una jeep. Pochi altri
rifornimenti, 213 tonnellate in tutto, giunsero su navi di superficie
britanniche; tra di essi un migliaio di proiettili da 90 mm con spoletta
dell’Esercito (probabilmente catturati dai britannici in Nordafrica: non erano
quelli inviati dall’Italia sui due cacciatorpediniere) e pochi colpi dello
stesso calibro con spoletta della Marina.
Alcuni pezzi erano a
tale punto usurati dal continuo tiro contraereo che scoppiarono; su altri, a
forza di sparare le molle di ritorno in batteria del cannone si snervarono, col
risultato che se i pezzi sparavano a forti elevazioni non rientravano più dalla
posizione di rinculo, per cui non potevano più essere impiegati nel tiro
contraereo, ma solo in quello antinave. Le batterie contraeree erano, peraltro,
tra i bersagli più presi di mira dai velivoli tedeschi. Gli artiglieri
impararono a conoscere le tecniche di attacco dei bombardieri tedeschi ed a
sviluppare adeguate misure per contrastarli: ad esempio, siccome il
bombardamento in picchiata permetteva solitamente di capire su quale batteria
l’aereo stesse puntando, si provvedeva ad evacuare momentaneamente tale
batteria, in modo da evitare perdite tra il personale, mentre quelle limitrofe
concentravano il loro tiro sull’aereo; cadute le bombe, i cannonieri della
batteria attaccata tornavano subito al posto (se la batteria era ancora
intatta) e riprendere il tiro contro l’aereo prima che riprendesse quota.
Inoltre, quando attaccavano obiettivi situati in valli incassate i bombardieri,
una volta sganciate le bombe, perdevano velocità nel riprendere quota, ed
esponevano così il “ventre” alle batterie situate sulle creste, che potevano
sparare da ridotta distanza: gli artiglieri impararono a sfruttare questo
momento di vulnerabilità, e la mitragliera binata da 37/54 del Monte Patella
(alto 248 metri, sito tra Gurna e Portolago e sede del comando FAM-DICAT)
rivendicò da sola l’abbattimento di otto velivoli con questo metodo. Ad ogni
modo, il consumo di munizioni andò incidendo sull’attività delle batterie
contraeree: verso la fine, i cannoni dovettero ridursi a sparare a colpo
sicuro, facendo economia di colpi e ricorrendo a proiettili di peggiore
qualità, avendo già consumato quelli migliori. La distribuzione delle munizioni
doveva essere effettuata nottetempo, perché di giorno i trasporti erano troppo
esposti ai continui attacchi dal cielo.
Il generale Tilney
aveva posto il suo comando sul Monte Maraviglia (un’altura di 204 metri situata
a levante della baia di Pandeli ed a sudovest del paese di Lero) e suddiviso
Lero in tre settori (settentrionale, centrale e meridionale), ognuno dei quali
assegnato ad un battaglione britannico; le truppe italiane della Marina e
dell’Esercito, ancorché male armate rispetto a britannici e tedeschi, avevano
una notevole forza numerica, ma Tilney le adibì esclusivamente a compiti di
difesa statica, con l’ordine di non lasciare per nessun motivo le posizioni.
Sia il contrattacco, che ogni sorta di iniziativa era loro proibita; questa
decisione fu giustificata da parte britannica con la presunzione che le truppe
tedesche, quando fossero sbarcate, avrebbero usato divise italiane per
confondere i difensori. Tutto ciò, naturalmente, non migliorava i rapporti tra
Tilney e Mascherpa. Ogni settore era comandato da un colonnello britannico,
affiancato da un ufficiale superiore italiano.
Anche da parte
tedesca, intanto, fervevano i preparativi: il 3 novembre si riunirono a Laurion
(Attica, non molto lontano da Atene) le unità navali incaricate del trasporto
della forza da sbarco, e della scorta di quest’ultima. La flottiglia da sbarco
consisteva in 6 cannoniere ausiliarie, due motopescherecci armati, tre
motozattere, 25 mezzi da sbarco, cinque unità di altro tipo; le scortavano due
cacciatorpediniere e due torpediniere ex italiane, nonché diversi dragamine e
motosiluranti. Tra il 6 ed il 10 novembre le unità tedesche si trasferirono da
Laurion a Coo e Calino, da dove sarebbe stata lanciata l’invasione. Nome
dell’operazione: “Taifun”.
Il piano tedesco prevedeva
di sbarcare il gruppo principale al centro dell’isola, in modo da troncare in
due il dispositivo di difesa italo-britannico, per poi avanzare
progressivamente verso le estremità, e di eseguire lanci di paracadutisti che
avrebbero colto alle spalle i difensori. Le unità con le truppe da sbarco
avrebbero dovuto lasciare Coo e Calino la sera dell’11 novembre per poi
eseguire, nel corso della notte, sbarchi a nord della baia di Alinda (zona
centrale dell’isola, costa orientale), nella baia di Palma (costa
settentrionale), nella baia di Drimona (zona centrale dell’isola, costa
occidentale) e a levante dell’abitato di Lero. Successivamente, una volta
consolidate le teste di ponte, sarebbe sbarcata una seconda ondata con altre
truppe ed artiglieria, dopo di che nella giornata del 12 un battaglione di
paracadutisti sarebbe stato lanciato sull’istmo centrale dell’isola.
Le truppe tedesche,
al comando del generale Friedrich-Wilhelm Müller, appartenevano a tre
reggimenti della 22. Luftlande In fanterie-Division, un battaglione dell’11.
Luftwaffen-Felddivision ed elementi della 2. Fallschirmjäger-Division. Come
rinforzo, da mandare una volta che si fossero create delle teste di ponte,
erano pronti al Pireo reparti "Küstenjäger" della Divisione "Brandenburg",
truppe speciali paragonabili ai "commandos" Alleati.
Negli ultimi cinque
giorni prima dello sbarco, dal 7 al 12 novembre, Lero fu oggetto di ben 40
attacchi aerei, con l’impiego in totale di 187 velivoli; i bombardieri tedeschi
miravano soprattutto alle batterie del settore orientale, scelto per lo sbarco
principale, ed a quelle della costa centro-meridionale, cioè quelle che
facevano tiro di disturbo contro Calino, nonché alla sede del Comando FAM-DICAT
(Fronte a Mare-Difesa Contraerea Territoriale), per eliminare il centro che
coordinava il sistema delle batterie, ed alla zona di Portolago e le pendici
del Monte Maraviglia, dove si trovavano concentramenti di truppe britanniche.
Questa nuova ondata di attacchi arrecò ulteriori danni alle installazioni a
terra ed alle linee di comunicazione, aggravò l’usura delle artiglierie, e
provocò un ulteriore forte consumo di munizioni. Un deposito munizioni
britannico, colpito dalle bombe, esplose, danneggiando ulteriormente le
installazioni militari e le abitazioni di Portolago. Anche l’ospedale, già
seriamente danneggiato, venne definitivamente distrutto.
All’alba dello sbarco
tedesco un decimo delle batterie antinave di Lero, un quinto di quelle
contraeree ed un terzo di quelle antisilurante era fuori uso; siccome gli ospedali
erano stati tutti colpiti, le infermerie avevano dovuto essere trasferite in
grotte. Mentre sempre più grave era la carenza di munizioni, si stimava che
provviste e medicinali sarebbero bastante ancora per mesi.
Gli sbarchi tedeschi
a Lero iniziarono prima dell’alba del 12 novembre 1943. Nelle prime ore del
mattino alcuni mezzi da sbarco furono avvistati, secondo fonti britanniche, da
una motolancia britannica che ebbe con essi una breve scaramuccia; il Comando
di Lero, ricevuto l’allarme, tentò di ritrasmetterlo ai singoli reparti,
batterie e Comandi distaccati, ma i danni alla rete delle comunicazioni,
provocati dai bombardamenti, impedirono che l’avviso venisse ricevuto ovunque
(non lo ricevette, tra gli altri, il Comando FAM-DICAT).
Un primo gruppo di
sei mezzi da sbarco tedeschi, scortati da due siluranti ex italiane, si
avvicinò da sudovest puntando sulla baia di Gurna, ma fu respinto dal tiro
delle batterie costiere Ducci e San Giorgio; un secondo gruppo, proveniente da
est, si divise in quattro sottogruppi, che sebbene contrastati dal tiro delle
batterie costiere si diressero poi verso punti diversi della costa dell’isola.
Di questi sottogruppi, uno sbarcò le sue truppe nella baia ad ovest di Punta
Pasta di Sopra, un altro ad est di Monte Clidi (un’altura di 320 metri, tra le
principali dell’isola, situata tra Blefuti ed Alinda) ed un terzo sulla costa
orientale del Monte Appetici (alto 180 metri, ad est dell’abitato di Lero),
sotto la batteria costiera Lago; il quarto gruppo, che si era diretto verso la
costa settentrionale di Lero, venne invece respinto dalle batterie costiere. I MAS 555 e 559 furono sorpresi e catturati nella baia del Grifo; di questi, il
MAS 555 venne poi distrutto dalle
stesse batterie italiane per impedire ai tedeschi di servirsene, mentre il MAS 559 fu sabotato dal suo stesso
equipaggio (il suo comandante fu per questo fucilato dai tedeschi).
Gli sbarchi tedeschi
erano anche appoggiati da alcune torpediniere e cacciatorpediniere, ex
italiani, catturati al Pireo e a Suda ed ora incorporati nella Kriegsmarine:
tra di essi anche il Turbine, ora
divenuto TA 14 ed armato da un
equipaggio tedesco. I difensori italiani di Lero si ritrovarono così a dover
combattere contro navi già italiane, che fino a qualche mese prima erano state
in servizio proprio in quelle isole: forse qualche marinaio dell’Euro, assegnato a una batteria costiera,
si ritrovò a dover far fuoco sul Turbine,
ultimo sopravvissuto della sua classe, che ora batteva bandiera tedesca.
La batteria P.L. 989
(situata sulla costa occidentale delle baia di Parteni, al comando del tenente
d’artiglieria Gaetano Farro e dotata di quattro cannoni da 76/40 mm), presso la
quale era stato destinato un plotone formato da naufraghi dell’Euro, fu una delle prime ad essere
coinvolte nei combattimenti, fin dal momento dello sbarco. Insieme alle altre
batterie dello stesso settore (P.L. 749, P.L 888, P.L. 899, P.L. 906 ed altre),
essa aprì il fuoco sulle motozattere tedesche che si avvicinavano alla costa
per sbarcare le proprie truppe; il tiro delle batterie italiane (soprattutto
della P.L. 888) incendiò due motozattere, una delle quali poi affondò, e ne
colpì altre, che si ritirarono, ma alcune altre riuscirono invece a portarsi
entro i settori “morti” delle batterie, ed a sbarcare così le truppe nella baia
del Grifo e nella baia della Palma (situata a levante di Blefuti), al riparo
dal tiro delle artiglierie costiere. Lo stesso accadde in altri punti
dell’isola. Nel settore nordorientale i primi scontri ebbero esito favorevole
per i difensori, che sconfissero i primi distaccamenti tedeschi sbarcati,
rimasti isolati, e catturarono 85 prigionieri; ma nel settore centrale le forze
tedesche stabilirono alcune teste di ponte che andarono estendendosi,
conquistando nel primo pomeriggio la batteria Ciano, sul Monte Clidi, i cui
cannoni erano stati tutti messi fuori uso durante i combattimenti. Gli
ufficiali di questa batteria, dopo la cattura, furono passati per le armi.
Accaniti scontri si svolsero presso la batteria Lago, difesa dai suoi artiglieri
e da un plotone di rinforzo della Marina, nonché da una compagnia britannica
inviata anch’essa in rinforzo (ma che dovette poi ripiegare per le gravi
perdite subite); dopo duri combattimenti, la batteria rimase per il momento in
mano italiana.
Le truppe tedesche,
appoggiate dagli aerei (che apparvero nel cielo subito dopo il sorgere del
sole, e svolsero per tutto il giorno intensa attività ad appoggio delle loro
forze di terra), avanzarono gradualmente nonostante l’accanita resistenza
italo-britannica; alle 13.27 vennero compiuti anche aviosbarchi di
paracadutisti tedeschi al centro dell’isola, nel punto in cui essa si
restringeva maggiormente, tra le baie di Gurna e di Alinda. Una formazione di
Junkers Ju 52 lanciò un totale di circa 600 paracadutisti, da una quota di
appena 250 metri (scelta per far sì che i difensori avvistassero gli attaccanti
il più tardi possibile); così ridotta che alcuni dei paracadute non si
aprirono, provocando così la morte dei paracadutisti nell’impatto contro il
terreno roccioso. I difensori reagirono con le armi leggere, cui si unì anche
il tiro dei cannoncini Bofors britannici; molti paracadutisti furono uccisi
prima ancora di toccare a terra, ed alcuni Ju 52 furono colpiti dal tiro dei
cannoncini e precipitarono in mare con i paracadutisti ancora a bordo. Fu poi
stimato che circa 300 dei paracadutisti fossero rimasti uccisi, in aria, a
terra od in mare. Alcuni paracadutisti feriti, invece di chiedere aiuto,
preferivano sacrificarsi e lanciare attorno a sé le bombe a mano di cui
disponevano, per fare esplodere le eventuali mine che si fossero trovate nel
terreno circostante, in modo che non potessero nuocere ai compagni. Terminato
l’aviolancio, i paracadutisti sopravvissuti si lanciarono decisamente
all’attacco delle batterie di quel settore, difese dai loro stessi serventi,
poco e male armati (pochi fucili, moschetti, bombe a mano) e scarsamente
addestrati per il combattimento corpo a corpo. Opposero comunque una vivace
resistenza. Dopo accaniti combattimenti, i paracadutisti catturarono le
batterie 211 (già priva dei suoi cannoni, distrutti dagli attacchi aerei), sul
Monte Rachi (un’altura di 109 metri che separa le baie di Gurna e di Alinda), e
763, divisa in due sezioni delle quali una era a Gurna (costa occidentale) e l’altra
ad Alinda (costa orientale). La sezione di Alinda della 763, situata allo
scoperto e dotata per la difesa ravvicinata soltanto di pochi moschetti e bombe
a mano, fu la prima a cadere; la 211 fu conquistata dai tedeschi prima
dell’imbrunire, mentre la sezione di Gurna della 763 resisté fino al pomeriggio
del giorno seguente.
Furono coinvolti in
questi combattimenti anche gli uomini dell’Euro:
un nucleo tedesco sbarcato nella baia di Alinda, infatti, s’impadronì entro la
sera del 12 della sezione di cannoni britannici da 47/32 mm che era stata
armata da personale dell’Euro, al
comando del guardiamarina Carmine Mattera. Questi, ferito piuttosto seriamente
alla testa da una scheggia, prima della cattura riuscì a rendere inutilizzabili
i suoi due cannoni rimuovendo alcuni elementi del congegno di sparo. Dopo la
cattura, il guardiamarina Mattera ed alcuni suoi marinai vennero impiegati dai
tedeschi per trasportare feriti e recuperare salme; mentre si spostavano da un
centro di raccolta ad un altro, Mattera venne avvicinato da un paracadutista
tedesco, rimasto ignoto, che gli suggerì di non farsi riconoscere come
ufficiale se non voleva essere fucilato (come infatti accadde a quasi tutti gli
ufficiali italiani catturati in quel settore). Dopo essersi consultato con un
altro ufficiale prigioniero, il tenente di fanteria Aliboni, Mattera decise di
seguire il consiglio; Mattera e Aliboni si vestirono da semplici marinai, e
salvarono così la vita. Alcuni dei marinai del reparto di Mattera riuscirono a
disperdersi e ad evitare così la cattura; una parte di essi raggiunsero le
linee britanniche sul Monte Maraviglia, altri andarono a rinforzare una
mitragliera della batteria 211 che ancora resisteva, colla quale combatterono
ancora a lungo prima di essere sopraffatti.
Del tutto opposta fu
la sorte dell’altra sezione di pezzi da 47/32 della baia di Gurna, comandanta
dal sottotenente di vascello Caprettini: occultati dagli ulivi, questi cannoni
ed i loro serventi non furono catturati fino al momento della resa generale di
Lero. Dopo la resa il sottotenente di vascello Caprettini ed i suoi uomini,
fatti prigionieri dai tedeschi che rastrellavano il settore, vennero impiegati
nel recupero delle salme.
Durante il pomeriggio
del 12, mentre erano in corso i combattimenti nelle zone degli sbarchi e
dell’aviolancio di paracadutisti, altri mezzi tedeschi si avvicinarono alla
costa orientale di Lero per effettuarvi un nuovo sbarco, ma vennero respinti
dal tiro della batteria Farinata. A sera, le truppe tedesche nel settore
settentrionale avevano conquistato un tratto della costa nordorientale fino al
Monte Clidi, e tentavano di riunirsi con i paracadutisti, che avevano
conquistato Monte Appetici (ad eccezione della batteria Lago che ancora
resisteva); nel settore centrale, i paracadutisti avevano conquistato Monte
Rachi e tentavano di avanzare in diverse direzioni; nel settore meridionale,
invece, non si svolgevano ancora scontri.
Nella notte un
contrattacco britannico venne pianificato ma poi abbandonato senza avere
esecuzione (anche a causa dello stato delle truppe britanniche ad esso
destinate, che avevano subito perdite durante la giornata ed erano ora esauste
e disorganizzate); il generale Tilney chiese rinforzi a Samo (anche qui,
intanto, erano infatti sbarcate truppe britanniche), ma il loro invio non
risultò possibile, per mancanza di mezzi (l’indomani furono mandate da Lero a
Samo alcune imbarcazioni armate per prelevare rinforzi e munizioni, ma il
peggioramento delle condizioni del mare le bloccò a Samo, da dove non poterono
più ripartire).
Alle sette del
mattino del 13 novembre avvenne un nuovo lancio di paracadutisti tedeschi,
seppure di minore entità rispetto a quello del giorno precedente; le truppe
tedesche catturarono la batteria Lago ed avanzarono da est e da nord, occupando
diverse posizioni. L’ammiraglio Mascherpa chiese rinforzi ed appoggio aereo al
generale Soldarelli, avente il suo quartier generale a Samo, ma invano. Per il
resto del giorno continuarono i combattimenti tra italiani, britannici e
tedeschi, in zone ancora circoscritte dell’isola.
Nel pomeriggio del 13
la batteria 899, nella zona di Blefuti (costa settentrionale), fu presa sotto
intenso tiro di mitragliatrici tedesche ed ebbe parecchie perdite tra il
personale, compreso il comandante (tenente d’artiglieria Luigi Pizzoli), che fu
gravemente ferito e portato in ospedale; essendo la batteria sul punto di
cadere in mano tedesca, il comandante Meneghini vi inviò un reparto di marinai
del distaccamento di Parteni guidato dal tenente del CREM Rodolfo Andreotti, che
riuscì a ristabilire la situazione ed anche a migliorarla. Andreotti, infatti,
una volta presso la batteria fornì anche al Comando di Gruppo gli elementi
necessari a permettere alle batterie del Gruppo di effettuare tiri indiretti
contro i nidi di mitragliatrici tedesche, che furono ridotte al silenzio. Gli
effetti perniciosi dell’ordine di Tilney che le truppe italiane dovessero
essere adibite a sola difesa statica si videro anche in questo frangente: nella
marcia da Parteni verso la batteria 899, il distaccamento del tenente Andreotti
venne fermato da pattuglie britanniche, e dovette perdere tempo a chiedere per
radio al Comando britannico il permesso di proseguire.
Sempre nella giornata
del 13 novembre, le truppe britanniche effettuarono un contrattacco, ma lo
fecero disperdendo le proprie forze in due direzioni diverse (contro il centro
dell’isola, dov’erano i paracadutisti, e contro il Monte Appetici, dove si
trovavano le truppe sbarcate dal mare), così che la manovra fallì. L’ammiraglio
Mascherpa chiese più volte che le proprie truppe potessero partecipare al
contrattacco, ma da Tilney non giunse risposta; aveva stabilito che le truppe
italiane dovessero limitarsi a difesa statica sul posto, e questi ordini
rimasero immutati durante tutta la battaglia. Due cacciatorpediniere britannici
cannoneggiarono le posizioni tedesche al centro dell’isola, ed aerei britannici
lanciarono armi e materiali, ma in quantità insufficiente.
Il 14 novembre il
capitano di fregata Meneghini, comunicando col comandante militare dell’isola
di Lisso (pochi chilometri a nord di Lero), capitano di corvetta Stefano
Bausani (già comandante della nave appoggio sommergibili Alessandro Volta,
incagliatasi a Lisso dopo essere stata attaccata per errore da motocannoniere
britanniche: il “presidio” di Lisso consisteva esclusivamente nell’equipaggio
di quella nave, sbarcato sull’isola dopo l’incaglio), appariva piuttosto
ottimista: riteneva prossimo l’arrivo di rinforzi britannici, e possibile un
contrattacco per ributtare a mare le truppe tedesche. La situazione
determinatasi a Lero era però tale che il comandante Meneghini, per comunicare
dal settore di Parteni (ove si trovava) con il Comando di Lero dell’ammiraglio
Mascherpa, cioè sulla stessa isola, dovette servirsi come tramite della
stazione di vedetta di un’altra isola, Patmo (l’isola più settentrionale del
Dodecaneso, situata a nordovest di Lero, dalla quale distava pochi chilometri,
ed antistante Lisso), in quanto i bombardamenti causavano continue interruzioni
delle linee telefoniche di Lero, ed il successivo sbarco tedesco aveva del
tutto tagliato le comunicazioni tra i settori Nord (comandato da Meneghini) e
Centro. Patmo poteva invece ricevere e trasmettere comunicazioni da Parteni al
Comando in capo e viceversa, in quanto era collegata a Parteni con un cavo
telefonico sottomarino e disponeva di una radio campale (evidentemente non a
disposizione, invece, del Comando Settore Nord di Lero) per comunicare col
Comando dell’ammiraglio Mascherpa. Per lo stesso motivo, siccome il cavo
telegrafico sottomarino che collegava Lero a Samo approdava proprio a Parteni,
il generale Soldarelli finì con l’interloquire più frequentemente con il
comandante Meneghini che con l’ammiraglio Mascherpa, specie dopo che il
bombardamento del 30 ottobre ebbe distrutto la stazione radio della Marina.
Alle richieste di notizie che giungevano da Samo, Meneghini rispondeva con
continui aggiornamenti sulla situazione: alle 9.20 del 14 novembre comunicò che
«Comunicazioni con Ammiraglio
[Mascherpa] interrotte alt. Tedeschi
sbarcati baia Glifo et Alinda hanno occupato monte Vedetta et prossimità
batteria Ciano alt. Paracadutisti discesi su Santa Marina alt continuano
combattimenti ma qui Parteni mancano notizie alt»; alle 14.45, che «Nella zona Parteni mancano notizie ufficiali
alt si ode combattere in continuazione alle pendici di Monte Clidi alt si dice
che paracadutisti siano stati annientati tutti alt Qui siamo sotto continuo
bombardamento aereo alt Comando inglese est sicuro et fiducioso alt»; alle
otto del giorno seguente, che «Questa
mattina vi è stato tentativo di sbarco con 3 motozattere alt Abbiamo visto
affondarne una e le altre si ritiene si siano ritirate oppure hanno girato
verso baia Alinda alt Ripresa grande attività aerea nemica alt»; alle
11.45, «Stanno svolgendosi combattimenti
Monte Raki et linea litoranea Alinda alt»; alle 16.30, «Zona nord situazione immutata alt continua
attività aerea alt».
Sempre per via
dell’isolamento del suo settore dal Comando centrale, alle 14.20 il comandante
Meneghini chiese a Samo di ordinare alla stazione di vedetta dell’isola di
Nicaria di trasmettergli, per tramite di Samo, eventuali avvistamenti di
rilievo, prescindendo dalle comunicazioni normalmente inviate a Mariegeo Lero
(«Prego incaricare Nicaria fare servizio scoperta
et comunicarmi indipendentemente da comunicazioni at Mariegeo tramite Samo ogni
avvistamento interessante alt»). Da Samo giunse risposta affermativa.
La giornata del 14
novembre fu caratterizzata da una serie di scontri minori nelle diverse zone di
Lero dove le forze tedesche erano riuscite a sbarcare, e dove cercavano ora di
ampliare le loro teste di sbarco. I britannici lanciarono diversi
contrattacchi, ma lo fecero disperdendo le forze in più direzioni, il che tolse
forza a questi attacchi e andò ad indebolire il settore centrale dell’isola.
Grazie al supporto fornito dalle artiglierie di due cacciatorpediniere
britannici, la batteria Ciano venne riconquistata, con la cattura di oltre 230
prigionieri. Truppe tedesche attaccarono il Castello di Pandeli, che venne
difeso ad oltranza dai marinai italiani (contro l’avviso del comandante del
locale plotone britannico, il quale aveva invece dato l’ordine di abbandonarlo)
i quali respinsero diversi attacchi.
Dalla stretta di
Gurna, le truppe tedesche cercavano di avanzare verso nord, nella zona di Santi
Quaranta, allo scopo di riunirsi ad altri loro reparti che da Santa Madonna
stavano muovendo verso la piana di Alinda, per insinuarsi tra il Monte Clidi,
riconquistato dalle truppe britanniche, ed il mare. In appoggio ai
contrattacchi britannici da nord e da sud intervennero efficacemente diverse
batterie della Difesa italiana, che bersagliarono le truppe tedesche le quali,
in questa manovra di ricongiungimento, dovevano giocoforza esporsi al loro
tiro. La batteria P.L. 989, quella presso la quale era stato dislocato un
plotone dell’Euro, fu sollecitata dal
Comando britannico a tirare contro alcuni nidi di mitragliatrici creati dai
tedeschi sul costone del Monte Vedetta; gli aerei della Luftwaffe, per tutta
risposta, presero ad attaccarla con particolare accanimento, ma ciò non
disturbò l’accuratezza del suo tiro, tanto che dopo mezz’ora di fuoco il
Comando britannico le comunicò: «Cessate
il fuoco, col vostro tiro meraviglioso avete distrutto due postazioni di
mitragliatrici nemiche. Il colonnello inglese vi elogia e vi ringrazia». Al
termine di aspri combattimenti, nei settori nord e sud furono catturati 200-300
prigionieri tedeschi; il tentativo dei paracadutisti di ricongiungersi con le
altre forze tedesche era fallito. Sarebbe stato forse possibile sfruttare
un’occasione favorevole per lanciare un contrattacco generale con tutte le
forze, che avrebbe potuto avere esito risolutivo, ma il generale Tilney,
preoccupato per la conquista tedesca del Monte Appetici, che rappresentava una
pericolosa minaccia sul fianco, decise invece di tentare di riconquistare
quella posizione. Il tentativo fallì, con gravi perdite per il battaglione
britannico che aveva attaccato quel monte, compreso il suo comandante (tenente
colonnello French) che fu ucciso in combattimento.
Nel pomeriggio del 14
novembre si verificò un altro episodio minore che coinvolse il presidio di
Parteni. Una delle motozattere tedesche che avevano tentato di sbarcare truppe
sulla costa di Lero era stata affondata dal tiro delle batterie costiere
italiane nei pressi dell’isolotto di Strongilo, poco più che uno scoglio, non
lontano da Parteni; i soldati tedeschi imbarcati sulla motozattera si erano
rifugiati su tale isolotto, e si decise di prenderli prigionieri. Un gruppetto
di marinai del Distaccamento di Parteni, guidati dal tenente CREM Andreotti e
dal capitano di fanteria Eligio Radice (ufficiale dell’Esercito addetto al
Comando del Settore Nord), raggiunsero dunque Strongilo con il motoveliero Nereo e vi catturarono 28 soldati
tedeschi, più altri quattro che avevano tentato la fuga in una piccola
imbarcazione. Portati a Parteni, i prigionieri furono consegnati ai britannici,
che quella stessa sera li imbarcarono su
una motozattera e li trasferirono ad Alessandria con altri prigionieri.
La sera del 14, le
forze tedesche controllavano saldamente il Monte Appetici, il Monte Vedetta, il
Monte Clidi (che avevano nuovamente riconquistato) e la Baia del Grifo.
Le incursioni aeree
tedesche proseguivano incessantemente, giorno e notte, e nella notte tra il 14
ed il 15 le truppe tedesche occuparono l’abitato di Lero (dove fu ucciso in
combattimento, nella notte seguente, il tenente colonnello Easonsmith,
comandante del Long Range Desert Group), Santa Marina ed Alinda. Il mattino
seguente, dopo diversi attacchi, il castello veneziano di Lero cadde in mano
tedesca, e l’avanzata tedesca proseguì durante la giornata, mentre le difese
contraeree, ormai pressoché annientate, non riuscivano più ad opporsi agli
attacchi sempre più violenti della Luftwaffe. Molte batterie erano state
catturate o danneggiate, altre erano a corto di munizioni; la P.L. 989, dov’era
stanziato un plotone dell’Euro, aveva
ancora tre cannoni efficienti, mentre il quarto era fuori uso. Le truppe tedesche
attestatesi nel settore centrale si congiunsero con quelle della zona orientale
tra Santi Quaranta ed il Patriarcato, poi attaccarono più volte il Monte
Maraviglia, appoggiati da bombardamenti aerei particolarmente pesanti;
incontrando resistenza particolarmente accanita da parte italiana e britannica,
aggirarono il Monte Maraviglia da nord e raggiunsero la baia di Pandeli, così
occupando tutta la zona centrale di Lero. Truppe tedesche in questo settore
avanzarono sul Monte Rachi, che fu in gran parte conquistato; fu in questo
frangente che si svolse l’ultima azione di fuoco della batteria P.L. 989.
Insieme ad altre batterie (Farinata, P.L. 906), essa concentrò il suo tiro
contro nuclei di mitragliatrici tedesche sul Monte Rachi, che furono distrutti,
come venne confermato sia dal Comando di Gruppo che da quello britannico. Ma
all’alba altre truppe tedesche erano sbarcate presso Punta Pasta, costringendo
parte delle truppe britanniche, anziché a contrattaccare contro i tedeschi del
settore centrale (che avrebbero potuto essere presi tra due fuochi), a doversi
impegnare contro questa nuova minaccia. In questo frangente, «non mancò fra le
truppe inglesi qualche fenomeno di sbandamento e di panico dovuto sia alla
esasperante persistenza degli attacchi aerei, che si svolgevano a quota sempre
più bassa via via che la reazione veniva meno, sia alla sensazione del rapido
aggravarsi di una situazione che ormai appariva a tutti senza scampo».
Nondimeno, non
dappertutto la situazione sembrava compromessa: nel settore Nord, anzi, le cose
dovevano sembrare andare abbastanza bene, tanto che nel corso della giornata
del 15 il comandante Meneghini inviò al generale Soldarelli, a Samo, tre
telegrammi piuttosto ottimistici. Il primo, da Lero Parteni, ricevuto a Samo
alle 10.54, diceva: «Sono in corso
combattimenti in zona centrale di cui mi mancano notizie alt Zona nord est
impegnata levante S. Chirico alt Andamento generale soddisfacente alt Questa
mane non sono giunti rinforzi tedeschi alt Continua intensa attività aerea alt»;
il secondo, sempre da Lero Parteni e ricevuto alle 12.35, riferiva che «Monte Vedetta riconquistato alt In corso
rastrellamento alt»; il terzo, ricevuto alle 18.35, affermava «Andamento combattimenti buono alt Monte Raki
parte riconquistato alt Se non arrivano rinforzi tedeschi sperarsi entro domani
liquidare tutto alt». Un radiotelegrafista di Parteni, rimasto anonimo,
aveva comunicato a Samo alle 6.30 di quel mattino: «I tedeschi ripiegano sotto l’impeto dei Marinai d’Italia alt Speriamo
che stamane sia giorno definitivo di vittoria. Viva l’Italia alt Viva il Re alt».
Questa visione
ottimistica era legata alla particolare situazione del settore di Parteni:
nella fase iniziale degli sbarchi tedeschi, infatti, le truppe italiane e
britanniche stanziate in quella parte dell’isola avevano riportato alcuni
successi contro le forze tedesche, dopo di che la distruzione dei collegamenti
aveva fatto sì che quel settore rimanesse isolato e tagliato fuori dal grosso
della battaglia; chi vi si trovava aveva dunque l’impressione che la situazione
fosse sotto controllo, e che i tedeschi stessero per essere sconfitti.
Ulteriori telegrammi (precedenti a quelli sopra menzionati, e qui elencati in
ordine cronologico), alcuni inviati da Meneghini o ufficiali subordinati in
risposta alle richieste di Samo, altri trasmessi per iniziativa di singoli
radiotelegrafisti, mostrano quale fosse lo spirito che regnava a Parteni: «Le forze italo-inglesi passate al
contrattacco alt Monte Clidi riconquistato alt Continuano combattimenti zona
Alinda alt Non giunti rinforzi tedeschi alt» (comandante Meneghini, 11.00
del 13 ottobre); «Credo ma non sono
sicuro ma ormai non importa [in risposta a domanda, da Samo, se fossero
arrivati i rinforzi britannici partiti da quell’isola] perché sembra che tutto sia quasi finito alt Ci sono ancora pochi
nuclei [tedeschi] che sono però
circondati e se non arrivano rinforzi per questa notte è finito tutto almeno a
quanto si dice qui» (radiotelegrafista di Parteni, 11.06); «Comandante Meneghini in questo momento si
trova Clidi alt Notizie ufficiose poiché è difficile precisare alt si dice che
il grosso delle truppe in giornata venga sgominato alt All’arrivo del
Comandante avrete notizie più precise perché a detto scopo si è allontanato da
Parteni alt» (tenente Andreotti, 17.00); «Situazione notevolmente migliorata alt Tedeschi tengono ancora Monte
Vedetta alt Ignoro situazione Alinda ma dicesi molto buona alt Fatti molti
prigionieri alt In complesso situazione generale soddisfacente e salvo
complicazioni l’isola potrà essere sgomberata dai tedeschi molto presto alt
Continuata per tutto il giorno attività aerea alt Attualmente
cacciatorpediniere inglese in navigazione acque isola alt Ancora non
ristabilita comunicazione con Portolago alt» (comandante Meneghini, 20.15);
«Unità inglesi cannoneggiano i punti dove
sono rifugiati gli ultimi tedeschi alt Ora ci sono aerei sospetti e quindi
lancio di paracadutisti alt Nulla sicuro alt» (radiotelegrafista di
Parteni, ore 20.20).
Nella zona centrale
dell’isola, invece, la situazione era ben diversa. I messaggi diretti a Samo
dall’ammiraglio Mascherpa e dai radiotelegrafisti del suo Comando descrivevano
una situazione in continuo peggioramento, e chiedevano rinforzi di uomini ed
artiglieria ed attacchi aerei per risollevare la situazione. Il mattino del 15
due cacciatorpediniere britannici avevano sbarcato 500 uomini a Portolago, ed
altre unità della Royal Navy avevano attaccato alcuni mezzi da sbarco tedeschi
e cannoneggiato le forze nemiche nella baia di Alinda; ma questo non era
bastato a risollevare la situazione. Tilney aveva ordinato un tardivo
contrattacco, senza successo, e Mascherpa, vedendo i suoi suggerimenti sempre
respinti, aveva lasciato il Comando per tornarsene al suo Comando Marina. Al
tramonto del 15 le forze tedesche avanzavano su due fronti, l’uno – a nord –
che si estendeva da Punta Pasta alla baia di Gurna, passando per Monte Clidi, e
l’altro – a sud – che andava dalla baia di Pandeli alla baia di Gurna, passando
per Lero città ed il Monte Rachi. L’isola era ormai spaccata in due ed il Monte
Maraviglia, al suo centro, sede del Comando, era martellato dai bombardamenti e
minacciato dalle truppe nemiche che avanzavano sia da nord che da sud. Giunsero
altri 400 soldati britannici, ma anche i tedeschi sbarcarono rinforzi nella
baia di Alinda, e le prime truppe tedesche si affacciarono al Passo
dell’Ancora, sul Monte Maraviglia.
Il mattino del 16
novembre, il Comando britannico richiese la partecipazione di truppe italiane
nella difesa del Monte Meraviglia, dove aveva sede il quartier generale di
Tilney; la difesa dell’importante posizione del “Trincerone” (Porta Vecchia)
venne però riservata alle forze britanniche. Le truppe italiane tentarono la
difesa di Portolago, ma il Trincerone venne abbandonato dai britannici, e la
situazione andò precipitando. In alcuni reparti britannici si stavano ormai
manifestando segni di scoramento: il colonnello Iggulden dovette intervenire
per riportare in linea alcuni reparti che erano dal Monte Rachi stavano
ripiegando verso Parteni senza autorizzazione, e alle 10.35 un
radiotelegrafista di Lero comunicava preoccupato «Ho paura che fra poco sarà tutto finito alt Tommy si ritirano
distruggendo le proprie riserve senza voler più combattere. Nostri resistono ma
non possono tenere molto alt». All’alba la batteria 306 era stata distrutta
dagli attacchi aerei, mentre la batteria 127 del Monte Maraviglia fu teatro di
aspri combattimenti anche all’arma bianca.
Fin dal mattino il
Monte Maraviglia fu sottoposto a nuovi attacchi aerei ed assaltato, da nordest,
dalle truppe tedesche di terra: gli uomini dell’Irish Fusiliers respinsero
inizialmente questi attacchi (lo stesso Tilney partecipò ai combattimenti), ma
alla fine dovettero iniziare a cedere terreno.
Alle 12.30 del 16
novembre si presentò al Comando italiano un parlamentare tedesco che richiese
la resa separata delle truppe italiane, promettendo in cambio la salvezza per
tutti; la richiesta fu respinta. I combattimenti proseguirono per alcune altre
ore, ma alle 17.30 arrivò alla sede del Comando dell’ammiraglio Mascherpa un
ufficiale britannico, latore della ferale notizia: il quartier generale di
Tilney era stato circondato dai tedeschi e sopraffatto dopo un’ultima
resistenza; il generale Tilney era stato catturato e, in qualità di comandante
di tutte le truppe di Lero, aveva firmato la resa dell’intero presidio ed
ordinava di cessare ogni attività bellica. Poco dopo giunse lo stesso Tilney,
ormai prigioniero, che confermò quanto accaduto. Mascherpa capitolò alle 22.
Le poche e piccole
unità navali sopravvissute ai bombardamenti fuggirono la sera del 16,
permettendo a piccoli gruppetti di militari di scampare alla prigionia.
L’ordine di resa
venne trasmesso a tutta l’isola, ma il collasso delle comunicazioni fece sì che
molti presidi italiani, rimasti isolati (specie nella parte settentrionale
dell’isola), non lo ricevettero fino al giorno seguente, e continuarono così a
combattere fino al 17 novembre. Peraltro, come già detto, in alcune parti
dell’isola (soprattutto quella settentrionale) la situazione locale sembrava
tutt’altro che irreparabile, ed anzi favorevole, tanto che nessuno si sognava
che si potesse giungere alla resa: questa notizia fu pertanto accolta con
incredulità, ed anche con rabbia, da molti soldati italiani e britannici.
Emblematico il caso del Gruppo contraereo Nord: quando il Comando FAM-DICAT gli
trasmise, per mezzo di segnali ottici, l’ordine di resa con la comunicazione
«Alle 18.30 la Piazza è capitolata», la risposta fu «Non ci crediamo. Viva
l’Italia». La comunicazione della resa venne ripetuta dal Comando FAM-DICAT, ed
il comandante del Gruppo c.a. Nord, capitano di artiglieria Amadei (che in quel
momento era assente dal Comando perché si era recato a concordare con un
parigrado britannico la difesa del Comando Gruppo e di una batteria da
possibili nuovi lanci di paracadutisti), al suo rientro presso la sede del
Comando, ne venne messo al corrente. Amadei, dopo aver inutilmente tentato di
contattare il Comando FAM-DICAT per saperne di più, telefonò al capitano di
fregata Meneghini, già comandante dell’Euro,
ora comandante italiano del Settore Nord. Questi rispose di non sapere nulla
della resa, e disse che a breve sarebbe andato a parlare con il colonnello
Iggulden, comandante britannico dello stesso settore. Poco dopo, Meneghini
richiamò al telefono Amadei e gli disse che la notizia della resa era falsa;
spiegò anche che il generale Soldarelli, da Samo, gli aveva mandato un
telegramma cifrato col quale lo avvertiva del rischio di false comunicazioni da
parte dei tedeschi, che se ne erano già serviti anche in altre circostanze.
Seguirono ore di incertezza, mentre gli ufficiali italiani e britannici del
settore cercavano di capire cosa stesse accadendo e tentavano di mettersi in
contatto con i loro superiori; il comandante Meneghini non volle credere alla
notizia della resa, appoggiato in questa convinzione anche dalla prosecuzione
dei bombardamenti aerei tedeschi, che mal si accordava con una cessazione delle
ostilità sull’isola.
Nel pomeriggio del 16
ottobre il tenente CREM Rodolfo Andreotti, appartenente al Distaccamento di
Parteni, rilevò che l’azione degli aerei della Luftwaffe stava divenendo sempre
più pericolosa, soprattutto perché le mitragliere da 20 mm, logorate
dall’utilizzo ininterrotto degli ultimi giorni, avevano ormai smesso di
funzionare quasi del tutto. Andreotti domandò dunque a Meneghini il permesso di
prendere una motolancia ed un gruppo di volontari in grado di immergersi sul
relitto dell’Euro (nonostante il
clima ormai quasi invernale e la bassa temperatura dell’acqua), allo scopo di
cercare di recuperare qualcuna delle mitragliere del cacciatorpediniere, che in
precedenza si era cercato di recuperare senza successo. Meneghini accordò il
permesso ed il tentativo fu portato a termine; Andreotti e gli altri
rientrarono a Parteni intorno alle 21, e sentirono qualcuno che diceva che Lero
si fosse arresa. La notizia venne smentita, ma nella notte si verificò un fatto
che rivelò tristemente rivelatore: un ufficiale di collegamento britannico, ben
conosciuto dal personale italiano di Parteni, salì sul motoveliero Nereo ormeggiato nella baia e, dopo una
discussione col suo comandante italiano (l’inglese disse che il Nereo gli serviva per allontanarsi da
Lero, l’italiano rifiutò e l’inglese insistette), che scese a terra per
chiedere ordini, costrinse il restante equipaggio del motoveliero a mettere in
moto e partire, armi alla mano. Con a bordo soltanto il suo equipaggio, meno il
comandante, e tre ufficiali britannici, il Nereo
lasciò Parteni portandosi via a rimorchio anche un battello ed una motobarca:
mezzi che sarebbero invece stati utili al locale presidio italiano (400 uomini)
per sottrarsi, almeno in parte, alla cattura. Il sottufficiale addetto alle
ostruzioni della baia (che erano aperte perché era previsto l’arrivo di un
convoglio britannico, ovviamente poi non giunto dato che l’isola era caduta),
che conosceva personalmente l’ufficiale di collegamento britannico (il quale,
senza fermarsi, disse che usciva per andare a pilotare il convoglio in arrivo)
cercò di fermare il Nereo, giungendo
anche ad ordinare alla sentinella di sparare quando il motoveliero rifiutò di
fermarsi; ma la piccola nave proseguì, e si dileguò nell’oscurità. Questa
precipitosa fuga degli ufficiali britannici, compresero gli uomini del
distaccamento di Parteni, non si spiegava se non col fatto che Lero doveva
essersi veramente arresa.
La sera del 16 il
capitano di fregata Meneghini, essendo rimasto isolato dal resto dell’isola,
chiese al Comando Militare di Lisso se per caso avessero notizie su quanto
stesse accadendo a Lero, perché andavano diffondendosi voci allarmanti. Da
Lisso risposero che non sapevano nulla, perché anche loro erano isolati da
Lero; alle 22 Meneghini cercò allora di contattare il Comando di Lero tramite
Lisso e Patmo, ma Lero non rispondeva più alle chiamate radio di Patmo fin
dalle 18, dunque la sua richiesta di notizie non poté essere inoltrata. Verso
le 23 Meneghini ebbe uno scambio di telegrammi con il capitano di fregata Luigi
Borghi, che da Lero era stato inviato a Samo con un MAS: il primo spiegò al
secondo che giravano voci di resa, ma non erano ancora giunti ordini ufficiali.
Il comandante
Meneghini continuò a smentire ogni notizia di resa fino alle quattro del
mattino del 17 novembre, quando – presumibilmente – nuove comunicazioni la cui
autenticità era innegabile lo convinsero infine che Lero si era effettivamente
arresa. A questo punto, Meneghini diramò la triste notizia ai suoi subordinati,
e anche gli uomini del Settore Nord deposero le armi, ponendo fine alla
battaglia di Lero. Alle cinque del mattino del 17 una staffetta mandata dal
comandante Meneghini recapitò al tenente di artiglieria Ezio Martinelli,
comandante della batteria 888 di Blefuti (cui Meneghini aveva ordinato – per
mezzo del tenente di vascello Oscar Ciani, già comandante in seconda dell’Euro –, nel tardo pomeriggio del 16, di
non sparare durante la notte, perché era previsto l’arrivo di una motozattera
italiana), la notizia della resa. Tre ore dopo, alcuni ufficiali tedeschi si
presentarono presso la caserma del distaccamento di Parteni e diedero agli
uomini del distaccamento cinque minuti per prelevare i bagagli individuali (non
più di qualche chilo), dopo di che li trasferirono a Gurna, da dove furono poi
mandati nel campo di concentramento creato a Xerocampo, nella ex sede
dell’Aeronautica, per alloggiare i prigionieri italiani.
Tragica fu la sorte
toccata al comandante Meneghini. Quando incontrò i primi tedeschi, questi gli
ordinarono di restare in attesa di disposizioni presso il Distaccamento di
Parteni; successivamente, si presentò al distaccamento un capitano
paracadutista tedesco che, servendosi come interprete di un marinaio italiano
che conosceva il tedesco, disse: “Abbiamo trovato dei nostri paracadutisti
sgozzati”. Assisteva alla scena il tenente CREM Andreotti, che rispose – sempre
a mezzo dell’interprete – facendo notare che i soldati tedeschi feriti e fatti
prigionieri, durante la battaglia, sullo scoglio di Strongilo erano stati
curati dagli stessi italiani; il capitano tedesco domandò allora dove fosse la
Baia delle Palme, ed il comandante Meneghini rispose di potergliela indicare.
Il tedesco gli disse di avviarsi. Meneghini si mise in cammino, ed il capitano
di fanteria Eligio Radice chiese di accompagnarlo; Meneghini e Radice si
incamminarono, seguiti dal capitano paracadutista e da un soldato tedesco
armato di mitra. Si erano da poco allontanati dal distaccamento, quando una
raffica di mitra falciò i due ufficiali italiani. Per giorni, i tedeschi
impedirono anche che alle loro salme venisse data sepoltura; i corpi del comandante
dell’Euro e del capitano Radice
rimasero insepolti, là dove erano stati fucilati, finché dopo qualche giorno
l’attendente del comandante Meneghini non poté avvicinarsi al punto in cui
giacevano, e provvedere finalmente a seppellirli.
I tedeschi non vollero che
sulla tomba di Meneghini venisse eretta una croce, né un qualsiasi altro segno
di riconoscimento; ma un operaio italiano prigioniero, di nascosto, riuscì
nottetempo a fare una croce di sassi sul punto in cui era stato sepolto
l’ultimo comandante del R.C.T. Euro.
In aggiunta agli
uomini morti nell’affondamento ed al comandante Meneghini fucilato dopo la resa,
altri cinque membri dell’equipaggio dell’Euro
morirono a Lero durante o dopo la battaglia: il sottocapo meccanico Rocco Di
Iulio, il sottocapo cannoniere Rocco Grossi, il sottocapo elettricista Luigi
Martellini, il sottocapo motorista Giuseppe Pistacchio ed il sottocapo S.D.T.
Ottorino Zanuso risultano tutti dispersi il 17 novembre 1943, data della
definitiva caduta di Lero. Non è dato sapere se essi trovarono la morte nei
combattimenti, o in rappresaglie tedesche dopo la resa, o ancora nel tentativo
di fuggire da Lero per sottrarsi alla cattura.
In tutto, con la
caduta di Lero i tedeschi catturarono oltre 8500 prigionieri: 351 ufficiali e
5000 tra soldati e marinai italiani; 201 ufficiali e 3000 soldati britannici.
I prigionieri
italiani vennero inizialmente concentrati per la maggior parte dentro i
reticolati dell’idroscalo e nella zona di San Giorgio, mentre gli ufficiali
furono portati a Gonià; da qui ebbe poi inizio il loro trasferimento, via mare,
verso la Grecia continentale, da dove poi furono mandati nei campi di prigionia
della Germania e della Polonia. Oltre al comandante Meneghini ed al capitano
Radice, diversi ufficiali italiani, ed anche qualche marinaio, furono fucilati
dopo la resa, in rappresaglia per la resistenza opposta all’attacco tedesco;
altri avevano già subito la stessa sorte durante la battaglia. Tra gli
ufficiali che i tedeschi volevano fucilare c’era anche il comandante della
batteria 888 di Blefuti, il tenente Martinelli, che dopo la resa, passando dal
distaccamento di Parteni, aveva salutato il comandante Meneghini ed il capitano
Radice, là trattenuti dai tedeschi in attesa di ordini, ignari della loro
sorte. Martinelli scampò alla morte, senza neanche saperlo, perché i tedeschi
credettero erroneamente che il comandante della batteria 888 fosse il capitano
di fanteria Dante Calise (già centurione della M.V.S.N.), e fucilarono lui al
suo posto.
Nei confronti dei
prigionieri italiani, i tedeschi alternarono da subito i maltrattamenti alle
ripetute pressioni per spingerli alla collaborazione, ma ottennero un netto e
compatto rifiuto. Gli ufficiali furono separati da sottufficiali e marinai e
sottoposti ad interrogatorio, sia per ottenere dettagli sulle difese
dell’isola, sia per individuare quelli che avevano inflitto le maggiori perdite
alle truppe tedesche, allo scopo di passarli per le armi come già era stato
fatto con diversi altri ufficiali durante o subito dopo la battaglia. Si provvide
anche alla rigorosa separazione tra prigionieri britannici ed italiani; a
questi ultimi fu riservato fin da subito un trattamento nettamente peggiore,
con furti sistematici, violenze (squadre di prigionieri italiani trattati a
calci e pugni furono usati per caricare carbone sui piroscafi tedeschi),
umiliazioni di ogni sorta.
Per i primi cinque
giorni dopo la resa, non furono dati ai prigionieri né cibo né acqua; molti
approfittarono della confusione che ancora regnava per sottrarre cibo dai
magazzini, altri vennero aiutati dalla popolazione locale, che assisté
generosamente i prigionieri nonostante la scarsità delle sue stesse risorse
alimentari ed il pericolo di rappresaglie da parte tedesca.
I primi 70
prigionieri (30 ufficiali e 40 feriti) vennero trasferiti da Lero al Pireo già
il 17 novembre, a bordo del cacciatorpediniere TA 15, cioè l’ex italiano Crispi,
che lasciò l’isola alle 16 di quel giorno e giunse al Pireo l’indomani. Il 21
novembre 2700 prigionieri, in gran parte britannici ma con anche 150 ufficiali
italiani (compreso l’ammiraglio Mascherpa, che fu fatto viaggiare rinchiuso nel
tunnel dell’asse dell’elica), furono trasferiti al Pireo a bordo del piroscafo Schiaffino (che lasciò Lero a
mezzogiorno del 21 e giunse a destinazione verso le 13 del 22), ed il 30 toccò
ad altri 1500 prigionieri, a bordo di un piroscafo.
Una volta giunti al
Pireo, i prigionieri italiani vennero fatti marciare per le vie di Atene, poi
furono rinchiusi in un capannone vuoto di una fabbrica di motori alla periferia
della capitale greca. Anche qui si rinnovarono gli inviti alla collaborazione
con i tedeschi, anche da parte di ufficiali italiani (non di Lero) che avevano
aderito alla repubblica di Salò, nuovamente respinti dalla quasi totalità dei
prigionieri. Dalla Croce Rossa Internazionale non giunse nessun aiuto, perché,
fu detto, l’Italia non aveva versato il suo contributo e dunque non si sapeva
chi avrebbe rimborsato le spese. Il 6 dicembre 1943 i prigionieri di Lero
furono caricati sui treni che li portarono nei campi di prigionia (il convoglio
partito il 6 dicembre, in particolare, giunse in Westfalia il 22 dicembre). Vi
sarebbero rimasti fin dopo la fine della guerra, venendo rimpatriati soltanto
nell’agosto-settembre 1945.
Analoga sorte
subirono i prigionieri che giunsero sul continente dopo il 6 dicembre. Il 17
dicembre 1943 furono trasferiti da Lero al Pireo 3700 prigionieri italiani,
imbarcati sulla motonave Leda (ex
italiana Leopardi catturata in
Adriatico dopo l’armistizio); l’ultimo gruppo di prigionieri, un migliaio di
uomini, fu trasferito sul continente il 1° gennaio 1944. Rimasero a Lero circa
200 prigionieri italiani, con pochi ufficiali (appartenenti a corpi medici e
tecnici). Ebbero più fortuna i prigionieri feriti, che il 2 dicembre 1943
furono imbarcati sulla nave ospedale Gradisca,
anch’essa catturata dai tedeschi: durante la navigazione verso la Grecia, la
nave fu intercettata da cacciatorpediniere britannici che la dirottarono a
Brindisi, e i prigionieri furono così liberati.
Per i prigionieri di Lero
giunti nei territori del Reich, la sorte fu la stessa delle centinaia di
migliaia di «internati militari italiani» rastrellati dai tedeschi dopo l’8
settembre in Italia, nei Balcani, in Francia, in Mar Egeo: fame, freddo,
malattie, lavoro forzato, maltrattamenti, a cui non tutti sopravvissero. I più
finirono in Germania, altri in Polonia; la sorte peggiore toccò a quelli che
finirono in Bielorussia: in quella terra, sul fronte orientale, il rispetto per
la vita era praticamente inesistente; se altrove il trattamento dei prigionieri
italiani era ben peggiore rispetto a quello riservato agli angloamericani, ma
comunque molto “migliore” di quello riservato ai russi (che erano in fondo alla
“gerarchia” stabilita dai tedeschi per i prigionieri di guerra, ed erano
vittime di trattamenti disumani, morendo in massa), in Bielorussia non si
discostava da quello riservato ai sovietici. Qui i morti, per fame e malattie,
si contavano a decine al giorno; molti altri rimasero vittime di esecuzioni
sommarie (nei pressi del solo villaggio di Khodorovka, nel giugno 1944, furono
fucilati circa 200 prigionieri italiani, insieme a 600 civili bielorussi).
Pochi sopravvissero; tra di essi, un gruppo di 153 prigionieri provenienti da
Lero (cinquantatrè), Rodi, Cefalonia e Corfù, imprigionati nel campo di
Borisof, i quali proprio nel giugno 1944 riuscirono a fuggire durante le marce
forzate di trasferimento nel corso della ritirata tedesca verso ovest, per poi
presentarsi ai reparti dell’Armata Rossa. Inizialmente messi dai russi in vari
campi di prigionia insieme ai tedeschi (e assurdamente, di nuovo sotto
l’autorità di questi ultimi, siccome l’organizzazione “interna” del campo,
essendo i tedeschi il gruppo più numeroso, era ad essi affidata) e nuovamente
adibiti al lavoro forzato in misere condizioni, nel dicembre 1944 ottennero di
poter lavorare senza vigilanza armata e nel febbraio 1945 poterono lasciare il
campo e prestare servizio, armati, insieme ai russi (venendo impiegati
essenzialmente in compiti di retrovia, come servizio di vigilanza ai Comandi ed
ai depositi, o scorta ai prigionieri). Formarono così un piccolo reparto
italiano che prestò servizio con l’Armata Rossa fino alla fine della guerra,
rimpatriando nell’ottobre 1945.
Qualcuno riuscì a
scampare alla prigionia con mezzi di fortuna: tra di essi anche il tenente
medico Galassi, dell’Euro, il quale –
aggregato al gruppo dei sanitari italiani, trattenuti a Lero più a lungo per
continuare ad operare sui feriti non ancora trasferiti – riuscì a fuggire in
Turchia con una barca nel dicembre 1943.
Un altro ufficiale
dell’Euro, il guardiamarina di
complemento Cipriano Cuneo, riuscì a sottrarsi alla prigionia per un fortuito
evento accaduto prima della resa. A Parteni erano stati concentrati, nella
giornata del 15 novembre, circa 200 prigionieri tedeschi; in quella baia si
trovava in quel momento anche la motozattera MZ 722, afflitta da vari problemi ai motori (uno era mancante e gli
altri due funzionavano male). Il Comando britannico insisté lungamente affinché
i prigionieri tedeschi venissero trasferiti immediatamente in una località da
esso indicata; alla fine il comandante Meneghini diede il suo assenso, e alle
18.30 del 15 novembre la MZ 722
lasciò Parteni con a bordo i prigionieri e 40 soldati britannici di scorta.
Siccome il comandante della motozattera, tenente di vascello Armando Santoro,
era in condizioni di salute piuttosto precarie (era convalescente da un recente
attacco di influenza), il guardiamarina Cuneo venne fatto imbarcare per
assisterlo. La MZ 722 trasportò i
prigionieri a Samo, dopo di che andò a Kukuwa, sulla costa turca, ma ricevette
ordine di recarsi nuovamente a Porto Vathi (Samo), dove il 16 novembre imbarcò
400 uomini del "Battaglione Sacro" greco da trasportare a Lero come
rinforzo; trasbordò queste truppe su due cacciatorpediniere britannici in
attesa in rada, che le avrebbero dovute portare a Lero, ma dopo mezz’ora la
notizia della caduta di Lero vanificò tutto il progetto: la MZ 722 reimbarcò le truppe, le portò di
nuovo a terra, e l’indomani tornò a Punta Kukura. Il suo comandante accettò poi
una proposta britannica di compiere una non meglio precisata difficile e
rischiosa missione verso la Palestina o l’Egitto; la MZ 722 imbarcò di nuovo i 200 prigionieri tedeschi di Lero, insieme
alla loro scorta ed a due gruppetti di circa venti uomini ciascuno (l’uno di
feriti greci e britannici, l’altro di ufficiali britannici) e si recò dapprima
a Guvercinlik e poi a Budrum, sulla costa turca, dove sbarcò i feriti più gravi
e imbarcò cinque marinai italiani del motoveliero Nereo, lì giunto dopo la fuga da Parteni. Dopo altre soste in varie
località della costa turca (Orak, Makri, baia di Adalia), più volte sorvolata
da aerei tedeschi che però non attaccarono, la MZ 722 giunse a Cipro il 22 novembre e vi sbarcò feriti e malati
gravi, si rifornì e diresse per Haifa, dove giunse il 24 mattina sbarcando
prigionieri e “profughi” da Lero. La MZ
722 rimase in Medio Oriente al servizio dei britannici fino alla fine della
guerra in Europa: poté tornare in
Italia, a Taranto, soltanto il 24 giugno 1945.
Anche l’ex direttore
di macchina dell’Euro, capitano del
Genio Navale Gennaro Caronna, riuscì a sottrarsi alla cattura: appresa la
notizia della resa la sera del 16 novembre, dopo alcune ore s’imbarcò su un MAS
insieme al tenente colonnello del Genio Navale Ciucci, al tenente colonnello
commissario Scolozzi, al capitano di corvetta Franzitta e ad un nutrito gruppo
di ufficiali e marinai, dirigendo verso la neutrale Turchia. Il mattino
seguente la piccola imbarcazione, stipata di militari, approdò in una località
della costa turca che Caronna descrisse nella sua relazione come "Scamanova"
(traslitterazione o storpiatura di un nome turco che non è stato qui possibile
ricostruire); tutti gli occupanti vennero trasferiti dalle autorità turche nel
centro di raccolta di Tefenni e poi internati in Turchia per lungo tempo.
Tra i pochi
prigionieri italiani rimasti a Lero dopo il gennaio 1944, ed adibiti
principalmente a lavori di manovalanza, vi era anche l’ex comandante in seconda
dell’Euro, il tenente di vascello
Oscar Ciani. Questi, conoscendo bene la lingua tedesca (uno dei pochi italiani
in tutta Lero, il che lo rese indispensabile per questo incarico), fu investito
dal comando tedesco del ruolo di interprete; il comandante tedesco lo considerò
inoltre come responsabile dell’esecuzione degli ordini da esso impartiti.
All’inizio del dicembre 1943 Ciani venne assegnato come interprete al
comandante (tedesco) del porto; cercò sempre di sfruttare la sua posizione per
prestare assistenza agli italiani rimasti a Lero, militari e civili (ed anche
alla popolazione locale), appoggiandosi in questo a quei militari della
Wehrmacht che avevano meno fede nella causa nazista: soldati di origine
austriaca, alsaziana o polacca. Nell’estate del 1944 Ciani cercò di organizzare
una rete di uomini a lui fedeli per impedire alle truppe tedesche, quando
avessero dovuto abbandonare Lero, di attuare le distruzioni che sempre
compivano prima di ritirarsi, a partire da quella delle strutture portuali;
entrò anche in contratto con partigiani greci ed italiani, per valutare la
possibilità di una insurrezione contro i tedeschi, se l’andamento della guerra
avesse generato una situazione favorevole. Ma il 12 settembre 1944, mentre
andava ad un appuntamento con alcuni dei suoi uomini per discutere la
possibilità di impedire la distruzione del porto al momento della ritirata
tedesca, Ciani fu fermato da un ufficiale tedesco ed imbarcato su un caicco in
partenza per Atene, accompagnato da un maggiore tedesco. Dopo una sosta forzata
di una settimana a Sira, causata dal maltempo, il caicco raggiunse Atene il 21
settembre, mentre le forze tedesche già stavano facendo fagotto; dato che
raggiungere la Germania era divenuto piuttosto difficile, il maggiore tedesco
andò un ufficio per chiedere notizie su come proseguire, lasciando incautamente
da solo il tenente di vascello Ciani. Questi approfittò dell’occasione per
eclissarsi; fu nascosto dapprima da un greco e poi dalla Croce Rossa Italiana
(da poco formatasi) fino all’arrivo delle truppe britanniche ad Atene, che
avvenne dopo meno di venti giorni. Poté quindi fare ritorno in Italia.
L’ammiraglio
Mascherpa fu trasferito in Grecia il 21 novembre 1943; internato nel campo di
prigionia di Schokken, in Polonia, venne successivamente consegnato dalle
autorità tedesche a quelle della repubblica di Salò, che lo sottoposero ad un
processo farsa per tradimento insieme all’ammiraglio Campioni. Il “tradimento”
consisteva, nelle menti dei repubblichini, nell’aver difeso Lero e Rodi dagli attacchi
tedeschi, in esecuzione degli ordini giunti dal legittimo governo regio, cui
avevano prestato giuramento, oltre che del loro dovere di soldati. La sentenza
era già scritta; il 24 maggio 1944 gli ammiragli Luigi Mascherpa e Inigo
Campioni vennero fucilati nel poligono di tiro di Parma.
Quattro uomini dell’Euro non sarebbero tornati dalla
prigionia nei campi del Reich.
Il marinaio
cannoniere Vittorio Vecchi, 33 anni, da Migliarino, internato nello Stalag VI C
– Arbeitskommando 1913, morì per malattia il 22 marzo 1944 a Duisburg, nella
Renania settentrionale-Westfalia. È oggi sepolto presso il cimitero militare
italiano di Amburgo.
Il capo meccanico di
prima classe Ferdinando Di Lonardo, 42 anni, da Rionero in Vulture, fu
dichiarato disperso in prigionia in Germania il 24 maggio 1944.
Al capo silurista di
terza classe Eugenio Annibale Abà, 32 anni, da Savigliano, toccò una sorte tragicamente
assurda: prigioniero in un campo tedesco dell’Europa Orientale, venne liberato verso fine 1944, o inizio 1945,
dalle forze sovietiche in avanzata; ma fu da queste nuovamente imprigionato,
come migliaia di altri militari italiani prigionieri dei tedeschi, e morì il 13
gennaio 1945 nel campo ospedale 5374 di Sofievka, in Ucraina.
Il sottocapo
cannoniere Nolando Fattorini, 25 anni, da Fano, morì in prigionia in Polonia il
20 gennaio 1945.
In tutto, tra morti
nell’affondamento, nei bombardamenti tedeschi sull’isola, nei combattimenti a
terra, od in prigionia, ventuno uomini dell’equipaggio dell’Euro non fecero ritorno da Lero.
Caduti in guerra tra l’equipaggio dell’Euro:
Eugenio Annibale Abà, capo silurista di terza
classe, deceduto in prigionia in Europa Orientale il 13.1.1945
Saverio Bergamin, marinaio fuochista, deceduto
in combattimento a Lero il 10 novembre 1943
Ivanoe Boschini, marinaio, deceduto in
Jugoslavia il 31.8.1943
Agnello Castellano, marinaio fuochista,
disperso nel Mediterraneo orientale il 9.9.1943
Francesco De Rizzo, marinaio, deceduto in
seguito all’affondamento
Rocco Di Iulio, sottocapo meccanico, disperso
a Lero il 17.11.1943
Ferdinando Di Lonardo, capo meccanico di prima
classe, disperso in prigionia in Germania il 24.6.1944
Nolando Fattorini, sottocapo cannoniere,
deceduto in prigionia in Polonia il 20.1.1945
Ernesto Feliciani, marinaio, deceduto il 9.11.1941
(scontro del convoglio Duisburg)
Luigi Forlai, marinaio, deceduto il 9.11.1941
(scontro del convoglio Duisburg)
Sergio Gabici, marinaio, disperso
nell’affondamento
Sergio (o Giorgio) Gianfranchi, marinaio
nocchiere, deceduto nell’affondamento
Pietro Giardina, marinaio nocchiere, deceduto
nell’affondamento
Giovanni Grasso, sergente cannoniere, deceduto
nell’affondamento
Rocco Grossi, sottocapo cannoniere, disperso a
Lero il 17.11.1943
Antonio Locatelli, marinaio cannoniere,
deceduto in Mediterraneo orientale il 22.9.1942 (attacco aereo)
Luigi Martellini, sottocapo elettricista,
disperso in Mediterraneo orientale il 17.11.1943
Vittorio Meneghini, capitano di fregata
(comandante), fucilato a Lero dalle forze tedesche il 18.11.1943
Giuseppe Noseda Pedraglio, sottocapo S. D. T.,
deceduto in Mediterraneo orientale il 22.9.1942 (attacco aereo)
Giuseppe Pistacchio, sottocapo motorista,
disperso in Mediterraneo orientale il 17.11.1943
Celeste Punturiero, capo S. D. T. di terza
classe, deceduto il 9.11.1941 (scontro del convoglio Duisburg)
Emilio Russo, marinaio motorista, deceduto nell’affondamento
Gastone Saltini, capo cannoniere di terza
classe, deceduto nell’affondamento
Aniello Savarese, marinaio, deceduto il
9.11.1941 (scontro del convoglio Duisburg)
Giovanni Tantillo, sottocapo nocchiere,
deceduto nell’affondamento
Giordano Testa, marinaio fuochista, disperso
nell’affondamento
Vittorio Vecchi, marinaio cannoniere, deceduto
in prigionia in Germania il 22.3.1944
Ottorino Zanuso, sottocapo S. D. T., disperso
in Mediterraneo orientale il 17.11.1943
Aldo Omarini, secondo capo radiotelegrafista,
deceduto in territorio metropolitano il 19.8.1947
Un ventiduesimo
membro dell’equipaggio, il secondo capo radiotelegrafista Aldo Omarini, morì in
Italia il 19 agosto 1947, a guerra finita, per postumi delle ferite o per
conseguenza della prigionia.
Un parziale elenco
dell’equipaggio presente sull’Euro
compilato nel dopoguerra, probabilmente sulla base del ricordo di qualche
superstite ed infatti tutt’altro che privo di errori, elenca come membro
dell’equipaggio dell’Euro, deceduto a
Lero, anche il sottotenente di vascello Edoardo Gardoni: ma in realtà risulta
che questo ufficiale, fucilato dai tedeschi dopo la resa e decorato alla
memoria di Medaglia d’Argento al Valor Militare, non facesse parte
dell’equipaggio del cacciatorpediniere, bensì della nave appoggio sommergibili Alessandro Volta.
La motivazione della
Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di fregata
Vittorio Meneghini, nato a Foligno (Perugia) l’11 giugno 1900:
"Ufficiale
superiore, comandante in guerra di sommergibile, secondo di incrociatore, e
finalmente comandante di cacciatorpediniere, affondata la propria unità assumeva
volontariamente il comando di zona della difesa costiera di piazzaforte
marittima d'oltremare violentemente attaccata da forze aeree, navali e
terrestri, dopo aver dato ripetute prove di bravura e valore.
Nel lungo assedio subito, controbatteva molto efficacemente la soverchiante offesa aerea, prima da bordo e, successivamente, con le batterie della zona affidategli e rinforzata con i naufraghi del suo equipaggio e le armi recuperate dal cacciatorpediniere. Quando già l'intera piazzaforte era caduta, resisteva ancora nella sua zona e cessava il fuoco solo dopo aver avuto conferma dell'ordine generale che rendeva ogni ulteriore lotta inutile spargimento di sangue. Caduto in mano ad un nemico ingeneroso e feroce, suggellava con il sangue una vita tutta dedita all'adempimento del dovere e riconfermava in tal modo sublime i diritti della Patria su quelle terre lontane così strenuamente contese dal tedesco invasore.
Esempio alle future generazioni marinare di alte virtù militari e di comando.
Lero, 8 settembre – 17 novembre 1943."
Nel lungo assedio subito, controbatteva molto efficacemente la soverchiante offesa aerea, prima da bordo e, successivamente, con le batterie della zona affidategli e rinforzata con i naufraghi del suo equipaggio e le armi recuperate dal cacciatorpediniere. Quando già l'intera piazzaforte era caduta, resisteva ancora nella sua zona e cessava il fuoco solo dopo aver avuto conferma dell'ordine generale che rendeva ogni ulteriore lotta inutile spargimento di sangue. Caduto in mano ad un nemico ingeneroso e feroce, suggellava con il sangue una vita tutta dedita all'adempimento del dovere e riconfermava in tal modo sublime i diritti della Patria su quelle terre lontane così strenuamente contese dal tedesco invasore.
Esempio alle future generazioni marinare di alte virtù militari e di comando.
Lero, 8 settembre – 17 novembre 1943."
Oggi non rimane,
dell’Euro, praticamente più nulla:
giacendo in acque molto basse, il suo relitto venne demolito in modo pressoché
totale nel dopoguerra, non è chiaro se da parte di un’impresa di demolizioni
che fu incaricata di recuperare il relitto, o da parte di demolitori locali che
agendo indipendentemente a poco a poco lo smantellarono del tutto per
recuperarne il metallo. Stessa sorte toccò tra gli altri, tra le navi affondate
a Lero, anche all’Intrepid e (in
misura minore) al Vasilissa Olga, del
quale almeno rimane qualcosa. Dell’Euro
rimangono sul fondale solo pochi e piccoli rottami, o forse neanche quelli.
La nave nel 1940-1941 (foto Ugo Pucci, via Coll. Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazion-venus.it) |