Il Dubac (da www.croinfo.net) |
Piroscafo da carico da 2819 tsl e 1804 tsn, lungo 97,4 metri, largo
14,1 e pescante 6,46, con velocità di 8-9 nodi. Ex jugoslavo, appartenente alla
società Dubrovacka Plovidba di Dubrovnik; iscritto nella Direzione Marittima di
Spalato.
Con le sue 2819 tsl di stazza, il Dubac
fu il bastimento (relativamente) più grande tra i pochi mercantili catturati
dall’Italia in seguito all’invasione della Jugoslavia, in massima parte
consistenti in navi di modesto tonnellaggio.
Breve e parziale
cronologia.
15 luglio 1901
Varato come Dubac nel
cantiere North Dock di J. Blumer & Co. Ltd., a Sunderland (numero di
costruzione 161).
Agosto 1901
Completato per la Dubac S. S. Co. Ltd. di Ragusa/Dubrovnik (Dalmazia,
oggi Croazia, all’epoca Impero Austro-Ungarico), di proprietà dell’armatore Matom
Marinovich; bandiera austroungarica.
11 marzo 1902
Il Dubac entra in collisione
con due chiatte e poi urta il molo a Middlesbrough, nel Regno Unito,
danneggiando sia le chiatte che il molo.
1909
Acquistato dalla compagnia Navigazione a Vapore "Napried" di
Ragusa (Dubrovnik), armatore R. Negrini.
1° maggio 1918
Trasferito alla flotta della neonata Dubrovačka Parobrodska
Plovidba, sorta dalla fusione della "Napried" con un’altra compagnia
di navigazione ragusea, la "Unione".
1919
Temporaneamente assegnato alla flotta delle Ferrovie dello Stato
(Esercizio Navale FF. SS.), a seguito della vittoria italiana nella prima
guerra mondiale e del collasso dell’Impero Austroungarico.
1920
Acquistato dalla Dubrovačka Parobrodska Plovidba di Ragusa (Dubrovnik),
bandiera jugoslava.
1937
La compagnia armatrice cambia ragione sociale in Dubrovačka Plovidba A.D.
6 aprile 1940
Il Dubac, diretto a Venezia
con un carico di grano e sospettato di essere coinvolto in traffico di contrabbando
a favore della Germania (dalla Jugoslavia all’Italia via mare, e dall’Italia
alla Germania via treno), viene fermato da unità britanniche in Mar Egeo, al
largo della costa greca, e dirottato a Malta per controlli. Verrà
successivamente rilasciato.
Dicembre 1940
Il Dubac, che si trova a
Lisbona in attesa di nolo, viene noleggiato dal governo svizzero per conto del
Comitato Internazionale della Croce Rossa. La nave si trova così a battere
bandiera svizzera.
18 gennaio 1941
Il Dubac, con bandiera svizzera
e contrassegni della Croce Rossa, inizia il primo di una serie di viaggi da
Lisbona a Genova con aiuti umanitari, sotto l’egida della Croce Rossa.
29 marzo 1941
A seguito del colpo di Stato filobritannico in Jugoslavia, che prelude
all’invasione italo-tedesca del Regno balcanico, il Dubac viene confiscato dalle autorità italiane a Genova, dove si
trova (per altra fonte, arriva a Genova in giornata e viene subito confiscato).
Affidato alla Società Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a
Genova; l’equipaggio jugoslavo viene sbarcato e sostituito da personale
italiano.
28 maggio 1941
Il Dubac, in convoglio con le
motonavi Città di Agrigento e Caldea, salpa da Taranto alle 4.55 con
un carico di materiali vari e personale militare, sotto la scorta
dell’incrociatore ausiliario Barletta
e delle torpediniere Antares ed Aretusa. Il convoglio fa scalo ad
Argostoli, dove si ferma la Città di
Agrigento, e poi prosegue per Rodi, via Patrasso.
18 giugno 1941
Il Dubac lascia Rodi e
rientra a Patrasso, da solo e senza scorta.
20 giugno 1941
Lascia Patrasso e torna a Taranto, ancora in navigazione isolata.
28 giugno 1941
Il Dubac ed il piroscafo Brundisium, privi di scorta, compiono un
viaggio da Valona a Brindisi.
14 luglio 1941
Il Dubac, carico di materiali
militari e derrate per la popolazione civile di Rodi, salpa da Brindisi insieme
al piroscafo Monstella, carico di
materiali vari, con la scorta dell’incrociatore ausiliario Egitto.
Le tre navi raggiungono Patrasso, da dove poi il Dubac prosegue per Rodi.
29 luglio 1941
Il Dubac ed il piroscafo Fertilia, scortati dalla torpediniera Lira, compiono un viaggio dal Pireo a
Lero.
2 agosto 1941
Dubac e Fertilia lasciano Rodi e rientrano al
Pireo, scortati dalla torpediniera Cassiopea.
12 settembre 1941
Compie un viaggio isolato da Porto Edda a Brindisi.
23 novembre 1941
Il Dubac ed il piroscafo Salvatore, scortati dall’incrociatore
ausiliario Arborea, compiono un
viaggio da Brindisi a Patrasso, da dove poi proseguono per Rodi.
7 dicembre 1941
Il Dubac ed il piroscafo Vesta, aventi a bordo 4900 tonnellate di
materiali vari ed automezzi, salpano dal Pireo e raggiungono Rodi, scortati
dalla torpediniera Libra e dal
cacciatorpediniere Quintino Sella.
12 dicembre 1941
Dubac e Vesta lasciano Rodi, scortati dal
cacciatorpediniere Francesco Crispi,
e raggiungono Lero.
13 dicembre 1941
Dubac, Vesta ed un terzo piroscafo, l’Ezilda Croce, lasciano Lero sotto la
scorta del Crispi e raggiungono il
Pireo.
16 luglio 1942
Il Dubac compie un viaggio da
Bari a Durazzo, solo e senza scorta.
25 luglio 1942
Rientra da Durazzo a Bari, sempre da solo e privo di scorta.
31 luglio 1942
Lascia Bari e raggiunge Valona, di nuovo in navigazione isolata.
20 agosto 1942
Riparte da Valona e torna a Bari, sempre da solo.
12 settembre 1942
Il Dubac ed il piroscafo Tagliamento salpano da Brindisi e
raggiungono Patrasso, con la scorta della torpediniera Giacomo Medici.
20 settembre 1942
Il Dubac, avente a bordo 976
tonnellate di imbarcazioni e materiali vari della Regia Marina, salpa dal Pireo
insieme al piroscafetto requisito Porto
di Roma, con la scorta del cacciatorpediniere Sella, del minuscolo incrociatore ausiliario Pola e del dragamine ausiliario F
110 Giorgio Orsini. Il convoglio raggiunge Lero.
7 ottobre 1942
Lascia Lero e rientra al Pireo, scortato dal Sella.
2 dicembre 1942
Il Dubac salpa da Rodi,
scortato dalla torpediniera Castore,
e raggiunge Lero.
11 dicembre 1942
Il Dubac ed i piroscafi Arsia e Mameli, scortati dalla Castore
e dalla cannoniera Mario Sonzini,
lasciano Lero e rientrano al Pireo.
18 dicembre 1942
Dubac e Mameli, separatamente, salpano da
Prevesa e raggiungono Brindisi.
2 febbraio 1943
Il Dubac salpa dal Pireo e
raggiunge Lero, sotto la scorta del Sella.
6 febbraio 1943
Dubac ed Ezilda Croce lasciano Lero e raggiungono
Rodi, scortati dal Sella e dalla nave
scorta ausiliaria F 79 Morrhua.
14 febbraio 1943
Dubac e Sella lasciano Lero e raggiungono Sira.
24 febbraio 1943
Lascia Valona e raggiunge Brindisi.
27 marzo 1943
Compie un viaggio da Brindisi a Valona, da solo e senza scorta.
12 aprile 1943
Il Dubac, scortato dalla
cannoniera Camogli e da un MAS, salpa
dal Pireo e raggiunge Rodi, con scalo intermedio a Lero.
23 aprile 1943
Lascia Rodi e torna al Pireo, scortato da Sonzini e Camogli.
30 maggio 1943
Dubac e Caterina M., scortati dall’incrociatore
ausiliario Lorenzo Marcello, salpano
da Brindisi e raggiungono Corfù.
11 luglio 1943
Il Dubac salpa dal Pireo in
convoglio con i piroscafi Ginetto, Hermada, Ezilda Croce e Goggiam,
scortati dal cacciatorpediniere Crispi
e dalle torpediniere Calatafimi e Solferino.
Il convoglio raggiunge Rodi.
17 luglio 1943
Dubac ed Ezilda Croce, scortati dall’Orsini, lasciano Rodi e raggiungono
Lero.
25 luglio 1943
Il Dubac e la motonave Probitas salpano da Patrasso e
raggiungono Bari, via Corfù, con la scorta delle torpediniere Francesco Stocco e Sagittario.
8 settembre 1943
Al momento dell’annuncio dell’armistizio di Cassibile, il Dubac si trova a Taranto.
Tragedia nel
Canale d’Otranto
Uno dei drammi meno conosciuti della seconda guerra mondiale è, probabilmente,
quello delle truppe italiane in Albania dopo l’armistizio di Cassibile.
Le forze d’occupazione italiane in Albania, alla data dell’8 settembre
1943, consistevano nelle sei divisioni di fanteria della 9a Armata
del generale Lorenzo Dalmazzo: la 11a "Brennero", la 38a
"Puglie", la 49a "Parma", la 41a
"Firenze", la 53a "Arezzo" e la 151a
"Perugia". A Tirana risiedeva anche il quartier generale del Gruppo
d’Armate Est, retto dal generale d’armata Ezio Rosi.
Mentre gli alti comandi italiani mostrarono grande incertezza e scarsa
propensione a resistere con le armi, quelli tedeschi agirono con efficienza e
brutalità, attaccando gli italiani con due divisioni di cacciatori, una
divisione da montagna ed una divisione corazzata. Rosi ed il suo Stato Maggiore
furono circondati e catturati già il mattino dell’11 settembre, mentre
Dalmazzo, anziché ordinare di reagire, avviava trattative con i tedeschi:
questi pretendevano la cessione dell’artiglieria e delle armi individuali e la
requisizione delle navi. Entro il mattino dell’11 fu firmato l’accordo, col
quale agli italiani era concesso di mantenere solo le armi portatili,
consegnando tutto il resto; comunque i tedeschi non mantennero nemmeno questa
promessa.
Delle sei divisioni della 9a Armata, soltanto la "Firenze"
prese fin da subito le armi contro i tedeschi, venendo poi progressivamente
assorbita dalle formazioni partigiane locali; la "Parma", la
"Puglie", la "Brennero" e la "Arezzo" vennero
tutte disarmate dai tedeschi ed i loro uomini avviati alla prigionia, anche se
alcuni riuscirono a scappare e (soprattutto della "Arezzo") si
unirono anch’essi ai partigiani.
Diversa fu la sorte della Divisione "Perugia" (129° e 130°
Reggimento Fanteria), al comando del generale di divisione Ernesto Chiminello. Le
sue truppe erano divise in due blocchi principali: il comando di Divisione ed
il 129° Reggimento Fanteria erano stanziati ad Argirocastro (Gjirokastra),
mentre il 130° Reggimento Fanteria era dislocato a Tepeleni (Tepelenë).
Il 130° Fanteria, posto sotto il controllo del colonnello Giuseppe
Adami (vice comandante della Divisione) e del colonnello Eugenio Ragghianti
(comandante del Reggimento), si ritrovò isolato e senza ordini e, dopo lunghe
traversie, accordi traditi dalle controparti e scontri sia con i tedeschi che
con gli albanesi, finì col cedere le armi il 14 settembre; i suoi uomini
vennero avviati verso i campi di prigionia di Mavrova e Drashovica, nei pressi
di Valona, dove già erano stati rinchiusi gli uomini della Divisione
"Parma". La notte successiva, tuttavia, un imponente attacco dei
partigiani albanesi contro questi campi permise a molti uomini del 130°
Fanteria e della "Parma" di fuggire; senza cibo, armi o comando, si
diressero verso Santi Quaranta, dove speravano di trovare imbarco per l’Italia.
Si dormiva all’aperto, sull’erba; già macellati muli e cavalli, alcuni
dovettero barattare anche capi di vestiario con la popolazione locale per avere
un po’ di cibo, mentre altri vennero spogliati e derubati dai partigiani stessi.
Altri ebbero più fortuna, grazie all’operato del sottotenente Renato Ughi della
Guardia di Finanza (egli stesso, appartenente al Battaglione G.d.F. di Valona,
era stato catturato dai tedeschi ed era poi fuggito), che istituì – in
collaborazione con i partigiani albanesi – un posto di sosta col quale gli
sbandati in arrivo venivano rifocillati, registrati ed inquadrati in gruppi di
almeno 100 uomini, che venivano poi avviati verso Santi Quaranta.
Ad Argirocastro, invece, il generale Chiminello non era intenzionato ad
arrendersi, né ai tedeschi né agli albanesi: quando una colonna della 1a
Divisione Corazzata tedesca giunse ad Argirocastro, Chiminello avviò trattative
col comandante tedesco ed ottenne che la sua Divisione rimanesse in armi, con
la condizione che non lasciasse Argirocastro o che, se costretta a spostarsi,
si dirigesse verso Valona. I reparti tedeschi lasciarono poi Argirocastro,
diretti a Valona; il giorno seguente (14 settembre), però, si presentarono
dinanzi ad Argirocastro formazioni di partigiani nazionalisti albanesi, che
pretesero dagli italiani la consegna delle armi. Chiminello rifiutò e gli
albanesi attaccarono: l’attacco fu respinto con gravi perdite tra gli albanesi,
mentre tra le fila italiane vi fu un solo caduto.
Dopo questo attacco, saputo che il porto di Santi Quaranta era ancora
in mano italiana, i comandanti dei reparti del 129° decisero di raggiungerlo,
nella speranza di riuscire a imbarcare le truppe su qualche nave che potesse
portarle in Italia; Chiminello era contrario, avendo dato ai tedeschi la sua
parola d’onore che non si sarebbe mosso o comunque si sarebbe diretto solo
verso Valona, ma venne praticamente esautorato. Il 16 settembre la
"Perugia" lasciò Argirocastro, incendiando la cittadella militare per
non farla cadere intatta in mano nemica, ed iniziò a ripiegare verso la costa
attraverso le montagne dell’Albania.
Nelle tre settimane che seguirono all’armistizio,
la Regia Marina si profuse di sforzi per recuperare e portare in Italia quanti
più possibili militari e civili italiani, in ritirata dalla Dalmazia,
dall’Albania, dalla Grecia e dalle isole dell’Adriatico e dello Ionio,
incalzati dalle forze tedesche decise a schiacciare ogni resistenza. In tre
settimane di viaggi compiuti con piroscafi, motonavi, torpediniere, corvette,
unità minori ed ausiliarie, fu possibile trasportare tra i 22.000 ed i 25.000
uomini attraverso le due sponde dell’Adriatico e dello Ionio, sottraendoli alla
cattura da parte tedesca. Ciò non avvenne senza un pegno: diverse navi furono
affondate dagli aerei della Luftwaffe, con centinaia di vittime, forse un
migliaio in tutto. Altre decine di migliaia di uomini, militari e civili,
rimasero bloccati sull’altra sponda dell’Adriatico: dall’Albania, in tutto, non
sarebbe stato possibile rimpatriare nemmeno 6000 uomini, tutti evacuati
attraverso il porto di Santi Quaranta (odierna Saranda, all’epoca chiamata anche Porto Edda, nome imposto nel
1939 in onore della figlia maggiore di Mussolini, Edda), su un totale di circa
140.000.
Il 20 settembre fu fatto presente ai comandi
Alleati che era necessario trovare i mezzi per recuperare 30.000 soldati
italiani bloccati a Spalato e Santi Quaranta.
Santi Quaranta era presidiata, al momento
dell’armistizio, da 5000 uomini al comando di un colonnello, ma verso la metà
di settembre questi uomini avevano lasciato il porto albanese per trasferirsi a
Corfù, dove andarono a rinforzare la guarnigione dell’isola. Anche il poco
personale della Marina ivi presente si era spostato a Corfù, compreso il
comandante della Capitaneria di Porto, capitano di porto Gaspare Pugliese, che
fu poi fatto tornare a Santi Quaranta per dirigere l’imbarco delle truppe.
Intanto, i partigiani nazionalisti albanesi avevano intralciato ancora
il ripiegamento del 129° Reggimento della "Perugia", scatenandone la
rappresaglia contro un villaggio, che fu dato alle fiamme, e chiedendo di nuovo
la consegna delle armi: il generale Chiminello raggiunse infine un accordo in
base al quale i reparti italiani avrebbero consegnato le armi agli albanesi, ma
solo al momento d’imbarcarsi per l’Italia; nel frattempo, gli albanesi
avrebbero dovuto garantire il rifornimento di viveri (la popolazione provvide a
distribuire pane tra i soldati) ed un tragitto sicuro fino a Santi Quaranta.
Nel pomeriggio del 21 settembre 1943, due aerei italiani si abbassarono
sulla colonna di soldati della "Perugia" in ritirata presso Delvino,
e lanciarono un messaggio indirizzato al generale Chiminello: in esso si
avvertiva che navi italiane sarebbero giunte entro breve a Santi Quaranta, per
trarre in salvo gli uomini della Divisione. I soldati, rinvigoriti dalla
speranza dell’imbarco e del ritorno in Italia, proseguirono con maggior vigore
nella lunga marcia che si sperava dovesse portarli alla salvezza.
Già un primo convoglio, formato dalla motonave Probitas e dalle torpediniere Sirio
e Clio, aveva raggiunto Santi
Quaranta il 19 settembre, imbarcando 1750 uomini che furono portati in Italia
il giorno seguente.
Il Dubac salpò da Brindisi il
21 settembre con il secondo convoglio, insieme alla nuovissima motonave Salvore e con la scorta della moderna
corvetta Sibilla e della vecchia
torpediniera Francesco Stocco. Quando
il convoglio raggiunse Santi Quaranta, la sera del 22, vi trovò una situazione
già grave: i viveri scarseggiavano tra le truppe in attesa di soccorso, tanto
che alcuni ufficiali, all’arrivo delle navi, chiesero se avessero portato delle
provviste; ma la risposta non poté che essere negativa, dato che non c’era stata
alcuna richiesta in tal senso.
Ad attendere le navi c’erano non solo i soldati del 129° Fanteria
"Perugia" lì arrivati col generale Chiminello, ma anche molti uomini
del 130° Fanteria e della Divisione "Parma", imprigionati dai
tedeschi ma fuggiti dal campo di Drashovica. Logori e affamati, erano quelli
nelle condizioni peggiori.
Iniziò quindi l’imbarco, sotto la direzione del tenente colonnello
Emilio Cirino, che diede ordine di imbarcare per primi i feriti e gli uomini
rimasti senz’armi. Disperando di riuscire ad imbarcarsi, molti soldati che le
armi le avevano preferirono gettarle lontano, per poter salire a bordo prima
che non rimanesse più posto. Così, un po’ discosta dalla massa di uomini in
attesa di imbarco, si andò formando un’enorme catasta di fucili, moschetti e
pistole gettate via.
Dopo aver imbarcato quanti più militari possibile (circa 1500,
probabilmente), in prevalenza ex prigionieri del 130° Fanteria e della
"Parma" nonché un primo gruppo di feriti e traumatizzati ricoverati
presso l’ospedale divisionale della "Perugia", Dubac e Salvore ripartirono
per Brindisi.
Partì con loro anche il tenente colonnello Cirino, con il compito di
riferire sulla disperata situazione della "Perugia" e di chiedere
ordini precisi al Comando Supremo a Brindisi, nonché di procurarsi un nuovo
cifrario (quello a disposizione della "Perugia" era stato bruciato
all’atto dell’abbandono di Argirocastro) e di chiedere che a Santi Quaranta
venisse inviata anche una nave ospedale. Aveva dato la sua parola di ufficiale
che sarebbe tornato in Albania con quegli ordini.
Il convoglio giunse a Brindisi il 23: sbarcato il loro carico umano, le
navi si prepararono a ripartire per un nuovo viaggio di soccorso.
Alle 5.20 del 24 settembre il Dubac,
in convoglio con Probitas e Salvore ed ancora la scorta di Stocco e Sibilla, salpò quindi da Brindisi diretto a Santi Quaranta, per
recuperare gli altri uomini ancora bloccati sulla costa albanese. Ora sui
mercantili c’erano anche alcune tonnellate di viveri da distribuire ai soldati
affamati, in adempienza alla richiesta ricevuta durante il precedente viaggio,
e munizioni.
Durante la navigazione, alle ore 13, la Stocco ricevette ordine di lasciare la scorta del convoglio e
dirigersi verso Corfù, dove stavano sbarcando truppe tedesche, per aiutare
nella difesa dell’isola; non ci arrivò mai, affondata con quasi tutto l’equipaggio
dai bombardieri della Luftwaffe.
Il Dubac e le altre navi
proseguirono invece verso Santi Quaranta, dove arrivarono alle 22 del 24
settembre. Qui trovarono ad attenderle migliaia di uomini disperati: ai soldati
della "Parma" e della "Perugia", la cui situazione diveniva
sempre più grave col passare del tempo, si erano uniti altri soldati sbandati,
giunti dall’Epiro interno ed anche dalla Croazia orientale e dalla Slavonia nel
tentativo di trovare una nave in partenza per l’Italia. Lungo la strada molti,
già disarmati dai tedeschi, erano stati derubati dai partigiani albanesi e
jugoslavi, che si erano presi tutto ciò che potesse tornare utile, calzature
comprese; gran parte dei soldati in attesa d’imbarco erano in uno stato
pietoso: laceri, scalzi, disarmati, con le divise a brandelli.
L’imbarco delle truppe avvenne nella notte tra il 24 ed il 25,
nell’oscuramento totale, di nuovo sotto la supervisione del tenente colonnello Cirino,
tornato dall’Italia come promesso con gli ordini richiesti: imbarcare quanti
più uomini possibile per evitare la cattura da parte delle truppe tedesche, e
consegnare le armi agli albanesi all’imbarco dell’ultimo scaglione.
Le notizie che arrivavano erano una peggiore dell’altra: Cefalonia era
caduta, ed i tedeschi avevano iniziato a massacrare gli uomini della Divisione
"Acqui" che la presidiava; e da Santi Quaranta i soldati potevano
vedere direttamente la vicina Corfù martellata dai bombardamenti tedeschi. La Probitas, la nave più grande del
convoglio (e che avrebbe potuto imbarcare il maggior numero di uomini), era
entrata in porto in lieve ritardo per problemi ai motori, che ora le impedivano
di ripartire. Molti uomini dovettero così essere lasciati a terra; dietro
ordine del tenente colonnello Cirino, il Dubac
e la Salvore imbarcarono circa 2700
militari (ma, nella fretta di terminare l’imbarco e ripartire per l’Italia il
prima possibile, non fu fatta una conta precisa del numero di uomini imbarcati,
né tanto meno redatti elenchi nominativi), dando la precedenza a feriti e
ammalati. Di nuovo, dovevano imbarcarsi per primi i soldati senz’armi.
L’imbarco delle truppe, iniziato alle 21.30, richiese in tutto quattro
ore.
Sempre per ordine del tenente colonnello Cirino, sul Dubac furono fatti salire per primi i
soldati sbandati, rimasti senza armi, equipaggiamento ed in molti casi anche
uniforme: s’imbarcarono quindi sul piroscafo quasi tutti i militari della
Divisione "Parma" (49° e 50°
Reggimento Fanteria) fuggiti in queste condizioni dal campo di Drashovica,
oltre a molto personale della Divisione "Perugia". Di fatto, sia sul Dubac che sulla Salvore salirono soltanto soldati disarmati.
Quando giunse il momento di partire, il ponte del vecchio piroscafo
traboccava di uomini, sistemati ovunque vi fosse posto: secondo una fonte, non
confermabile, sul Dubac trovarono
posto 1200 soldati. Erano sistemati ovunque in coperta, in parte seduti, i più
in piedi, per mancanza di spazio. Quasi nessuno aveva il salvagente; i pochi
disponibili erano di tipo antiquato.
Terminato l’imbarco, il convoglio ripartì per l’Italia verso le due o
le tre di notte del 25, lasciando a Santi Quaranta altre migliaia di soldati e
ufficiali in disperata attesa. Nessuno sarebbe venuto a salvarli: Dubac, Salvore e Sibilla erano
le ultime navi italiane a lasciare l’Albania. La Probitas, impossibilitata a muovere, fu affondata quello stesso
giorno da ripetuti attacchi aerei tedeschi.
Verso le 7.30 si unì al convoglio, per rinforzare la scorta in
sostituzione della Stocco, la
torpediniera Sirio; questa si posizionò
sulla sinistra del Dubac, che
procedeva in testa al piccolo convoglio, seguito dalla Salvore, che era protetta dalla Sibilla
sul lato di dritta. Le navi procedevano lentamente, dovendosi adeguare alla
scarsa velocità del vecchio e lento Dubac.
La Luftwaffe, però, avvistò il convoglio intorno alle sei del mattino,
in mezzo al Canale d’Otranto. Dapprima apparve un ricognitore, da solo: l’unica
mitragliera contraerea di cui disponeva il Dubac
aprì il fuoco, inducendolo ad andarsene. Ma ormai aveva visto e segnalato il
convoglio.
I tedeschi non intendevano permettere nemmeno alle tre navi rimaste di
tornare indenni in Italia: verso le 7.45 del 25, infatti, il convoglietto venne
assalito improvvisamente da dodici bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 “Stuka”,
decisi ad impedire sia il rientro in Italia delle truppe italiane che
l’eventuale (e mai avvenuto) invio di rinforzi italiani in Albania. Gli Stukas
attaccarono in più ondate, di tre velivoli ciascuno, scendendo in picchiata e
mitragliando per poi sganciare le bombe.
Le navi italiane si diradarono immediatamente, manovrando rapidamente per
rendere più difficile il compito ai bombardieri, e reagirono con le loro armi
contraeree, colpendo due dei velivoli tedeschi.
Il Dubac non aveva molto con
cui difendersi: il suo unico armamento consisteva in una singola mitragliera
contraerea, che fu subito centrata e distrutta da una bomba; e vecchio e lento
com’era – la sua velocità massima era stata di otto nodi, in tempi migliori –
non poteva manovrare efficacemente per evitare di essere colpito (nelle parole
del comandante della Sibilla: "Bersaglio
troppo facile da colpire, carretta del mare lenta e poco manovrabile. Si vede
che non avevano altro da mandare").
Senz’armi, i soldati ammassati sul piroscafo erano del tutto inermi;
alcuni si buttarono a terra, altri si tuffarono in mare, altri ancora
scoppiarono a piangere.
Gli Stukas mitragliarono il Dubac
a volo radente, falciando gli uomini ammassati alla rinfusa sui ponti scoperti,
e piombarono su di esso in picchiata, colpendolo con due o tre bombe,
provocando una vera e propria carneficina tra i soldati: secondo una fonte, i
morti furono più di 200.
Molti uomini, in preda al panico, si gettarono in mare, allontanandosi
a nuoto; gran parte di questi, se non tutti, annegarono o scomparvero in mare.
A bordo del piroscafo scoppiò il caos, e nella calca altri uomini rimasero
schiacciati, uccisi o feriti.
Il maresciallo dei Carabinieri Antonio Casuale, della "Parma"
(era uno dei molti soldati disarmati dai tedeschi, rinchiusi a Drashovica e poi
fuggiti), si ritrovò sporco di sangue, sepolto sotto i corpi di cinque o sei
uomini, tutti i morti. Furono proprio i loro cadaveri a proteggerlo: Casuale
uscì pressoché illeso dall’attacco, soltanto sfiorato da una pallottola che gli
“strisciò” sulla schiena senza causare ferite.
Il sottotenente medico Minozzi, che assisté alla scena dalla Salvore, così descrisse la scena: “Il Dubac, sovraccarico di militari stipati
in coperta, tosto immobilizzato, crivellato di mitraglia e inesorabilmente
bombardato dal terrificante carosello aereo, più non governa e sbanda sulla
fiancata di destra. Centinaia di soldati trovano la morte, sono orrendamente
feriti, dispersi in mare periscono per annegamento. Con paurosa inclinazione il
relitto, col suo carico dolorante, raggiunge Capo d’Otranto e si incaglia sulle
scogliere. Lo visiterò qualche giorno più tardi, rendendomi conto con maggiore
esattezza dell’immane sinistro”.
L’attacco terminò dopo circa venti minuti. Il Dubac imbarcò acqua da varie falle e prese a sbandare sulla
sinistra, minacciando di capovolgersi, ma nonostante i gravi danni continuò a
navigare, forzando le caldaie al massimo della pressione per cercare di
raggiungere la costa italiana. Secondo quanto annotato da alcuni sopravvissuti
e testimoni, tra cui Renato Ughi, Alessandro Minozzi (sottotenente medico del
49° Ospedale da Campo, che assisté alla tragedia dalla Salvore) e Pierino Terzoli, la nave si fermò e sbandò su un fianco,
restando immobilizzata, poi rimise in moto un motore a velocità molto ridotta,
restando sempre sbandata.
Ristabilito a bordo un po’ di ordine, i soldati rimasti illesi
ricevettero ordine di spostarsi sul lato di dritta, per cercare di
controbilanciare lo sbandamento, mentre si cercava di prestare soccorso ai
feriti. Molti non poterono essere soccorsi, mancando del tutto i mezzi
necessari a bordo del Dubac.
Il caporale Pierino Terzoli, gravemente ferito ad un braccio, in due
punti, da colpi di mitragliatrice durante l’ultima ondata, salì sul ponte di
comando per chiedere aiuto, dato che stava perdendo molto sangue; il comandante
del Dubac lo vide e strappò allora
una bandierina di segnalazione, che usò per fasciargli strettamente il braccio
appena sotto la spalla. Appena disceso, però, Terzoli svenne; si riprese
successivamente in una cabina, dove un ufficiale che lo conosceva si stava
adoperando al meglio per prestargli le cure del caso.
Il sottotenente Ughi della Guardia di Finanza, rimasto quasi indenne
(aveva ricevuto solo ferite superficiali da schegge al volto ed alla schiena),
svuotò gli zaini dei morti della biancheria e la utilizzò per bendare alla
meglio i feriti. Lo aiutarono altri due militari della Guardia di Finanza, il
sottobrigadiere Attilio Dodi ed il finanziere Luigi Addante; i tre utilizzarono
come disinfettante alcune bottiglie di acqua di colonia. Prestati i primi
soccorsi ai feriti, Ughi, Dodi e Addante, insieme ad altri, fecero un po’ di
spazio sul ponte, raccogliendo i corpi dei morti sparsi dappertutto ed
ammucchiandoli al centro della nave.
Ughi trovò sul ponte anche il brigadiere della Guardia di Finanza
Giovanni Zanin, uno dei suoi sottoposti, in condizioni gravissime; perdeva
molto sangue da numerose ferite. Ughi si chinò su di lui per soccorrerlo, e
subito Zanin cercò di rizzarsi su un fianco, gli buttò al collo il braccio
destro (che era rimasto indenne) e gli disse, sorridendo, “Questa volta è
andata male. Non importa. Lo spirito è sempre alto. E l’Italia è vicina”. Ughi
gli disse di restare calmo e gli fasciò alla meglio le ferite più gravi, per
evitare che morisse dissanguato; poi, giudicate le sue condizioni abbastanza
rassicuranti, lo lasciò, affidandolo ad Addante, e si volse a soccorrere altri
feriti.
Quando il grado di sbandamento del Dubac
divenne pericoloso, il comandante della Sirio
(capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti), che aveva raggiunto la nave colpita
per prestarle assistenza, ordinò al piroscafo di portarsi all’incaglio sulla
costa pugliese, un miglio a nord del faro di Otranto. Ciò avvenne, a seconda
delle fonti, alle undici od a mezzogiorno.
I molti feriti del Dubac, a
partire dai più gravi, furono trasbordati sulla Sirio, appositamente affiancatasi al piroscafo, che provvide a
trasportarli rapidamente a Brindisi. Il marinaio stereotelemetrista Antonio
Angelo Caria, imbarcato sulla Sibilla,
ricordò in seguito che la tolda della Sirio
e la murata sinistra del Dubac erano
entrambe cosparse di sangue.
Il resto dell’equipaggio e delle truppe imbarcate sul Dubac, che era ancora sbandato, furono
invece presi a bordo da sei motopescherecci e motovelieri accorsi da Otranto.
Un ufficiale cercò di disciplinare l’abbandono della nave, raccogliendo gli
uomini rimasti illesi affinché aiutassero a trasbordare i feriti sulle
imbarcazioni soccorritrici; solo quando tutti i feriti furono trasferiti sulle
altre unità ebbe inizio il recupero degli uomini rimasti illesi. I pescherecci
sbarcarono i superstiti sulla costa otrantina; molti, dopo tutto quello che
avevano passato, baciarono la terra, si misero a piangere per la felicità. Molti
cercavano i propri amici e commilitoni, cercando di scoprire se fossero vivi o
morti, illesi o feriti.
Parte dei naufraghi furono rifocillati in un istituto di suore di
Otranto, altri furono accolti e ristorati da famiglie del luogo;
successivamente furono trasportati a Lecce, dove furono rivestiti.
Il caporale Terzaroli, portato a terra da un motoveliero alle 11.30,
venne caricato su un’ambulanza ad Otranto solo sei ore più tardi; da qui fu
trasportato nell’Ospedale Militare "Caserma Trizio" di Lecce, dove
giunse intorno alle otto di quella sera. Vi sarebbe rimasto ricoverato fino al
12 ottobre.
Due
drammatiche immagini scattate da bordo della Sibilla: sopra, il Dubac,
visibilmente sbandato, arranca verso la costa seguito dalla Sirio; sotto, il Dubac si porta all’incaglio, sempre assistito dalla Sirio (Coll. Antonio Angelo Caria, via
it.wikipedia.org)
La Salvore, grazie
all’efficace reazione delle sue armi contraeree, riuscì a raggiungere Brindisi
senza danni. Ben più drammatico fu l’arrivo a Brindisi della Sirio, carica di feriti del Dubac: mentre gli infermieri, subito
accorsi al molo, sbarcavano i feriti, i marinai cercavano di lavare via il
sangue dalla tolda, tingendo di rosso il mare tutt’attorno. Un alpino, ancora
in testa il cappello con la penna, ma senza più mani né gambe, morì mentre
stava per essere portato a terra. Fu suonato il silenzio, la bandiera calata a
mezz’asta. Vittorio Emanuele III, il volto stravolto dopo aver assistito alla terribile
scena, si ritrasse dalla finestra del palazzo che aveva eletto a residenza dopo
la sua fuga a Brindisi.
Non fu meno triste la sorte del resto della Divisione
"Perugia", rimasto bloccato in Albania: caduta Corfù il 26 settembre,
ogni altro invio di navi a Santi Quaranta divenne impossibile; quello stesso giorno
alcune unità navali tedesche attaccarono il porto albanese, venendo respinte ma
provocando l’esplosione e l’incendio del deposito munizioni e dei magazzini dei
viveri. Un Macchi 205 lanciò un nuovo messaggio per il generale Chiminello:
l’ordine era di trasferirsi a Porto Palermo, dove sarebbe stato possibile
inviare delle navi per recuperare il personale della "Perugia".
Poco dopo aver iniziato la marcia, però, i 4000 soldati che restavano a
Chiminello furono fermati dai partigiani albanesi, che pretesero ancora una
volta la consegna delle armi; Chiminello finì col cedere, dopo lunghe
trattative.
Ormai disarmati, gli uomini della "Perugia" proseguirono fino
a Borsh, località nei pressi di Porto Palermo, e qui attesero invano. Il 29
settembre era frattanto sbarcato a Santi Quaranta il I Battaglione del 99.
Gebirsjägerregiment della 1. Gebirgs Division, che diede inizio al
rastrellamento degli italiani. La storia operativa di questa unità della
Wehrmacht grondava sangue già da lungo tempo: la 1. Gebirgs Division aveva
massacrato centinaia di civili in Jugoslavia, Albania e Grecia, ed appena pochi
giorni prima della resa della "Perugia" aveva partecipato al massacro
della "Acqui" a Cefalonia.
Nei giorni seguenti, il grosso dei militari italiani venne catturato
dai tedeschi, mentre altri si dispersero sulle montagne circostanti.
La rappresaglia tedesca fu terribile: tra il 4 e l’8 ottobre, il
generale Chiminello e 129 ufficiali della "Perugia" (e della
"Parma", della quale un battaglione si era aggregato agli uomini di
Chiminello), compreso il tenente colonnello Cirino che non era ripartito per
l’Italia, vennero fucilati tra la baia di Limione e la località di Kuç,
nell’entroterra albanese. Sottufficiali e soldati vennero avviati alla
prigionia in Germania.
Non ebbero sorte migliore quanti riuscirono a sottrarsi alla cattura:
in pochi (circa 170, che andarono con altri a formare il Battaglione
"Antonio Gramsci") poterono unirsi ai partigiani albanesi, che qui, a
differenza che altrove, mostrarono scarsa propensione ad accettare tra i loro
ranghi gli ex nemici italiani: i nazionalisti, anzi, uccisero o derubarono
molti italiani per vendicarsi delle perdite subite ad Argirocastro.
Abbandonati a sé stessi in un ambiente ostile, tra truppe tedesche da
una parte e partigiani albanesi equamente maldisposti dall’altra, i soldati
della "Parma" e della "Perugia" si dispersero sui monti
dell’Albania: alcuni trovarono ospitalità presso famiglie del luogo, in cambio
del loro lavoro come braccianti a condizioni che rasentavano la schiavitù, mentre
altri morirono di fame, di freddo e di stenti nei mesi successivi (secondo
documenti britannici, basati sui rapporti degli agenti del S.O.E. in Albania,
nell’inverno 1943-1944 la mortalità tra i circa 45.000 soldati italiani dispersi
in tutta l’Albania fu di un centinaio di decessi al giorno).
Non essendo stata stesa una lista con i nomi degli uomini imbarcati,
non esistono dati certi su quante furono le vittime del Dubac: molti degli uomini che morirono su quella nave, con ogni probabilità,
risultano ancora oggi dispersi. Ad oggi risultano noti i nomi di almeno 76
militari deceduti sul piroscafo, ai quali sono da aggiungersi almeno 7 civili,
di cui 5 membri dell’equipaggio. Altre fonti parlano di oltre 100 morti e 200
feriti, o di 160 morti e 360 feriti, o di oltre 200 morti (il caporale Terzoli,
nei suoi appunti di quei giorni, riporta che “ci furono 500 morti circa ed
altrettanti feriti”, ed anche il sottotenente Minozzi parla di centinaia di
soldati morti o scomparsi, ma si tratta forse di esagerazioni).
Le salme recuperate a bordo del Dubac
furono trasportate al cimitero di Otranto su carretti militari trainati da
muli; molte delle vittime riposano oggi nel Sacrario di Otranto.
Parziale elenco
delle vittime del Dubac:
Vito Donato
Addabbo, maresciallo dei carabinieri (5a Brigata CC RR), 31 anni, da
Avetrana
Bartolo Francesco
Amato, appuntato Btg. Regia Guardia di Finanza, 38 anni, da Lampedusa
Giulio (o Tullio)
Amorosi, fante, 23 anni, da Montefortino
Donato Andria,
soldato 129° Rgt. Fanteria
Domenico Assaloni,
soldato 49° Rgt. Fanteria
Domenico Azzolini,
soldato, 20 anni, da Molfetta
Adriano Barbiani,
capitano c.te 9a Cp. 49° Rgt. Fanteria, 33 anni, da Bagnolo Mella
Francesco Baroni,
soldato 50° Rgt. Fanteria, 27 anni
Mario Bertini,
autiere
Ercole (o Ettore)
Bossi, soldato, 35 anni, da Malnate
Antonio Braj,
fante, 27 anni, da Trento
Filippo
Brancaleone, soldato, 26 anni, da Terrasini Favarotta
Matteo Brandini,
nostromo, da Genova (membro dell’equipaggio)
Eugenio
Campanella, soldato, 22 anni, da Cassano allo Jonio
Emanuele
Campanello, soldato, 32 anni, da Forenza
Daniele Camperato,
soldato 129° Rgt. Fanteria
Giuseppe
Cannizzaro, soldato, 27 anni, da Grammichele
Salvatore
Caparello, marinaio, 29 anni, da Sambiase
Giuseppe Caporello,
soldato
Giuseppe Catalone,
soldato 49° Rgt. Fanteria
Ottavio Cerruti,
soldato 50° Rgt. Fanteria
Francesco Chionna
(o Chion), sergente
Agide Cocchi,
soldato 49° Rgt. Fanteria, 27 anni, da Colorino
Giuseppe
Codeluppi, fante, 29 anni, da Campegine
Luigi Coppari,
carabiniere
Donato Corvaglia
(o Caroviglia), soldato, 28 anni, da Spongano
Francesco Antonio
Costa, soldato 130° Rgt. Fanteria, 29 anni, da Zollino
Giuseppe D’Amore,
carbonaio, da Monopoli (membro dell’equipaggio)
Adolfo Della
Maina, sergente maggiore
Salvatore De Rosa,
geniere, 23 anni, da Cantiano
Sabatino Di Federico, soldato 49a Divisione "Parma", 32 anni, da Teramo, disperso
Olimpio Di Liecco,
soldato
Giuseppe Di Lillo,
carabiniere ausiliario Legione CC RR di Valona, 22 anni, da Gildone
Di Giacomo …,
fante
Paolo Di Marco,
fante, 29 anni, da Sessa Aurunca
Giuseppe Fabbri,
soldato, 35 anni, da Camogli
Farinelli …,
soldato
Attilio Fasani (o
Fasari), soldato, 26 anni, da Valera Fratta
Ernesto Flaviani
(o Flavini), soldato, 23 anni, da Cellino Attanasio
Giuseppe Frabbi,
cameriere, da Genova (membro dell’equipaggio)
Francesco Ghionna,
da Otranto
Valentino
Ginanneschi, brigadiere 112a Sez. Mista Carabinieri (Div.
"Perugia"), 32 anni, da Castel del Piano
Grillo …, civile,
disperso
Fiorito Grisanti,
geniere, 29 anni, da Vetto
Aristide Grossi,
soldato, 21 anni, da Fabriano
Leonardi …,
soldato
Fulvio Iannotti,
soldato, 23 anni, da Ari
Girolamo Licci, da Ruffano
Adolfo Linardi,
soldato 130° Rgt. Fanteria, 20 anni, da Castiglione Cosentino
Adolfo (o Angelo)
Lorini, soldato, 21 anni, da Chiari
Giovanni Magliulo,
soldato
Battista Mancini,
soldato, 36 anni, da Scoppito
Giuseppe Manzo,
soldato
Armando
Martinelli, soldato 50° Rgt. Fanteria
Giuseppe
Mastrandrea, fante, 32 anni, da Casascalenda
Carmelo (o
Giuseppe) Mento, sergente, 25 anni, da San Pier Niceto
Antonio Mischio,
soldato, 26 anni, da Veggiano
Annibale Morandini, 22 anni, soldato, 49a Sezione Fotoelettricisti (Divisione "Parma"), disperso
Nazareno Mosconi,
soldato
Giovanni Nicol,
soldato, 35 anni, da Rivoli
Vittorio
Pagliaretta (o Pigliarella), soldato, 29 anni, da Pedaso
Giulio Palazzo,
soldato
Antonio Palma, da
Palmariggi
Giovanni Palmieri,
capo fuochista, da Bari (membro dell’equipaggio)
Giovan Battista
Paparoni, maresciallo maggiore richiamato dei carabinieri, 56 anni, da Viterbo
Giacomo Pascale,
soldato, 20 anni, da Castellana Grotte
Giuseppe Passati,
soldato
Giuseppe
Persegnani (o Persecani), soldato
Antonio Pilsano (o
Pulsano), soldato, 22 anni, da Giuggianello
Elia Plantera, da
Collepasso
Antonio Polinelli,
soldato, 26 anni, da Alseno
Mario Roda,
autiere, 19 anni, da San Tommaso Agordino
Michelino Rollo,
da San Donato
Antonio Rosanelli,
soldato 49° Rgt. Fanteria, 29 anni, da Pietracatella
Adelmo (o Aldino)
Salmi, fante
Rosario Saluto,
soldato 151° Btg. Genio
Antonio Scarano,
soldato 130° Rgt. Fanteria, 31 anni, da Trivento
Giuseppe
Schirinzi, soldato
Marco Scola (o
Scolo), soldato, 26 anni, da Carenno
Antonio Serra,
soldato, 21 anni, da Ostellato
Giuseppe Speranza,
fante
Giuseppe Svecci,
soldato
Franco Tani,
soldato, 21 anni, da Empoli
Provino Tassone,
soldato
Sebastiano Testa,
fante, 28 anni, da Cercemaggiore
Francesco Tucci,
tenente, 34 anni, da Torre Annunziata
Mario Ugolini,
caporale, 27 anni, da San Giovanni Lupatoto
Vincenzo
Varrastro, soldato, 30 anni, da Avigliano
Leonardo Villani,
da Sternatia
Quanto al Dubac, pochi giorni
dopo l’incaglio il vecchio piroscafo – aveva 42 anni – affondò in acque poco
profonde là dov’era stato fatto incagliare.
Il suo relitto giacque dimenticato per un paio d’anni, ma dopo la fine
del conflitto le autorità della Jugoslavia domandarono della sorte del Dubac, e se fosse possibile un suo
recupero. Inizialmente furono fornite delle informazioni sbagliate, secondo le
quali la nave era stata sabotata dal suo equipaggio a Taranto nel settembre
1943, ma nel giro di poco tempo le autorità jugoslave poterono essere informate
che il Dubac, impegnato
nell’evacuazione di truppe italiane dall’Albania, era stato bombardato da aerei
tedeschi e portato all’incaglio presso Otranto, dov’era affondato pochi giorni
dopo per i danni subiti.
Il relitto venne individuato ed esaminato da alcuni esperti, i quali
sostennero che i danni non fossero esageratamente gravi, e che il recupero e
riparazione della nave sarebbe stato conveniente.
Riportato a galla, il vecchio piroscafo venne rimorchiato a Fiume –
ormai annessa alla Jugoslavia e divenuta Rijeka – nell’agosto del 1946, per
essere sottoposto alle necessarie riparazioni nei cantieri del Quarnaro. Erano
però molte le navi che necessitavano di riparazioni, nella Jugoslavia
dell’immediato dopoguerra: il vecchio Dubac
finì con l’essere messo da parte, perché la capacità di riparazione degli
oberati cantieri doveva prima essere destinata a navi più grandi e più moderne.
Dopo tre mesi di attesa a Fiume, il Dubac
venne rimorchiato nella baia di Soline, nell’isola di Veglia/Krk, e poi nella
baia di Klimno, sempre nella medesima isola. Qui fu posto in disarmo a metà
novembre 1946; nonostante non fosse che un relitto in attesa di qualcuno che
decidesse del suo destino, le autorità jugoslave si presero frattanto la briga
di cambiargli il nome, per la prima volta dopo 45 anni, ribattezzandolo Šolta.
Rappezzato alla meglio dopo il recupero ad Otranto, tuttavia, il
piroscafo non aveva ricevuto altre riparazioni più estese, e così il 9 dicembre
1946 finì con l’affondare di nuovo nei bassi fondali della baia di Soline.
Ciò non impedì il governo della repubblica di Jugoslavia, il 20 gennaio
1947, di assegnare il Šolta – che
pure in quel momento giaceva sui fondali dell’isola di Veglia – alla
neocostituita Jugoslavenska Linijska Plovidba (Jugolinija) di Fiume.
Questo cambio di proprietà non ebbe però l’effetto di risvegliare
l’interesse di chicchessia nei confronti della vecchia nave, che continuò a
languire semiaffondata a Soline per ben otto anni.
Nell’autunno del 1954, infine, venne presa una decisione: non valeva la
pena di riparare una nave tanto vecchia e malconcia. Il Šolta sarebbe stato demolito per recuperarne il metallo.
La ditta Brodospas di Spalato, specializzata nei recuperi, fu
incaricata dell’ultimo capitolo della vita di questa nave: riportato a galla
con l’ausilio di cilindri di sollevamento, l’ex Dubac fu rimorchiato a metà ottobre 1954 nel cantiere di
demolizione di Svetome Kaji, e demolito entro il 1955.
Così ricordò le missioni di rimpatrio truppe dall’Albania ed il
bombardamento del Dubac il marinaio
stereotelemetrista Antonio Angelo Caria, imbarcato sulla Sibilla:
“Alla grande confusione e sbandamento generale in cui si é trovata
l'Italia, dopo l'8 settembre 1943-in seguito all'armistizio, si é aggiunto il
dramma delle nostre Armate dislocate nei balcani e che andavano rimpatriate. I
Comandanti di quelle Armate non hanno trovato di meglio ove far convergere i
loro soldati nel punto più sbagliato, a Santi Quaranta-in Albania, a uno sputo
da Corfù ove i tedeschi avevano un aeroporto agibile ed efficiente. A Santi
Quaranta, il Genio Trasmissioni aveva messo su un ponte radio attraverso il
quale, insistentemente, quei Comandanti premevano presso il Comando Supremo
(che Supremo non era più), affinchè si attivasse per disporre il rimpatrio dei
loro soldati. Per tale insistenza, sono stati approntati il piroscafo Dubac e la motonave Salvore, scortati dalla Torpediniera Sirio e dalla Corvetta Sibilla.
Arrivati a Santi Quaranta, alcuni Comandanti ci hanno chiesto se avevamo
portato dei viveri. La risposta del Comandante del Sirio é stata che non avevamo portato dei viveri perchè non
richiesti. Comunque, a presiedere l'imbarco, ordinatamente era stato destinato
un Colonnello che faceva imbarcare per primi i disarmati. Molti soldati,
vedendo come si procedeva e perchè non erano fessi, buttavano le armi un po
lontano, cosi potevano imbarcarsi pure loro. Per tale motivo, lontano, si é
formata una catasta enorme di moschetti e pistole, buttate e abbandonate.
Siamo ripartiti con i due mercantili, stipati all'inverosimile,
raggiungendo Brindisi il giorno dopo. Nel giro di pochi giorni, é stata
approntata la nuova missione per Santi Quaranta, con le stesse navi, Dubac e Salvore (cariche di 5-6 tonnellate di viveri richiesti), e la
stessa scorta della Torpediniera Sirio
e noi Corvetta Sibilla. Navigazione
tranquilla all'andata, ma all'arrivo abbiamo trovato una situazione desolante.
Desolante per quei soldati calati dalla Croazia orientale (un soldato mi disse
che proveniva dalla Slavonia, mai sentita nominare tale regione), un altro mi
disse che veniva da Giannina e molti da varie località dell'Epiro. Erano in uno
stato pietoso, poiché i partigiani titini li avevano depredati di tutto, scarpe
comprese. E' cominciato l'imbarco col solito rituale, solo che tutti quei
soldati non erano armati e la maggior parte erano scalzi e con le divise a
brandelli. Terminate le operazioni d'imbarco, siamo salpati prendendo la via
del ritorno.
Nel bel mezzo del Canale di Otranto siamo stati attaccati da un gran
numero di Stukas (decollati dalla vicinissima Corfù). L'attacco é stato
repentino, a volo radente sul livello del mare, per cui non abbiamo avuto il
tempo di brandeggiare le mitragliere perchè le cabrate e le successive
"picchiate" ci hanno costretto a salvarci con estreme virate Il Sirio, noi Sibilla e il Salvore,
manovrabilissimi, abbiamo evitato tutte le bombe che ci sono state lanciate. Il
Dubac, purtroppo, é stato centrato da
2-3 bombe causando una carneficina fra i soldati stipati all'inverosimile. Per
questo, il Dubac ha cominciato a
sbandare sul lato sinistro per il cui sbandamento si é cercato di
controbilanciarlo facendo affluire tutti i soldati incolumi, all'interno (lato
agibile) e all'esterno, del lato destro. Al Comandante del Dubac é stato ordinato di andare avanti con le macchine a tutta
forza, fino a raggiungere la costa salentina ove potersi arenare o incagliare,
per evitare l'affondamento, cosa che é avvenuta. Alla Torpediniera Sirio é toccato l'ingrato compito di
accostarsi al Dubac per prendere i
feriti più gravi per portarli immediatamente a Brindisi (quando vi é arrivato,
aveva tutta la tolda intrisa di sangue, ma anche il Dubac aveva il lato sinistro sporco di sangue). I feriti meno gravi
sono stati soccorsi dai mezzi sopraggiunti da Otranto e trasportati a Lecce. I
morti, quasi duecento, sono stati recuperati succesivamente. Noi Sibilla, invece, abbiamo ricevuto
l'ordine di scortare la motonave Salvore
fino a Brindisi. Sono ancora convinto che se i nostri soldati fossero stati
fatti affluire verso il porto di Valona, che é quasi di fronte a Brindisi,
molto probabilmente avremmo potuto rimpatriare molti-molti altri soldati [evidentemente Caria non sapeva che Valona
era già stata occupata dai tedeschi il 10 settembre, nda]. Non é stata
progettata ed eseguita altra missione per Santi Quaranta, visto il grande
pericolo che occorreva affrontare. Pazienza per quelli che si trovavano molto
più a sud (Peloponneso, Morea) e quelli in Tessaglia e a nord della Grecia,
compresi i Carabinieri martiri di Cefalonia e quelli del Dodecaneso, Lero
compreso-ove c'era un mio cugino. Il destino per quei soldati, marinai,
carabinieri che non si sono potuti rimpatriare é stato di finire nei campi di
concentramento (o lager) in Germania.”
L’arrivo a Brindisi dei feriti trasportati dalla Sirio, nel ricordo del cannoniere Luigi Camuso della corvetta Fenice:
“La torpediniera Sirio
attracca in tarda mattinata al pontile di legno a poca distanza dalla nostra
nave, a ridosso del castello Svevo e all’altezza della finestra dove
spesso si affacciava il Re. C’è un accorrere di infermieri, barelle, tra urla
di dolore e di rabbia.
La torpediniera ha la tolda coperta di sangue e mentre gli
infermieri sbarcano i feriti, vi sono marinai che con ramazze e grandi spatole
cercano di lavarlo via,…il mare tutto intorno si colora di rosso. ..ad un
tratto la tromba suona il silenzio e la bandiera viene abbassata a
mezz’asta: un alpino, con il cappello e la penna calato
in testa , le mani e le gambe mozzate da una bomba degli Stukas, spira mentre
sta per scendere dalla nave.
Alziamo tutti gli occhi verso la finestra del Castello: un re turbato,
con il viso stravolto, distoglie lo sguardo da quello strazio e rientra
all’interno, forse piangendo.
Per noi della Fenice
rientrati da poco a Brindisi da un’altra sfortunata operazione, nel
canale di Santa Maura, con ancora negli occhi l’immagine di corpi di italiani
galleggianti inerti tra resti di scafi affondati dai tedeschi
e spiagge piene di soldati che ci imploravano di raccoglierli,
questa scena ci lasciò attoniti, senza forze, consapevoli di vivere uno strazio
che coinvolgeva l’Italia intera e che non avremmo mai voluto che si potesse
ripetere.”