Sommergibile oceanico
della classe Liuzzi (dislocamento in superficie 1166 tonnellate, in immersione
1484). Sotto bandiera italiana effettuò due missioni offensive/esplorative in
Mediterraneo, tre missioni offensive in Atlantico, quattro missioni tra
addestrative e di trasferimento, una di trasporto, oltre a numerose missioni di
addestramento per la scuola di Gotenhafen. Escluso il servizio per
Marigammasom, il Giuliani percorse
37.526 miglia in superficie e 2826 in immersione.
Breve e parziale cronologia.
10 marzo 1939
Impostazione presso i
cantieri Franco Tosi di Taranto.
3 dicembre 1939
Varo presso i
cantieri Franco Tosi di Taranto.
3 febbraio 1940
Entrata in servizio.
6 giugno 1940
Il Giuliani (tenente di vascello Bruno
Zelik) lascia Taranto nelle prime ore del mattino insieme ai gemelli Bagnolini e Tarantini ed al più piccolo Salpa, diretto a sud di Creta, per trovarvisi in missione al
momento della dichiarazione di guerra.
10 giugno 1940
Ingresso dell’Italia
nella seconda guerra mondiale. Il Giuliani,
che insieme ai gemelli Console Generale
Liuzzi, Alpino Bagnolini e Capitano Tarantini forma la XLI
Squadriglia Sommergibili, inquadrata nel IV Grupsom di Taranto, si trova già in
missione al largo di Gaudo (a sud di Creta), formando uno sbarramento – insieme
a Salpa, Bagnolini e Tarantini, a distanza di 20 miglia l’uno
dall’altro – contro il traffico diretto verso i Dardanelli.
Per altra fonte il Giuliani (tenente di vascello Bruno
Zelik) prende il mare proprio il 10 giugno per la prima missione di guerra, a
sud di Gaudo.
Una
serie di fotografie della prima missione di guerra del Giuliani
scattate da Giovanni Mammarella (Sulmona, 1907-Taranto, 2008),
operaio dei cantieri Tosi di Taranto che fu militarizzato ed
imbarcato sul sommergibile in qualità di operaio di garanzia, qui
riunite in un album ed accompagnate dal testo dell’Inno dei
Sommergibilisti (si ringrazia il figlio Costantino):
|
Il
comandante Zelik |
|
Giovanni
Mammarella è il primo da destra |
|
A
sinistra Giovanni Mammarella, a destra Andrea Assali, caduto il 3
settembre 1942 e decorato di MBVM alla memoria |
Tessera
di riconoscimento e permesso di entrata nell’Arsenale di Taranto di
Giovanni Mammarella (per g.c. del figlio Costantino)
|
Lettera
dei cantieri Tosi a Giovanni Mammarella, inviata insieme a 500 lire
di premio speciale in riconoscimento del servizio prestato sui
sommergibili come operaio di garanzia (per g.c. del figlio
Costantino) |
12 giugno 1940
Avvista una nave antisommergibile
nemica, molto vicina e quasi a proravia, che lo obbliga allontanarsi con
un’immersione rapida.
21 giugno 1940
Conclude la missione
rientrando alla base senza risultati.
15 luglio 1940
Inviato in agguato a
nordest di Derna ed a sud di Gaudo, sempre al comando di Bruno Zelik; nella
stessa zona vengono inviati anche il Bagnolini
ed un terzo sommergibile, l’Enrico Toti.
24 luglio 1940
Inizia la navigazione
di rientro.
Il sottocapo
cannoniere puntatore scelto Cesario Verardo (22 anni, da Presicce), rimasto gravemente ferito durante
la missione, muore il 25 luglio. Causa della morte è una caduta verificatasi il 24 luglio, in fase d'immersione: scivolando a causa della fretta di chiudere il portello, Verardo è caduto in camera di manovra, battendo con la schiena sul diamante del controportello e finendo addosso al comandante Zelik, rimasto a sua volta leggermente ferito al sopracciglio ed allo zigomo sinistri. Sulle prime la ferita di Verardo non è parsa grave, ma le sue condizioni sono peggiorate dopo poche ore, fino a portare alla sua morte alle 5.30 del 25 luglio.
Il comandante Zelik, essendo ormai prossimo il rientro alla base, deciderà di non procedere alla sepoltura in mare, come d'uso in questi casi, e di riportare invece a terra la salma per poterla riconsegnare alla famiglia: a questo scopo, non essendovi spazio a bordo, fa rimuovere il siluro contenuto nel tubo numero 3 e sistemare il corpo al suo interno. All'arrivo a Taranto, la salma potrà così essere riconsegnata ai familiari; ma l'iniziativa del comandante Zelik non sarà apprezzata da Maricosom, che incaricherà il capitano di fregata Luigi Caneschi di condurre un'inchiesta sull'accaduto (che comunque non approderà a nulla).
Alla memoria di Verardo verrà conferita la Medaglia
di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: “Durante una missione di guerra a
bordo di un sommergibile, nonostante il dolore provocatogli da lesioni
gravissime, in seguito alle quali decedeva, serbava contegno virilmente sereno
rivolgendo il suo ultimo pensiero alla Patria ed al suo sommergibile.
Mediterraneo
Orientale, 24-25 luglio 1940.”
|
Bruno Zelik (Trieste, 1903-Mediterraneo orientale, 1942), primo
comandante del Giuliani durante la
seconda guerra mondiale (da www.salvofuca.blogspot.it) |
27 luglio 1940
Durante la
navigazione di rientro, in mattinata, avvista un grosso sommergibile che
procede in superficie a sud di Capo Spartivento (ed a 25 miglia da Capo Santa
Maria di Leuca); a bordo si ritiene però che possa essere il gemello Bagnolini (per altra fonte il Bragadin), che si sa essere anch’esso di
ritorno alla base, dunque non si attacca. Viene avvistata quella che sembra
essere la scia di un siluro lanciato dall’altro sommergibile, ed il Giuliani si disimpegna subito in
immersione.
29 luglio 1940
Giunge alla base. Scelto
per essere tra i sommergibili da inviare in Atlantico, alle dipendenze della
nuova base di Betasom (stabilita a Bordeaux, nella Francia occupata), viene
inviato nell’arsenale di Taranto per un periodo di lavori di adattamento al suo
prossimo impiego in Atlantico.
Terminati i lavori,
viene trasferito a Trapani (al comando del capitano di corvetta Renato D’Elia,
che ha sostituito Zelik) in preparazione della partenza.
29 agosto 1940
Lascia Trapani al
comando del capitano di corvetta Renato D’Elia.
10 settembre 1940
Attraversa lo stretto
di Gibilterra in immersione; nessun problema se non il vento forte ed il mare
agitato.
14 settembre 1940
Raggiunge il proprio
settore d’agguato, a ponente di Madera (per altra fonte, a sud di Madera; nelle
stesse acque, tra le Azzorre, il Portogallo e Madera, sono in missione anche i
sommergibili Comandante Faà di Bruno, Tarantini, Emo, Luigi Torelli e
Maggiore Baracca). Nei giorni
successivi avvista un mercantile armato e lo attacca col cannone, da grande
distanza; questo però si guasta, consentendo al bastimento di fuggire.
30 settembre 1940
Lascia il settore
d’agguato e dirige per Bordeaux.
5 ottobre 1940
Arriva a Bordeaux.
Quando è già in vista della costa, alla foce della Gironda, e procede insieme
al sommergibile Maggiore Baracca per
l’ultimo tratto di navigazione, viene attaccato da un sommergibile avversario
che gli lancia tre siluri, ma li evita con rapida manovra.
L’attaccante è il
britannico Tigris, del capitano di
corvetta Howard Francis Bone: questi ha avvistato alle 6.58 ben tre
sommergibili italiani, a distanze comprese tra 5500 e 7300 metri, ed ha deciso
di attaccare il secondo ed il terzo, cioè il Giuliani ed il Baracca
(che in realtà sono gli unici presenti: il terzo è un’illusione ottica).
Avvistate alle 7.08 due navi di scorta dirette verso di lui – si tratta dei
dragamine tedeschi M 9 e M 13, incaricati di scortare i due
sommergibili –, Bone ha deliberato di concentrare l’attacco solo sul terzo
sommergibile, il Giuliani, ed alle
7.16 ha lanciato quattro siluri da 2290 metri, in posizione 45°39’ N e 01°34’ O.
Fallito l’attacco, il
Tigris subisce caccia con undici
bombe di profondità tra le 7.25 e le 8.02, ma nessuna esplode vicina.
Nelle settimane
successive partecipa a brevi missioni di addestramento.
11 novembre 1940
Salpa per la seconda
missione in Atlantico (sempre al comando del capitano di corvetta D’Elia),
facendo parte di un gruppo denominato proprio «Giuliani»: si tratta dei
sommergibili Argo, Giuliani, Tarantini e Torelli,
assegnati ad un settore ad ovest dell’Irlanda ed al largo della Scozia,
compreso tra i paralleli 53°20’ N e 55°20’ N ed i meridiani 15°00’ O e 20°00’ O
(ad ovest della zona pattugliata dai sommergibili tedeschi).
24 novembre 1940
Arriva nel settore
d’operazioni, a ponente dell’Irlanda. Attacca un incrociatore ausiliario, ma
infruttuosamente (per altra versione lo evita immergendosi); viene fatto
oggetto di caccia antisommergibile e subisce seri danni ai timoni.
27 novembre 1940
Insieme al Tarantini ed ad un terzo
sommergibile, l’Argo, il Giuliani forma uno sbarramento ad
ovest di un altro formato dai sommergibili tedeschi U 52, U 94, U 95, U 99, U 101 e U 140. Le unità dovrebbero probabilmente
intercettare il convoglio britannico HX 90, partito da Halifax il 21 novembre e
diretto nel Regno Unito.
29 novembre 1940
Viene colpito da una serie di avarie: dapprima il blocco del cappello di un
tubo lanciasiluri, poi quello dei timoni prodieri (ed anche quelli poppieri
danno noie, tanto da costringere a passare ai comandi manuali), tanto che il
29, mentre è intento nel tentativo di riparare le avarie, avvista tre navi ma
non può attaccarle in superficie a causa del maltempo (l’impossibilità di
utilizzare i timoni prodieri preclude la navigazione in quelle acque agitate,
che potrebbe causare seri danni e deformazioni allo scafo). Non essendo
possibile effettuare riparazioni più approfondite con i mezzi disponibili in
mare, viene deciso di rientrare alla base.
4 dicembre 1940
Attaccato da un
idrovolante Short Sunderland, lo evita immergendosi, ma il malfunzionamento dei
timoni di profondità prodieri, e la lentezza nell’utilizzo di quelli poppieri
(causa la necessità di usare i controlli manuali) fanno perdere il controllo,
ed il Giuliani sprofonda fino a 135
metri di profondità. Nonostante questo, non subisce danni. (Per altra fonte,
invece, il Sunderland colpisce il Giuliani,
causandogli seri danni).
6 dicembre 1940
Arriva a Bordeaux.
Nel rapporto di missione, il comando di Betasom rileva che «si e' confermata la
scarsa attitudine di questo tipo di sommergibile alla navigazione con mare
grosso» e «occorre che il Comandante D'Elia completi il proprio addestramento
alla manovra del sommergibile».
Segue un periodo di
lavori di adattamento alle condizioni operative dell’Atlantico.
Nel frattempo,
l’attività dei sommergibili italiani in Atlantico ha dato risultati piuttosto
scarsi, portando il 17 dicembre alla proposta – da parte del comandante della
flotta subacquea tedesca, ammiraglio Karl Dönitz – di inviare due o tre
sommergibili italiani presso la scuola tattica degli U-Boote tedeschi a
Gotenhafen (nome tedesco della città di Gdynia, in Polonia), per addestrare i
comandanti italiani (nonché il personale di plancia) alla guerra al traffico nell’Atlantico,
assai diversa dalle operazioni svolte nel Mediterraneo, ed alle tattiche
d’attacco tedesche, così disponendo di abbondanti mezzi messia disposizione della Kriegsmarine. Alcuni
ufficiali del Genio Navale (tra cui il direttore di macchina del Giuliani, capitano del G. N. Umberto
Bardelli) saranno al contempo introdotti alle soluzioni tecniche adottate nella
costruzione e nell’armamento degli U-Boote.
L’ammiraglio di
divisione Angelo Parona, comandante di Betasom, trasmette la proposta al capo
di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, che all’inizio del
gennaio 1941 dà la sua approvazione; viene pertanto costituita una sezione
italiana alla scuola tattica di Gotenhafen, denominata «Marigammasom».
Il 14 gennaio il Giuliani – proprio perché nelle prime
missioni atlantiche ha mostrato gravi deficienze di tenuta al mare, che ne
sconsigliano un ulteriore utilizzo in missioni offensive, e perché si trova in
quel momento ai lavori – viene scelto per essere la “nave scuola” da impiegare
nell’addestramento a Gotenhafen. Inizialmente i sommergibili assegnati a
Marigammasom dovrebbero essere due, il Giuliani
ed il Bagnolini, ma quest’ultimo
viene lasciato a Bordeaux per continuare le missioni offensive.
Il Giuliani viene quindi sottoposto ad un
periodo di lavori di modifica tesi ad adattarlo al meglio alla guerra in
Atlantico: le modifiche più importanti consistono nella riduzione della
voluminosa torretta e degli involucri dei periscopi, e nella modifica dei
trombini aspirazione motori.
16 marzo 1941
Il Giuliani, al comando del capitano di
corvetta Vittore Raccanelli (che ha sostituito D’Elia prima della partenza, ma
solo per il viaggio di trasferimento), salpa da Bordeaux per Gotenhafen.
19 marzo 1941
Durante il viaggio di
trasferimento, il Giuliani si unisce
temporaneamente ai sommergibili italiano Mocenigo
e Brin ed al tedesco U 46 per una ricerca, a seguito di un
avvistamento da parte di un ricognitore tedesco Focke-Wulf FW 200 “Condor”.
6 aprile 1941
Giunge a Gotenhafen;
qui (il 20 o 21 aprile) assume il comando del Giuliani, al posto di Raccanelli, il capitano di corvetta Adalberto
Giovannini, scelto per la sua esperienza e conoscenze pregresse.
|
L’equipaggio del Giuliani schierato a Gotenhafen nell’aprile
1941, in occasione della visita di benvenuto del console d’Italia (g.c. Carlo
Di Nitto)
|
20 aprile 1941
Inizia l’attività
addestrativa, consistente in corsi di addestramento di durata variabile tra le
due e le cinque settimane, con cui crociere nel Mar Baltico di 10-20 giorni. La
Kriegsmarine mette diverse unità a disposizione di Marigammasom: la nave
appoggio sommergibili Isar e la nave
bersaglio Amerland, per simulare un convoglio
da attaccare, nonché due navi scorta (torpediniere e/o cannoniere) e quattro
aerei, questi ultimi inviati dalle basi di Memel o Copenhagen per simulare la
ricognizione antisommergibili o la scorta aerea diretta del convoglio. La 27a
Flottiglia tattica tedesca fornisce inoltre assistenza illimitata per ogni
ulteriore necessità.
Le direttive tattiche
tedesche vengono studiate e se ne ricava un Memorandum per i Comandanti circa
l’impiego dei sommergibili nella guerra al traffico oceanico.
21 aprile-10 maggio 1941
Primo ciclo
addestrativo per Marigammasom: si addestra il tenente di vascello Mario Paolo
Pollina.
20-31 maggio 1941
Secondo ciclo
addestrativo: l’allievo è il tenente di vascello Walter Auconi (che il Giuliani reinconterà a Singapore nei
fatidici giorni dell’armistizio), insieme ad un ufficiale e cinque vedette del
sommergibile Dandolo.
2-16 giugno 1941
Terzo ciclo
addestrativo; ad addestrarsi sono il capitano di corvetta Emilio Olivieri ed un
altro ufficiale.
18 giugno 1941
Pausa dell’attività
addestrativa fino a settembre, prima per l’inizio dell’invasione dell’Unione
Sovietica, poi per lavori di manutenzione.
Settembre 1941
Ripresa dell’attività
addestrativa.
|
Il Giuliani a Gotenhafen nell’ottobre 1941 (g.c.
STORIA militare) |
1-10 ottobre 1941
Quarto ciclo
addestrativo, a beneficio del capitano di corvetta Enzo Grossi, 4 ufficiali e 7
vedette del sommergibile Barbarigo.
13-31 ottobre 1941
Quinto ciclo
addestrativo, nel quale si addestrano il capitano di corvetta Luigi Longanesi
Cattani, due ufficiali e 9 vedette del sommergibile Leonardo Da Vinci.
|
Il Giuliani, in secondo piano, a Gotenhafen nell’ottobre 1941; in
primo piano il nuovo sommergibile tedesco U
730, di ritorno in porto dalle prove in mare (g.c. STORIA militare)
|
3-15 novembre 1941
Sesto ciclo
addestrativo, per il capitano di corvetta Ugo Giudice, due ufficiali e nove
vedette del sommergibile Giuseppe Finzi.
16 novembre-4 dicembre 1941
Settimo ciclo
addestrativo, riguardante il tenente di vascello Mario Tei (futuro comandante
del Giuliani), un ufficiale e sette
vedette del sommergibile Bagnolini.
9-20 dicembre 1941
Ottavo ciclo
addestrativo, per un ufficiale e sei vedette (nessun comandante).
20 dicembre 1941
Fine dell’attività
addestrativa: il Mar Baltico sta iniziando a ghiacciare, impedendo il
proseguimento di ogni attività. In tutto il Giuliani
ha portato a termine sette cicli addestrativi (un ottavo è stato annullato per
via delle condizioni meteo), addestrando complessivamente 7 comandanti, 12
ufficiali e 48 vedette (il personale di plancia di sette sommergibili) e
trascorrendo un totale di 84 giorni in mare (8902 miglia di navigazione).
Marzo 1942
Dato che
l’addestramento a Gotenhafen si è rivelato assai proficuo, si è previsto che i
cicli addestrativi riprendano intensivamente in marzo; il comandante Giovannini
predispone i preparativi per la ripresa dell’attività, ed il 10 marzo consegna
all’ammiraglio Antonio Legnani, comandante delle forze subacquee italiane, un
resoconto sui preparativi effettuati ed in corso. Legnani mostra grande
apprezzamento per l’operato di Giovannini e degli uomini di Gotenhafen, e si
dichiara certo dei risultati positivi del proseguimento dell’addestramento;
pochi giorni dopo, però, essendo necessario avere tutti i sommergibili
disponibili a Bordeaux per partecipare alla grande offensiva contro il naviglio
Alleato sulle coste americane, Marigammasom viene chiusa ed il Giuliani riceve ordine di tornare in
Francia il prima possibile.
21 aprile 1942
Il comandante
Giovannini è sostituito dal capitano di fregata Giovanni Bruno; il Giuliani lascia Gotenhafen per Bordeaux.
23 maggio 1942
Arriva a Bordeaux.
24 giugno 1942
Dopo un breve periodo
di lavori, salpa da Bordeaux al comando del capitano di fregata Giovanni Bruno,
per effettuare una missione a sud delle Bahamas, nella zona del Canale
Sopravento.
16 luglio 1942
Alle 15.45, mentre
ancora è in navigazione verso il settore assegnato, cambia rotta per tentare di
raggiungere un mercantile già attaccato in precedenza da un altro mercantile;
riesce a raggiungerlo, in posizione 22°00’ N e 61°22’ O, ma proprio in quel
momento viene attaccato da un bombardiere Boeing B-17 “Flying Fortress” che gli
sgancia contro tre bombe. Il Giuliani
non subisce danni, ma è costretto all’immersione, abbandonando l’attacco prima
ancora di poterlo cominciare.
24 luglio 1942
Si rifornisce di 50
tonnellate di carburante dal sommergibile Giuseppe
Finzi. Vengono anche scambiati ordini; il Giuliani riceve disposizione di portarsi al largo delle Piccole
Antille e delle Isole Sopravento Meridionali, in particolare a levante della
Guadalupa.
Alle 16.40 avvista in
posizione 22°15’ N e 60°25’ O due navi mercantili, tra cui una moderna motonave
a due fumaioli stimata in 10.000 tsl, e lancia due siluri contro di esse. Viene
sentita un’esplosione e si ritiene di aver danneggiato la nave, che si
allontana ad alta velocità, ma è un’impressione errata. Questo è l’ultimo
attacco compiuto da un sommergibile italiano nelle acque delle Bahamas.
29 luglio 1942
Raggiunge il settore
assegnato per la missione.
30 luglio 1942
Riceve ordine di
trasferirsi in un nuovo settore d’agguato, a sud delle Isole di Capo Verde.
10 agosto 1942
Durante la
navigazione di trasferimento, ottiene il suo primo successo, silurando alle 3.50
(altre fonti parlano di 5.45, forse per diverso fuso orario) la motonave
britannica Medon (capitano S. R.
Evans) di 5445 tsl, in navigazione in zavorra da Mauritius a New York via
Trinidad e Table Bay. Il siluro distrugge l’asse dell’elica della Medon e mette fuori uso il motore; il Giuliani apre poi il fuoco col cannone,
spingendo l’intero equipaggio – 64 uomini – ad abbandonare la nave su quattro
lance. Dopo alcune ore, alcuni membri dell’equipaggio della Medon risalgono a bordo della nave,
lanciano un altro segnale di soccorso e prelevano provviste, acqua, coperte e
strumenti di navigazione che vengono portati sulle lance; cercano anche di
calare un’altra lancia, l’unica dotata di motore, ma il Giuliani riemerge ed apre nuovamente il fuoco, costringendoli ad
abbandonare la nave di nuovo. Il sommergibile cannoneggia ancora la nave e poi –
alle 7.04 – la affonda con un ultimo siluro (in tutto ne ha lanciati cinque
dall’inizio dell’attacco), nel punto 09º26’ N e 38º28’ O (o 09°45’ N e 38°25’
O), 500 miglia a nordest di Cearà (Brasile) e 1500 miglia ad est di Trinidad
(nonché 935 miglia a nordest della Caienna). (Per altra fonte la Medon sarebbe stata affondata dal Giuliani a cannonate, senza impiegare
siluri, ma ciò sembra erroneo). I naufraghi saranno tutti tratti in salvo da
altre navi, dopo una lunga odissea nell’oceano: una lancia sarà soccorsa dopo
una settimana dalla motonave norvegese Tamerlane,
un’altra dopo otto giorni dal piroscafo panamense Rosemount, una terza (la numero 2) verrà soccorsa dal piroscafo
portoghese Luso dopo aver percorso
quasi 600 miglia in 35 giorni, e l’ultima (la numero 3, con 16 naufraghi) verrà
recuperata dal piroscafo britannico Redpool
il 13 settembre, dopo aver percorso 313 miglia in 36 giorni. Questi ultimi
dovranno anche subire un secondo affondamento prima di rivedere la terra: il Redpool verrà affondato dal sommergibile
tedesco U 515 il 20 settembre, con
sei vittime tra il suo equipaggio (ma nessuno del Medon), e tutti i naufraghi – compresi quelli del Medon – verranno soccorsi l’indomani
dalla goletta britannica Millie M. Masher.
13 agosto 1942
Alle 19.25 (secondo i
superstiti statunitensi, per via della differenza di fuso orario) o 20.30
(orario italiano) il Giuliani attacca
col siluro il piroscafo statunitense California,
di 5441 tsl. Alle 19.35 (secondo l’orario di bordo del California) il piroscafo viene colpito da un primo siluro, che però
non esplode; il Giuliani, che ha
lanciato in immersione, emerge ad un miglio di distanza ed apre il fuoco col
cannone – per risparmiare costosi siluri, pratica comune tra i sommergibili
italiani –, colpendo ripetutamente la zona della plancia (da bordo del
sommergibile vengono apprezzati almeno otto colpi a segno). Le macchine del
piroscafo vengono fermate, ed alle 20.20 il Giuliani
colpisce il California con un secondo
siluro (in tutto l’attacco, ne vengono lanciati tre) in corrispondenza della
stiva n. 1, sul lato sinistro, lanciando in aria i boccaporti; gli apparati di
governo della nave vengono gravemente danneggiati dal tiro d’artiglieria. Alle
20.25 (orario statunitense), il California
affonda di prua nel punto 09°24’ N e 33°02’ O (o 09°21’ N e 35°45’ O, o ancora
09°21’ N e 34°35’ O; a nordovest di São Paulo e 1400 miglia ad ovest di
Freetown).
Già alle 19.40, i 38
uomini dell’equipaggio del piroscafo abbandonano tutti la nave su due lance,
equamente ripartiti; una lancia con 19 superstiti verrà recuperata il 5
settembre dal piroscafo britannico City
of Capetown, mentre la seconda (sulla quale uno dei 19 naufraghi morirà
durante la lunga permanenza in mare) verrà soccorsa il 14 settembre dalla
motonave norvegese Talisman.
|
Il California, crivellato di colpi dal Giuliani, poco prima di essere affondato
(g.c. STORIA militare) |
14 agosto 1942
Alle 19.30,
settecento miglia a sudovest delle Isole di Capo Verde (nel punto 10°49’ N e
33°35’ O o 10°45’ N e 33°45’ O, 1348 miglia ad est di Caienna), il Giuliani affonda con due siluri il
piroscafo britannico Sylvia de Larrinaga,
di 5218 tsl. Tre membri dell’equipaggio perdono la vita; 29 superstiti del
piroscafo, in due lance, vengono recuperati dopo due settimane dal mercantile Port Jackson, mentre 16 naufraghi della
pirocisterna Vimeira, già tratti in
salvo dal Sylvia de Larrinaga dopo
l’affondamento della loro nave (avvenuto l’11 agosto per opera dell’U 109), tornano sulla loro scialuppa e
verranno soccorsi solo l’11 settembre dalla motonave norvegese Siranger, insieme al direttore di
macchina del Sylvia de Larrinaga (finito
in mare e recuperato dalla loro lancia).
16 agosto 1942
Restando ormai poco
carburante (è al limite dell’autonomia) e poche munizioni, il Giuliani riceve ordine di rientrare alla
base. In un’unica missione, ha affondato tre navi per complessive 16.104 tsl;
si è però rilevato che metà dei dieci siluri lanciati ha mostrato difetti ed
anomalie, ed un sesto è addirittura rimasto nel tubo di lancio.
|
Imbarco di un siluro sul Giuliani, durante il periodo passato a
Gotenhafen (g.c. STORIA militare)
|
Attacchi aerei
Durante la
navigazione di ritorno, il 1° settembre, il Giuliani
ebbe modo di saggiare le ragioni della fama del temuto Golfo di Biscaglia,
autentica trappola per i sommergibili dell’Asse, a causa degli aerei Alleati
che ne battevano incessantemente i cieli.
Il sommergibile,
infatti, era appena entrato nel Golfo – era a 170 miglia dalla foce della
Gironda – quando un idrovolante Short Sunderland del 10th Squadron
della Royal Australian Air Force, pilotato dal capitano (Flight Lieutenant) S.
R. C. Woods, lo avvistò mentre procedeva in superficie (stava ricaricando le
batterie) e passò all’attacco, avvertendo al contempo altri aerei presenti in
zona. Il Giuliani aprì subito il
fuoco, e l’idrovolante sganciò da 120 metri di quota un pacchetto di quattro
bombe di profondità, che mancarono il bersaglio di molto poco. Sopraggiunsero
altri due Sunderland, uno anch’esso del 10th Squadron RAAF (lo
pilotava il capitano H. G. Pockley) ed uno del 461th Squadron della
Royal Air Force; i tre piloti decisero di lanciare un attacco congiunto contro
il Giuliani, ma Woods ricevette
l’ordine di riprendere il suo pattugliamento, e poco dopo anche a Pockley fu
ordinato di interrompere l’attacco. Il suo Sunderland, però, aveva già iniziato
la manovra d’attacco, ed il Giuliani
aveva aperto il fuoco contro di esso, così Pockley sganciò ugualmente due bombe
da 113 kg, dopo di che attaccò di nuovo e sganciò una terza bomba, che causò
morti e feriti tra l’equipaggio del sommergibile. Pockley ed il pilota del
Sunderland del 461th Squadron concordarono di nuovo un attacco
simultaneo, ma, per fortuna del Giuliani,
il loro comando (Maritime Headquarters, MHQ) ordinò ad entrambi gli idrovolanti
di riprendere le rispettive missioni di pattugliamento. Ebbe così termine
l’attacco; dei velivoli attaccanti, quello di Pockley aveva subito alcuni danni,
ancorché non gravi, mentre secondo fonti italiane un altro Sunderland sarebbe
stato seriamente danneggiato dal tiro del Giuliani
e successivamente costretto ad atterrare in Spagna.
Seri invece i danni
subiti dal Giuliani (che, terminato
l’attacco, s’immerse per evitare eventuali altri aerei). Il comandante Bruno,
gravemente ferito alla gola, dovette cedere il comando all’ufficiale in seconda,
tenente di vascello Aredio Galzigna. Nell’attacco era morto il sergente Enzo
Grimaudo; il sergente silurista Giovanni De Santis, ferito gravemente, sarebbe
morto per le ferite il 4 dicembre, in un ospedale in Italia.
Inizialmente il
sommergibile, che aveva problemi a restare immerso, si diresse verso la costa
della Spagna, ma poi venne deciso di tentare egualmente di raggiungere
Bordeaux; si prevedeva di imboccare la rotta di sicurezza alle tre
dell’indomani.
Invece, il 2
settembre, il Giuliani venne
nuovamente attaccato per tre volte da velivoli nemici. Nei primi due casi, il
battello riuscì a scampare agli attacchi (uno dei quali da parte di un bombardiere
medio Armstrong Whitworth Whitley del 502th Squadron RAF) immergendosi,
ma la terza volta – alle 12.40 del mattino –, quando dovette emergere, andò
diversamente. L’aereo attaccante era, stavolta, non un Sunderland ma un
bombardiere Vickers Wellington (l’aereo «A») del 304th Polish
Squadron della RAF, con equipaggio di volontari polacchi (tenente Marian
Kucharski). Questi avvistò il Giuliani
a 5-7 miglia a proravia sinistra, in posizione 44°30’ N e 04°30’ O, e si buttò
in picchiata mitragliandolo, spazzandone il ponte. Il sommergibile accostò di
20° a dritta, ma subito dopo – alle 12.44 – il Wellington sganciò un pacchetto
di sei bombe di profondità da circa trenta metri di quota; una cadde sul ponte
del Giuliani, a poppavia sinistra
della torretta, ma rotolò in mare senza esplodere, mentre altre tre esplosero a
proravia sinistra ed all’altezza della torretta, sotto lo scafo, scuotendo
violentemente il sommergibile e causando gravi danni. Il tenente di vascello Galzigna
venne lanciato in aria e poi ricadde sul ponte.
Subito dopo lo
scoppio delle bombe, il Giuliani venne
travolto da immense colonne d’acqua che sommersero per qualche secondo tutto il
ponte, poi sbandò fortemente sulla sinistra e rimase immobilizzato, mentre la
nafta fuoriusciva copiosamente dai serbatoi e dai doppi fondi.
La massa d’acqua che
si abbatté sul ponte investì in pieno il capo nocchiere di terza classe Andrea
Assali ed il cannoniere armaiolo Francesco Perali, che furono gettati in mare e
scomparvero per sempre. Alla memoria di Assali, travolto mentre rispondeva al
fuoco del Sunderland, fu conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare
(motivazione: «Imbarcato su sommergibile,
in una lunga ed ardita missione di guerra in Atlantico, assolveva con capacità
ed abnegazione il suo compito, cooperando all'affondamento di tre piroscafi
nemici per oltre 18.000 tonnellate di stazza e al danneggiamento di un quarto
mercantile. Sulla via del rientro, attaccata l'unità da una formazione di aerei
avversari, contribuiva con sereno coraggio e spirito combattivo all'efficace
reazione di fuoco, conclusasi con l'abbattimento di un quadrimotore. Durante un
successivo attacco, travolto dalle colonne d'acqua delle bombe da getto,
scompariva in mare nell'adempimento del dovere. Oceano Atlantico il 18
giugno-3 settembre 1942»).
Alle 12.50, Kucharski
tornò all’attacco, mitragliando e sganciando una bomba antisommergibili da 227
kg, che cadde corta di una ventina di metri (secondo l’apprezzamento di
Kucharski, mentre Galzigna stimò che fosse caduta oltre 50 metri a proravia);
sul Giuliani risultò impossibile
aprire il fuoco col cannone, essendo la manovra dell’elevazione bloccata.
Continuando a
mitragliare il battello italiano, il Wellington alle 13.04 sganciò una seconda
bomba da 227 kg, che cadde anch’essa corta di una decina di metri (per
Kucharski; per Galzigna, 40 metri a poppavia). Il sottocapo cannoniere Pietro
Capilli, addetto alla mitragliera di sinistra, ebbe l’avambraccio sinistro
fratturato dallo scoppio; il doppio fondo n. 3 di sinistra venne completamente
asportato, mentre i doppi fondi 2 e 4 sullo stesso lato subirono gravi danni.
Dopo il primo attacco
con bombe di profondità, il Giuliani
si era mosso solo di 20-30 metri, lasciandosi dietro una grossa chiazza di
nafta.
Mentre il Giuliani sbandava sulla dritta,
appruandosi e mostrando parte delle eliche, il Wellington effettuò altri cinque
passaggi di mitragliamento, sparando in tutto circa 2500 colpi. Una decina di
uomini del Giuliani, con indosso
giubbotti salvagente, si gettò in mare. Altri uomini, rimasti sul ponte, furono
colpiti e caddero in mare. Dopo mezz’ora, l’aereo dovette lasciare la zona
perché a corto di carburante; la chiazza di nafta aveva raggiunto un’ampiezza
di 120 metri, e l’equipaggio del velivolo era convinto che il sommergibile
fosse ormai spacciato. Kucharski, per l’attacco al Giuliani, ricevette in seguito la Distinguished Flying Cross.
Erano le 13.40 quando
Kucharski finalmente lasciò la zona; fu allora il momento di fare la conta dei
danni. Sul Giuliani mancava la luce,
l’interno era devastato dalle esplosioni, ed il sommergibile stava lentamente raddrizzandosi,
ma al contempo si abbassava sull’acqua. La nafta contenuta nel doppio fondo n.
2 colava da vari buchi di proiettili di mitragliatrice.
Peggio ancora,
diversi membri dell’equipaggio erano rimasti uccisi o feriti. Il capo nocchiere
Assali ed il cannoniere Perali erano scomparsi in mare; un altro cannoniere,
Mario Gentilini, era stato ferito da una scheggia alla coscia sinistra, ed il
marinaio Odilio Malatesta aveva perso il dito medio della mano destra e
riportato una grossa ferita sull’avambraccio destro.
I gravissimi danni
subiti dal sommergibile comprendevano la parziale asportazione delle casse compenso
e dei doppifondi di sinistra, perdite di nafta, l’inutilizzazione del cannone,
della girobussola, dell’impianto Calzoni, delle tubolature di compenso della
nafta, dell’apparecchiatura radio e dell’impianto elettrico; ed ancora un’elica
spezzata, danni agli accumulatori, i timoni orizzontali bloccati e vie d’acqua
nello scafo resistente. Per due ore il Giuliani
rimase immobilizzato ed indifeso (di immersione in quelle condizioni non era
nemmeno il caso di parlare), alla mercé di altri attacchi (che fortunatamente
non si avverarono); poi, dopo alcune riparazioni provvisorie effettuate con i
pochi mezzi disponibili, riuscì a rimettere in moto.
Quattro immagini del Giuliani sotto attacco aereo il 1° settembre
1942 (sopra, g.c. Carlo Di Nitto ed Imperial War Museum; sotto, g.c. STORIA
militare).
In quelle condizioni,
però, non era possibile raggiungere Bordeaux: si fece allora rotta –
orientandosi in base al Sole ed alla Stella Polare, dato chela bussola era
fuori uso – verso Santander, il più vicino porto della Spagna franchista,
neutrale ma assai benevola nei confronti dell’Asse.
Qui il Giuliani giunse alle 7.30 del mattino
del 3 settembre; l’addetto navale italiano a Madrid informò Betasom nel
pomeriggio, ed il comandante della base atlantica, capitano di vascello Romolo
Polacchini, mandò subito un gruppo di tecnici al comando del capitano di
corvetta Giovenale Anfossi, affinché verificassero le condizioni del
sommergibile. Tale squadra arrivò a Santander il 4 settembre; Anfossi ritenne
che, effettuate le riparazioni provvisorie, il Giuliani sarebbe stato in grado di ripartire già quella sera, ma
erano già trascorse ventiquattr’ore dal suo ingresso in porto: questo era il
limite massimo che, in base alle convenzioni internazionali, un’unità di
nazione belligerante poteva trascorrere in un porto neutrale prima di esservi
internata. Già altri sommergibili italiani, danneggiati da attacchi Alleati, avevano
in precedenza compiuto riparazioni provvisorie in porti spagnoli per poi
fuggire, spesso con il tacito avallo delle autorità locali; per questo, onde
non essere tacciate di parzialità dagli Alleati, le autorità spagnole
impedirono al Giuliani di lasciare
Santander, di fatto internandolo (questo mutamento di atteggiamento da parte
della Spagna, relativo al Giuliani,
fu annotato con una certa irritazione anche da Galeazzo Ciano sul suo diario).
Venne allora deciso
di assecondare la decisione ed effettuare i lavori di grande riparazione
proprio a Santander: il 12 settembre il sommergibile entrò in bacino di
carenaggio, dove rimase quasi due mesi (il tempo concesso dalle autorità
spagnole era di 60 giorni, ma si decise di farli durare un poco di meno, dato
che alla scadenza prestabilita sarebbe stato probabile trovare unità nemiche ad
attenderlo fuori dal porto). Il comandante Bruno, ricoverato in ospedale per le
gravi ferite, venne sostituito dal tenente di vascello Gianfranco Gazzana
Priaroggia, che avrebbe dovuto riportare il Giuliani
a Bordeaux, in un modo o nell’altro. Dato il tempo necessario al completamento
dei lavori, comunque, Gazzana Priaroggia rientrò temporaneamente a Bordeaux.
Per il viaggio di ritorno bastava metà dell’equipaggio; l’altra metà fu fatta
tornare in Francia in treno, in abiti civili e con visto turistico.
Terminate le
riparazioni, il Giuliani venne fatto
ormeggiare in fondo all’insenatura che ospitava il porto, sorvegliato da due
cacciatorpediniere spagnoli.
Era più che altro
un’operazione di facciata, intrapresa dalle autorità spagnole per mostrare agli
Alleati la loro decisione ad essere imparziali (ed evitare così il blocco del
flusso di rifornimenti via mare alla Spagna). I comandanti dei
cacciatorpediniere spagnoli, infatti, fecero sapere la sera del 6 novembre che
nel finesettimana le loro navi avrebbero lasciato Santander: il comandante
Galzigna decise quindi di lasciare anch’egli il porto, domenica 8 novembre, e
ciò venne comunicato anche a Betasom.
Giunta la data
prestabilita, l’equipaggio, come tutte le domeniche, tornò a bordo per la
consegna delle pesetas da spendere a terra; questa volta, però, quando tutti
furono a bordo vennero mollati gli ormeggi, ed il Giuliani lasciò il porto di Santander.
Il piano italiano non
doveva essere rimasto granché segreto, dato che una folla di civili spagnoli si
era assiepata sul lungomare per assistere alla partenza; non vi fu opposizione
armata da parte spagnola (i cacciatorpediniere, come detto, se n’erano andati),
ed il Giuliani lasciò Santander senza
clamore – unico inconveniente, il vento strappò la carta nautica della baia
dalle mani dell’ufficiale di rotta, guardiamarina Piccini.
Una volta che il Giuliani ebbe guadagnato il mare aperto,
vennero avvistati due aerei in avvicinamento: temendo un altro attacco, venne
dato l’allarme e l’equipaggio corse ai posti di combattimento. Con grande
sollievo generale, i due velivoli si fecero riconoscere per tedeschi; erano la
scorta aerea inviata dalla Luftwaffe per proteggere il malconcio sommergibile
italiano.
Navigando sottocosta
e sempre in superficie, scortato dagli aerei tedeschi fino al tramonto, il Giuliani fece felicemente ritorno a Le
Verdon (vicino a Bordeaux) il mattino del 9 novembre.
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Il danneggiato Giuliani, vistosamente appoppato, all’ormeggio
a Santander (g.c. STORIA militare)
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Per il loro ruolo
nella fruttuosa missione di luglio-agosto e nel salvataggio del Giuliani dopo gli attacchi aerei,
ricevettero la Croce di Guerra al Valor Militare 33 membri dell’equipaggio del
sommergibile: i guardiamarina Alfio Petralia e Claudio Piccini; il capo
meccanico di seconda classe Emanuele Fareri; il secondo capo elettricista
Gaetano Principale; il secondo capo meccanico Ernesto Capello; il capo
meccanico di terza classe Teresiano De Meda; il sergente elettricista Alfonso
Foti; i sergenti radiotelegrafisti Pasquale Maresca e Vincenzo Grimaudo; i
sergenti siluristi Giovanni De Santis e Giovanni Vassena; il sottonocchiere
Luigi Palomba; il sottocapo cannoniere puntatore scelto Mario Gentilini; il
sottocapo cannoniere puntatore mitragliere Giuseppe Fileppi; il sergente
cannoniere ordinario Pietro Capilli; i sottocapi elettricisti Serafino
Petrelli, Alberto Eberspacher e Vittorio Bolognini; i sottocapi
radiotelegrafisti Gioacchino Capon e Filippo Strancar; i sottocapi siluristi
Domenico Elia, Ferdinando Abbate, Augusto Zagni, Salvatore Greco e Luigi
Gabrielli; i sottocapi motoristi Ettore Manfrinato, Antonio Rossini, Romeo Del
Corso ed Angelo Vallese; il sottocapo infermiere Laerte Ferioli; il sottocapo
fuochista artefice Luigi Risso; il nocchiere Alfonso Ruocco; il sottocapo
fuochista motorista Francesco Panara. Per tutti la motivazione era: «Imbarcato
su sommergibile, in una lunga missione di guerra in Atlantico, assolveva il suo
compito con sereno coraggio, capacità abnegazione, contribuendo validamente
all’affondamento di tre mercantili nemici per oltre 18.000 tonnellate di stazza
e al danneggiamento di un quarto piroscafo. Dopo vari attacchi aerei, durante i
quali il sommergibile veniva gravemente danneggiato, cooperava efficacemente
nel tentativo di portare in salvo l’unità».
Al tenente di
vascello Aredio Galzigna fu conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare
con motivazione: «Ufficiale in 2a di sommergibile, in una lunga e ardita
missione di guerra in Atlantico, coadiuvava con ardimento e perizia il
comandante nell’attacco e nell’affondamento di tre piroscafi
nemici per oltre 18.000 tonnellate di stazza e nel siluramento di un quarto
mercantile. Attaccata l'unità, durante il rientro, da una formazione di aerei
nemici, sostituiva il comandante ferito al suo posto di combattimento e
proseguiva con audacia ed elevato spirito l’azione di fuoco, contribuendo ad
abbattere un quadrimotore avversario.
Nonostante le gravi
avarie riportate dall’unità, riusciva a raggiungere un porto neutrale dal
quale, riparati i danni, continuava indenne la rotta di ritorno alla base, eludendo
con abilita e coraggio la vigilanza nemica.
In ogni occasione
dava prova di serenità, competenza ed elevate doti
professionali e
militari.
(Oceano Atlantico, 18
giugno — 3 settembre 1942).»
A Bordeaux il Giuliani fu sottoposto ad ulteriori
lavori di riparazione, che si protrassero fino al gennaio 1943. Non tornò più
in servizio come sommergibile “d’attacco”, poiché, nel frattempo, si era deciso
di convertire i restanti sommergibili di Betasom in unità da trasporto: fu
questo anche il destino del Giuliani,
per il quale i lavori di riparazione si tramutarono in lavori di
trasformazione.
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Il Giuliani durante le prove in mare effettuate nella primavera del
1943, dopo la trasformazione in sommergibile da trasporto (da “Sommergibili a
Singapore” di Achille Rastelli, Mursia, Milano 2006)
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Sommergibili a Singapore
Così Achille
Rastelli, storico e ricercatore, intitolò uno dei suoi ultimi libri,
riguardante la storia di un marinaio friulano, Pietro Appi, che trovò la morte
sul Giuliani.
Nel corso del
conflitto, la Germania si ritrovò a corto di alcune importanti materie prime:
la gomma, lo stagno, il tungsteno ed il molibdeno. Era necessario importarle da
altre parti del mondo, ed in particolare dai territori dell’Estremo Oriente,
controllati dall’Impero Giapponese; in un primo tempo questo compito fu assolto
da navi mercantili violatrici di blocco, tedesche ed anche qualche italiana, ma
le crescenti perdite tra queste unità, sempre più spesso intercettate e
distrutte dalle navi e dagli aerei Alleati che pattugliavano gli oceani,
indussero a ripiegare su un altro e più sicuro mezzo: i sommergibili. Tale idea
non era priva di risvolti negativi, primo tra tutti la loro ben scarsa capacità
di carico (una singola nave da carico di dimensioni medie o medio-grandi poteva
trasportare il carico di parecchie decine di sommergibili), ma sembrava
assicurare maggiori probabilità di riuscita.
I piani dettagliati
per queste operazioni furono concordati tra i comandi tedeschi e giapponesi nel
marzo-aprile del 1943; i sommergibili impiegati, del dislocamento di circa 1000
tonnellate, avrebbero dovuto effettuare almeno due viaggi ciascuno all’anno,
trasportando ogni volta 150 tonnellate di carico. All’andata avrebbero trasportato
piombo, mercurio, alluminio, barre di acciai speciali e soprattutto tecnologia
militare tedesca destinata alle forze giapponesi (tra l’altro, radar, siluri a
ricerca acustica, macchine cifranti ENIGMA); al ritorno, le materie prime
provenienti dall’Estremo Oriente.
Un coinvolgimento dei
sommergibili italiani in questi traffici fu pianificato fin dall’inizio: già
l’8 febbraio 1943, infatti, il comandante in capo delle forze subacquee
tedesche, grande ammiraglio Karl Dönitz, propose e subito ottenne da Hitler di
adibire a queste missioni i sommergibili italiani che ancora erano a Bordeaux. Rispetto
ai sommergibili tedeschi, più necessari per la battaglia dell’Atlantico, i
sommergibili italiani erano ritenuti più idonei per compiti di trasporto,
essendo più grandi e risultando facilmente adattabili. In cambio, la Regia
Marina avrebbe ricevuto un eguale numero di moderni U-Boote del tipo VII C, coi
quali proseguire le operazioni contro il traffico mercantile Alleato in
Atlantico. La proposta, presentata lo stesso 8 febbraio, fu accettata dai
comandi italiani.
Su proposta della
Seekriegsleitung, l’operazione fu denominata «Adler»; i sommergibili italiani
coinvolti mutarono il loro nome in codice da «I» («Ida», che portavano
dall’ottobre 1940) ad «Adler», cioè Aquila, seguito da un numero romano. Al Giuliani fu assegnato il nominativo di
«Aquila II».
Il porto di
destinazione sarebbe stato Singapore («Betavela»), dotato di più che idonee
attrezzature per il raddobbo e di un bacino di carenaggio, impiegabile anche
per il carico e lo scarico; all’andata i sommergibili non avrebbero fatto
rifornimento in mare, perché grazie al carico più leggero – rispetto a quello
da imbarcare al ritorno – avrebbero potuto imbarcare scorte supplementari di
nafta nei doppifondi. Al ritorno, invece, i doppifondi sarebbero serviti per
sistemarvi un carico di gomma, quindi era previsto un rifornimento in mare ad
almeno 3000 miglia dalla base di partenza. Le consegne erano di astenersi da
ogni azione offensiva ed evitare di farsi avvistare.
Azioni offensive
sarebbero state d’altra parte impossibile, visto che i lavori di trasformazione
in sommergibili da trasporto, tesi a massimizzare la capacità di carico e
l’autonomia, comprendevano l’eliminazione quasi totale dell’armamento: furono sbarcate
le artiglierie, “tagliati” i tubi lanciasiluri, convertiti in stive di carico
(o depositi di combustibile supplementari) i depositi di munizioni. Rimasero le
sole mitragliere contraeree (una mitragliera binata C/38 da 20/65 mm), per la
difesa dai velivoli avversari. Vennero eliminati anche il periscopio d’attacco,
alcuni elementi delle batterie e persino una delle latrine; gli equipaggi
vennero ridotti da circa 50 uomini a 35. Sul Giuliani, fu ricavato uno spazio di carico sufficiente a stivare
130 tonnellate di materiali.
Il Giuliani, insieme a Tazzoli e Cappellini, fu
tra i primi sommergibili ad ultimare i lavori di trasformazione, a fine aprile 1943.
Partirono tutti nel mese di maggio: per primo il Cappellini, poi il Tazzoli,
ed infine il Giuliani, al comando del
capitano di corvetta Mario Tei (uno degli ufficiali che nel 1941 si erano
addestrati a Gotenhafen proprio su questo sommergibile; secondo una fonte, per
un breve periodo tra Bruno e Tei avrebbe comandato il Giuliani anche il capitano di corvetta Giuseppe Gaito, poi
trasferito al comando del Tazzoli),
che salpò per l’Oriente il 23 maggio 1943.
Gli equipaggi
assegnati dai sommergibili per questa missione erano piuttosto raccogliticci,
composti da personale disomogeneo e non affiatato raccolto frettolosamente tra
quello disponibili a Betasom (il che non mancò di causare guai dopo
l’armistizio, come si vedrà). Sul Giuliani
finì anche, per sua disgrazia, il sergente motorista navale Pietro Appi, di
Cordenons (Friuli), sbarcato dal Bagnolini:
lui, che stava cercando di ottenere un incarico più vicino alla casa ed alla moglie
incinta, dopo sei anni passati per mare con poche e fugaci visite a casa (si
era arruolato volontario nel 1937 per sfuggire alla povertà del Friuli del
tempo: la Marina offriva una buona paga e conoscenze professionali che
sarebbero tornate utili anche nella vita civile), si ritrovò così mandato
all’altro capo del mondo, da dove non avrebbe più fatto ritorno.
La partenza del Giuliani, in origine, era prevista per
il 16 maggio 1943: e proprio quel giorno, infatti (alle 10.45, precisamente),
il sommergibile era salpato da La Pallice, dov’era giunto il 13 maggio dopo
essere partito da Bordeaux a mezzogiorno del 11, sostando a Le Verdon dalle 20
dell’11 alle 15 del 13 ed effettuando nel mentre alcune prove d’immersione
d’assetto. La sera del 17, tuttavia, dopo aver navigato in immersione nel Golfo
di Guascogna (navigazione occulta, per evitare l’avvistamento da parte dei
molti aerei britannici nell’area) quasi ininterrottamente dalle 21.30 del 16
(eccetto che per un’ora necessaria alla ricarica delle batterie, dalle 9 alle
10 del 17), si era verificata un’avaria ai timoni orizzontali ed alla
girobussola. La prima immersione effettuata al largo aveva rischiato di finire
male: un doppio fondo prodiero, che sarebbe dovuto essere pieno di nafta, si
rivelò essere vuoto, con la conseguenza che nell’immersione rapida il Giuliani risultò pesante a prua e si
appruò di circa 40°, iniziando a scendere rapidamente in profondità.
L’equipaggio aveva dato aria ai doppi fondi, riuscendo ad arrestare la discesa
a 45 metri; ma ciò aveva provocato l’avaria dei timoni orizzontali.
Ciò aveva costretto
il Giuliani a tornare indietro,
sempre in immersione fino alle 10.15 del 18, quando l’esaurimento quasi completo
dell’energia e dell’aria lo aveva costretto all’emersione. Aveva poi incontrato
la scorta alle 18, arrivando a La Pallice alle 21; la notte successiva la città
fu bombardata, il che costrinse il sommergibile, riparata l’avaria ai timoni,
ad attendere per due giorni in porto, in attesa che si provvedesse alla
rimozione di un campo minato posato da aerei nelle acque antistanti La Pallice.
Risolto il problema,
il Giuliani partì definitivamente
alle 7 del 23 maggio. A bordo, oltre all’equipaggio, c’era un carico di 130
tonnellate di mercurio, acciaio speciale in barre, munizioni per mitragliere,
strumenti ottici ed elettronici, parti d’aereo ed altro materiale bellico,
nonché il capitano del Genio Navale Silvestro, due ingegneri civili tedeschi ed
otto tecnici italiani, parte militari e parte civili (per altra fonte, i
passeggeri italiani sarebbero stati due sottufficiali, due tecnici della Marina
e cinque tecnici civili), destinati alla nuova base di Singapore. In aggiunta
al carico, erano state imbarcate anche suppellettili, casse e valigie dei
funzionari giapponesi dell'ambasciata di Parigi.
Dal 23 al 27 maggio
la navigazione procedette senza eventi degni di nota; ogni giorno il battello
emergeva in mattinata (tra le 8.10 e le 8.30), restava in superficie per un’ora
o poco più per ricaricare le batterie, poi procedeva in immersione fino a tardo
pomeriggio/sera, quando riemergeva e procedeva in superficie per qualche ora.
Alle 22.45 del 27,
giunto sul meridiano di Capo Finisterre, il Giuliani
mutò rotta. Il 28, dopo una prima emersione dalle 8.30 alle 11 con mare mosso,
il Giuliani tornò in superficie alle
16.45, ma dopo otto-dieci minuti venne avvistato un Sunderland, il che
costrinse ad una nuova precipitosa immersione. L’idrovolante non notò la
presenza del Giuliani, che poté così
riemergere dopo mezz’ora per ricaricare le batterie. Già alle 19.35, tuttavia,
venne avvistato un altro aereo, e l’unità dovette tornare ad immergersi, questa
volta per il resto della notte.
Il giorno 31 vennero
rilevati agli idrofoni i rumori di diverse navi che passavano piuttosto
lontane, ed ad intervalli di mezz’ora si avvertivano esplosioni di bombe di
profondità; si trattava di un convoglio britannico, di cui il Giuliani era stato preavvisato, che
passava nella zona. A bordo ogni attività rumorosa venne sospesa, persino
togliendo gli stivali per fare meno rumore. Quello stesso giorno ebbe fine,
dopo 600 miglia, la navigazione occulta attraverso il Golfo di Guascogna.
Nei giorni
successivi, ormai calato il pericolo rappresentato dagli aerei, il Giuliani poté navigare in superficie; il
1° giugno passò a circa 400 miglia da Lisbona, mentre il 2 giugno passò
all’altezza di Gibilterra ed effettuò una prova d’immersione d’assetto, dalle
16.40 alle 17.30.
Alle 13.10 del 3
giugno, mentre procedeva in superficie 120 miglia a sudovest di Madera, il Giuliani venne avvistato – nonostante la
nebbia – da un quadrimotore nemico, che gli piombò addosso non visto e lo
mitragliò da distanza ravvicinata. Gli ufficiali non di guardia stavano pranzando,
quando suonò il campanello d’allarme aereo e fu ordinato il posto di
combattimento; l’aereo fu avvistato quando distava solo 500 metri, volando a 50
metri di quota. Non essendovi abbastanza tempo per potersi immergere, il
sommergibile reagì con le proprie mitragliere; i motori furono portati alla
massima velocità, ma dopo due minuti sembrò che il timone avesse smesso di
governare. In realtà il timone funzionava benissimo; era il timoniere che,
sovreccitato dall’attacco, manovrava in modo irregolare. Tre bombe caddero
alquanto lontano dal sommergibile, che da parte sua non riuscì a colpire
l’attaccante; dopo una decina di minuti, approfittando di una virata dell’aereo
e di un fitto banco di nebbia, il Giuliani
s’immerse con la rapida ed eluse l’attacco, mentre altre due bombe sganciate
dall’aereo esplodevano troppo lontano per poter causare danni. Dopo aver
passato circa cinque ore in immersione, il battello tornò in superficie alle 18
per smontare le mitragliere, lasciate fuori nella concitazione dell’immersone;
poi tornò ad immergersi fino alle 23.15.
Nei giorni seguenti
la navigazione, perlopiù in superficie, proseguì senza eventi degni di nota.
Dalle 16 alle 18 dell’8 giugno fu effettuata una nuova immersione d’assetto;
alle 20.30 del 10 fu effettuata immersione rapida per avvistamento di fumo
all’orizzonte, ma dopo mezz’ora il battello poté tornare in superficie.
L’11 giugno, alle 22,
vennero fermati i motori per effettuare una visita di tutta la parte esterna
del sommergibile; si riscontrò che due lamiere, ciascuna della superficie di
due metri quadri, erano scomparse, ma, dato che non appartenevano allo scafo
resistente, ciò non rappresentava un danno grave; mezz’ora dopo il Giuliani rimise in moto.
Il 14 giugno, alle
11, venne superato l’Equatore, due giorni dopo l’equipaggio, che – eccetto il
personale di vedetta in torretta – non vedeva, in sostanza, la luce dal giorno
della partenza, poté iniziare a fruire di turni in plancia (due persone per
volta) per respirare all’aria aperta.
Il Tazzoli, intanto, non dava più notizie
da giorni; Betasom, ritenendo che ciò dipendesse da un’avaria alla radio,
ordinò al Giuliani di portarsi entro
il mattino del 17 giugno in un punto situato 300 miglia ad est di Sant’Elena,
per incontrare il Tazzoli. Così fece,
ma le ore trascorse in attesa passarono invano: il Tazzoli non si presentò, ed ancor oggi non è noto come, quando e
dove questo sommergibile affondò con tutto il suo equipaggio (che, prima della
partenza, aveva cenato per un’ultima volta proprio con gli uomini del Giuliani).
Lo stesso 17 giugno
il Giuliani passò al largo dell’isola
di Ascensione; il mare sbatté in coperta un pesce rondine del peso di circa 200
grammi, il che permise di cucinare un pasto fresco. Iniziando a scarseggiare la
nafta, e dunque l’autonomia, si ridusse la velocità a otto nodi.
Man mano che il
sommergibile procedeva verso sud, il bel tempo che aveva incontrato fino ad
allora lasciò progressivamente il posto a temperature più fredde e mare più
burrascoso; il Giuliani prese a
rollare fortemente, e talvolta qualche onda entrava in un portello e riversava
tonnellate d’acqua all’interno del sommergibile.
Alle 16 del 25 fu
effettuata un’ennesima immersione d’assetto, poi il battello tornò in superfice
e proseguì nella navigazione. Il 28 giugno, il maltempo si trasformò in
autentica bufera, di mare e di vento, che costrinse il Giuliani a mettere la prora al mare con i motori al minimo
(mettersi alla cappa) per il tempo necessario a ricaricare le batterie, tre
ore, e poi a proseguire in immersione. Nel breve tempo trascorso in superficie,
le sbandate erano tali che nessun oggetto che non fosse fisso rimase al suo
posto; le onde erano alte dodici-quindici metri, ed il personale in torretta,
per non essere spazzato via, dovette essere legato. Anche in immersione, a 60
metri di profondità, il Giuliani
continuò a rollare di circa cinque gradi. Era al largo del Capo di Buona
Speranza: chiamato infatti dal suo scopritore, Bartolomeu Diaz, Capo delle
Tempeste.
All’alba del 30
giugno venne avvistato fumo all’orizzonte; il comandante Tei decise di volgere
la poppa alla fonte di quel fumo e proseguire la navigazione, ormai nell’Oceano
Indiano. La temperatura iniziò ad aumentare, attestandosi sui dieci gradi, ed
il mare divenne “soltanto” mosso. Il 1° luglio, però, il barometro scese come
mai aveva fatto prima, e si scatenò una nuova violenta burrasca, che costrinse
il Giuliani a mettersi alla cappa per
un’ora e poi ad immergersi; il rollio continuò anche a 65 metri di profondità.
L’indomani la situazione non accennò a migliorare; emerso alle 8.30, il
sommergibile rimase in superficie fino alle 11 per ricaricare le batterie, poi
dovette tornare ad immergersi. Il mare era forza 7.
Alle 8.30 del 3
luglio, riemerso, il Giuliani trovò
finalmente mare un po’ più calmo, e diresse per tornare sulla rotta
prestabilita: le burrasche degli ultimi giorni, infatti, lo avevano costretto a
navigare piuttosto fuori rotta. Alle 14.30 del 4 luglio un corto circuito
provocò un principio d’incendio ai motori, ma le fiamme furono rapidamente
domate con gli estintori.
Il 6 luglio, essendo
sempre meno la nafta ed ancora molta la distanza da percorrere, il Giuliani iniziò ad avanzare con un
motore solo. Il 7 luglio fu avvistata una nave sconosciuta, e l’incontro venne
evitato con l’immersione rapida; il battello riemerse alle 12.30. Il 9 luglio,
ancora mare mosso e forti rollate; la situazione migliorò l’indomani mattina,
ma tornò a peggiorare nel pomeriggio, costringendo a rimettere in moto l’altro
motore (era impossibile proseguire con un motore solo) fino a notte fatta,
quando il mare si calmò.
Il 13 venne
effettuata l’ennesima immersione d’assetto, dalle 8 alle 10, poi si proseguì in
superficie; lo stesso il 17 luglio, dalle 8 alle 9.30. Il mare era forza 4,
mosso ma non tanto da impedire la navigazione in superficie, nonostante il
fastidioso rollio. Il 19 luglio il comandante Tei compì gli anni.
Il 21 luglio venne
avvistata all’orizzonte una motonave nemica di circa 10.000 tsl, ed il Giuliani s’immerse rapidamente per non
farsi vedere, poi riemerse verso le dieci. Il mare seguitava ad essere mosso.
Il 23 luglio, durante una nuova immersione causata dal mare grosso, si provvide
a riparare un’avaria ad un motore, verificatasi diversi giorni prima; il
personale di macchina vi lavorò per tutta la notte con una temperatura interna
di 40° C, sfilando uno stantuffo e sostituendo le fasce elastiche.
Nella notte del 26
luglio giunse la notizia della caduta di Mussolini e della sua sostituzione col
maresciallo Pietro Badoglio; la notizia non destò molto scalpore, essendo ormai
chiaro ai più come il conflitto sarebbe andato a finire. La missione proseguì
regolarmente. Lo stesso 26 luglio il Giuliani
attraversò l’Equatore per la seconda volta (stavolta passando dall’emisfero
australe a quello boreale, al contrario che il mese precedente) ed il
comandante Tei organizzò una trovata goliardica per “celebrare” il passaggio,
come spesso avveniva: con varie scuse chiamò a turno in plancia, a loro
insaputa, quasi tutti i membri dell’equipaggio, e li innaffiò con una
manichetta antincendio.
Originariamente era
previsto che l’incontro con la nave assegnata a scortare il sommergibile a
destinazione sarebbe avvenuto in mare, ma il 27 luglio venne ricevuto un
telegramma che comunicava un cambiamento nelle disposizioni.
Alle 9.30 del 28
luglio 1943, dopo settanta giorni passati in mare, il Giuliani giunse finalmente in vista della terra: la costa di
Sumatra. Mezz’ora più tardi, il sommergibile entrò nella rada di Sabang, dove
lo aspettava la nave coloniale italiana Eritrea
(capitano di fregata Marino Iannucci), incaricata di scortarlo fino a
Singapore. Gli uomini dell’Eritrea
accolsero festosamente i loro commilitoni del Giuliani, che da parte loro furono felici di poter finalmente fare
un bagno e cenare su una tavola che non si muovesse. Gli uomini dell’Eritrea li tempestarono di domande
sull’Italia: non avevano più visto il loro Paese dal 1939.
Durante la breve
sosta a Sabang, si dovette ordinare per tre volte il posto di combattimento
(alle 11.30, alle 13 ed alle 14.30 del 29 luglio) per allarme aereo, ma nessun
velivolo nemico si fece vedere. A seguito dell’avvistamento di un sommergibile
nemico a 40 miglia dall’isola, la partenza vene anticipata di alcune ore; alle
17.30 del 29 luglio il Giuliani
lasciò Sabang scortato dall’Eritrea,
procedendo a tutta forza, per l’ultimo tratto della navigazione.
Il 30 luglio venne
attraversato lo stretto di Malacca, con mare calmissimo; dopo le ristrettezze
della traversata da Bordeaux a Sabang, l’equipaggio assaporava i viveri freschi
e la possibilità di restare in coperta per tutta la navigazione. Alle 17 del 31
il battello si mise all’ancora a sei miglia dalla costa, essendo pericoloso
navigare di notte in acque poco profonde come quelle della zona; l’equipaggio
poté dormire sull’Eritrea.
Alle sei del mattino
del 1° agosto 1943 Giuliani ed Eritrea rimisero in moto, e quattro ore
più tardi (per altra fonte, a mezzogiorno) giunsero a Keppel Harbour
(Singapore), concludendo così la lunga traversata del sommergibile. Il Giuliani rimase in rada fino alle 14 del
2 agosto, poi si ormeggiò in banchina ed in serata iniziò a scaricare la merce,
lavoro cui partecipò senza distinzione l’intero equipaggio, per tutto il giorno
successivo.
Dopo aver passato
un’altra notte sull’Eritrea, l’equipaggio
venne sistemato in alcuni edifici nella località di Pasir Panjang, a quattro
chilometri da Singapore.
Le autorità
giapponesi accolsero amichevolmente gli equipaggi italiani; ufficiali
giapponesi manifestarono il loro apprezzamento verso l’ufficiale di rotta del Giuliani, guardiamarina Fabio Fabbriani,
per il difficile viaggio di oltre 13.000 miglia attraverso due oceani. Un
banchetto in onore degli equipaggi italiani venne organizzato presso il circolo
degli ufficiali giapponesi, collocato in quella che era stata la sede
dell’Union Jack Club. Sull’edificio sventolavano le bandiere delle tre potenze
dell’Asse – Italia, Giappone e Germania –; il banchetto, cui presenziarono
altri ufficiali della Marina Imperiale giapponese, venne anche allietato da un’orchestrina.
Si brindò alla vittoria dell’Asse; ma proprio in quel momento, le forze
italo-tedesche e nipponiche stavano perdendo su tutti i fronti, e la posizione
dell’Italia scricchiolava sempre di più.
Alcune immagini scattate a
bordo del Giuliani dal sottocapo
motorista Ettore Manfrinato (per g.c. del nipote Enrico Manfrinato)
Durante le settimane
successive, arrivò a Singapore un terzo sommergibile, il Torelli (prima del Giuliani
era già arrivato il Cappellini), ed i
tre battelli furono caricati con 377 tonnellate di gomma e 184 tonnellate di
peltro per la Germania.
La caduta del governo
Mussolini (25 luglio 1943), tuttavia, aveva fortemente insospettito i comandi
tedeschi e giapponesi, che sospettavano – a ragione – una prossima defezione
dell’Italia. Il comandante tedesco a Singapore, capitano di corvetta Werner Von
Zatorski, ed il suo corrispettivo giapponese Hara, ostacolarono in ogni modo la
partenza dei sommergibili per il viaggio di ritorno; vennero ritardate le
operazioni di carico e manutenzione delle unità, poi vennero addotte quali
scuse per ritardare la partenza delle importanti operazioni aeronavali in corso
a nord di Sumatra. Hara, su suggerimento dei suoi superiori e di Von Zatorski,
intendeva trattenerli fino al momento della resa italiana per poterli
catturare. Il comandante Iannucci dell’Eritrea,
che al contrario aveva ordinato di accelerare il carico di Giuliani e Cappellini
(anche in quantità maggiore del previsto), prelevò delle cariche esplosive
dalla dotazione delle sue unità e le consegnò agli equipaggi dei tre
sommergibili perché si autoaffondassero, nell’eventualità di un armistizio tra
Italia ed Alleati e di un tentativo giapponese di impadronirsi dei battelli; ma
non diede loro ulteriori delucidazioni ed istruzioni.
Il 21 agosto Cappellini ed Eritrea lasciarono Singapore per Sabang; nove giorni dopo l’Eritrea tornò a Singapore, tenendosi
pronta ad assumere la scorta del Giuliani
non appena questi avesse completato il carico e fosse stato pronto per il
viaggio di ritorno. Il 3 settembre, Hara e Von Zatorsky chiesero a Iannucci di
ordinare al Cappellini di tornare a
Singapore, adducendo varie scuse; in realtà il loro intento era di concentrare
a Singapore tutti e tre i sommergibili, per rendere più agevole la loro
cattura. Iannucci, mangiata la foglia, chiese all’ammiraglio Balsamo (addetto
navale italiano a Tokyo) l’autorizzazione per far salpare contemporaneamente Giuliani e Cappellini, che si sarebbero poi dovuti riunire nell’Oceano Indiano
per proseguire verso Bordeaux; ma la richiesta fu respinta. In partenza per
Sabang con l’Eritrea, Iannucci
raccomandò ai comandanti di Giuliani
e Torelli di prestare continuo
ascolto alla radio e di tenere pronte le cariche esplosive per
l’autodistruzione.
Quando, l’8 settembre
1943, fu diramata la notizia dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, Giuliani e Torelli erano ancora a Keppel Harbour, il primo dei due con il
carico ormai completo (gomma e stagno, forse anche peltro), i serbatoi pieni di
nafta, e pronto a partire per il viaggio di ritorno. I due battelli erano
ormeggiati affiancati, il Torelli
accanto al molo ed il Giuliani sul
lato esterno. Sul Giuliani c’erano un
ufficiale e tre marinai per il turno di guardia, mentre sul Torelli erano in cinque: un ufficiale,
il cuoco ed un turno completo di tre radiotelegrafisti, incaricati ascoltare ad
orari prefissati eventuali messaggi inviati dall’Eritrea, da Betasom, da Roma, da Pechino o da Tokyo (i capiposto
avevano concordato turni alternati di ventiquattr’ore tra i Torelli e Giuliani).
Il resto degli
equipaggi erano alloggiati in abitazioni a Pasir Panjang, a nove chilometri di
distanza; la linea telefonica diretta che li collegava ai sommergibili era
sotto controllo giapponese e potevano raggiungere il porto con un’automobile,
ma solo di giorno, mentre di notte la circolazione era interdetta. Il
comandante Tei del Giuliani viveva in
una villetta assieme al capitano del Genio Navale Silvestro ed a due ufficiali
provenienti dalla Cina e destinati al rimpatrio, il capitano di corvetta
Codognotto ed il tenente di vascello Bruti Liberati. Tei era malato e,
nonostante l’assunzione di sulfamidici, rimaneva febbricitante.
Fu quindi il Torelli ad intercettare il comunicato
radio dell’EIAR (pronunciato dal maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo)
che annunciava l’armistizio: a Singapore erano le tre di notte del 9 settembre.
Due dei
radiotelegrafisti del Torelli, Lorenzi
e Lauritano, fecero sentire il proclama – che veniva ripetuto ogni mezz’ora –
anche all’ufficiale del Giuliani. Gli
ordini in esso contenuti disponevano raggiungere un porto britannico o neutrale
o, in caso di impossibilità, di autoaffondarsi per evitare la cattura delle
unità.
Vennero dunque
predisposte le cariche per l’autodistruzione, consegnate precedentemente dall’Eritrea; sul Giuliani, la bomba fu portata in camera di manovra, ed un ufficiale
sistemò il detonatore. Nel mentre il terzo radiotelegrafista del Torelli, Baldani, corse in moto di sua
iniziativa a Pasir Panjang, per riferire al suo comandante quanto stava
succedendo.
Verso le quattro del
mattino il motorista navale Mattia informò il comandante Tei
dell’intercettazione di una comunicazione radio che parlava di resa
incondizionata dell’Italia. Tei, troppo febbricitante per recarsi di persona,
inviò a bordo del Giuliani il tenente
di vascello Bruti Liberati ed il direttore di macchina del sommergibile,
capitano del Genio Navale Emanuele Marturano; ordinò loro di preparare l’unità
per l’autoaffondamento, effettuare ascolti radio su tutte le frequenze
possibili (Eritrea, Roma, Betasom e,
ad onde lunghe, Radio Coltano) ed informarlo immediatamente qualora si fossero
ricevuti dei messaggi.
Mentre i due
ufficiali partivano in motocicletta verso Keppel Harbour, arrivavano a Pasir
Panjang i marinai che erano a bordo del Giuliani
al momento della ricezione del proclama Badoglio: era infatti l’ora del cambio
della guardia, ed i marinai di turno erano stati rilevati da altri provenienti
dagli alloggi. A Pasir Panjang la situazione rasentava l’anarchia; Tei e
Gropallo, comandante del Torelli,
indissero una riunione con gli altri ufficiali, mentre gli equipaggi furono
lasciati senza disposizioni, nella confusione generale. I due comandanti
concordarono che non era possibile prendere decisioni immediatamente; avrebbero
atteso l’appuntamento radio fissato con l’Eritrea,
che sarebbe dovuto avvenire alle 7.40.
Ma l’Eritrea, sorpresa dall’annuncio
dell’armistizio in mare aperto, non si fece sentire: in quel momento stava
navigando verso Colombo (Ceylon) braccata da unità giapponesi, e doveva
giocoforza mantenere il silenzio radio. Alle 8.30, infatti, Bruti Liberati
tornò a Pasir Panjang e riferì che non era giunto nessun messaggio.
In quel momento gli
uomini di Singapore non sapevano nemmeno se la resa dell’Italia fosse avvenuta
in accordo con la Germania od a sua insaputa. Tei ricapitolò la situazione:
riteneva la caduta di Mussolini – che l’equipaggio aveva accolto con giubilo –
un segnale di tempi migliori in futuro, ma la successiva affermazione di
Badoglio che «la guerra continua» gli confondeva le idee circa l’armistizio
appena annunciato, e la posizione futura dell’Italia. Se la resa era avvenuta
d’accordo con la Germania, le possibilità erano di raggiungere un porto
neutrale, od autoaffondare il sommergibile, o farsi internare con esso, o
cederlo alle forze tedesche; se invece l’armistizio era avvenuto ad insaputa
della Germania, la consegna del sommergibile ai tedeschi non era fattibile, e
Tei concluse che la soluzione migliore sarebbe stato l’internamento, per
salvaguardare sia gli equipaggi che l’integrità dei sommergibili.
Si venne a sapere che
sul Torelli le micce delle cariche
per l’autodistruzione erano sparite ed un sottufficiale era stato arrestato per
insubordinazione; sul Giuliani le
micce erano al loro posto, ma il capo meccanico Fareri aveva detto al direttore
di macchina Marturano che l’autodistruzione del sommergibile avrebbe scatenato
una violenta reazione da parte giapponese. Tei, pur febbricitante, decise a
questo punto di andare personalmente sul Giuliani;
qui giunto, ribadì i propri ordini, ma rimase impressionato dall’atteggiamento
di Fareri e del sottufficiale del Torelli,
Monzo. Temendo un imminente crollo morale degli equipaggi, ordinò che tutti gli
uomini fossero radunati a Pasir Panjang per ragguagliarli sulla situazione ed
invitarli alla calma, in attesa che la situazione fosse chiarita.
Alle 15 del 9
settembre si tenne il primo colloquio con le autorità giapponesi, che fino ad
allora non erano intervenute. Il capo di Stato Maggiore nipponico, Hara,
richiese di sospendere la franchigia fino a nuovo ordine e di non lasciare gli
acquartieramenti di Pasir Panjang, essendo in corso delle esercitazioni
militari. Sentinelle giapponesi furono piazzate agli accessi degli alloggi,
mentre in serata Tei e Gropallo incontrarono l’ammiraglio giapponese Enamoto,
che confermò che l’Italia si era arresa e, dopo varie discussioni, raggiunse un
accordo con i comandanti italiani: i sommergibili avrebbero mantenuto bandiera
italiana, ma non si sarebbero mossi senza autorizzazione; radio e mitragliere
sarebbero state messe fuori uso (per le mitragliere, sarebbero stati rimossi
gli otturatori); armi portatili e munizioni sarebbero state sbarcate; di
guardia su ogni sommergibile sarebbero rimasti solo un ufficiale e due marinai;
tutti gli altri sarebbero rimasti confinati negli alloggi a Pasir Panjang.
Tei e Gropallo
tornarono poi sui loro sommergibili, ma furono subito raggiunti da Hara, che
provvide immediatamente a far distruggere le radio e sbarcare le armi.
L’ufficiale giapponese richiese anche che nessuno restasse a bordo dei
sommergibili, ma Tei ottenne di lasciarvi il sottotenente di vascello Giuseppe Jacoangeli
ed il sottocapo elettricista Puggioni: ad essi, segretamente, aveva dato
l’ordine di brillare le cariche esplosive non appena i soldati giapponesi
avessero tentato d’impadronirsi del Giuliani.
Poco dopo, però, un
picchetto armato nipponico, guidato dallo stesso Hara, salì a bordo del
sommergibile e catturò Jacoangeli e Puggioni, che furono trasferiti su una
cannoniera ed ivi tenuti prigionieri per due giorni. Al loro rilascio, i due
fecero ritorno a Pasir Panjang, aumentando lo scoramento degli equipaggi e
spingendo Tei e Gropallo a decidere per l’autoaffondamento senza ulteriori
indugi. Tei non pensò alla possibilità di fuggire furtivamente col Giuliani, il che sarebbe stato forse
possibile, date le condizioni del porto ed il fatto che i serbatoi erano già
pieni di nafta.
Il mattino del 10
settembre, Tei e Gropallo parlarono ai loro uomini; spiegarono che la
situazione in Italia restava incerta, ma che in ogni caso bisognava seguire gli
ordini del governo legale, quello di Badoglio. Quando ebbero finito di parlare
si fece avanti il capo meccanico Fareri, portavoce dei sottufficiali: dichiarò
la costernazione degli uomini per quanto stava accadendo, offrì massima
collaborazione qualora fosse stato possibile tornare in Europa, ma dichiarò
anche che gli equipaggi temevano rappresaglie giapponesi nel caso si fossero
autoaffondati i sommergibili.
Con ordine del giorno
del 10 settembre, Tei assunse il comando di tutto il personale a Pasir Panjang.
In realtà, essendo di fatto cessato il comando dei sommergibili ed iniziata
un’effettiva situazione di internamento, questo ruolo sarebbe dovuto spettare
al capitano di corvetta Codognotto, per anzianità di grado, ma quest’ultimo non
lo fece presente, né si mostrò contrariato dalla decisione di Tei di prendere
il comando.
La situazione andò
precipitando. Il mattino stesso gli ufficiali di macchina ed un gruppo di
marinai salirono a bordo dei sommergibili, ma qualche marinaio, quando vide le
cariche esplosive, le gettò in mare; subito dopo militari giapponesi salirono a
bordo e sistemarono su ogni oggetto un cartellino, segnalazione che sapevano
già alla perfezione come erano fatti i sommergibili italiani.
Tornando a Pasir
Panjang, i marinai portarono negli alloggi una statua della Madonna prelevata
dal Torelli; nelle sere successive
alcuni marinai presero a recitare “in maniera esibizionistica” al suo cospetto
la Preghiera del Marinaio, contrariando altri che invece ritenevano che la
situazione non lo rendesse consono. Poi, un pomeriggio, soldati giapponesi con
le baionette inastate fecero irruzione negli alloggi, confinarono gli equipaggi
nelle camerate, piazzarono sentinelle al cancello ed espulsero cuochi, aiutanti
e cameriere cinesi, che fino ad allora avevano cucinato pietanze a base di
pollo; il vitto diminuì in quantità e qualità.
Nel pomeriggio
dell’11 settembre, il comandante Tei protestò presso Hara perché gli accordi
presi appena due giorni prima non erano stati rispettati, e richiese che gli
equipaggi italiani fossero dichiarati «internati di nazione non belligerante»;
Hara rispose che la situazione dell’Italia restava poco chiara e che per il
momento erano considerati «ospiti protetti».
Tei e Gropallo
tornarono a Pasir Panjang e spiegarono agli uomini che probabilmente sarebbero
stati internati; l’operaio militarizzato Fabris, uno dei militarizzati inviati
a Singapore per la realizzazione della base italiana, si presentò quale
portavoce degli operai e disse che la loro posizione era analoga a quella dei
sottufficiali esposta in precedenza da Fareri, ma che intendevano tornare in
Europa a qualunque costo, foss’anche di proseguire la guerra.
In tarda serata
arrivarono alcuni ufficiali giapponesi, per prendere accordi circa lo sbarco di
nafta e munizioni, nonché sulla manutenzione e carica delle batterie, con divieto
totale di manovrare sfoghi d’aria ed allagamenti.
Tei meditò un piano
per autoaffondare il Giuliani in ogni
caso: aprire tutte le prese a mare più piccole dello scafo, lasciare aperti i
passaggi tra i diversi compartimenti, ed effettuare altre operazioni “minori”
che sarebbero sfuggite al controllo giapponese; il sommergibile sarebbe
affondato lentamente, senza che le guardie nipponiche se ne accorgessero fino a
quando fosse stato troppo tardi, quando cioè l’acqua avrebbe raggiunto le
batterie e causato la produzione di vapori di cloro, che avrebbero reso l’aria
all’interno del sommergibile irrespirabile. Quanto al Torelli, affiancato al Giuliani
e legato ad esso con cavi d’acciaio, sarebbe bastato lasciare aperti tutti i
portelli dei siluri e di coperta: quando il Giuliani
fosse affondato, lo avrebbe trascinato verso il basso, ed il mare si sarebbe
riversato all’interno attraverso i portelli lasciati aperti, affondandolo. Il
piano non sarebbe stato di facile realizzazione, ma nemmeno del tutto
irrealizzabile; gli uomini incaricati dello sbarco della nafta, capeggiati dal
direttore di macchina Marturano, furono quindi istruiti sul da farsi.
Era però tra di essi
anche il sergente motorista Franco Tavella, tra i più timorosi di rappresaglie
giapponesi; come se non bastasse, il capitano Marturano aveva parlato del piano
al capo dei “riottosi”, Fareri.
Il 12 settembre, il
comandante Tei radunò ufficiali e sottufficiali ed espose come intendeva
passare il tempo nei mesi di internamento a venire: scuole professionali, corsi
di lingue e di cultura generale, intensa attività sportiva; gli ufficiali
accettarono con entusiasmo, non così sottufficiali ed operai, che andarono
invece su tutte le furie. Fareri, Puggioni, Fabris e due altri, il sottocapo
radiotelegrafista Martini ed il capo elettricista Luigi Mascellaro, dissero che
ciò equivaleva a consegnarsi ai giapponesi, e che loro ritenevano invece
necessario cercare un qualsiasi modo per tornare in Europa; invano Tei e
Gropallo cercarono di spiegare l’effettiva situazione. I giapponesi, per
giunta, avevano sparso la voce che Mussolini era stato liberato e che stava per
creare un governo che avrebbe proseguito la guerra insieme all’Asse.
Meno negativa fu la
reazione di sergenti, sottocapi e marinai, che aderirono al programma
illustrato da Tei; l’impressione che andava diffondendosi era però che agli
ufficiali andasse bene di finire la guerra da internati, senza neanche cercare
di tornare in Italia, e gli uomini iniziarono a sentirsi abbandonati.
Il 13 settembre la
situazione peggiorò ancora; Fareri, Martini e Mascellaro erano sempre più
“agitati”, ed il secondo capo infermiere Mangeri scrisse ai giapponesi di
essere intenzionato a proseguire la guerra con Mussolini. Tei ebbe l’infelice
idea di ordinare a Gropallo e Silvestro di interrogare rispettivamente i
sottufficiali e gli operai: dai loro resoconti concluse che essi nutrivano un
«interessato ideale fascista unito ad una profonda paura dei giapponesi», ma
destò anche l’impressione di stare sottoponendo sottufficiali ed operai ad un
processo sommario. In serata i sottufficiali Gentilino, Romito, Minigutti,
Todisco, Bonetto, Sanzio e Mattia presero ad intonare cori fascisti.
Il mattino del 14
settembre fu messo in atto il piano concepito da Tei per l’autoaffondamento dei
sommergibili. La scelta degli uomini incaricati per lo sbarco della nafta
(ufficialmente) e l’autoaffondamento (di fatto) fu quanto mai infelice: insieme
a Marturano, infatti, sarebbe dovuto andare proprio Fareri, nonché i sergenti
Tavella e Manfrinato, che avevano entrambi mostrato disaccordo con le decisioni
dei comandanti. Fareri si rifiutò di andare, dicendo di non voler dividere le
responsabilità con Marturano (il quale confessò poi di avergli detto cosa si
preparava, spingendo Tei a sottoporlo ad interrogatorio collegiale, così
peggiorando ulteriormente l’impressione di un atteggiamento inquisitorio).
Durante le operazioni per lo scarico della nafta, Marturano provvide ad aprire
gli scarichi delle sentine e lo sfogo d’aria interno delle casse d’immersione
rapida ed a lasciare aperte le paratie stagne, ma Tavella e Manfrinato, già
preavvisati da Fareri, lo videro; Tavella chiuse per due volte le casse di
rapida, e l’ufficiale giapponese di guardia richiamò immediatamente Marturano e
gli ordinò di tornare a Pasir Panjang (anche se Tavella disse poi di non
avergli detto niente). Tei richiese in seguito da Manfrinato un rapporto su
cosa fosse avvenuto dopo che Marturano era stato rimandato negli alloggi; su
consiglio di Martini, Manfrinato non si presentò neanche: aveva – disse nel
dopoguerra – paura del comandante. Al suo posto andò Tavella che, con fare che
venne giudicato arrogante dagli astanti, disse di aver proseguito lo sbarco
della nafta, come ordinato dai giapponesi, e di aver chiuso due volte le valvole
di sfogo aperte da Marturano.
Il pomeriggio dello
stesso 14 settembre l’ammiraglio Enamoto convocò i due comandanti italiani e
disse loro che Mussolini aveva formato un nuovo governo e li invitò ad aderire,
garantendo che ciò avrebbe permesso di riallacciare rapporti di cordiale
cameratismo; sia Tei che Gropallo, tuttavia, risposero che restavano fedeli al
re ed al governo Badoglio, domandando inoltre se Giuliani e Torelli
avrebbero mantenuto bandiera italiana. Alla domanda Enamoto rispose affermativamente,
ma in modo alquanto ambiguo.
Tornati dai loro
uomini, Tei e Gropallo riferirono loro della nascita del governo Mussolini, ma
aggiunsero anche che si trattava di un governo illegale e che l’adesione ad
esso costituiva reato punito dal codice penale della Marina. Ciò non frenò il
degenerare della situazione: incitati da Martini (che la commissione
d’inchiesta definì poi un «vero tipo di pazzoide anarchico pericoloso»,
sebbene, come giustamente nota Rastelli nel suo libro, «c’è da chiedersi come
mai lo avessero imbarcato su un sommergibile»), i sergenti Gentilizi e
Miniguzzi e l’elettricista D’Ursi tentarono di sfondare la porta della cambusa
a Pasir Panjang e pretesero la loro razione di liquori. Il comandante in
seconda del Torelli aveva in
precedenza distribuito tre bottiglie di cognac a ciascuno degli uomini del suo
sommergibile, mentre l’equipaggio del Giuliani
non aveva ricevuto nulla. Quella sera Martini, Fareri, Mascellaro, Fabris,
Sabot, Santoro, Bisacchi e l’operaio Bortolussi organizzarono una
manifestazione fascista; Tei, cui la situazione era manifestamente sfuggita di
mano, richiese l’intervento giapponese. Arrivarono quindi i militari nipponici
guidati dal tenente colonnello Yamamoto, che arrestarono i due più
“scalmanati”, Martini e Sabot. Quest’ultimo fu poi rimandato a Pasir Panjang
dopo accordi con Yamamoto, mentre Martini fu trattenuto quale prigioniero nel
campo di prigionia di Sime Road. Qui incontrò, alcuni giorni più tardi,
l’equipaggio al completo del Cappellini,
catturato dalle forze giapponesi a Sabang.
Il 16 settembre le
autorità giapponesi chiesero nuovamente l’invio di uomini per sbarcare la
nafta; Tei mandò ancora Marturano, Tavella e Fareri, ma i giapponesi impedirono
al primo di salire sul Giuliani,
affidando il lavoro ai soli Tavella e Fareri, che lo portarono a termine,
secondo Fareri, sotto minaccia giapponese.
Il proseguire delle
insubordinazioni indusse Tei e gli ufficiali a convocare nuovamente
sottufficiali ed operai, invitandoli a firmare una dichiarazione di lealtà;
eccetto il capo segnalatore Farina, non lo fece nessuno. Quanto ai sottocapi e
marinai, firmarono in 19; gli altri – la maggior parte – si rifiutarono
anch’essi.
Se gli ufficiali
sembravano aver perso la fiducia dei loro uomini, che ormai seguivano di fatto
ciò che facevano i sottufficiali, la situazione interna tra gli stessi
ufficiali era tutt’altro che edificante. Bruti Liberati criticava tutto e
tutti, attirandosi le antipatie tanto dei monarchici quanto dei fascisti; tra
gli ufficiali del Giuliani, il
sottotenente di vascello Bruno Bonetto fu accusato di essere un alcolizzato, il
comandante Tei di aver trascorso quasi tutta la traversata da Bordeaux chiuso
in cabina a giocare a carte, e tra i capitani del Genio Navale Silvestro e
Marturano era nata una forte inimicizia.
Questo generalizzato
sfaldamento era dovuto anche al fatto che l’equipaggio, come detto in
precedenza, era raccogliticcio e non affiatato; la colpa di questo fu
attribuita al comandante di Betasom, capitano di vascello Enzo Grossi, che
aveva trattato la missione di trasporto per l’Estremo Oriente come una missione
mercantile. Si rievocavano episodi sconcertanti verificatisi durante la
missione di andata: un nostromo che, durante l’attacco aereo al largo di
Madera, si era messo a piangere al posto di combattimento; i mitraglieri che
nella stessa circostanza erano risultati così nervosi che il comandante in
seconda li aveva rimandati sottocoperta.
Il 22 settembre
Fabris, Fareri, Mascellaro e Sabot riferirono ai giapponesi della loro decisione;
questi ultimi risolsero la questione a modo loro, decidendo di internare tutti
nel campo di Sime Road. Libri, appunti, altre carte, macchine fotografiche e
strumenti nautici personali furono tutti sequestrati, poi, alle 18 del 23
settembre, tutti gli uomini furono caricati su alcuni autocarri e portati a
Sime Road, dove furono divisi in due baracche, una per gli ufficiali ed una per
sottufficiali ed equipaggi. Il secondo gruppo entrò nella baracca cantando inni
fascisti.
La notizia della
nascita della Repubblica Sociale Italiana fu vista da sottufficiali ed
equipaggi come una possibilità – l’unica – di tornare in Europa, così essi vi
aderirono nella quasi totalità, ponendosi sotto il comando del capitano di
corvetta Walter Auconi, comandante del Cappellini,
fascista dichiarato (caso unico tra gli ufficiali dei tre sommergibili). Mentre
gli altri ufficiali, ligi al giuramento di fedeltà al re, si erano mostrati
insensibili od inconsapevoli dei timori dei loro uomini, Auconi si conquistò la
loro fiducia dando loro una speranza di tornare in Europa; fu anche l’unico ad
avere l’idea di raccogliere gli indirizzi di tutti i marinai e di consegnarli
alle autorità giapponesi, perché fossero trasmessi alla Croce Rossa
Internazionale.
Il 24 settembre Tei,
Gropallo ed Auconi s’incontrarono per un colloquio con il generale Arimura: Tei
e Gropallo si dichiararono fedeli a Vittorio Emanuele III, mentre Auconi
affermò che, se Mussolini avesse formato un governo riconosciuto da Germania e
Giappone, egli vi avrebbe aderito. Prese poi a parlare di politica, ma venne
redarguito da Arimura, che gli disse che, come ufficiale, non doveva occuparsi
di politica ma attenersi agli ordini del suo re.
Il 28 ottobre,
anniversario della marcia su Roma, fu organizzata una cerimonia al termine
della quale gli equipaggi gridarono «Viva il duce», anche se non eseguirono il
defilamento (mancava lo spazio). Si ripresentò la questione della firma della
dichiarazione di lealtà, che divideva chi rimaneva fedele al re da chi
intendeva aderire alla RSI: in tutto firmarono la dichiarazione 17 ufficiali
(tutti quelli del Giuliani, tutti
tranne uno del Torelli più Bruti
Liberati, Codognotto, Silvestro, due ufficiali dell’Eritrea rimasti a terra ed il sottotenente del Genio Navale Papa) e
dieci marinai (sei del Torelli, due
del Giuliani, uno del Cappellini ed uno dell’Eritrea); non firmarono, così aderendo
alla RSI, tutti i sottufficiali, tutti e otto gli operai militarizzati, un
ufficiale del Torelli, la quasi
totalità dei marinai di Giuliani e Torelli e l’intero equipaggio del Cappellini, con l’eccezione di un
marinaio. Tra il personale del Giuliani,
firmarono tutti gli ufficiali (Tei, Marturano, Bonetto, Jacoangeli, il
sottotenente del Genio Navale Umberto Alleruzzo, il guardiamarina Fabio
Fabbrani) e due soli marinai, Ballarati e Martinolich.
L’inchiesta condotta
a fine guerra rilevò che alcuni degli uomini che aderirono alla RSI erano
paradossalmente stati, dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943), i primi a
rimuovere i fasci dalla torretta e gettarli in mare; questi stessi uomini, ora
(dal 23 settembre, data di creazione della RSI), furono di nuovo i primi a
togliere le stellette dal solino e sostituirle con dei fasci littori di zinco
ritagliati dai contenitori delle gallette (i pochi ufficiali che aderirono alla
RSI, invece, si limitarono a togliere la corona dal loro berretto). Presero
inoltre una bandiera (non la bandiera di combattimento, custodita dagli
ufficiali) e vi disegnarono un fascio al posto della corona reale; la misero
accanto alla statua della Madonna ed ogni sera, dopo aver recitato la Preghiera
del Marinaio, intonavano canti fascisti.
Inizialmente i due
gruppi furono trasferiti insieme in un altro campo di transito lungo la Sime
Road, una vecchia piantagione di gomma con baracche di foglie di palma
intrecciate e vitto scarso e saltuario. Dopo due mesi il gruppo dei
“badogliani”, in tutto 17 ufficiali e 11 marinai, venne trasferito a Kranji,
insenatura paludosa nella parte settentrionale dell’isola di Singapore, in un
campo che ospitava prigionieri di guerra indiani. Gli italiani furono
alloggiati in una baracca su palafitte, isolata dal resto del campo con del
filo spinato; ricevevano le stesse magrissime razioni passate ai lavoratori
asiatici di bassa forza: un pugno di riso bollito, sovente avariato e pieno di
vermi e camole (che probabilmente rappresentavano la principale fonte di
proteine), “arricchito” di quando in quando con qualche verdura locale, pure
avariata. La “disciplina” era impartita dalle guardie giapponesi a suon di
botte, schiaffi e legnate.
Intorno a Natale del
1943 i 28 furono trasferiti in un altro e più grande campo di prigionia lungo
la Sime Road, dove si trovavano 15.000 prigionieri Alleati di 35 nazionalità
diverse, in massima parte britannici ed australiani; inizialmente gli italiani
erano separati dagli altri, confinati in una baracca sorvegliata da sentinelle
e circondata da filo spinato. Passò poco tempo, poi tali provvedimenti furono
revocati ed anche loro vennero messi insieme ai prigionieri Alleati; al
contempo vennero inquadrati nelle squadre di lavoro, adibite a disboscamento,
riempimento di paludi e costruzione di ferrovie. Secondo le autorità
nipponiche, che non avevano firmato la Convenzione di Ginevra, tali massacranti
lavori facevano parte dei doveri dei prigionieri di guerra.
Il lavoro era lungo e
pesante; di sera, terminato il lavoro, i “badogliani” passavano il tempo
studiando lingue straniere od insegnando quella italiana ad altri prigionieri,
o giocando a carte, o suonando. La dura situazione dei prigionieri alimentò
però inimicizie e litigi tra ufficiali e marinai; alcuni impazzirono, un
ufficiale mostrò per lungo tempo gravi segni di squilibrio.
Gli uomini che
avevano aderito alla RSI presero una strada diversa. Parecchi s’imbarcarono su
navi mercantili tedesche, entrando a far parte dei loro equipaggi. In undici
imbarcarono sulla nave cisterna Brake,
adibita a rifornimento di sommergibili; il 12 marzo 1944 tale nave fu però attaccata
dal cacciatorpediniere britannico Roebuck
e costretta all’autoaffondamento, ed il centinaio di superstiti, tra cui tutti
gli 11 italiani, venne recuperato dal sommergibile tedesco U 168, che li sbarcò a Batavia. L’affondamento della Brake segnò la fine dell’impiego di
unità rifornitrici in mare; gli italiani rimasero a lungo a Giava in stato di
semiprigionia, senza che nessuno più si curasse di loro.
Altri dieci italiani
s’imbarcarono sul piroscafo tedesco Bogotà,
che rimase bloccato in Giappone fino alla fine del conflitto. Altri cinque s’imbarcarono
sul piroscafo Quito, anch’esso
tedesco, convertito in nave appoggio sommergibili: il 28 aprile 1945 questa
nave fu silurata ed affondata dal sommergibile statunitense Bream al largo di Bandjermassin (Borneo
meridionale); i cinque italiani finirono in Giappone, dov’erano alla fine della
guerra.
Un numero ancora
maggiore di italiani, 75 tra ufficiali e marinai, si era invece imbarcato il 17
novembre 1943 sulle motonavi tedesche Burgenland
e Weserland, in partenza per l’Europa
con carichi di materiali strategici.
Nessuna delle due
giunse a destinazione: la Weserland
fu avvistata il 2 gennaio 1944 da un idrovolante statunitense PBY Catalina, 595
miglia a sud/sudovest dell’isola di Ascensione, ed intercettata il giorno
seguente dal cacciatorpediniere statunitense Somers. Affondata la nave nel punto 14°55’ S e 21°30’ O, il Somers ne recuperò 130 naufraghi.
Non diversa la sorte
della Burgenland, avvistata il 5
gennaio da un idrovolante statunitense Martin Mariner che richiamò sul posto
l’incrociatore leggero Omaha e dal
cacciatorpediniere Jouett: dopo
essere stata cannoneggiata, la nave si autoaffondò nel punto 07°29’ S e 25°37’
O. I naufraghi passarono una settimana nelle lance di salvataggio, poi furono
recuperati dal cacciatorpediniere statunitense Winslow, che li portò quali prigionieri dapprima a Pernambuco e poi
negli Stati Uniti; dapprima nel campo di Monticello (vicino a Little Rock),
poi, falliti i tentativi di convincerli all’arruolamento nelle Italian Service
Units (squadre di lavoro composte da ex prigionieri ed internati italiani,
create dopo l’armistizio e poste al servizio dell’esercito statunitense),
furono trasferiti nel «Fascist Criminal Camp» di Hereford (Texas), da dove
sarebbero rimpatriati nel febbraio 1946.
Altri furono inviati
in campi di prigionia situati nelle Hawaii, tornando anche loro in Italia nel
dopoguerra.
Un’altra settantina
degli aderenti alla RSI, infine, rimasero a Singapore. Una cinquantina fu
adibita a lavori di manutenzione presso tale base, mentre altri 18 andarono ad
integrare gli equipaggi tedeschi dei tre sommergibili catturati, ormai
incorporati nella Kriegsmarine: in sette imbarcarono sul Giuliani, altrettanti sul Torelli
e quattro sul Cappellini.
I tre sommergibili,
dopo l’internamento dei loro equipaggi, erano passati sotto il controllo del
viceammiraglio Hiraoka Kumeichi, comandante della 9a Base di Sabang.
La Marina Imperiale giapponese non era però interessata ai sommergibili
italiani, al contrario della Kriegsmarine; le tre unità furono quindi consegnate
a quest’ultima, nella quale furono incorporate con i nomi di UIT 23 (Giuliani), UIT 24 (Cappellini) ed UIT 25 (Torelli). Il
trasferimento del Giuliani alla
Kriegsmarine ebbe luogo il 22 o 23 ottobre 1943 (altre fonti, invece, lo fanno
risalire già al 10 settembre); venne formalmente assegnato alla 12. U-Flottille
di Bordeaux. Quando la Marina tedesca apprese che il sommergibile Ammiraglio
Cagni, sorpreso dall’armistizio in Oceano Indiano, aveva raggiunto Durban
(Sudafrica) e che dunque i nomi in codice «Aquila» dovevano ormai essere noti
ai britannici, ai sommergibili furono assegnati dei nuovi nominativi
convenzionali, ossia «Mercator III» (l’UIT
23 già Giuliani), «Mercator IV»
(l’UIT 24 già Cappellini) e «Mercator V» (l’UIT
25 già Torelli).
La Kriegsmarine non
aveva però personale sufficiente, in Estremo Oriente, per poterli armare: c’era
l’equipaggio del sommergibile U 511,
donato alla Marina giapponese ed appena giunto a Kure, ma quei 49 uomini non
bastavano per armare i tre battelli: ne sarebbero serviti almeno 35-40 per
ognuno dei sommergibili. Una parte del problema fu risulto imbarcando i
naufraghi di navi tedesche affondate in Estremo Oriente, nonché reclutando ed
addestrando nel minor tempo possibile civili tedeschi che si trovavano in
quelle terre; inoltre, diciotto tra sottufficiali e marinai italiani che
avevano fatto parte dei loro equipaggi vennero convinti, o costretti, a tornare
a bordo, formando equipaggi misti italo-tedeschi. Secondo il sergente Ettore
Manfrinato, i tedeschi riuscirono ad avviare i motori diesel dei sommergibili,
ma non sapevano farli funzionare; parte con le buone, parte con le cattive,
indussero od obbligarono sette italiani ad imbarcarsi sull’UIT 23 come motoristi, con contratto di Marina mercantile.
Il 6 dicembre 1943 l’UIT 23, ex Giuliani, fu posto sotto il comando del capitano di fregata Heinrich
Schäfer, che però morì improvvisamente a Singapore l’8 gennaio 1944, per febbre
paratifoide ed appendicite. Lo sostituì allora (14 febbraio) il tenente di
vascello Johannes Werner Striegler. L’equipaggio dell’UIT 23 era formato da 40 uomini, 33 tedeschi (molti dei quali ex
membri dell’equipaggio della nave corsara tedesca Michel, affondata dal sommergibile USS Tarpoon il 18 ottobre 1943) e, come detto, sette italiani. Questi
ultimi erano il capo meccanico Emanuele Fareri, il capo elettricista Luigi Mascellaro,
il sottocapo elettricista Gaetano Principale, i sergenti motoristi Pietro Appi,
Francesco Tavella ed Ettore Manfrinato ed il capo motorista Ernesto Cappello.
Completava il
variegato equipaggio di questo sommergibile un’autentica rarità per l’epoca:
una donna. Si trattava di Susanne Heriksen, sorella di un marinaio imbarcato
sullo stesso sommergibile, Peter Rudolf Heriksen; nata in Giappone, si era
arruolata nella Kriegsmarine come interprete ed avrebbe viaggiato sull’UIT 23 per raggiungere l’Europa.
Per l’UIT 23 e l’UIT 24 era previsto il rientro in Europa agli inizi del 1944. A
metà gennaio i loro equipaggi consegnarono dei regali per le loro famiglie,
comprati in Giappone e non imbarcabili sui sommergibili per mancanza di spazio,
ad un violatore di blocco tedesco in procinto di partire.
Per il rifornimento
in mare (loro e di altri sommergibili in partenza od in arrivo dalla Francia)
erano state inviate due navi cisterna, la Charlotte
Schliemann e la già citata Brake;
ma le comunicazioni relative al previsto incontro con esse vennero intercettate
da decrittatori statunitensi, che poterono così intercettarle. La Charlotte Schliemann venne affondata dal
cacciatorpediniere britannico Relentless
il 12 gennaio 1944, in posizione 23°23’ S e 74°37’ E.
Non per questo si
abbandonò l’intento di far rientrare i sommergibili.
Il 14 febbraio 1944
l’UIT 23 salpò da Singapore diretto a
Penang con un carico di 105,566 tonnellate di gomma, 91,258 tonnellate di
stagno della Malesia, 14,7 tonnellate di volframio, due tonnellate di chinino e
due tonnellate di oppio. Da Penang, dove avrebbe completato il suo carico,
doveva poi proseguire verso la Francia.
Dopo aver percorso
solo 140 miglia, tuttavia, il sommergibile ex italiano s’imbatté in un battello
britannico: il Tally-Ho, del tenente
di vascello Leslie William Abel Bennington. Il 15 febbraio 1944, questa unità
stava procedendo in superficie al centro dello stretto di Malacca, intenta a
ricaricare le batterie, avvicinandosi al contempo alla costa della Malesia, per
intercettare il traffico di cabotaggio. Alle 5.15, il Tally-Ho stava navigando verso est (in direzione della foce del
fiume Dindings) quando il suo ufficiale di guardia, tenente di vascello Michael
Clark, avvistò un sommergibile a proravia dritta, su rilevamento 135°: era l’UIT 23. Il battello tedesco procedeva
anch’esso in superficie, ad una velocità stimata di 14 nodi e con rotta 360°, verso
nord, a 2700-3200 metri di distanza. I britannici, abituati alle sagome ben più
snelle degli U-Boote tedeschi, nel vedere un sommergibile così grande – non
sapendo della presenza in quelle acque di unità ex italiane – pensarono di
trovarsi di fronte ad un sommergibile giapponese.
Bennington, che si
trovava anch’egli in torretta, ordinò di virare di 90°, in modo che vi fosse un
angolo retto tra i due sommergibili, ma la virata era appena cominciata quando
l’UIT 23 fu inghiottito da un banco
di nebbia. Il comandante britannico decise di attaccare ugualmente, ed ordinò
un’accostata a 60°, per lanciare tre siluri con un angolo di 120° verso il
punto in cui l’avversario era sparito; pochi secondi prima che fosse ordinato
il lancio, tuttavia, una vedetta gridò che c’era un altro sommergibile di prora
sinistra. Bennington non lo vide, e, pensando che fosse troppo lontano (poco
dopo Clark lo avvistò a sua volta e lo identificò come una giunca), si volse
nuovamente in direzione dell’UIT 23:
il sommergibile ex italiano era riapparso, proprio dove doveva essere secondo i
suoi calcoli. A questo punto – erano le 5.22 – il Tally-Ho lanciò i tre siluri, e subito dopo effettuò un’immersione
rapida a 30 metri, per poi allontanarsi verso nord.
Il sergente motorista
Ettore Manfrinato stava in quel momento fumando sul ponte; doveva dare il cambio
al parigrado Pietro Appi. Tenendo ancora in bocca la sigaretta, scese in sala
macchine attraverso il boccaporto, e vide Appi appoggiato ad uno dei motori.
Quest’ultimo disse a Manfrinato di risalire in coperta a finire di fumare, e
poi tornare: una decisione che costò la vita a lui e la salvò a Manfrinato.
Proprio mentre quest’ultimo stava risalendo in coperta, infatti, l’UIT 23 fu colpito: Manfrinato si ritrovò
in acqua quasi subito, e si allontanò dal sommergibile in affondamento sentendo
nel mentre le grida di Appi, rimasto intrappolato in sala macchine; non le
avrebbe mai scordate.
Centrato da un siluro
a poppavia della torretta, il sommergibile s’inabissò in appena dieci secondi
nel punto 04°27’ N e 100°11’ E (o 04°25’ N e 100°09’ E), trenta miglia a nord/nordest
di Pulau Jarak, 58 miglia a sud dell’isola di Pinang e 32 miglia al largo della
Malesia: erano le 5.25 (altra fonte parla delle 8.22, probabilmente per diverso
fuso orario) del 15 febbraio 1944.
Dei 40 uomini che
formavano l’equipaggio dell’UIT 23,
soltanto quattordici – coloro che si trovavano in coperta – riuscirono a
gettarsi in mare: il comandante Striegler, altri undici tedeschi e soltanto due
italiani, Manfrinato e Cappello, entrambi feriti. Affondarono col sommergibile
Pietro Appi, Francesco Tavella, Emanuele Fareri, Luigi Mascellaro e Gaetano Principale,
insieme a 21 marinai tedeschi.
(Nel 2008, una placca
con i nomi dei cinque italiani è stata aggiunta al monumento ai sommergibilisti
degli U-Boote morti in guerra (U-Boot Ehrenmal) di Möltenort, in Germania.)
I 14 sopravvissuti,
dopo aver nuotato per ore in un mare di nafta (Manfrinato, che si tenne a galla
aggrappato ad un sacco di patate, ritenne che fu la nafta a tenere lontani gli
squali), vennero avvistati da un idrovolante tedesco Arado Ar 196 del Marinesonderfliegerkommando,
inviato da Penang alla loro ricerca dopo il mancato arrivo del sommergibile: non
avendo abbastanza spazio a bordo, il velivolo li recuperò cinque per volta,
legandoli con corde ai galleggianti, e li portò a Penang (distante 80 miglia). In
loro soccorso fu inviato anche un secondo Arado Ar 196 da Penang ed un
idrovolante giapponese, con pilota tedesco, decollato dalla base di Glugor;
secondo una fonte alcuni naufraghi furono recuperati anche dalla torpediniera
giapponese No. 22.
Così l’affondamento
dell’UIT 23 è descritto nel giornale
di bordo del Tally-Ho (da Uboat.net):
“0515 hours - While
in position 04°25'N, 100°09'E sighted an object fine on the Starboard bow
bearing 135°. Changed course and reduced speed. About a minute later the object
disappeared from view.
0519 hours - The
object re-appeared ahead of Tally-Ho
and was identified as a large submarine, probably Japanese. The enemy's
estimated course was 360°, speed 14 knots, range was 3000/3500 yards. Started
attack. While getting into attack position another object was sighted thought
to be another submarine broad on the Port bow (this later turned out to be a
junk).
0522 hours - Fired
three torpedoes against the first submarine. 2min25sec after firing the third
torpedo an torpedo explosion was heard. HE stopped almost immediately. A few
minutes later periscope observation showed nothing in sight. It is considered
that the submarine had sunk.”
Finì così la storia
del Giuliani, e di cinque membri del
suo equipaggio.
Altri avrebbero avuto
invece sorte differente: sparsi nei campi di prigionia di mezzo mondo, chi
prigioniero degli americani, chi dei giapponesi, chi a piede libero ma in
situazione ancor più confusa.
Verso la fine del
conflitto, i 28 uomini rimasti fedeli al re e gli altri occupanti del grande campo
lungo la Sime Road vennero trasferiti nel campo di prigionia di Changi,
costituito da una distesa di baracche realizzate attorno all’omonimo carcere.
Gli italiani furono sistemati in due celle del carcere, piene di cimici (non
diversamente dalle baracche). Proprio a Changi ritrovarono alcuni dei loro
commilitoni che avevano fatto scelta opposta: quelli della Brake, là trasferiti
da Giava.
Nell’estate 1945
Tokyo diramò l’ordine di uccidere tutti i prigionieri rinchiusi nei campi
dell’Asia, per nascondere le violazioni e le atrocità commesse ai loro danni;
il capitano Tagahachi, comandante del campo di Changi, scelse invece di non
eseguirlo, facendolo sparire in un cassetto dove fu ritrovato a guerra finita. Il
10 settembre 1945, il campo di Changi venne liberato da paracadutisti
britannici. I prigionieri erano ridotti a larve umane dagli stenti della
prigionia, alcuni quasi in fin di vita; si ripresero grazie alle cure loro
prestate dal personale medico statunitense.
Sei dei 28 italiani
rimasti fedeli al re s’imbarcarono dopo poco tempo sul piroscafo Nine-Holland, diretto in Inghilterra;
gli altri 22 vennero imbarcati in ottobre dall’Eritrea, comandata non più da Iannucci ma dal capitano di fregata
Ugo Giudice, già sommergibilista di Betasom. Giudice parlò anche ai 36
collaborazionisti, dicendo loro che li lasciava nella condizione di prigionieri
e che potevano incolpare solo sé stessi; tuttavia imbarcò anche due di essi
(tra cui il sergente Manfrinato del Giuliani)
per il rimpatrio. L’Eritrea, con i 26
reduci, giunse a Taranto nel febbraio 1946. Degli “insubordinati” lasciati da
Giudice in Estremo Oriente, qualcuno si stabilì in Giappone od Indonesia,
mentre la maggior parte tornò in Italia nel 1947, quando vennero raccolti da
una nave Liberty inviata dal governo italiano a recuperare tutti i soldati
italiani sbandati che ancora si trovavano in Estremo Oriente.
Caduti e dispersi in guerra tra
l’equipaggio del Giuliani:
Pietro Anacleto Appi, sergente motorista,
deceduto nell’affondamento il 14 febbraio 1944
Andrea Assali, capo nocchiere di terza classe,
disperso per attacco aereo il 2
settembre 1942
Giovanni De Santis, sergente silurista,
deceduto il 4 dicembre 1942
Emanuele Fareri, capo meccanico, deceduto
nell’affondamento il 14 febbraio 1944
Enzo Grimaudo, sergente, deceduto per attacco
aereo il 1° settembre 1942
Luigi Mascellaro, capo elettricista, deceduto
nell’affondamento il 14 febbraio 1944
Francesco Perali, cannoniere armaiolo,
disperso per attacco aereo il 2 settembre 1942
Gaetano Principale, sottocapo elettricista,
deceduto nell’affondamento il 14 febbraio 1944
Francesco Tavella, sergente motorista,
deceduto nell’affondamento il 14 febbraio 1944
Cesario Verardo, sottocapo cannoniere puntatore
scelto, deceduto il 25 luglio 1940
Lunga e penosa è la
storia delle famiglie dei cinque sottufficiali e marinai – Pietro Appi,
Francesco Tavella, Emanuele Fareri, Luigi Mascellaro, Gaetano Principale – che,
integrati nell’equipaggio italo-tedesco dell’UIT 23, avevano trovato la morte nel suo affondamento. Le autorità
della Repubblica Sociale Italiana furono informate dell’accaduto, probabilmente
dalle autorità nipponiche, ma alle famiglie dei cinque morti riferirono
soltanto che i loro congiunti erano «dispersi» per «incidente» capitato al
sommergibile. La moglie di Pietro Appi, informata di ciò alla fine dell’aprile
1944, scrisse il 2 maggio per avere chiarimenti, ma non ne ottenne alcuno. Un
anno dopo, terminata la guerra, gli Appi scrissero alla Regia Marina per avere
notizie, ma tutto ciò che fu detto loro fu che Pietro era un «fascista» e non
più «presente alla bandiera», e che la Marina non sapeva altro; per giunta,
venne loro ingiunto di restituire gli assegni ricevuti dalla RSI dopo la scomparsa
di Pietro Appi. La famiglia Appi ne rimase sconcertata; Pietro non si era mai
interessato di politica e non era mai stato fascista – per lo meno, non più di
chiunque altro prima del 25 luglio 1943 –, anzi, prima di partire per l’Estremo
Oriente, aveva cercato di farsi riassegnare in una destinazione più vicina a
casa, alla moglie incinta. La figlia, Maria Luisa, non aveva mai conosciuto il
padre.
L’anziana madre di
Pietro, Maria Bidinotto, una delle tante madri italiane che non videro più i
figli ritornare dal fronte senza mai sapere che cosa fosse stato di loro, prese
ad aspettare incessantemente il ritorno del figlio, seduta ogni giorno accanto
alla porta, assieme alla nipotina.
La moglie, Luigia
Cardin, cercò ancora di scoprire cosa fosse accaduto, ma la Marina non
rispondeva alle richieste; il 30 gennaio 1946, anzi, giunse la notifica
dell’avvio della pratica di discriminazione di Appi Pietro per verificare se la
famiglia avesse diritto agli assegni pagati dall’8 settembre 1943 alla data in
cui era divenuto «irreperibile» (assegni che, dopo la morte del padre di Pietro
avvenuta nel 1945, erano rimasti unico sostentamento della famiglia, composta
ora da sole donne). Nel febbraio 1946 la moglie credette di riconoscere il
marito in una foto di prigionieri italiani negli Stati Uniti (gli ultimi furono
rimpatriati nel 1947) e scrisse allora alla Croce Rossa Internazionale, ma la
risposta fu negativa. Tra giugno ed ottobre, Maria Bidinotto riuscì a trovare
l’indirizzo della madre di Francesco Tavella, fraterno amico di Pietro e come
lui affondato sul Giuliani, e le
scrisse: quest’ultima rispose che anche suo figlio era disperso, ma che il suo
nome compariva in un elenco di prigionieri italiani a Singapore, visto a
Taranto da un altro suo figlio; le fornì anche l’indirizzo di tale Murgia,
sardo, rientrato in Italia, che a suo dire avrebbe confermato che sia Appi che
Tavella erano vivi. Nell’ottobre 1946 la signora Tavella scrisse ancora alla
madre di Appi assicurando che fonte sicura confermava che entrambi erano vivi
ed in salute, e sarebbero presto tornati. Era una bugia pietosa.
Molto meno pietosa fu
la Marina, che nell’agosto 1946, con burocratica insensibilità, sospese
l’assegno alla famiglia e pretese anzi il rimborso di 7720 lire, minacciando in
caso contrario azione giudiziaria. La famiglia protestò, ribadendo che Pietro
non era mai stato di idee fasciste, e che prima di essere mandato in Estremo
Oriente aveva anzi cercato di tornare vicino a casa; la Marina richiese
documentazione che lo potesse provare. La battaglia epistolare tra gli Appi e
la Marina si protrasse per tutto il 1947, ed alla fine dell’anno successivo
Mariassegni Venezia trasmise un riassunto delle conclusioni della Commissione
centrale di discriminazione, datato 8 novembre 1948 a firma dell’ammiraglio
Tarantino: Pietro Appi era disperso per l’affondamento del Giuliani, verificatosi il 15 febbraio 1944, «si presume non in
servizio e non per cause di servizio» (nessun particolare sulle circostanze
dell’affondamento); per i parenti non erano previste ulteriori competenze
arretrate.
Poco dopo il sergente
Murgia del Torelli, l’uomo cui aveva
accennato la madre di Franco Tavella, fece sapere che lui era stato
discriminato ed aveva mantenuto i diritti economici; Murgia – uno dei
«rivoltosi» del dopo-armistizio a Singapore – era tra quanti erano stati
imbarcati sulle navi tedesche in partenza per l’Europa e, dopo il loro
affondamento in Atlantico, erano stati portati in prigionia negli Stati Uniti.
La famiglia di Pietro
Appi seguitava a non essere certa su quanto fosse accaduto a Pietro; oltre alle
notizie giunte dalla Marina, infatti, ve ne erano altre – errate, ma loro non
avevano modo di saperlo – secondo cui il Giuliani
era affondato a Singapore l’8 settembre 1943. Alla fine accettarono che Pietro
aveva aderito alla RSI, ma proseguirono nei tentativi di ottenere la pensione
di guerra; ciò fu infine concesso nel 1955.
Intanto proseguivano
le voci incontrollate che spesso sorgono attorno alla sorte dei dispersi in
guerra: un marinaio italiano che si era trovato a Singapore all’armistizio, ora
stabilitosi in Australia, fece sapere che Pietro Appi non aveva mai collaborato
volontariamente con i tedeschi, ma era stato costretto; aggiunse che era ancora
vivo e si era rifatto una vita in Australia. Non era vero, ma ciò aumentò la
confusione della famiglia, che ancora nel 1954 non aveva ricevuto il foglio
matricolare di Pietro, né risposte dalla Croce Rossa.
Passarono gli anni,
poi Luigia Cardin si risposò ed andò a vivere negli Stati Uniti, dove
successivamente morì. Morì anche la vecchia madre, e rimasero soltanto la
sorella di Pietro, Elsa, e la figlia Maria Luisa.
Furono loro, nel
marzo 1981, ad apprendere finalmente la vera storia di Pietro Appi e del Giuliani.
Quell’anno, infatti,
si tenne a Padova un raduno di sommergibilisti cui partecipò anche Walter
Auconi, il vecchio comandante del Cappellini
nei difficili giorni dell’armistizio a Singapore. Auconi, intervistato dal
giornalista Giulio Raiola, raccontò la storia dei sommergibili in Estremo
Oriente, compreso l’affondamento dell’UIT
23 (tutto a conoscenza della Marina sin dall’ottobre 1945, ma mai riferito
alle famiglie), e citò i nomi di Pietro Appi e Francesco Tavella tra quelli di
coloro che erano morti nel suo affondamento. Auconi fece anche il nome dei
sopravvissuti; uno di essi, Ettore Manfrinato, viveva ancora a Rovigo. Gli Appi
lo contattarono, ma tutto ciò che disse era che aveva ancora nelle orecchie le
grida dei compagni rimasti intrappolati nel sommergibile in affondamento. Non
disse invece quello che aveva detto al suo rientro in Italia, davanti alla
commissione d’inchiesta: cioè che era stato imbarcato sull’UIT 23 sotto bandiera tedesca, ma «con incombenze di Marina
Mercantile». Ciò aveva portato la commissione a concludere che «può considerarsi
nel gruppo di coloro che non osarono opporsi ai colleghi più facinorosi e che
ebbero paura di cadere prigionieri dei giapponesi»; così Manfrinato era stato
discriminato, ritenuto cioè non colpevole. Le stesse considerazioni potevano
valere per Pietro Appi, ma lui, morto, non poteva difendersi; la commissione lo
aveva giudicato persino «censurabile», benché nel periodo post-armistiziale non
avesse mai fatto niente di niente – meno ancora di Murgia e Manfrinato, che
invece erano riusciti ad ottenere la discriminazione. Persino il suo foglio
matricolare, compilato a posteriori, era pieno di errori.
Il relitto dell’UIT 23 venne localizzato negli anni ’80
da una società di recuperi australiana, molto lontano dalla posizione
registrata all’epoca dell’affondamento; dato che il sommergibile giaceva in
acque non molto profonde (55 metri) e che il suo carico di stagno aveva ancora
un notevole valore, la ditta australiana lo sventrò per recuperare tale
materiale (in tutto vennero recuperate circa 50-60 tonnellate di barre di
stagno). Parte del carico di gomma, sistemato nei tubi lanciasiluri, vi si
trova invece tutt’ora. Il volantino premistoppa della ghiera del periscopio,
recuperato dal relitto, venne consegnato a Gus Britton del Submarine Museum di
Gosport, poi all’ex sommergibilista di Betasom Emilio Filippi, ed è oggi
conservato presso la sede ANMI di Milano.
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Particolare (tubi
lanciasiluri) del relitto dell’UIT 23 (da
drmike.smugmug.com)
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