In ricordo dei militari e civili italiani scomparsi in mare durante la seconda guerra mondiale
sabato 20 maggio 2023
VAS 231
lunedì 1 maggio 2023
San Martino
La San Martino nel 1941 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
Nelle fasi iniziali del secondo conflitto mondiale venne impiegata in Alto Adriatico ed in Dalmazia, principalmente in mansioni di scorta; successivamente venne trasferita nel Canale di Sicilia e poi in Mar Egeo.
Effettuò in tutto 272 missioni di guerra (75 di scorta convogli, 24 di caccia antisommergibili, quattro di trasporto, una di posa di mine, 62 di trasferimento, 26 per esercitazione, 33 di altro tipo), percorrendo 58.966 miglia nautiche e trascorrendo 5097 ore in mare e 266 giorni ai lavori.
Il suo motto era "Virtutis fortuna comes".
Breve e parziale cronologia.
30 aprile 1917
Impostazione presso i cantieri Fratelli Orlando di Livorno.
8 settembre 1920
Varo presso i cantieri Fratelli Orlando di Livorno.
Il varo del San Martino ha luogo mentre il cantiere è occupato dalle maestranze, durante le turbolenze del "biennio rosso" (all’inizio di settembre tutti gli operai del settore metallurgico, quasi mezzo milione, entrano in sciopero ed occupano le fabbriche in tutta Italia); gli operai invitano a presenziare alla cerimonia il compositore Pietro Mascagni, principale celebrità livornese, e la moglie Lina Carbognani, cui viene offerto di fare da madrina della nuova nave. Mascagni tiene un discorso alla folla, dichiarando “Voi volete essere produttori ed artefici. Che vi arrida La Vittoria! Ve lo augura il mio cuore. Il mio cuore è respiro di popolo; che fu vostro nella nascita, che è vostro nell’arte e nell’idea (...) Come uomo libero, nel senso più assoluto dell’espressione, formulo voti sinceri per le maestranze dello stabilimento Orlando, uomini saldi che hanno tutta la mia ammirazione e il mio affetto” ma invitando anche a mantenere un comportamento ordinato ed asserendo che ciò cui maggiormanente tiene è la giustizia e non il socialismo. Nondimeno, per il sostegno dato agli scioperanti, Mascagni verrà prontamente attaccato dalla stampa conservatrice e fascista, da Giuseppe Prezzolini di "La Voce" al "Popolo d’Italia" di Mussolini.
Il prefetto di Livorno telegrafa ai superiori che «Il varo si effettua senza incidenti, senza bandiere rosse e senza mutare il nome della nave».
20 giugno 1922
Entrata in servizio, come cacciatorpediniere.
Il San Martino (capitano di corvetta Manfredi Gravina) salpa da Livorno il 15 luglio e scorta l’incrociatore corazzato Francesco Ferruccio, impiegato come nave scuola ed avente a bordo gli allievi dell’Accademia Navale ed il principe ereditario Umberto, in una crociera navale d’istruzione in Spagna, Inghilterra, Belgio, Germania e Scandinavia. Nel corso della crociera il San Martino percorre 8500 miglia nautiche e fa scalo a Gilbilterra, El Ferrol, Portsmouth, Hull, Rosith, Leith, Bergen, Odda, Kormöe, Cristiania, Soon, Copenaghen, Trallerborg, Stoccolma, Horsfjaerdan, Carlskrona, Cuxaven, Amsterdam, Ymuiden, Anversa, Bruxelles (dove presenzia alla cerimonia di inaugurazione del nuovo porto, sparando una salva di saluto con i suoi cannoni), Londra (in settembre, dov’è la prima nave a passare sotto il Tower Bridge da diversi anni), Falmouth, El Ferrol, Cadice, Siviglia, Gibilterra, Porto Torres e La Maddalena, concludendo con il rientro a Livorno. A turno sono imbarcati sul San Martino, per quindici giorni, dieci allievi del quarto corso dell’Accademia Navale; tra di essi anche il principe Umberto durante le soste ad Odda, Kormöe, Bruxelles e Siviglia.
Il Ferruccio viene visitato da Guglielmo Marconi.
Visita del principe Umberto a Odda (Norvegia) il 25 agosto 1922 |
Imbarco di Umberto di Savoia sul San Martino, settembre 1922 |
Il San Martino a La Maddalena il 18 ottobre 1922, sulla sinistra il vecchio incrociatore Amerigo Vespucci |
Il San Martino, insieme alla corazzata Duilio, presenzia a San Remo ad una visita di Vittorio Emanuele III, recatosi in città per presenziare all’inaugurazione del nuovo monumenti ai caduti. Il re arriva in treno da Racconigi, accompagnato dal principe ereditario Umberto e dal suo aiutante di campo, generale Arturo Cittadini; al suo arrivo alla stazione di San Remo, San Martino e Duilio sparano ventuno salve di cannone.
Il San Martino, insieme ai gemelli Confienza e Solferino ed al più piccolo Enrico Cosenz, forma la III Squadriglia Cacciatorpediniere della 2a Flottiglia della Divisione Siluranti, formata inoltre dall’esploratore Aquila e dalla IV Squadriglia Cacciatorpediniere (Castelfidardo, Curtatone, Calatafimi, Monzambano e Giacinto Carini).
La Divisione Siluranti comprende anche l’esploratore Quarto (nave ammiraglia), la 1a Flottiglia Cacciatorpediniere (esploratore Carlo Mirabello; cacciatorpediniere Giuseppe La Masa, Giuseppe La Farina, Nicola Fabrizi, Giacomo Medici della I Squadriglia; cacciatorpediniere Generale Antonio Cantore, Generale Antonino Cascino, Generale Carlo Montanari, Generale Marcello Prestinari e Generale Achille Papa della II Squadriglia) e la 3a Flottiglia Cacciatorpediniere (esploratore Falco; cacciatorpediniere Giuseppe Sirtori, Giuseppe Missori, Giovanni Acerbi e Vincenzo Giordano Orsini della V Squadriglia; cacciatorpediniere Antonio Mosto, Fratelli Cairoli, Simone Schiaffino, Rosolino Pilo e Giuseppe Dezza della VI Squadriglia).
Dislocato in Mar Rosso per tre mesi.
1929
Il San Martino, unitamente ai gemelli Palestro, Confienza e Solferino, forma la VII Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla VIII Squadriglia (Curtatone, Castelfidardo, Calatafimi e Monzambano) ed all’esploratore leggero Augusto Riboty, costituisce la 4a Flottiglia Cacciatorpediniere della II Divisione Siluranti, inquadrata nella 2a Squadra Navale di base a Taranto.
(g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
Il fumaiolo prodiero viene allungato per evitare che il fumo ostacoli la punteria e la direzione del tiro.
1931
Il San Martino forma, insieme agli incrociatori leggeri Bari e Taranto, ai cacciatorpediniere Palestro e Monzambano ed alla torpediniera Giuseppe Dezza, la IV Divisione Navale dell’ammiraglio Alberto Alessio (2a Squadra Navale, ammiraglio Gino Ducci).
28 febbraio 1934
Il San Martino porta ad Ustica il prefetto di Palermo Giovanni Battista Marziali, in visita nell’isola. Marziali rende gli onori al locale monumento ai caduti, visita la chiesa ed il municipio del paese, inaugura un giardino d’infanzia, assiste ad un saggio ginnico, ad un concerto di chitarra e mandolino, ad una declamazione di poesie e ad un’esibizione di un coro di marinaretti e giovani italiane; seguono in serata una festa danzante alla casa del fascio ed uno spettacolo pirotecnico.
Il San Martino nel 1936 (foto Falzone, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
Il tenente di vascello Carlo Fecia di Cossato assume il comando del San Martino.
1° ottobre 1938
Declassato a torpediniera.
La San Martino a Rodi nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
All’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la San Martino (capitano di corvetta Corrado Cini) fa parte della XV Squadriglia Torpediniere, avente base a Venezia alle dipendenze del Comando Militare Marittimo Autonomo Alto Adriatico, insieme alle gemelle Palestro, Confienza e Solferino.
13 luglio 1940
Effettua un’azione antisommergibili, in seguito alla quale viene avvistata una chiazza di carburante. In seguito risulterà tuttavia che non vi fosse alcun sommergibile avversario nella zona dell’attacco.
27-28 settembre 1940
La San Martino e la Confienza scortano l’incrociatore leggero Alberico Da Barbiano durante due brevi uscite in mare nelle acque di Pola, per esercitazioni di tiro degli allievi cannonieri delle scuole che hanno sede nel capoluogo istriano.
2 dicembre 1940
La San Martino salpa da Monfalcone alle dieci del mattino per scortare a Pola, dove giunge alle 15.30, il nuovissimo sommergibile Ammiraglio Saint Bon, appena uscito dal cantiere.
12 dicembre 1940
La San Martino scorta il Saint Bon in un’uscita da Pola per collaudi, dalle 8.55 alle 12.30.
13 dicembre 1940
Altra uscita da Pola per scorta al Saint Bon durante le prove in mare, dalle 9.15 alle 15.40.
14 dicembre 1940
Ulteriore uscita da Pola per scorta al Saint Bon durante le prove in mare, dalle 9.25 alle 17.30.
Ancora un’uscita da Pola di scorta al Saint Bon impegnato nei collaudi, dalle 8.45 alle 17.05.
20 dicembre 1940
La San Martino scorta il vecchio incrociatore leggero Taranto nell’Alto Adriatico. Alle 15.50 le due navi incontrano il sommergibile Galatea, in trasferimento da Pola a Taranto, e scambiano con esso i segnali di riconoscimento.
3 gennaio 1941
Lascia Pola alle 9.20 per scortare il Saint Bon nuovamente a Monfalcone, dove giunge alle 15.40.
19 gennaio 1941
La San Martino scorta l’incrociatore Da Barbiano di ritorno da Monfalcone a Pola dopo un periodo di lavori di carenaggio presso i Cantieri Riuniti dell’Adriatico. Durante la navigazione di trasferimento il Da Barbiano esegue prove di macchina.
19 marzo 1941
La San Martino compie un’uscita per esercitazione da Taranto insieme al sommergibile Filippo Corridoni (tenente di vascello Lodovico Grion).
24 marzo 1941
La San Martino compie un’uscita per esercitazione da Taranto dalle otto alle 16.49, insieme al sommergibile H 2 (tenente di vascello Giovanni Cunsolo).
Aprile 1941
Durante l’invasione della Jugoslavia, la San Martino, insieme alle torpediniere Audace, Alcione, Aldebaran e Generale Antonio Cantore ed alla VI Squadriglia MAS, viene scelta dall’ammiraglio Oscar Di Giamberardino per fornire scorta ed appoggio alla spedizione incaricata di conquistare l’isola dalmata di Veglia, che risulta essere difesa da circa duemila soldati jugoslavi con quattro batterie costiere. La forza d’invasione italiana è formata dai 1100 uomini del Battaglione "Bafile" del Reggimento "San Marco", e da 1200 uomini di due battaglioni territoriali mobili; all’azione parteciperà, per bombardare le batterie costiere, anche il pontone armato GM 216.
L’azione verrà però annullata prima di prendere il via, in seguito al rapido e generalizzato collasso dell’esercito jugoslavo su tutti i fronti, che la renderà del tutto superflua. Veglia sarà occupata senza colpo ferire il 16 aprile da una forza di 1700 uomini del Battaglione "Bafile" e di un battaglione territoriale mobile.
20 aprile 1941
Nella notte tra il 19 ed il 20 aprile la San Martino salpa da Pola di scorta alla motonave Lazzaro Mocenigo, che ha a bordo l’ammiraglio Oscar Di Giamberardino, appena nominato comandante militare marittimo della Dalmazia occupata, insieme ad un’aliquota di personale assegnato ai neoistituiti comandi di Maridalmazia (Comando Militare Marittimo della Dalmazia) e Mariser Spalato ed alla terza compagnia del Battaglione "Grado" del Reggimento di fanteria di Marina "San Marco".
Le forze armate jugoslave si sono arrese senza condizioni il 17 aprile, ponendo fine alla breve campagna di conquista del Paese balcanico; la costa della Dalmazia ricade nell’area di occupazione italiana.
21 aprile 1941
Dopo una sosta a Sebenico, dove l’ammiraglio Di Giamberardino ha verificato personalmente la situazione in loco ed ha disposto il servizio di dragaggio preventivo sulle rotte per Spalato, Mocenigo e San Martino arrivano a Spalato in mattinata. Le truppe italiane sbarcate dalle navi procedono rapidamente a prendere possesso delle unità jugoslave presenti in porto, abbandonate dalla maggior parte dei rispettivi equipaggi, che hanno disertato nei giorni precedenti: dapprima le torpediniere T 3, T 5, T 6 e T 7, entro sera, e l’indomani i posamine Galbeb, Sokol, Labud, Mosor ed Orao, il rimorchiatore di salvataggio Spasilac, la motosilurante Cetnik e l’incompleto cacciatorpediniere Split, in costruzione presso i locali cantieri navali, che vengono parimenti occupati.
22 aprile 1941
Per ordine dell’ammiraglio Di Giamberardino (che a sua volta ha ricevuto poche ore prima da Supermarina l’ordine di occupare tutte le isole dalmate a sud di Zara), la San Martino imbarca a Spalato la terza compagnia del Battaglione "Grado" del Reggimento "San Marco" per procedere all’occupazione delle isole di Solta, Brazza, Lesina, Lissa e Curzola. In particolare, la nave dovrà sbarcare mezzo plotone a Somora (Solta) ed un plotone ciascuno a Milnà (Brazza), Lesina, Porto San Giorgio (Lissa) e Curzola.
In base agli ordini ricevuti, i distaccamenti del "San Marco" dovranno limitarsi ad «occupare soltanto la località di sbarco ed eventualmente asserragliarvisi in caso di resistenza, in attesa dei rinforzi che sarebbero giunti l’indomani» a bordo di piroscafi ex jugoslavi requisiti; la San Martino dovrà fermarsi nel porto in cui si troverà al tramonto e passarvi la notte, per poi riprendere il giro l’indomani dopo l’alba. D’accordo con un rappresentante del Ministero della Cultura Popolare presente a Spalato, l’ammiraglio autorizza anche un gruppo di giornalisti ad imbarcare sulla San Martino per seguire l’occupazione.
Salpata da Spalato alle 15.20 del 22, nelle ore successive la San Martino sbarca distaccamenti di fanti di Marina a Stomora (Solta), Milnà (Brazza) e Lesina, senza incontrare alcun contrasto; a Lesina, anzi, le truppe del "San Marco" vengono trionfalmente accolte dalla locale minoranza italiana.
23 aprile 1941
All’alba la San Martino sbarca un altro distaccamento di fanti di Marina a Lissa; un’ora più tardi entra in porto anche il cacciatorpediniere Bersagliere, che sbarca altre truppe, ed alle 13.30 il piroscafo ex jugoslavo Vis, che sbarca un ulteriore distaccamento. Curzola viene invece occupata da truppe sbarcate dal cacciatorpediniere Fuciliere.
La San Martino a Venezia il 15 maggio 1941 (da www.kreiser.unoforum.pro) |
Uscita da Taranto per esercitazione insieme al sommergibile H 2 (tenente di vascello Giovanni Celeste), dalle 4.23 alle 17.15.
5 settembre 1941
La San Martino scorta da Patrasso a Taranto i piroscafi italiani Perla e Casaregis ed il tedesco Savona, carichi di personale e materiale italiani e tedeschi.
12 ottobre 1941
La San Martino scorta la nave cisterna tedesca Campina da Taranto a Patrasso.
1942
Lavori di modifica dell’armamento: due dei quattro cannoni Schneider-Armstrong 1917 da 102/45 mm dell’armamento principale vengono sbarcati, insieme ai due pezzi singoli Ansaldo Mod. 1917 da 76/40 mm; al contempo viene invece potenziato l’armamento contraereo, con l’installazione di 6 mitragliere singole Breda 1940 da 20/65 mm, e quello antisommergibili, con l’installazione di due lanciabombe per bombe di profondità.
Viene inoltre installato un ecogoniometro S-Gerät di fabbricazione tedesca.
19 febbraio 1942
Esce da Taranto dalle 6.35 alle 16.05 per collaudi del sonar, insieme al sommergibile H 2 (tenente di vascello Renzo Fossati).
1° marzo 1942
La San Martino si trasferisce da Taranto ad Argostoli, dove giunge nel pomeriggio.
2 marzo 1942
La San Martino (tenente di vascello Angelo Pievatolo) viene inviata dal Comando Militare Marittimo della Morea (Marimorea) a dare la caccia al sommergibile britannico Torbay (capitano di fregata Anthony Cecil Capel Miers), che nei giorni precedenti ha attaccato senza successo la nave cisterna Proserpina e poi danneggiato a cannonate il piroscafo Lido nelle acque delle Isole Ionie. Una prima ricerca antisommergibili svolta nella notte tra il 28 febbraio ed il 1° marzo, con l’impiego del cacciatorpediniere Turbine e delle torpediniere Antonio Mosto e Generale Carlo Montanari, non ha dato risultati, anche perché nessuna delle tre unità era dotata di ecogoniometro, a differenza della San Martino, provvista di ecogoniometro tedesco S-Gerät.
Verso le sei di sera la San Martino viene avvistata dal Torbay a cinque miglia per 279° da Capo Dukato (Isola di Santa Maura; per altra fonte, a cinque miglia per 120° dalla costa). Il sommergibile avvista la nave, identificata come della classe Curtatone, a sette miglia di distanza, verso sud; la San Martino punta proprio verso di lui senza zigzagare, il che induce Miers a decidere di tentare l’attacco. Tuttavia, la San Martino localizza il Torbay con l’ecogoniometro, ottenendo un buon contatto a duemila metri e mantenendolo fino a 140 metri: alle 18.07, a 4,8 miglia per 286° da Capo Dukato, mentre sta manovrando per portarsi in posizione di lancio, Miers vede la torpediniera accostare verso di lui, e rendendosi conto di essere stato scoperto, dà ordine di scendere in profondità. Alle 18.15 la San Martino passa sulla verticale del Torbay e lancia un “pacchetto” di dieci bombe di profondità (sul Torbay si ritiene erroneamente che ne siano state lanciate sei); alle 18.23 ne lancia un secondo anch’esso di dieci, ma meno vicino del primo, e successivamente un terzo, sempre di dieci. Viene poi perso il contatto, mentre in superficie appaiono delle sostanze oleose, il che induce il comandante Pievatolo a ritenere che il sommergibile sia stato colpito.
Dalle 18.23 alle 20.13 il Torbay si ritira lentamente verso sudovest e poi verso ovest, perdendo definitivamente il contatto con la nave italiana alle 21.07, dopo aver contato diciotto esplosioni di bombe di profondità e senza aver subito danni.
In realtà la San Martino ne ha lanciate 19, da 100 kg, ritenendo a torto di aver affondato il sommergibile (anche Supermarina è di questa opinione, sulla scorta sia di quanto riferito dal comandante Pievatolo nel suo rapporto, sia del fatto che l’indomani mattina la ricognizione aerea ha fotografato nella zona dell’attacco una chiazza di nafta), come annunciato dal bollettino di guerra n. 40: «Le torpediniere S. Martino e Solferino, comandate rispettivamente dai tenenti di vascello Angelo Pievatolo e Mirko Vedovato, hanno affondato ciascuna, in luoghi e giorni diversi, un sommergibile nemico».
Successivamente la San Martino raggiunge Samo, da dove si trasferisce poi a Corfù.
5 marzo 1942
La San Martino, la torpediniera Giuseppe Sirtori ed il cacciatorpediniere Sebenico scortano da Corfù a Patrasso i piroscafi Goggiam e Leonardo Palomba.
Lo stesso giorno la torpediniera viene nuovamente inviata a dare la caccia al Torbay, che ha silurato il piroscafo Maddalena nella rada di Corfù, ma non riesce a trovarlo.
28 marzo 1942
La San Martino salpa da Argostoli (dov’è giunta il giorno precedente al termine di una missione di scorta, con i depositi di nafta quasi vuoti) per effettuare perlustrazione ecogoniometrica antisommergibili da Capo Dukato per le prime venti miglia della rotta che dovrà percorrere un convoglio proveniente da Patrasso e diretto a Bari con truppe rimpatrianti della 3a Divisione Alpina "Julia", formato dai trasporti truppe Piemonte (capoconvoglio), Francesco Crispi, Galilea, Viminale, Italia ed Aventino (aventi a bordo in tutto 8300 uomini: Italia ed Aventino trasportano uomini delle guarnigioni del Dodecaneso che rientrano per licenza, le altre navi trasportano truppe della Divisione "Julia" in trasferimento dalla Grecia all’Italia) con la scorta dell’incrociatore ausiliario Città di Napoli (capitano di fregata Luigi Ciani, caposcorta), del cacciatorpediniere Sebenico e delle torpediniere Angelo Bassini, Antonio Mosto e Castelfidardo.
Dopo aver effettuato ricerca antisom per tutto il pomeriggio senza rilevare niente – ricerca che ha però dovuto essere alquanto sommaria, perché la nave, fatta ripartire in tutta fretta, senza potersi rifornire, poco dopo essere giunta ad Argostoli al termine di una missione di scorta, ha i serbatoi quasi vuoti e deve centellinare il carburante rimasto tenendo conto anche che deve accompagnare il convoglio per un tratto, dalle 19 alle 21 –, alle sette di sera la San Martino si unisce anch’essa al convoglio, portandosi in testa e riprendendo la ricerca antisom, sempre con risultato negativo. È l’unica unità della scorta ad essere munita di ecogoniometro.
Nemmeno la ricognizione aerea (è prevista copertura aerea dalle 15 al tramonto) avvista sommergibili. Sempre quale misura antisom, Marimorea ha fatto salpare da Guiscardo (vicino ad Argostoli) la motovedetta Caron della Guardia di Finanza ed il motoveliero Regina Vincitrice affinché effettuino ascolto idrofonico; ma le due minuscole navi, a causa delle pessime condizioni del mare (che peraltro impediscono di usare efficacemente gli idrofoni), devono tornare in porto poco dopo la partenza, senza poter espletare il loro compito.
Per il primo tratto della navigazione il convoglio si trova in una zona di mare relativamente sicura, in quanto racchiusa dalle isole di Zacinto, Argostoli e Santa Maura (Lefkàda); dopo le 20, doppiato Capo Ducato, uscirà invece in mare aperto, dirigerà per il punto 39°11' N e 20°00' E, raggiungerà le isole di Paxo ed Antipaxo e da lì dirigerà verso l’Italia, passando per la posizione 39°58' N e 18°47'30" E, facendo il punto dinanzi a Gagliano del Capo, doppiando Capo d’Otranto verso le otto del mattino del 29 marzo, e seguendo poi la costa fino a Bari.
Dalle 18.30, quando il convoglio entra nella zona di pericolo per attacchi subacquei, le unità della scorta iniziano ad eseguire lanci di bombe di profondità a scopo intimidatorio, dato che non si ottiene alcun reale contatto.
Il tempo, già instabile per tutta la giornata (calma di mare e di vento, ma con cielo coperto, e le previsioni parlano di un peggioramento in arrivo dal secondo quadrante), va via via peggiorando: raffiche di vento e di pioggia prendono a sferzare le navi, che procedono tra la foschia a tratti più o meno spessa.
Il convoglio esce dal passo di Capo Dukato senza che si verifichino inconvenienti; alle 19.12, lasciato Capo Dukato di poppa al traverso, si cambia formazione dalla linea di fila a quella su quattro colonne, due interne di trasporti truppe e due esterne di navi scorta.
La colonna interna di dritta è guidata dal Galilea, seguito dal Crispi al centro e dall’Italia in coda; la colonna interna di sinistra è formata da Viminale (in testa, a circa 600-700 metri di distanza dal Galilea), Piemonte (al centro) ed Aventino (in coda); la colonna esterna di dritta è costituita da Mosto (in testa, sulla dritta del Galilea) e Sebenico (dietro alla Mosto, all’altezza del Crispi), quella di sinistra da San Martino (all’altezza della Viminale) e Castelfidardo (all’altezza del Piemonte). Il Città di Napoli apre la formazione, procedendo a proravia rispetto alle due colonne centrali (a distanza più o meno uguale da entrambe), mentre la Bassini la chiude. Viene assunta rotta 330°, mantenendo una velocità di 10 nodi. (Per altra fonte, Città di Napoli e Mosto si sarebbero invece posizionati in coda al convoglio, rispettivamente a dritta ed a sinistra, con Sebenico e Castelfidardo in testa e Bassini e San Martino sui lati, quest’ultima a dritta e l’altra a sinistra. Dopo la partenza della San Martino, la Bassini sarebbe passata in coda insieme alla Mosto, mentre il Città di Napoli si sarebbe spostato sul fianco destro del convoglio).
Le navi della scorta procedono a zig zag; sul cielo del convoglio volano aerei da caccia ed antisommergibili, che rimangono in volo fino all’imbrunire.
Alle 21, come previsto, la San Martino lascia il convoglio e rientra ad Argostoli, avendo quasi finito il carburante.
Alcune ore più tardi, il Galilea verrà silurato ed affondato dal sommergibile britannico Proteus, con la morte di oltre mille uomini.
Una foto risalente ai primi anni di servizio (da www.kreiser.unoforum.pro) |
San Martino e Solferino scortano la nave cisterna Arca da Brindisi a Patrasso, via Argostoli.
Dà la caccia ad un contatto rilevato all’ecogoniometro, ma risulterà poi che non vi erano sommergibili in zona.
19 aprile 1942
San Martino e Solferino scortano il trasporto militare Tripoli da Patrasso a Navarino.
La San Martino scorta da Bari a Patrasso la motonave Calino, diretta a Rodi.
27 aprile 1942
San Martino e Solferino scortano la nave cisterna Rondine ed il piroscafo Goffredo Mameli da Patrasso a Prevesa.
La San Martino scorta le navi cisterna Rondine ed Alberto Fassio da Prevesa a Taranto.
2 luglio 1942
La San Martino salpa alle 13 da Taranto insieme ai cacciatorpediniere Turbine, Euro e Giovanni Da Verrazzano (caposcorta) ed alle torpediniere Castore, Polluce, Pegaso ed Antares, per scortare a Bengasi un convoglio composto dalle moderne motonavi Monviso, Nino Bixio ed Ankara (quest’ultima tedesca).
Si tratta del primo importante convoglio dopo la riconquista di Tobruk da parte dell’Asse, con un carico complessivo di 8182 tonnellate di munizioni e materiali, 1247 tonnellate di carburanti e lubrificanti, sette carri armati e 439 veicoli.
Già alle 14.18 il servizio di decrittazione britannico “ULTRA” intercetta e decifra un messaggio codificato dalla macchina “Enigma”, apprendendo così della partenza del convoglio; successive decrittazioni precisano la composizione della scorta e la rotta che il convoglio seguirà (rotte costiere e di sicurezza fino alle 4.30 del 3 luglio, quando la San Martino e la più moderna torpediniera Sagittario si devono unire alla scorta, dopo aver completato un rastrello in quelle acque; indi riunione con convoglio che deve passare probabilmente a sudovest di Capo Gherogambo). Vengono dunque disposti attacchi aerei contro il convoglio, ed un ricognitore viene inviato a cercarlo, in base alle informazioni di “ULTRA”, per precisarne meglio la posizione.
Tuttavia, anche l’Ufficio Beta del Servizio Informazioni Segrete (il servizio segreto della Regia Marina) è al lavoro: la sera del 2 luglio gli uomini del SIS intercettano e decrittano un messaggio radio inviato alle 20.40 da Malta ai ricognitori YU3Y e 86KK, con l’ordine di cambiare rotta e cercare 30 miglia più ad est delle posizioni assegnate. Il messaggio è codificato col sistema SYKO, che i decrittatori del SIS sono riusciti a decifrare; inoltre, rilevazioni radiogoniometriche permettono di localizzare i ricognitori britannici (a 150 miglia per 350° da Bengasi l’uno, a 90 miglia per 350° da Bengasi l’altro). Alle 21.40, così, Supermarina invia al convoglio della San Martino un messaggio PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute) ed informa il capoconvoglio che i britannici conoscono la loro posizione: in tal modo, il capoconvoglio cambia rotta.
La Pegaso rileva all’ecogoniometro un sommergibile nemico e lo attacca con intenso lancio di bombe di profondità, ritenendo di averlo affondato, ma in realtà non è stato colpito nulla (è possibile che il sommergibile stesso fosse solo un falso contatto).
A tutta forza, nei primi anni di servizio (da www.kreiser.unoforum.pro) |
Nonostante il cambiamento di rotta, alle 3.30 il ricognitore H3TL riesce a trovare il convoglio, e lo comunica per radio a Malta. Di nuovo, però, il SIS intercetta e decifra il messaggio, e nel giro di mezz’ora Supermarina invia un nuovo avvertimento al convoglio, che cambia di nuovo rotta. La mattina ed il pomeriggio il convoglio procede senza incontrare forze britanniche.
Alle 15.13 ed alle 16.13, però, il SIS intercetta nuovi messaggi in codice britannici, e scopre che da Malta sono decollati otto aerosiluranti Bristol Beaufort.
Infatti il convoglio è stato avvistato da ricognitori nel pomeriggio, ed alle 18.30 sono decollati per attaccarlo otto aerosiluranti Bristol Beaufort, scortati da cinque caccia Bristol Beaufighteer; due degli aerei, però, non sono riusciti a decollare, ed altri due sono stati costretti a tornare indietro poco dopo il decollo. I rimanenti attaccano il convoglio alle 20.10, da est, provenendo dalla direzione opposta del crepuscolo e delle navi della scorta. Due aerei attaccano il mercantile al centro (la Bixio), altri due il mercantile di coda; questi ultimi due vengono abbattuti dal tiro contraereo della scorta (per altra fonte i Beaufort attaccanti erano sei, di cui tre abbattuti). Nonostante la coordinazione con i Beaufighters, che mitragliano le navi per contrastare il loro tiro contraereo, l’attacco britannico fallisce completamente: nessuna nave è colpita.
(Secondo una fonte, sempre in serata il convoglio viene attaccato da tre aerosiluranti Vickers Wellington, guidati da un Wellington VIII dotato di radar ASV – Air to Surface Vessel, per l’individuazione delle navi da parte di un aereo –, ma anche in questo caso non vengono subiti danni. È però probabile una confusione col successivo attacco di Wellington del 4 luglio).
4 luglio 1942
Alle 00.18 ed alle 00.42 il ricognitore N1KL invia due segnali di scoperta del convoglio, seguiti all’una di notte da un terzo segnale, lanciato dal ricognitore ZZ7P. Sono decollati da Malta cinque velivoli Vickers Wellington, due dei quali armati con siluri e tre con bombe da 227 kg: la scorta del convoglio, però, occulta i mercantili con cortine fumogene, e gli attaccanti devono sganciare bombe e siluri pressoché a caso, senza riuscire a vedere i bersagli. Nessuna bomba o siluro va a segno.
Nella mattinata del 4 luglio, nuovo attacco: stavolta da parte di tre Wellington e tre bombardieri quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, tutti della Royal Air Force, decollati dall’Egitto. I Wellington non riescono a trovare il convoglio; i B-24 invece sì, ma le loro bombe non vanno a segno.
Alle 10.30 ed alle 14.15 (quando l’Ankara viene mancata da quelli che sembrano dei siluri) il convoglio viene attaccato da sommergibili (ma è probabile che si sia trattato di falsi allarmi).
Il britannico Turbulent (capitano di fregata John Wallace Linton) avvista verso nord, alle 11.10, le alberature delle navi italiane e poi alle 11.25 le navi stesse – identificate come tre grossi mercantili scortati da almeno cinque ma più probabilmente otto tra cacciatorpediniere e torpediniere, nonché tre aerei – in posizione 33°30' N e 20°30' E (un’ottantina di miglia a nord di Bengasi), ma viene localizzato dal sonar della Pegaso alle 11.41, venendo costretto ad interrompere l’attacco, e subisce poi una caccia antisommergibili che inizia alle 11.48: la prima scarica di 6 bombe di profondità, lanciata in posizione 33°28' N e 20°28' E, esplode molto vicina ma causa soltanto danni minori; successivamente vengono gettate molte altre bombe di profondità, che però esplodono più lontane. Da parte italiana si ritiene, erroneamente, di avere affondato il sommergibile (in realtà il Turbulent torna a quota periscopica alle 12.40 e vi avvista una torpediniera classe Spica che si sta lentamente portando nella posizione dell’attacco iniziale con bombe di profondità, per poi allontanarsi verso sud ad alta velocità dopo venti minuti); comunque, l’attacco è sventato.
Il convoglio giunge indenne a Bengasi alle 18.45.
10 ottobre 1942
La San Martino compie un’uscita per esercitazione da Pola insieme alla nuova torpediniera di scorta Uragano, al sommergibile Luigi Settembrini (capitano di corvetta Alberto Torri) ed al rimorchiatore Parenzo.
25 ottobre 1942
Alle 18.48 (o 18.30) la San Martino (tenente di vascello di complemento Enrico Vaccaro), il cacciatorpediniere Granatiere (caposcorta, capitano di fregata Giuseppe Gregorio) e la nuovissima torpediniera di scorta Fortunale (tenente di vascello Alfredo D’Angelo) salpano da Taranto per scortare a Tobruk il piroscafo Etiopia e la nave cisterna Luisiano (convoglio "J").
26 ottobre 1942
Verso mezzanotte un aereo sgancia due bombe contro il convoglio, senza colpire.
27 ottobre 1942
Per due volte il convoglio viene avvistato da ricognitori avversari: temendo che siano pertanto imminenti degli attacchi aerei, riceve ordine di dirottamento su Navarino.
Il convoglio entra a Navarino all’una di notte e ne riparte verso le 19 (le 18 per altra versione), dopo il tramonto, diviso in due gruppi. Uno, diretto a Bengasi, è costituito da San Martino, Luisiano e dalla torpediniera Lupo (capitano di corvetta Carlo Zanchi, caposcorta), che ha preso il posto del Granatiere, rimasto a Navarino con l’VIII Divisione; l’altro, partito poco più tardi e diretto a Tobruk, è formato dall’Etiopia e dalla Fortunale. Questo secondo gruppo deve però posticipare la partenza in seguito al (non grave) danneggiamento dell’Etiopia da parte di una bomba (caduta in mare a pochissima distanza) durante un attacco aereo verificatosi durante le manovre di partenza.
Il gruppo “Luisiano” non ha miglior sorte: in serata viene avvistato dalla ricognizione avversaria e dalle 22 viene continuamente sorvolato da aerei nemici e fatto oggetto di ripetuti attacchi di aerosiluranti. Alle 23.52 la Luisiano viene colpita a poppa da un siluro, esplodendo ed affondando in fiamme in pochi minuti; gli attacchi aerei contro le torpediniere proseguono fino alle 00.50 del 29.
29 ottobre 1942
La San Martino rientra a Navarino alle 5.35, seguita alle 9 dalla Lupo che ha recuperato i superstiti – solo otto – della Luisiano.
30 ottobre 1942
Alle cinque del mattino (o 5.30) la San Martino riparte da Navarino insieme alla Fortunale per scortare a Tobruk, via Suda, l’Etiopia, che ha frattanto riparato i danni causati dall’attacco aereo del 28.
31 ottobre 1942
Nelle prime ore della notte viene rilevato all’ecogoniometro un sommergibile, cui la Fortunale dà la caccia senza successo dalle 3.45 alle 6.45.
San Martino, Fortunale ed Etiopia entrano a Suda alle 14; l’Etiopia proseguirà poi per Tobruk con la scorta della Fortunale, mentre la San Martino riceverà il compito di scortare a Tobruk gli incrociatori ausiliari Zara e Brioni.
Alle 16 (o 16.30) la San Martino (tenente di vascello Enrico Vaccaro) incontra poco a nord di Suda gli incrociatori ausiliari Zara (tenente di vascello Domenico Mazza) e Brioni (capitano di corvetta Enrico Dodero, capo convoglio), provenienti da Brindisi e diretti a Tobruk con un carico di carburante e munizioni per le forze tedesche. La torpediniera deve scortarli nel tratto più pericoloso della traversata, tra Creta e la Cirenaica.
Verso le 18.30 le tre navi avvistano un gruppo di aerei intenti a bombardare La Canea. Durante la notte vengono infruttuosamente cercate da ricognitori che lanciano bengala: il primo le avvista alle 23 e le segue fino alle due di notte del 2 novembre, illuminandole con razzi e bengala.
(da www.warshipsww2.eu) |
All’alba il convoglio incrocia alcune formazioni di aerei da trasporto e da caccia dell’Asse, ed alle 6.20 viene raggiunto dalla scorta aerea, composta da bombardieri tedeschi Junkers Ju 88, caccia tedeschi Messerschmitt Bf 109 (del JG. 53) e Bf 110 e caccia italiani Macchi Mc 200 e Mc 202 del 13° Gruppo, 2° Stormo della Regia Aeronautica. Uno di questi ultimi, pilotato dal tenente Giorgio Savoia, attacca una formazione di Bristol Beaufighters, rivendicando l’abbattimento di uno ed il danneggiamento di un altro.
Alle nove viene avvistata all’orizzonte una formazione di aerei che, provenienti da est, volano a bassa quota puntando apparentemente verso Tobruk. Giunti all’altezza del convoglio, però, gli aerei convergono improvvisamente su di esso, dividendosi in due gruppi di tre e quattro velivoli, che attaccano rispettivamente il Brioni e lo Zara.
Le navi aprono il fuoco con le loro mitragliere contraeree (prima il Brioni, poi la San Martino e quindi lo Zara), riuscendo ad abbattere due degli attaccanti; questi sono ingaggiati anche dai Macchi Mc 200 della scorta aerea, di cui quello pilotato dal capitano Guglielmo Arrabito della 82a Squadriglia rivendica il danneggiamento di un Bristol Beaufighter, e quello pilotato dal sergente maggiore Filippo Baldin della medesima squadriglia rivendica l’abbattimento di un Beaufighter ed il danneggiamento di un altro. Tra gli aerei tedeschi, il Messerschmitt Bf 109 G del tenente Hermann Munzert (2./J.G. 53) rivendica l’abbattimento di un Beaufort 120 km a nord/nordest di Tobruk alle 8.12. (Per altra fonte, da parte italo-tedesca sarebbe stato rivendicato in tutto l’abbattimento di tre Beaufort ed il danneggiamento di altri tre).
Gli attaccanti sono aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron della Royal Air Force, decollati dalla base egiziana di Gianaclis (in seguito a segnalazione da parte del Martin Baltimore del maggiore Slaughter del 203rd Squadron RAF, che ha avvistato due mercantili e due cacciatorpediniere in posizione 33°13' N e 23°55' E, con rotta 170° e velocità 7 nodi, chiedendo un attacco di aerosiluranti; a sua volta indirizzato sul posto da una decrittazione di “ULTRA” del 2 novembre, da cui risulta che Zara e Brioni sono partiti dal Pireo per Tobruk alle 14 del 1° novembre, mantenendo una velocità di 13 nodi, con arrivo previsto per le 16 del 3 novembre) sotto la guida del tenente colonnello Larry Gaine, e scortati da caccia Bristol Beaufighter del 272nd Squadron.
Due Beaufort non fanno ritorno alla base, entrambi vittime del tiro contraereo delle navi: il DD873 del maggiore Kenneth Robinson Grant, colpito nel motore sinistro poco dopo il lancio e costretto ad ammarare sette chilometri a proravia del convoglio (in posizione 33°11' N e 23°12' E, 72 km a nordest di Derna, alle 9.24) con la morte di un membro dell’equipaggio (il sottufficiale canadese Alfred Gordon Turner) e la cattura degli altri tre, compreso Grant; ed il DD937 del sottotenente Oscar Mathews Hedley, precipitato in mare alle 9.26 (per altra fonte, subito prima del lancio dei siluri) con la morte dell’intero equipaggio di quattro uomini. Anche un Beaufighter precipita, ma per avaria al motore. Da parte britannica verrà riferita della presenza di otto aerei dell’Asse sul cielo del convoglio, compresi alcuni Junkers Ju 88, dei quali uno viene rivendicato come abbattuto ed altri due come danneggiati; il tenente colonnello Gaine riferirà di essere stato inseguito da tre Ju 88.
Mentre il Brioni riesce ad evitare con la manovra tutti i siluri lanciati contro di esso, alle 9.20 lo Zara viene colpito da una delle armi, al centro, in posizione 33°10' N e 23°50' E.
La San Martino rimane ad assistere la nave danneggiata, prendendola a rimorchio alle 10.40, mentre il Brioni prosegue a tutta forza verso Tobruk (vi arriverà indenne alle 14.30, soltanto per esplodere poco dopo nel corso di un bombardamento aereo). Sempre da Tobruk esce anche la torpediniera Circe, per collaborare con la San Martino nei tentativi di salvare lo Zara; la torpediniera giunge sul posto alle 15.40 (secondo una fonte sarebbe stata brevemente dirottata sul posto anche la Fortunale, di scorta ad un altro convoglio, che però se ne sarebbe andata poco dopo non essendo necessaria la sua presenza). Sempre sotto buona protezione aerea, il rimorchio prosegue per alcune ore, ma alle 18, con lo Zara ormai del tutto ingovernabile, sempre più sbandato e sempre più basso sul mare, si rende necessario tagliare il cavo.
L’agonia dello Zara si conclude alle 22 (o 22.15), quando l’incrociatore ausiliario affonda in posizione 32°10' N e 23°50' E (o 32°37' N e 23°50' E), un centinaio di miglia a nord di Tobruk (per altra fonte, ad una cinquantina di miglia da tale porto). San Martino e Circe recuperano l’intero equipaggio ad eccezione di quattro uomini, rimasti vittime dell’esplosione del siluro.
Dall’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale risultano dispersi in Mediterraneo centrale, in data 2 novembre 1942, due membri dell’equipaggio della San Martino: il marinaio cannoniere Gaetano Cavalli, 20 anni, da Rodi Garganico, ed il marinaio Giuseppe De Pietro, 19 anni, da Catania. È probabile che siano rimasti uccisi nel corso dell’attacco aereo sul convoglio, sebbene la storia ufficiale dell’USMM, nel descrivere l’attacco, non faccia menzione di danni o perdite sulla San Martino.
3 novembre 1942
San Martino e Circe, con a bordo i naufraghi dello Zara, raggiungono Tobruk alle 9.
La San Martino con colorazione mimetica, nel novembre 1942 (Coll. Franco Bargoni, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
Incaricata dello sgombero degli uffici ed archivi del Comando Marina di Tobruk, in corso di evacuazione dinanzi all’avanzata britannica seguita alla vittoria ad El Alamein, la San Martino salpa da Tobruk con a bordo il relativo materiale alle otto del mattino, diretta a Tripoli.
13 novembre 1942
Sosta a Bengasi da mezzogiorno alle due del pomeriggio, poi prosegue per Tripoli.
15 novembre 1942
Arriva a Tripoli alle 7.45.
29 novembre 1942
La San Martino viene lievemente danneggiata da un attacco aereo mentre si trova ormeggiata in un porto della Libia. Rimane ucciso il marinaio fuochista Mario Pernice, 23 anni, da Civitavecchia, che sarà decorato alla memoria con la Croce di Guerra al Valor Militare, mentre rimane gravemente ferito il sottocapo segnalatore ecogoniometrista Vittorio De Spirito, 20 anni, da Napoli, che subisce l’amputazione di entrambe le gambe (sarà decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: "Imbarcato su unità dislocata in A.S., durante violento bombardamento aereo diurno rimaneva gravemente ferito. Sottoposto all’amputazione di entrambi gli arti inferiori, esprimeva al comandante il rammarico di non poter più tornare a bordo ed incitava i compagni d’arme a combattere con tenacia acciocché la sua nave riuscisse sempre vittoriosa. Esempio mirabile di alte virtù militari").
3 dicembre 1942
Il marinaio motorista Giorgio Faccin, 22 anni, da Trissino, rimane mortalmente ferito al suo posto di combattimento sulla San Martino, durante un bombardamento aereo su Tripoli. Morirà per le ferite il 19 dicembre; alla sua memoria verrà conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Imbarcato su silurante sottoposta a violento bombardamento aereo, noncurante del pericolo si recava al posto di combattimento, e rimaneva gravemente ferito. Trasportato in ospedale manteneva magnifica serenità d’animo incitando i compagni a tener alto lo spirito guerriero di tutto l’equipaggio. Spirava poi dicendosi felice di aver sacrificato la vita alla Patria".
4 dicembre 1942
La situazione in Libia sta ormai precipitando: con le truppe dell’Asse in ritirata dopo la sconfitta ad El Alamein, si prepara già l’abbandono della Tripolitania.
Alle 17.05, quattro ore e mezza dopo la partenza, l’Aretusa avvista verso il mare aperto dei razzi rossi, segnale di soccorso che indica la presenza di un aereo sinistrato: direttasi sul punto da cui provengono, alle 17.25 la torpediniera vi trova un canotto di gomma con due avieri britannici, che vengono presi prigionieri.
Alle 19.50 la San Martino lascia la scorta.
31 dicembre 1942
Alle 8.30 la San Martino, uscita da Tripoli, assume la scorta del trasporto militare tedesco KT 2, proveniente da Sfax e diretto appunto a Tripoli, dove giunge alle 15.40. La San Martino ne lascia la scorta alle 15.25, quando ormai è in vista della destinazione, e si reca incontro al piroscafo Zenobia Martini, proveniente da Palermo e diretto anch’esso a Tripoli; ne assume la scorta alle 16.25, giungendo con esso in porto alle 18.15.
19 gennaio 1943
Alle 00.30 la San Martino (tenente di vascello Enrico Vaccaro, caposcorta) salpa da Tripoli insieme alla cannoniera-cacciasommergibili Eso (tenente di vascello di complemento Antonino Carfì) per scortare a Trapani il piroscafo frigorifero Edda, carico di 1500 tonnellate di materiale vario. È in corso lo sgombero del capoluogo libico, che cadrà in mano all’VIII Armata britannica di lì a pochi giorni.
Alle 8.45, all’altezza di Zuara, il convoglio, che procede a sette nodi, raggiunge e supera il rimorchiatore d’altura Ciclope (sottotenente di vascello Felice Maresca), che sta trainando due grossi pontoni ed è seguito dal motopeschereccio La Vittoria. Il convoglio è pedinato da ricognitori britannici, mentre della scorta aerea promessa dal Comando di Tripoli non vi è traccia, nonostante le ripetute richieste radio del caposcorta Vaccaro.
Alle 16.50, al largo di Gerba, il sommergibile britannico Unbroken (tenente di vascello Alastair Campbell Gillespie Mars) avvista alberature e fumo sei miglia a sud, su rilevamento 150°, e presto giunge ad avvistare le tre navi del convoglio – stimando però, erroneamente, che l’Edda sia un trasporto truppe sovraccarico con 5000 uomini a bordo, tanto pieno di uomini e basso sull’acqua che il mare mosso basterebbe da solo a farlo affondare –, che gli stanno inconsapevolmente venendo incontro, e modifica la propria posizione in modo da renderla favorevole all’attacco una volta che il convoglio si sarà avvicinato a sufficienza; poi rimane in silenziosa attesa. Alle 17.48, in posizione 33°33' N e 11°20' E (a 6 miglia per 130° da Ras Turgheness sull’isola di Djerba; le fonti italiane danno invece le coordinate 33°45' N e 11°12' E), l’Unbroken lancia quattro siluri contro l’Edda (la cui velocità ha stimato in otto nodi), da 1370 metri. Una delle armi, avente il giroscopio difettoso, assume una traiettoria circolare, mancando il bersaglio e rischiando anzi di colpire il sommergibile stesso (secondo la storia ufficiale dell’USMM, l’Edda l’avrebbe invece evitata con la manovra); un’altra, però, colpisce l’Edda sul lato dritto. Il piroscafo inizia ad appopparsi e sbandare sulla dritta, imbarcando acqua, mentre l’equipaggio lo abbandona sulle lance.
San Martino ed Eso danno immediatamente la caccia all’attaccante (Mars scrive nel giornale di bordo che il contrattacco della scorta, iniziato dieci minuti dopo il lancio, è stato “leggero”, con il lancio di sette bombe di profondità singole nell’arco di dodici minuti, nessuna delle quali esplosa vicina); dopo un’ora la San Martino lascia l’Eso a proseguire la caccia e si avvicina al Ciclope, cui ordina di passare al La Vittoria il cavo di rimorchio dei pontoni e di prendere invece a rimorchio l’Edda, che non sembra in procinto di affondare (per altra versione, inizialmente la San Martino stessa avrebbe preso a rimorchio l’Edda), ordinando al contempo all’equipaggio del piroscafo di tornare a bordo.
Alle 21.30 l’Edda riesce a rimettere in moto le macchine, che riescono a funzionare a bassa andatura, rimanendo a rimorchio del Ciclope. Dieci minuti più tardi, però, ha inizio una serie di attacchi di aerosiluranti decollati da Malta, che si protrarranno fino alle 00.30 del 20 gennaio. Alle 21.54 gli aerei lanciano tre bengala, che si accendono illuminando chiaramente le sagome delle navi italiane: ora i velivoli vedono i loro bersagli, e possono attaccare.
La San Martino riesce ad evitare diversi siluri con manovre ad alta velocità, ma alle 21.42 l’Eso, pur avendo mollato i rimorchi all’accensione dei primi bengala, viene centrato ed affondato da un siluro in posizione 33°26' N e 11°06' E, ed alle 22 viene colpito anche l’Edda, in posizione 33°44' N e 11°11' E (al largo di Capo Turgoeness). Colpito da un siluro sul lato dritto, il piroscafo inizia subito ad appopparsi rapidamente, inducendo il Ciclope a mollare i cavi di rimorchio ed iniziare a girargli intorno; alle 22.01 la San Martino, pur essendo impegnata a schivare i siluri – gliene vengono lanciati contro tre in pochissimo tempo –, riesce a coprire l’Edda con una cortina nebbiogena, ma ciò non vale ad impedire che il trasporto venga colpito da un secondo siluro, stavolta in corrispondenza della stiva numero 6, sul lato sinistro, e poi anche da una bomba, sempre sul lato sinistro. Abbandonato dall’equipaggio, l’Edda si capovolge ed affonda alle 23.10 nel punto 33°45’ N e 11°12’ E, a quattro miglia per 115° da Ras Turgheness ed una decina di miglia a sudest di Djerba.
I naufraghi delle due navi (69 dell’Edda, sul quale non ci sono state vittime, e 75 dell’Eso, su 99 uomini che ne formavano l’equipaggio) vengono soccorsi dal Ciclope e dal motopeschereccio Ardito.
20 gennaio 1943
La San Martino si trattiene in zona fino alle 8.30 in cerca di eventuali altri naufraghi. Raggiunge poi Sfax, dove già sono arrivati Ciclope e La Vittoria, entro le 14.30.
Vista di poppa della San Martino, probabilmente nel 1942-1943 (da www.kreiser.unoforum.pro) |
La San Martino partecipa ad un’esercitazione al largo di Pola insieme alla torpediniera Rosolino Pilo, al sommergibile Luigi Settembrini (capitano d corvetta Domenico Romano) ed ai rimorchiatori militari Marittimo e N 90.
7 maggio 1943
La San Martino partecipa ad un’esercitazione ecogoniometrica al largo di Pola insieme al sommergibile Serpente (capitano di corvetta Ugo Gelli), alla cannoniera Aurora ed ai rimorchiatori militari Parenzo e N 90.
10 maggio 1943
La San Martino partecipa ad un’esercitazione al largo di Pola (zona A/2, delimitata dai punti 44°46.8' N e 13°37.5' E, 44°50' N e 13°33.5' E, 44°52.5' N e 13°46' E e 44°55' N e 13°42' E) insieme al Settembrini.
Giugno 1943
Conclusasi in maggio la campagna nordafricana con la resa delle ultime truppe dell’Asse in Tunisia, la San Martino viene scelta per essere trasferita in Egeo per sostituire il cacciatorpediniere tedesco Hermes, lungamente impiegato in quel teatro ma perduto in Tunisia durante una missione di trasporto truppe negli ultimi giorni della guerra in Africa; tuttavia, il trasferimento dev’essere rimandato fino a metà luglio a causa di danni alle turbine riscontrati durante una navigazione di prova.
14 luglio 1943
La San Martino effettua esercitazioni ecogoniometriche al largo di Pola insieme al sommergibile Vettor Pisani (capitano di corvetta Mario Resio), alla cannoniera Aurora ed al rimorchiatore militare N 90.
17 luglio 1943
Altra esercitazione ecogoniometrica al largo di Pola, insieme al sommergibile Serpente (capitano di corvetta Raffaello Allegri), alla cannoniera Aurora ed ai rimorchiatori Marettimo e N 90.
31 luglio 1943
La San Martino scorta la nave cisterna Annarella da Patrasso al Pireo. Il convoglio viene attaccato con bombe da quattro aerei, ma la pronta ed intensa reazione da parte delle due navi li costringe a battere in ritirata senza aver colpito alcunché.
2 agosto 1943
La San Martino ed il cacciatorpediniere Euro scortano il piroscafo Re Alessandro dal Pireo a Rodi.
Settembre 1943
La San Martino fa parte della XVI Squadriglia Torpediniere, alle dipendenze del Comando Militare Marittimo "Morea" (con sede a Patrasso), insieme alle similari Solferino, Castelfidardo, Calatafimi e Monzambano.
(g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net) |
L’infausta data dell’8 settembre 1943 colse la San Martino al Pireo, al comando del capitano di corvetta Umberto Manacorda, 29 anni, da Roma. Erano tante le navi italiane che affollavano quel giorno il principale porto greco: oltre alla San Martino c’erano un’altra torpediniera, la Calatafimi; due cacciatorpediniere, Turbine e Francesco Crispi; un incrociatore ausiliario, il Francesco Morosini; una motosilurante, la MS 42; otto motovelieri e tre motovedette del locale gruppo antisommergibili; otto dragamine ausiliari; tre navi ausiliarie; le navi mercantili Adriana, Ascianghi, Arezzo, Celeno, Città di Savona, Pier Luigi, Salvatore, Tarquinia, Vesta. Per ridurre i danni in caso di bombardamento aereo, le navi erano diradate nei vari ormeggi in giro per il porto.
Al Pireo, o più precisamente ad Atene, aveva sede il Comando Gruppo Navale Egeo Settentrionale (Marisudest), il cui comando era ricoperto, al momento dell’armistizio, dal capitano di fregata (facente funzioni di capitano di vascello) Umberto Del Grande. Al Pireo si trovava un Comando Marina italiano che tuttavia, essendo situato in territorio sotto controllo tedesco, fungeva piuttosto da ufficio di collegamento con i Comandi della Kriegsmarine in Egeo, ed era infatti denominato Maricolleg Pireo. In questa composita struttura mista italo-tedesca il capitano di fregata Del Grande, oltre che comandante di Marisudest, era anche capo di Stato Maggiore italiano del comandante delle forze navali tedesche nell’Egeo (Admiral Ägäis, incarico ricoperto all’epoca dal viceammiraglio Werner Lange, che aveva il suo quartier generale ad Atene). Le navi italiane alle dipendenze di Del Grande erano da questi impiegate in base agli ordini ricevuti dall’ammiraglio tedesco. Anche la centrale comunicazioni del Pireo era in mano tedesca: tutte le comunicazioni dirette dall’Italia a Marisudest e Maricolleg passavano prima per l’alleato teutonico.
In seguito alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, la “penetrazione” tedesca nelle strutture di comando italiane si era andata intensificando: sia a Marisudest che a Maricolleg Pireo erano giunti ufficiali e personale della Kriegsmarine, con la scusa di un miglioramento della collaborazione italo-tedesca. In realtà gli alti comandi tedeschi, prevedendo che la caduta di Mussolini preludesse ad un tentativo da parte italiana di uscire da quella guerra ormai perduta, stavano già preparandosi al momento in cui la defezione italiana si sarebbe concretizzata: e con quel personale approntavano i nuovi comandi tedeschi che, al momento opportuno, avrebbero sostituito quelli italiani.
Dato tutto ciò, la situazione al Pireo all’indomani dell’armistizio si rivelò particolarmente difficile per i Comandi italiani, che di fatto avevano tedeschi tutt’intorno ed anche in mezzo a loro.
Con la centrale delle comunicazioni in mano tedesca, fu il responsabile del Comando Militare Marittimo Grecia Occidentale (Marimorea, con sede a Patrasso), ammiraglio di divisione Giuseppe Lombardi, ad informare il capitano di fregata Del Grande dell’avvenuto armistizio, la sera dell’8 settembre, chiedendogli altresì di darne immediatamente notizia al generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell’11a Armata (con quartier generale ad Atene) da cui dipendevano tutte le truppe d’occupazione italiane in Grecia.
Vecchiarelli, però, sapeva già dell’armistizio: fu proprio lui, anzi, a confermare ufficialmente la notizia a Del Grande alle 20.30 di quella sera, aggiungendo che da Roma era stato ordinato che in caso di ostilità da parte tedesca le navi in mare avrebbero dovuto raggiungere un porto del Sud Italia, mentre quelle in avaria si sarebbero dovute autoaffondare.
Di conseguenza, Marisudest ordinò subito a tutte le navi di approntare le macchine al moto ma di tenersi anche pronte all’autoaffondamento; dopo di che Del Grande riunì in consiglio di guerra i suoi ufficiali superiori: il comandante in seconda di Marisudest, capitano di fregata Ferdinando Calda; il capo dell’ufficio operazioni, capitano di fregata Lanfranco Lanfranchi; ed il capo dell’Ufficio Recuperi Medio Oriente (avente sede ad Atene e subordinato a Marisudest per gli aspetti disciplinari), maggiore del Genio Navale Guglielmo Giani. I quattro ufficiali dovettero riconoscere che la tardiva comunicazione dell’armistizio rendeva impossibile un’azione a sorpresa volta a trasferire le navi di Marisudest in un porto italiano, e che con il porto in mano tedesca la loro fuga dal Pireo sarebbe stata possibile soltanto attraverso un’azione di forza che avrebbe necessitato del supporto delle truppe del Regio Esercito. L’organizzazione delle operazioni di autoaffondamento venne affidata al maggiore Giani.
Al momento dell’annuncio dell’armistizio, il comandante Manacorda si trovava ad Atene, alla sede di Marisudest, per riferire sullo stato della sua nave, che si trovava in avaria; tornato precipitosamente al Pireo e rientrato a bordo, fece predisporre le cariche esplosive per un eventuale autoaffondamento.
Ogni via di fuga era preclusa: le navi italiane erano tenute sotto tiro dalle batterie costiere tedesche, ed il posamine ausiliario Drache aveva posato un campo minato davanti al porto. Qualora qualche unità fosse riuscita a guadagnare egualmente il mare aperto, venne ammonito, sarebbe stata attaccata dai velivoli della Luftwaffe dislocati nelle basi di Atene.
Ad Atene, il generale Vecchiarelli aveva intavolato negoziati con i comandi tedeschi in Grecia; ritenendo che la «netta inferiorità di armamento» delle sue truppe avrebbe portato, in caso di resistenza armata alle pressioni tedesche, ad un inutile spargimento di sangue, nelle prime ore del 9 settembre il comandante dell’11a Armata ordinò a tutte le sue truppe di consegnare le armi – salvo quelle individuali – ai tedeschi, credendo alle promesse tedesche di rimpatriare le truppe italiane, che sarebbero state sostituite da reparti della Wehrmacht nel loro compito di occupazione della Grecia. (Promessa ben presto infranta: tutti gli italiani, Vecchiarelli compreso, finirono invece in prigionia in Germania). In armonia con le sue decisioni di rinuncia alla resistenza e di consegna delle armi, Vecchiarelli ordinò di sospendere i preparativi per la partenza delle navi italiane al Pireo.
Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre, intanto, un rappresentante dell’ammiraglio Lange si era recato sia alla sede di Maricolleg Pireo che a bordo di ciascuna nave italiana presente in porto, comunicando che l’imboccatura del porto era stata minata e sbarrata, e che contro qualsiasi nave che avesse tentato di partire sarebbe stata usata la forza. Truppe corazzate tedesche, nel frattempo, avevano completamente circondato il Pireo.
Il capitano di fregata Del Grande si incontrò per due volte con l’ammiraglio Lange, che gli chiese di cedere le navi alla Kriegsmarine, ottenendone un rifiuto; infine, alle due di notte del 9 settembre, Del Grande fu “invitato” ad impedire ogni sabotaggio delle sue navi ed a schierarsi con la Germania. Il comandante di Marisudest tenne il generale Vecchiarelli al corrente di questi incontri, ed alla fine quest’ultimo gli inviò un ordine scritto definitivo circa l’atteggiamento da assumere nei confronti dei tedeschi: siccome gli accordi presi con i Comandi tedeschi prevedevano la cessione alla Wehrmacht di tutte le armi in dotazione alle forze armate italiane in Grecia, anche le navi da guerra avrebbero dovuto essere consegnate intatte. A Del Grande non rimase che distruggere tutti i documenti segreti ed organizzare la cessione delle navi «nella forma meno umiliante per la Marina e per il personale imbarcato».
A questo proposito, venne deciso che la consegna di ogni unità non sarebbe avvenuta direttamente tra il comandante ed i tedeschi, bensì dapprima tra il comandante ed un ufficiale subordinato, e poi tra quest’ultimo ed i tedeschi; che gli equipaggi italiani avrebbero potuto tenere le armi individuali, e che la bandiera italiana sarebbe stata ammainata soltanto dopo lo sbarco degli equipaggi. Ogni atto di sabotaggio era proibito.
La mesta cerimonia ebbe termine entro mezzogiorno del 9 settembre 1943; la San Martino venne presa in consegna dalla prima compagnia del battaglione Küstenjäger del reggimento Brandenburger, al comando del capitano Armin Kuhlmann.
L’equipaggio della San Martino, sbarcato al Pireo, venne inizialmente trattenuto in loco insieme agli equipaggi delle altre unità. Nei giorni seguenti ebbe inizio il trasferimento verso i campi di prigionia del Reich del personale di Marina destinato a terra e di quello imbarcato sulle navi mercantili, con la falsa promessa del rimpatrio in Italia; non pochi marinai, diffidando – a ragione – delle promesse tedesche, riuscirono a fuggire prima della partenza, trovando rifugio presso famiglie greche od unendosi alla Resistenza ellenica. Nonostante le pressioni tedesche per la continuazione della guerra a fianco dell’Asse, la quasi totalità del personale italiano rimase fedele al governo legittimo. Il 19 settembre venne arrestato anche il capitano di fregata Del Grande.
Gli equipaggi delle navi da guerra, compreso quello della San Martino, rimasero invece in un primo momento al Pireo, in quanto era intenzione dei tedeschi di trattenerli, forse per tornare ad armare le unità ex italiane per le quali vi era penuria di personale tedesco. Il 14 ottobre 1943, tuttavia, venne deciso che al Pireo sarebbero rimasti soltanto una settantina di specialisti, che avrebbero dovuto aiutare il personale della Kriegsmarine a familiarizzare con le navi italiane; gli altri sarebbero partiti a loro volta per la prigionia in Germania. Insieme ad essi rimasero in un primo momento al Pireo anche cinque ufficiali, tra cui il capitano di fregata Calda ed il maggiore Giani, ed una ventina di uomini di Marina Pireo; ma il 1° ottobre vennero arrestati anche Calda e Giani.
Gli specialisti rimasti al Pireo furono sottoposti ad un’intensa campagna propagandistica, volta a spingerli ad aderire alla causa tedesca, che vide la partecipazione di quattro ufficiali italiani passati con i tedeschi (tra di essi il capitano di fregata Luigi Pilosio, già comandante di un gruppo di batterie della Marina a Creta); ma tutti o quasi tutti rimasero fermi nel loro rifiuto.
Secondo fonte non verificata, alcuni marinai italiani avrebbero continuato a far parte degli equipaggi delle navi catturate anche sotto bandiera tedesca, per convizione o per costrizione. Erminio Bagnasco, nel libro "In guerra sul mare", scrive che «risulterebbe che, per poter armare rapidamente (…) le (…) siluranti italiane (Turbine, Calatafimi ecc.) di cui erano venuti in possesso in Grecia nei giorni dell’armistizio, i tedeschi siano riusciti, mediante minacce e promesse, a convincere alcuni elementi “chiave” degli equipaggi originari, soprattutto personale di macchina, a rimanere a bordo delle navi prestando la loro opera come “volontari” nella Kriegsmarine. Non sono stati rintracciati precisi elementi in merito, se non generiche testimonianze».
La maggior parte del personale della Regia Marina catturato in Grecia all’indomani dell’armistizio fu inviato inizialmente nello Stalag III A di Luckenwalde, a sud di Berlino, dove gli italiani – circa 15.000, tra personale della Marina, dell’Esercito e dell’Aeronautica – giunsero in treno tra il 29 settembre ed il 3 ottobre 1943. Quello di Luckenwalde era un campo di smistamento, e per la maggior parte degli italiani che vi passarono rappresentò soltanto una tappa del loro viaggio verso la prigionia: qui ciascuno ricevette il proprio numero di matricola; poi, tra l’11 ed il 17 ottobre, i più furono trasferiti a Tarnapol (odierna Ternopil, in Ucraina). Alcuni dei prigionieri accettarono qui di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, e furono pertanto trasferiti a Deblin-Irena (Polonia), poi a Przemyśl (ancora in Polonia) ed infine a Norimberga, da dove poterono rientrare in Italia nel giugno 1944.
La prima notte dopo il loro arrivo a Bad Sulza, i prigionieri di Marina italiani giunti dal Pireo la passarono all’addiaccio; il mattino successivo ricevettero delle patate cotte per il pasto, dopo di che vennero radunati, ed un ufficiale che parlava italiano pose loro una scelta: restare nel campo di prigionia; arruolarsi nella Wehrmacht; o lavorare nelle fabbriche. La maggioranza scelse la terza opzione; i prigionieri vennero pertanto divisi in gruppi ed inviati a lavorare in fabbrica in varie località della Turingia, attività che continuarono a svolgere fino alla loro liberazione, nelle ultime settimane della guerra.
Il 29 marzo 1945 lo Stalag IX C venne evacuato dinanzi all’avanzata statunitense: parte dei prigionieri furono costretti a marciare per quattro settimane prima di essere liberati da truppe statunitense. I prigionieri rimasti al campo furono liberati dalla 6a Divisione corazzata statunitense (facente parte della 3a Armata del generale Patton) l’11 aprile 1945.
Altri prigionieri vennero trasferiti da Bad Sulza nello Stalag XI B di Fallingbostel, in Bassa Sassonia. Questo campo era sorto nel 1937 come villaggio di baracche destinate ad alloggiare gli operai impegnati nella costruzione della nuova base militare di Bergen; nel settembre 1939, con lo scoppio della guerra, le baracche erano state circondate con del filo spinato e la struttura era stata così trasformata un campo di prigionia. Primi “ospiti”, verso la fine del 1939, erano stati prigionieri polacchi, seguiti nel 1940 da belgi e francesi; entro la fine del 1940 i prigionieri dello Stalag XI B erano già diventati 40.000, di cui però soltanto 2500 erano effettivamente alloggiati nel campo principale, mentre gli altri erano dispersi nei numerosi sottocapi di lavoro (Arbeitskommando) sparpagliati nella regione circostante. All’apice dell’attività, sarebbero stati ben 1500 gli Arbeitskommando dipendenti dallo Stalag XI B: in parte i prigionieri erano adibiti a lavori agricoli, in parte nell’industria, comprese – benché fosse vietato dalla Convenzione di Ginevra – le fabbriche di munizioni. Il servizio di guardia era espletato dai militi del Landesschützen-Bataillon 461, appartenenti alle classi anziane o comunque considerati inadatti al servizio di prima linea. Nel luglio del 1941, con l’invasione dell’Unione Sovietica, era sorto un secondo campo denominato Stalag XI D (o Stalag 321), destinato esclusivamente ai prigionieri sovietici: questi ultimi, dei quali era pianificato lo sterminio, non disponevano di baracche, e dovevano dormire in buche scavate nel terreno, ricevendo al contempo razioni di cibo ampiamente insufficienti anche per la sola sopravvivenza (queste furono leggermente aumentate a inizio 1942, in modo da mettere i prigionieri almeno in condizione di lavorare, ma rimasero ancora largamente inferiori al necessario, ed i prigionieri continuarono a morire, adesso di sfinimento). Ben presto i sovietici iniziarono a morire a decine al giorno, di fame, di malattie e, più tardi, anche di freddo. Altri 10.000 prigionieri sovietici vennero imprigionati nello Stalag XI B, dove nel novembre 1941 vennero finalmente costruite alcune baracche. Sul finire del 1941 gli ufficiali superiori, i funzionari del Partito Comunista e gli ebrei vennero separati dagli altri prigionieri e trasferiti nei campi di concentramento di Sachsenhausen e Neuengamme, dove furono uccisi mediante fucilazione o nelle camere a gas; in novembre scoppiò in entrambi gli Stalag di Fallingbostel un’epidemia di tifo, protrattasi fino al febbraio 1942, che incrementò il già elevato tasso di mortalità dei prigionieri sovietici: fino ad un centinaio di morti al giorno, di fame e di freddo, durante l’inverno 1941-1942. Nel luglio 1942 lo Stalag XI D venne soppresso, ed i prigionieri superstiti furono trasferiti nello Stalag XI D.
Questa era la situazione quando sul finire del 1943 arrivò a Fallingbostel un nuovo numeroso gruppo di prigionieri, gli “internati militari” italiani: sottoposti a maltrattamenti, ebbero il secondo più elevato tasso di mortalità tra i vari gruppi di prigionieri del campo, superato soltanto da quello dei sovietici. I malati ed i moribondi erano confinati in una baracca a parte: “Alla mattina v'era sempre qualcuno che purtroppo non si muoveva più. Il poveretto veniva prEso, messo in una “finta cassa” da morto e quindi trasportato fuori con un carretto. Distante dalle baracche c'era una grande fossa, la cassa veniva posta su un binario, quindi il fondo della stessa veniva sfilato, il corpo cadeva e subito gli veniva versata sopra della calce in polvere. Il carretto tornava con la cassa, vuota, pronta per un altro cadavere, e così via”.
Gli italiani furono alloggiati in grandi baracche suddivise in dodici locali, ognuno dei quali conteneva dodici letti a castello a tre piani, senza materassi: si dormiva sul legno. Il pasto giornaliero consisteva in un mestolo di acqua e rape, un chilo di pane ed un etto di margarina da dividere in otto.
Poco dopo l’arrivo al campo, i prigionieri furono arringati da un gerarca fascista che promise loro il pronto rimpatrio se avessero aderito alla Repubblica Sociale Italiana, e pronosticò loro vita dura e fame se avessero rifiutato. Nondimeno, furono pochi coloro che aderirono alla RSI.
A metà 1944 i prigionieri di Fallingbostel erano 98.380: 25.277 sovietici e 79.928 di altre nazionalità, in maggioranza distaccati nei vari Arbeitskommando. Nel settembre 1944 venne creato, nell’area in cui era esistito lo Stalag XI D, un nuovo campo di prigionia, lo Stalag 357 (qui trasferito da Thorn, in Polonia): alla sua costruzione furono adibiti i prigionieri italiani, mentre gli “ospiti” furono principalmente soldati del Commonwealth, ma anche sovietici, jugoslavi, francesi, polacchi e statunitensi. In tutto 17.000 uomini, con una media di 400 per baracca (ma con cuccette soltanto per 150 a baracca), in condizioni dunque di notevole sovraffollamento; a inizio 1945 la carenza di vitto e medicinali venne aggravata dall’arrivo di centinaia di prigionieri statunitensi catturati nelle Ardenne, che dovettero essere alloggiati in tende. Nell’aprile 1945, dinanzi all’avanzata Alleata, 12.000 prigionieri dello Stalag 357 in buone condizioni fisiche vennero evacuati verso nordest con marce forzate, in colonne di 2000 uomini; giunti a Gresse, ad est dell’Elba, dopo una marcia di dieci giorni, furono qui mitragliati da caccia britannici che li avevano scambiati per truppe tedesche, con diverse decine di morti. Un sergente della RAF convinse l’ormai ex comandante del campo 357, il colonnello Hermann Ostmann, a mandarlo verso ovest per prendere contatto con le truppe britanniche, in modo da arrendersi a queste ultime invece che ai sovietici; così avvenne il 3 maggio 1945. I prigionieri rimasti a Fallingbostel, in tutto 17.000, vennero liberati ancor prima: il 16 aprile 1945, infatti, lo Squadrone "B" dell’11° Reggimento Ussari e lo squadrone da ricognizione dell’8° Reggimento Ussari britannici liberarono lo Stalag XI B e lo Stalag 357: proprio la sezione del campo in cui erano rinchiusi gli italiani fu la prima ad essere raggiunta dai reparti britannici al loro arrivo.
Nel dopoguerra, con un tocco di giustizia poetica, l’ex Stalag XI B venne adibito dai britannici all’internamento dei membri dell’ormai disciolto Partito Nazista, prima di essere impiegato come campo profughi.
In totale, circa 30.000 prigionieri morirono nei campi di Fallingbostel durante la seconda guerra mondiale: nella quasi totalità si trattava di prigionieri sovietici, mentre 734 erano di altre nazionalità, cioè italiani, francesi, polacchi, britannici, belgi, statunitensi, jugoslavi, olandesi, sudafricani, slovacchi e canadesi. Tutti i prigionieri sovietici, e 273 di quelli di altre nazionalità, riposano oggi nel “Cimitero dei Senza Nome” di Oerbke.
Questa fu dunque la sorte dei sottufficiali e marinai italiani catturati al Pireo. Quanto agli ufficiali, separati dalla “bassa forza” a Bad Sulza e trasferiti più ad est, una volta giunti a Leopoli vennero perquisiti ed alloggiati nella cittadella, dove rimasero fino all’inizio del gennaio 1944, tranne gli ufficiali superiori, i quali furono trasferiti tra fine ottobre e inizio novembre a Tschenstochau (Polonia). Nel campo, destinato ai soli ufficiali (ve n’erano 3500, con 150 soldati) vennero organizzati dei corsi di lingue, ingegneria, architettura e diritto e conferenze a tema scientifico o letterario; con i libri in possesso degli ufficiali venne creata una biblioteca. Gli ufficiali prigionieri elessero come loro fiduciario ed anziano del campo (in sostanza, comandante dei prigionieri) il tenente di vascello Giuseppe Brignole, già comandante della Calatafimi, Medaglia d’Oro al Valor Militare per aver attaccato con la sua nave, sola, una preponderante formazione navale francese che stava bombardando Genova, nel giugno 1940.
Vi furono varie visite di ufficiali italiani che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana (dapprima il colonnello degli alpini Bracco e successivamente il maggiore Marcello Vaccari, anch’egli degli alpini, ex prefetto di Napoli), i quali invitarono i loro “colleghi” a fare altrettanto (Vaccari, per la verità, li esortò a rientrare comunque in Italia e poi decidere il da farsi una volta rimpatriati, il che portò alla sua destituzione da parte tedesca); solo il 12 % accettò. Il 2 gennaio gli ufficiali in servizio permanente effettivo, censiti dal comando tedesco, vennero separati dagli altri e trasferiti nel campo di Ari Lager a Deblin, distaccamento dello Stalag 307 di Deblin Irina, a sud di Varsavia (tra di essi era anche il tenente di vascello Brignole, che anche nel nuovo campo mantenne l’incarico di “Anziano” fino all’agosto 1944, quando lo cedette al colonnello Angiolini, da poco arrivato da un altro campo). A Deblin Irina si trovavano circa 6000 ufficiali prigionieri, 1250 erano ad Ari Lager; sia a Leopoli che a Deblin i prigionieri erano sistemati in caserme in muratura con riscaldamento sufficiente, ma questa era l’unica nota positiva. Il cibo infatti scarseggiava, a svantaggio soprattutto di giovani e malati, che deperivano senza possibilità di recupero; i medicinali erano completamente assenti, e sia all’arrivo che durante la permanenza al campo gli ufficiali furono più volte perquisiti dalla Gestapo, venendo denudati, tenuti all’aperto nella neve per diverse ore (con temperature di 5-10 gradi sotto zero), e sistematicamente derubati di ogni oggetto di valore o di utilità (macchine fotografiche, binocoli, strumenti nautici, vestiario, posate che sembravano d’argento, denaro e oggetti preziosi): persino le fodere delle giacche e le suole delle scarpe venivano scucite, nell’eventualità che i prigionieri vi avessero nascosto qualche oggetto di valore. Anche in queste condizioni, vennero organizzate conferenze culturali e patriottiche ed intrattenimenti musicali, per tenere alto il morale.
La popolazione polacca cercò generosamente di aiutare i prigionieri italiani, anche a rischio della vita: nonostante la presenza di sentinelle tedesche armate che colpivano chi si avvicinava col calcio del fucile, civili polacchi gettarono in più occasioni pane e mele (ed anche sigarette) ai prigionieri, sia lungo la ferrovia percorsa dai treni che li trasportavano (un treno, grazie alla cessione di vestiario da parte degli ufficiali e di tabacco da parte dei polacchi, poté essere interamente rifornito di provviste dopo tre giorni in cui ne ne erano state fornite dai tedeschi), sia per le vie di Leopoli che all’interno del campo di Deblin.
Gli ufficiali rimasero prigionieri a Deblin dal 5 gennaio al 12 marzo 1944, quando iniziò il loro trasferimento nello Stalag X-B di Sandbostel, in Germania (precisamente, in Bassa Sassonia), che fu completato il 19 marzo. Un giovane guardiamarina, avendo tentato di nascondersi in una soffitta per scappare, venne scoperto, picchiato, privato delle scarpe, spogliato e rivestito con inadeguati abiti di tela (una volta giunto a Sandbostel, fu condannato a due settimane di carcere duro in isolamento, a pane e acqua). Tutti gli ufficiali, prima della partenza, furono denudati e tenuti in questo stato (e senza cibo) per 12 ore in locali non riscaldati, a temperatura di –10° C. Di nuovo furono derubati di tutti gli oggetti ritenuti “non leciti”, comprese cinghie per pantaloni, oggetti da toilette, coltelli sia da tasca sia da tavola, rasoi di sicurezza, penne stilografiche e sigarette; poi, dopo essere stati tenuti ad aspettare a lungo sotto la pioggia battente, furono chiusi in carri bestiame privi di illuminazione e riscaldamento e sporchi per i precedenti trasporti, e portati così – i vagoni venivano aperti una sola volta al giorno, per la distribuzione del cibo – fino a Bremerforde, a 14 km dallo Stalag X-B, dopo di che dovettero percorrere a piedi, sotto la pioggia, l’ultimo tratto del percorso.
Una volta nel nuovo campo, gli ufficiali vennero nuovamente ispezionati, indi sistemati provvisoriamente in baracche senza infissi, riscaldamento, illuminazione, posti letto od anche solo paglia; dopo la disinfezione (i bagagli, aperti per questa operazione, vennero poi gettati alla rinfusa nel piazzale, sotto la neve ed esposti al vento) ed una doccia, furono trasferiti in nuove baracche non compartimentate, con posti letto ad alveare, dov’erano ammassati mediamente in 280 in una baracca di 22 metri per 11. Poco cibo, molti pidocchi e temperature rigide debilitarono di molto i prigionieri; nell’aprile 1944 i malati in gravi condizioni erano almeno un migliaio, con un elevato tasso di mortalità. Le sentinelle del campo avevano il grilletto facile, e tra marzo e agosto almeno cinque ufficiali caddero sotto i loro colpi.
Nel maggio 1944 il campo fu visitato da funzionari della Croce Rossa Italiana (dottor De Luca e signora Muzi Falcone), il che portò ad un lieve miglioramento delle condizioni di vita (venne distribuita un po’ di paglia per i giacigli); in agosto, tuttavia, quando gli ufficiali si rifiutarono di lavorare per i tedeschi (in base alla Convenzione di Ginevra, gli ufficiali prigionieri non potevano essere costretti a lavorare: ma le autorità tedesche avevano classificato gli italiani «intenati militari», anziché «prigionieri di guerra», proprio per eludere tali regole), le condizioni peggiorarono nuovamente.
Nell’estate-autunno del 1944 l’erogazione dell’acqua, non potabile, venne ridotta a poche ore al giorno, talvolta poche decine di minuti (in dodici mesi i prigionieri poterono fare una sola doccia calda di cinque minuti); tutte le coperte sane vennero confiscate per essere distribuite alle truppe territoriali tedesche, recentemente formate. La razione di cibo non forniva neanche le calorie necessarie per un uomo a completo riposo, provocando molte malattie da denutrizione (a seguito delle proteste, la razione fu portata a 500 g di patate al giorno, ma in agosto, dopo il rifiuto di lavorare, fu nuovamente diminuita). La quantità di cibo disponibile veniva leggermente incrementata con le verdure di orticelli coltivati dagli internati e dai pacchi di viveri inviati dalle famiglie in Italia.
A fine agosto 1944 scoppiò un’epidemia di tipo petecchiale; il campo fu posto in quarantena, ma non vennero forniti medicinali. Vitto e clima provocavano un’elevata incidenza di infezioni intestinali, e le latrine erano mal fatte e del tutto insufficienti (una ogni 50 uomini); si diffuse anche la tubercolosi.
Il servizio postale era lentissimo, a causa dei tempi della censura (in media occorrevano 40 giorni perché una lettera dall’Italia settentrionale fosse consegnata, ma si arrivava anche a 75); molte lettere venivano distrutte senza neanche essere state controllate, per ridurre il lavoro dei censori. Non era possibile scrivere ad autorità diplomatiche, consolari o governative, né a parenti in Germania che non fossero di primo grado, e men che meno alla Croce Rossa Internazionale, con la quale era proibito ogni contatto. I prigionieri potevano ricevere pacchi dalle famiglie (non più di due al mese, per un peso complessivo di 9 kg), ma il loro invio dall’Italia settentrionale (sotto controllo tedesco) subiva frequenti sospensioni, mentre le spedizioni dall’Italia meridionale (sotto controllo angloamericano) divennero possibili solo a partire dal novembre 1944; in tutto, soltanto un terzo dei pacchi spediti raggiunse i destinatari. Il Servizio Assistenza Internati della Repubblica Sociale Italiana inviò a sua volta delle provviste; complessivamente, durante la permanenza al campo ogni internato ricevette da tale Servizio 3 kg di riso, 2 kg di galletta, due scatole di latte condensato, 500 grammi di zucchero ed altrettanti di marmellata. Verso la fine del 1944 la tabella alimentare subì forti riduzioni, di 500-600 grammi giornalieri. Per cuocere il cibo c’era un pentolino ogni sei uomini e poco carbone, la cui razione giornaliera fu ridotta nell’autunno del 1944 a 676 grammi a persona (compreso anche quello destinato al riscaldamento).
Esistevano all’interno dei campi degli spacci che vendevano matite, dentifricio, lamette da barba, ma non generi alimentari; i prigionieri potevano farvi compere con il Lagergeld, una valuta che aveva corso esclusivamente all’interno dei campi di prigionia, della quale ricevevano periodicamente somme che variavano a seconda del grado.
Alla fine del gennaio 1945 la maggior parte degli ufficiali fu trasferita nello Stalag X-D di Wietzendorf, sempre in Bassa Sassonia, dove si trovavano in tutto circa 3000 ufficiali italiani, 700 dei quali troppo debilitati per poter essere trasferiti. Un migliaio di ufficiali, ritenuti irriducibili, vennero invece inviati nello Stalag XI-B di Fallingbostel (dove fu di nuovo il tenente di vascello Brignole a ricevere la carica di fiduciario, mentre quella di anziano fu ricoperta dal tenente colonnello Alberto Guzzinati). Il 15 febbraio 1945 una nuova ingiunzione di lavorare, con la minaccia in caso contrario della condanna ai lavori forzati, fu respinta; venne progettato di trasferire allora i prigionieri nel campo di concentramenti di Buchenwald, ma fortunatamente tale piano non poté essere messo in atto poiché le truppe tedesche nella regione, compreso il campo di Fallingbostel, furono rinchiuse in una sacca dalle forze Alleate, e nel pomeriggio del 16 aprile 1945 lo Stalag XI-B venne liberato da reparti della 15ª divisione corazzata britannica. Tre giorni prima era stato liberato anche lo Stalag X-D di Wietzendorf.
I prigionieri italiani liberati dai campi della Germania settentrionale furono concentrati dai britannici nel campo di Munsterlager, nella zona di Hannover (dove di nuovo il comando dei prigionieri andò al tenente di vascello Brignole: questi li divise in nove compagnie e ripristinò molte abitudini militari, tra cui adunate generali, rapporto giornaliero, controllo della libera uscita, servizio di guardia ai cancelli, alza e ammaina bandiera e punizioni per le infrazioni disciplinari), da dove il 30 agosto 1945 ebbe inizio il viaggio di rimpatrio, prima su camion fino a Brunswich, poi in treno fino in Italia.
Il 25 settembre 1943 il comandante Manacorda, avendo rifiutato la collaborazione con i tedeschi, venne deportato in Germania: prima a Bad Sulza, in Turingia, poi a Leopoli, in Polonia, e successivamente a Czestochowa, sempre in Polonia. Il 10 agosto 1944 venne trasferito a Norimberga, da dove in seguito venne nuovamente trasferito ad Altengrabow, in Sassonia, dove fu liberato dall’Armata Rossa il 4 maggio 1945. I sovietici lo trasferirono a Bad Belzing e poi a Strausberg, nel Brandeburgo, prima di trasferirlo nella zona sotto controllo britannico il successivo 25 luglio; il 15 agosto 1945, infine, l’ex comandante della San Martino fu finalmente in grado di tornare in Italia.
Il direttore di tiro della San Martino, guardiamarina di complemento Salvatore Rinaldi, 23 anni, da Napoli, venne a sua volta deportato il 27 settembre 1943: i suoi spostamenti iniziali seguirono quelli del comandante Manacorda, passando per Bad Sulza e Leopoli, ma poi le strade dei due ufficiali si divisero; il 10 gennaio 1944 Rinaldi venne trasferito all’Oflag 83 di Wietzendorf, nella Bassa Sassonia, dove rimase fino alla sua liberazione da parte delle truppe britanniche, il 16 aprile 1945. Rientrò in Italia il successivo 3 settembre.
Ma non tutti gli uomini della San Martino fecero ritorno. Il sottocapo meccanico Mario Fionda, da Cassino, appena diciottenne, scomparve al Pireo quello stesso 9 settembre 1943: come per innumerevoli altri militari italiani semplicemente svaniti nel caos di quei confusi e tragici giorni, niente è dato sapere sulla sua sorte. Forse, sfuggito alla cattura, si unì alla Resistenza greca e morì combattendo senza che nessuno conoscesse la sua vera identità; forse trovò la morte nel tentativo di tornare fortunosamente in Italia; forse rimase vittima di una rappresaglia tedesca senza mai essere identificato, mille sono le possibilità e zero le certezze.
Altrettanto oscure sono le circostanze della morte del marinaio cannoniere Ugo Ciulla, di diciannove anni, morto in Italia il 28 dicembre 1943. Forse si trovava a casa in licenza alla proclamazione dell’armistizio, e rimase vittima di qualche scontro tra partigiani e nazifascisti, o di una rappresaglia, o di un bombardamento.
Nota è, invece, la sorte del sottocapo cannoniere Clelio Poli, ventuno anni nel 1943, da Castiglione dei Pepoli: sottrattosi alla cattura, si diede alla macchia e dalla Grecia raggiunse rocambolescamente la Jugoslavia, dove si unì ai partigiani di Tito, arruolandosi nell’agosto 1944 nella Divisione partigiana "Italia", formata da militari italiani, oltre cinquemila, che come lui erano sfuggiti alla cattura dopo l’8 settembre e che avevano deciso di prendere le armi contro i tedeschi. In Jugoslavia morì combattendo il 18 maggio 1945, ma per decenni in Italia venne considerato come disperso dal 9 settembre 1943, proprio come Mario Fionda; soltanto nel 1978 fu possibile ricostruire la sua storia.
Clelio Poli (da www.storiaememoriadibologna.it) |
Il marinaio cannoniere Nazzareno Cavallin, 23 anni, da Bassano del Grappa, spirò il 6 febbraio 1945 a Waltershausen, in Turingia.
Gli ultimi due morirono quando già la guerra era finita, ma ancora persistevano il caos ed i pericoli di un Paese distrutto e allo sbando, occupato da eserciti stranieri e dove ancora troppo facile era morire per fame, per un incidente, per un equivoco con qualche soldato dal grilletto facile. Il marinaio fuochista Vittorio Crosta, 22 anni, da Busto Arsizio, venne dichiarato disperso in prigionia in Germania il 10 giugno 1945; ed il marinaio fuochista Eridano Massa, 24 anni, da Genova, morì a Waltershausen l’11 agosto 1945.
Incorporata nella Kriegsmarine, armata da un equipaggio tedesco e ribattezzata TA 18 (dove TA stava per "Torpedoboot Ausland", ossia torpediniera di origine straniera), l’ormai ex San Martino entrò in servizio sotto bandiera tedesca il 28 ottobre 1943 e venne assegnata insieme a TA 14, TA 15, TA 16, TA 17 e TA 19 (rispettivamente ex Turbine, Calatafimi, Castelfidardo, Crispi e Solferino) alla neocostituita 9. Torpedobootsflottille (9a Flottiglia Torpediniere, al comando del capitano di fregata Walter Riede), creata ad Atene il 20 settembre 1943 (per altra fonte, il 4 ottobre al Pireo) e composta interamente da unità ex italiane. Le navi di questa flottiglia vennero destinate a compiti di scorta, trasporto truppe e prigionieri, posa di mine e supporto a sbarchi nell’Egeo. L’armamento della TA 17 fu sottoposto ad alcune modifiche, con l’eliminazione di uno dei cannoni da 102 mm ed il potenziamento dell’armamento contraereo con l’installazione di una mitragliera pesante singola SK C/30 da 37/80 mm; venne inoltre installato un radar Fu.Mo. 28. Al termine dei lavori, il dislocamento risultò essere di 925 tonnellate standard e 1160 a pieno carico; la velocità massima era ormai ridotta a 25 nodi dall’usura e dal tempo, l’autonomia a seicento miglia a venti nodi. Completati i lavori, la TA 17 partecipò alla prima esercitazione con la flottiglia il 4 novembre 1943, ed il 6 novembre venne dichiarata operativa.
Dopo qualche settimana ci fu una serie di cambiamenti nell’assegnazione dei nomi; il 16 novembre la San Martino – che si trovava allora in cantiere a Salamina – venne rinominata TA 17, mentre la sigla TA 18 andò alla Solferino, che cedette la sua di TA 19 alla Calatafimi, ed il Crispi divenne TA 15 in sua vece. Il motivo di questo contorto cambio di nomi, che ha comprensibilmente generato non poca confusione circa l’impiego iniziale di queste unità, non è molto chiaro.
Primo comandante della TA 17 fu il tenente di vascello Helmuth Düvelius, che nel giugno 1944 avrebbe ceduto il posto al parigrado Winfried Winkelmann.
Una delle conseguenze più amare della cattura al Pireo ed a Creta delle siluranti italiane dell’Egeo fu che queste navi, consegnate intatte e riarmate da equipaggi tedeschi, poterono essere subito utilizzate contro i loro ex proprietari: le guarnigioni italiane delle isole dell’Egeo, che tra il settembre ed il novembre 1943 vennero eliminate, una dopo l’altra, dalle forze tedesche.
Il presidio che resisté più a lungo e con più accanimento fu quello di Lero, ove aveva sede la più grande base navale italiana dell’Egeo: difesa da 8300 italiani (per la maggior parte marinai), al comando del contrammiraglio Luigi Mascherpa, e da 4000 britannici sbarcati dopo l’armistizio al comando del generale di brigata Robert Tilney, l’isola resisté a quasi cinquanta giorni di pesanti bombardamenti da parte della Luftwaffe, durante i quali venne affondato anche l’Euro, ultimo cacciatorpediniere rimasto in mani italiane nell’Egeo.
Il 12 novembre, infine, ebbe inizio la battaglia finale: mezzi navali sbarcarono truppe tedesche sulle coste di Lero, mentre aerei della Luftwaffe vi paracadutavano centinaia di paracadutisti. Fu proprio la TA 17 (alla sua prima missione sotto bandiera tedesca), insieme a TA 14, TA 15 e TA 19 (nonché alla motosilurante S 55, ad una quindicina di cacciasommergibili della 21. Unterseebootsjägd-Flottille del capitano di corvetta Günther Brandt, ad una dozzina di motodragamine della 12. Räumsboots-Flottille del tenente di vascello Luitwin Mallmann ed al posamine ausiliario Drache, quest’ultimo con ruolo di nave comando), a scortare il convoglio di navi mercantili e motozattere che trasportò e sbarcò a Lero, tra l’11 ed il 12 novembre, le truppe della 22a Divisione Fanteria tedesca (Kampfgruppe "Müller", dal nome del suo comandante, generale Friedrich-Wilhelm Müller). Per la neonata 9. Torpedobootsflottille, al comando del capitano di fregata Riede, questa rappresentò la prima missione operativa: l’attacco contro Lero, pronto già da metà ottobre, era anzi stato rimandato proprio nell’attesa dell’approntamento delle siluranti italiane catturate al Pireo, che sarebbero divenute operative a partire dal 5 novembre.
Le piccole unità con a bordo le truppe del Kampfgruppe "Müller" si trasferirono dalla Grecia continentale alle isole di Coo e Calino, punti di partenza dell’assalto contro Lero, muovendosi di giorno, con la scorta delle torpediniere e delle altre unità sopra citate ed una nutrita copertura aerea di caccia della Luftwaffe; il trasferimento avvenne a tappe, passando per le isole di Nasso, Amorgo, Levita e Stampalia. Entro il 10 novembre, tutte le unità erano concentrate a Coo e Calino.
La flottiglia d’invasione era suddivisa in due gruppi: quello occidentale, partito da Coo (conquistata dai tedeschi il 4 ottobre), era composta dalle motozattere F 123, F 129 e F 331 e da due piccoli mezzi da sbarco per la fanteria, scortati dai cacciasommergibili UJ 2101 e UJ 2102 e dal motodragamine R 210 (il tutto sotto il comando del tenente di vascello Hansjürgen Weissenborn); quello orientale, partito in parte da Coo ed in parte da Calino (occupata dai tedeschi il 7 ottobre), era formato dalle motozattere F 370 e F 497, da due mezzi da sbarco per fanteria e da dodici imbarcazioni minori, scortate dal cacciasommergibili UJ 2110 e dal motodragamine R 195 (al comando del tenente di vascello Kampen). La TA 17 e le altre "Torpedoboote Ausland" della 9a Flottiglia dovevano fornire supporto ad entrambi i gruppi, che complessivamente trasportavano circa 1600 soldati del II Battaglione del 16° Reggimento Fanteria (Infanterie-Regiment 16) e del II Battaglione del 65° Reggimento Granatieri (Grenadier-Regiment 65), divisi equamente tra i due gruppi.
Aerei britannici avvistarono ambedue i gruppi già all’1.20 del 12 novembre, ma i Comandi britannici del Levante non si resero conto di ciò che quell’avvistamento significava, nonostante i decrittatori di “ULTRA” avessero già intercettato e decifrato, nei giorni precedenti, comunicazioni tedesche da cui risultava che l’attacco contro Lero era previsto per il 12 novembre. Quelle piccole e poco armate unità, e con esse le vetuste "Torpedoboote Ausland" incaricate di appoggiarle, sarebbero state agevolmente annientate anche solo da una squadriglia di cacciatorpediniere, ma i Comandi britannici, timorosi di incappare nei campi minati (che già avevano causato dolorose perdite nelle settimane precedenti), non ne mandarono neanche uno. L’operazione tedesca poté così procedere senza incontrare alcun contrasto; la scorta del convoglietto occidentale, anzi, s’imbatté “per strada” nel piccolo dragamine britannico BYMS 72 e lo catturò, mentre alle 3.30 del 12 novembre la TA 14 incontrò per caso la motosilurante britannica MTB 307 (in navigazione da Castelrosso a Lero) al largo di Calino, aprendo il fuoco contro di essa e mettendola in fuga. Alle 4.45 tutte le motosiluranti britanniche di base ad Alinda presero il mare a tutta forza per intercettare un piroscafo che era stato avvistato 4-5 miglia a sudest di Lero; non lo trovarono, ma più tardi, mentre dirigevano verso nord, avvistarono al largo di Farmaco due cacciatorpediniere che ritennero erroneamente britannici (erano, in realtà, tedeschi). Alle cinque del mattino la motolancia britannica ML 456, in pattugliamento ad est della baia di Alinda, avvistò il gruppo orientale e si avvicinò per scoprire di cosa si trattasse: constatato che si trattava di dieci mezzi da sbarco e due cacciatorpediniere, andò all’attacco, ma fu respinta e danneggiata dall’R 195, ripiegando nella baia di Alinda ove sbarcò alcuni feriti.
I primi sbarchi avvennero alle 4.30 del mattino del 12, nella baia di Palma ed a Pasta di Sopra, sulla costa nordorientale di Lero; successivamente altre truppe vennero sbarcate nella baia di Pandeli, vicino alla città di Lero.
Il primo tentativo di sbarco del gruppo occidentale, alle 5.43, venne respinto dal tiro delle batterie costiere italiane (costringendo anche ad annullare contestualmente un pianificato lancio di paracadutisti nella stessa zona); per ordine del comandante della 9a Flottiglia, TA 14 e TA 15 guidarono un secondo tentativo di sbarco alle 12.45, preceduto da altri bombardamenti da parte di Jukers Ju 87 “Stuka” contro le batterie costiere italiane all’estremità sudoccidentale dell’isola, ma anche questo venne annullato quando il tiro delle batterie costiere iniziò a mettere colpi a segno su mezzi da sbarco. Nel pomeriggio il gruppo occidentale tentò ancora una volta di sbarcare le proprie truppe, stavolta con l’appoggio di tutte e quattro le torpediniere della 9a Flottiglia (che cannoneggiarono le batterie italiane con le loro artiglierie), ma anche questo tentativo fu respinto, e la TA 17 incassò un colpo da 120 o 152 mm in un locale caldaie, che causò due vittime (secondo il diario operativo della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine, vennero colpite sia la TA 17 che la TA 18: la prima ebbe i cannoni posti fuori uso dal tiro italiano, mentre la seconda dovette ridurre la velocità a dodici nodi a causa di un colpo in caldaia); anche la F 370 venne immobilizzata e dovette essere presa a rimorchio. Le torpediniere vennero poi inviate a Sira per rifornirsi di carburante. Venne notato da parte tedesca che “sfortunatamente le macchine delle torpediniere non sono all’altezza delle necessità dell’operazione, pertanto le torpediniere devono essere utilizzate principalmente come trasporti veloci”.
Meglio andò al gruppo orientale: nonostante la reazione delle batterie costiere italiane ed i contrattacchi delle truppe britanniche, i mezzi di quel gruppo riuscirono a sbarcare abbastanza truppe da creare una testa di sbarco, poi rinforzata col lancio di un battaglione di paracadutisti.
Il 14 novembre le quattro torpediniere della 9a Flottiglia vennero rimandate al Pireo, dove giunsero a mezzogiorno, in ritardo sulla tabella di marcia per via delle avverse condizioni del mare; tutte e quattro le unità risultarono fuori uso a causa dei danni causati dalle batterie di Lero e di quelli provocati dallo stato del mare, ma l’ammiraglio Lange ordinò al comandante della flottiglia “In relazione alla situazione dell’operazione Taifun, la flottiglia deve entrare in azione. Tentate di ripartire dal Pireo il prima possibile”. Venne deciso che TA 16 e TA 17 sarebbero salpate a mezzanotte con 160 uomini del Reggimento "Brandenburg", ma la partenza venne rimandata; successivamente venne deciso di inviare un intero battaglione "Brandenburg", imbarcandolo sulla TA 17, che sarebbe partita da sola, sul Drache e sul motodragamine R 211, che sarebbero salpati insieme, mentre la TA 16 sarebbe rimasta al Pireo per lavori.
La storia ufficiale della Marina italiana (volume USMM "Attività dopo l’armistizio – Tomo II – Avvenimenti in Egeo") menziona ripetutamente i cacciatorpediniere ex italiani nella sua descrizione della battaglia di Lero:
– a pagina 224, il volume scrive che i primi colpi di cannone sparati dalle difese costiere di Lero furono tirati alle prime luci dell’alba del 12, verso ponente, dalle batterie Ducci (sita sul Monte Cazzuni ed armata con quattro pezzi da 152/50 mm) e San Giorgio (ubicata sul Monte Scumbarda e munita di tre cannoni da 152/40 mm), le quali misero così in fuga un convoglio formato da «circa 6 Mz. [motozattere] scortate da due Ct., probabilmente gli ex italiani catturati al Pireo, che dirigevano verso l’isola da Sudovest», mentre i primi colpi sparati nella zona di levante furono esplosi dalla batteria PL 127 (situata sul Monte Maraviglia ed armata con quattro cannoni da 90/53 mm) che, dopo aver ricevuto dal Comando britannico un allarme relativo a forze provenienti da est, aveva avvistato a circa 15 miglia di distanza una formazione composta da due cacciatorpediniere ed una ventina di motozattere, e di aver poi avvistato alcune altre motozattere a sole 3-4 miglia verso Santa Marina, sparando una salva in tale direzione «più che altro per richiamare l’attenzione delle batterie navali del settore»;
Lero cadde il 16 novembre, dopo quattro giorni di accaniti combattimenti; la notizia della resa, giunta al Pireo in tarda serata, portò all’annullamento della prevista partenza di TA 17, Drache e R 211 con il battaglione "Brandenburg", mentre TA 17 e R 211 furono fatti partire dal Pireo alle 23.40 con materiale e rifornimenti per Lero ed Amorgo.
La sera del 17 novembre la TA 17 lasciò Lero con a bordo un gruppo di feriti e prigionieri da trasportare al Pireo; all’1.06 del 18 novembre la torpediniera, che procedeva a 17 nodi, venne avvistata alla luce di due bengala lanciati da un aereo dal sommergibile britannico Sportsman (tenente di vascello Richard Gatehouse) mentre superava l’isola di Donoussa. Lo Sportsman, che prima di avvistare il “cacciatorpediniere” tedesco aveva rilevato i rumori delle sue Turbine su rilevamento 145°, s’immerse all’1.09, ed all’1.20, in posizione 37°14' N e 25°40' E (a nordest di Nasso), lanciò tre siluri contro di esso – stimandone la rotta come 285° e la velocità come venti nodi – da 2750 metri, per poi scendere subito in profondità. Nessuna delle armi andò a segno, e la TA 17 reagì con lanci di bombe di profondità: due all’1.26, altre due all’1.27, poi una quinta lanciata singolarmente, nessuna delle quali esplose vicina allo Sportsman. La torpediniera ridusse la velocità e girò in cerchio per una decina di minuti, poi riprese la navigazione.
Queste notizie, ricavate da Uboat.net e dal già citato diario della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine, contrastano però con quelle riportate dall’Historisches Marinearchiv, secondo cui la TA 17 sarebbe stata in riparazione in cantiere dal 15 novembre al 16 dicembre 1943 per i danni causati dal colpo a bordo ricevuto durante la battaglia di Lero.
Completati i lavori, tra il 21 ed il 22 dicembre 1943 la TA 17 trasportò truppe dal Pireo a Suda, dopo di che il 22-23 dicembre scortò i piroscafi Tanais e Livenza da Heraklion al Pireo.
Tra il 31 dicembre 1943 ed il 2 gennaio 1944, insieme a TA 14, TA 15 e S 54, la TA 17 scortò la motonave Leda (ex italiana Leopardi) dal Pireo a Rodi e poi da Rodi al Pireo. Tra l’11 ed il 12 gennaio la TA 17 scortò il posamine Drache, con a bordo truppe, dal Pireo a Milo; durante questa missione TA 17 e Drache aprirono erroneamente il fuoco contro degli aerei tedeschi. Il 15 e 16 gennaio la TA 17 scortò il Drache in una missione di posa di mine al largo di Antimilo, ed il 23 e 24 gennaio, insieme alla TA 16, lo scortò di nuovo in un’altra missione di posa di mine nel passaggio tra Keo, Citno, Sifanto e Serifo (dopo un primo tentativo interrotto il 22 gennaio).
La San Martino sotto bandiera tedesca come TA 17 (da www.kreiser.unoforum.pro) |
Alle 2.40 del 26, dopo rilevazioni idrofoniche (alle 2.20, impulsi sonar verso nordovest) ed al radar (echi a 10.000 metri di distanza, captati alle 2.30 nella stessa direzione degli impulsi sonar, nella quale erano anche stati captati rumori di macchine), il sommergibile britannico Torbay (tenente di vascello Robert Julian Clutterbuck) avvistò il convoglio (identificato come una motonave di medie dimensioni e due cacciatorpediniere) in avvicinamento da nordovest su rotta 270°, a sud di Capo Papas, ed alle 2.52 – restando in superficie – lanciò cinque siluri da 3200 metri di distanza, a 4,5 miglia per 215° da Capo Papas (a sud delle isole di Amorgos e Nicaria), per poi immergersi. Nessun siluro andò a segno, perché Clutterbuck aveva sottostimato la velocità dei suoi bersagli (le armi, infatti, passarono loro a poppa); non vi fu contrattacco, perché subito prima dell’attacco del Torbay si era verificata sulla TA 14 un’avaria che l’aveva completamente privata dell’elettricità, mettendo così fuori uso il sonar nonché la bussola, la radio e la centrale di direzione del tiro.
Subito dopo il piccolo convoglio divenne oggetto delle attenzioni di un altro sommergibile: l’olandese Dolfijn, del capitano di corvetta Henri Max Louis Frédéric Emile van Oostrom Soede, in agguato venti miglia a sudest del Torbay. Questi ottenne un contatto radar alle 3.57, a 7300 metri per 300°, in posizione 37°21' N e 26°17' E (a sud dell’isola di Icaria ed al largo di Amorgos), ed avvistò la Leda e la sua scorta un minuto dopo. Rimanendo in superficie, il Dolfijn manovrò per tentare di attaccare, ma alle quattro del mattino la Leda accostò verso di lui, il che fece sì che la TA 14, che si trovava sulla dritta del convoglio, si venisse a trovare molto più vicina al battello olandese: questi ridusse la velocità e mantenne la prua sul cacciatorpediniere, sperando di non essere visto, ma alle 4.05 una vedetta della TA 14 lo avvistò. La nave – che in quel momento aveva ancora tutti gli apparati elettrici fuori uso – accelerò, manovrò per speronare il sommergibile olandese ed aprì il fuoco con le mitragliere (da soli 640 metri di distanza) in direzione del Dolfijn, che fu costretto ad immergersi ed allontanarsi senza aver potuto attaccare. Una volta che il Dolfijn si fu immerso, tuttavia, non ci fu alcun contrattacco: avendo sia il sonar che la radio fuori uso, infatti, la TA 14 non poteva né localizzare il sommergibile immerso per attaccarlo con le bombe di profondità, né informare le altre navi della sua presenza. Il convoglio giunse indenne a Lero alle 6 del 26 gennaio, e dal 26 al 31 gennaio la TA 17 fu sottoposta a lavori di riparazione e potenziamento dell’armamento contraereo con l’aggiunta di una mitragliera quadrinata Flakvierling da 20 mm.
Tra il 2 ed il 5 febbraio, la TA 17 trasportò truppe dal Pireo a Creta e fece poi ritorno al Pireo. Pochi giorni dopo, la TA 17 fu spettatrice della più grande tragedia navale mai verificatasi nel Mediterraneo.
Il 7 febbraio la TA 17, insieme alla TA 16 ed alla TA 19, fu inviata a Rodi per assumere la scorta del piroscafo Oria, in procinto di partire per il Pireo. L’Oria era un vecchio e piccolo piroscafo ex norvegese al servizio della Germania: a bordo di questa nave, stipati all’inverosimile nelle stive ed anche in coperta e vicino al ponte, si trovavano 4233 prigionieri italiani, soldati della guarnigione di Rodi, catturati alla caduta dell’isola nel settembre 1943 ed ora in corso di trasferimento verso la Grecia continentale per essere avviati ai campi di prigionia in Germania. Li sorvegliava un gruppo di soldati tedeschi che lasciavano Rodi in licenza; questi ultimi, sistemati sul ponte principale, erano tutti in possesso di almeno un giubbotto salvagente (alcuni anche due), mentre i prigionieri ne erano tutti sprovvisti.
Il piroscafo e le tre torpediniere salparono da Rodi il mattino dell’8 febbraio, ma le condizioni del tempo e del mare, in progressivo peggioramento durante la giornata, li costrinsero a sostare quella sera a Portolago, nell’isola di Lero. Qui rimasero per tutta la giornata del 9 febbraio e fino alle otto del 10 febbraio, quando ripartirono. Tornato a Rodi alle 7 dell’11 febbraio, l’Oria vi sbarcò alcune decine di prigionieri, poi ripartì alle 17.40 sempre scortato da TA 16, TA 17 e TA 19. Adesso sull’Oria c’erano 4116 prigionieri italiani.
Per risparmiare carburante, il convoglio si mantenne sulla modesta velocità di sette nodi. Circa quattro ore dopo la partenza, le navi furono avvistate da aerei Alleati ed infruttuosamente attaccate con bombe e siluri, e successivamente la TA 17 ottenne un contatto sonar, che venne attaccato con bombe di profondità senza risultati apprezzabili. (Secondo una fonte, il sommergibile sarebbe stato l’olandese Dolfijn, che avrebbe infruttuosamente lanciato tre siluri contro l’Oria al largo di Stampalia; ma tale notizia si riferisce ad un attacco verficatosi il 31 gennaio 1944, mentre l’11 febbraio il Dolfijn si trovava in porto a Beirut). A partire dalle 22.30, le condizioni meteomarine ricominciarono a peggiorare, con vento da sud-sud-ovest forza 7 e mare forza 5, che resero difficoltosa la navigazione.
Alle sei del mattino del 12 febbraio, il convoglietto, giunto al largo di Amorgos, venne raggiunto da quattro bombardieri Junkers Ju 88 che ne assunsero la scorta aerea, dandosi il cambio ogni due ore. Il tempo andò ulteriormente peggiorando, con forte vento (forza 9-10, velocità compresa tra gli 88 ed i 102 km/h) e mare corrispondente al traverso con onde alte fino a nove metri, che causarono problemi alla TA 17 ed alla TA 19, che manifestarono ripetuti malfunzionamenti dei loro timoni. Molti prigionieri nelle stive dell’Oria iniziarono a soffrire di mal di mare, ma gli accessi al ponte di coperta erano stati bloccati dai tedeschi per evitare il rischio di una rivolta.
Nel pomeriggio le quattro navi passarono nello stretto tra le isole di Serifos e Kythnos.
Verso le 18, mentre le navi doppiavano Capo Sounion, vennero lanciati dei razzi bianchi per illuminare la costa sudorientale dell’Attica e la piccola isola rocciosa di Patroclos (Nisis Patroklou), in modo da vedere meglio; la costa e l’isolotto formavano un passaggio piuttosto ristretto ed insidioso, lungo due miglia e largo meno di un chilometro.
Per evitare d’incappare in una scogliera sommersa larga circa 150 metri, che si trovava nel passaggio, le navi assunsero una nuova rotta per nordovest, in modo da superare l’isolotto di Patroclos passandogli a ponente. La TA 19, caposcorta, comunicò via radio all’Oria la nuova rotta, ed il piroscafo accusò ricevuta, ma continuò a procedere verso gli scogli, nonostante le ripetute chiamate della torpediniera: l’equipaggio del mercantile, infatti, aveva scambiato Patroclos per un altro isolotto dall’aspetto simile, Phleva, che però si trovava una dozzina di miglia più a nord, e cercò di aggirarlo da est.
Il caposcorta ordinò allora di avvicinarsi all’Oria e lanciare dei razzi rossi per avvertirlo del pericolo, ma era troppo tardi. Alle 18.45 l’Oria cozzò contro la scogliera di Medina, in prossimità di Patroclos, e si spezzò in due, iniziando ad affondare rapidamente. Il troncone di prua del piroscafo, capovoltosi, continuò a galleggiare per diverse ore. A bordo del piroscafo dilagò il caos, i prigionieri intrappolati nelle stive non ebbero scampo mentre quelli in coperta, insieme ai soldati, cercarono salvezza gettandosi in mare, ma vennero rigettati dalle onde contro lo scafo o contro gli scogli, con esito spesso fatale. Il tentativo di calare una scialuppa fallì quando i tiranti si bloccarono e l’imbarcazione rimase appesa verticalmente per un’estremità, rovesciando i suoi occupanti in mare. Altri uomini cercarono di restare a bordo della nave, nella speranza che data la scarsa profondità del mare il relitto rimanesse in parte emergente e fosse possibile attendere che il mare si calmasse; ma vennero spazzati in mare dalle onde.
A causa del maltempo, la TA 17 e le altre due torpediniere, particolarmente instabili a causa del consumo del carburante, dovettero lasciare la zona senza riuscire a soccorrere alcun naufrago, dirigendo per il Pireo: prima ad andarsene fu la TA 19, a causa dei danni provocati dal mare, compresa una nuova avaria del timone che rischiò di mandarla sugli scogli; successivamente anche TA 17 e TA 16 dovettero battere in ritirata. Raggiunsero il Pireo verso mezzanotte, mentre alcune ore dopo uscirono da quel porto tre rimorchiatori italiani e due greci, che con l’assistenza di aerei si diressero sul luogo del disastro per tentare di prestare soccorso.
Dei 4213 uomini che si trovavano a bordo dell’Oria (4116 prigionieri italiani, 90 militari tedeschi e dodici marinai greci), i sopravvissuti non furono più di sessanta (tra i 21 ed i 49 italiani, sei tedeschi e cinque greci, tra cui il comandante), gettati dalle onde sulla vicina spiaggia o soccorsi l’indomani dai rimorchiatori italiani Titan e Vulkan, che aprirono un foro nella prua capovolta ed ancora affiorante dell’Oria, riuscendo così a salvare – a quaranta ore dall’affondamento – cinque prigionieri italiani che avevano trovato rifugio in un piccolo locale rimasto all’asciutto (nonché un sesto che era riuscito ad uscirne da solo, attraversando a nuoto degli altri compartimenti allagati fino a riemergere all’aperto). Oltre millecinquecento cadaveri vennero gettati a riva dalle onde e sepolti in un’enorme fossa comune, ma per cinque mesi i corpi avrebbero continuato a riemergere dal relitto. Morirono nel disastro 4088 prigionieri italiani, 84 militari tedeschi e 6 marinai greci.
Il 15 ed il 17 febbraio 1944 la TA 17 partecipò a due convogli per Creta che dovettero però interrompere la loro traversata. Il 19 febbraio salpò dal Pireo per scortare a Suda, via Milo, il piroscafo Lisa, ex italiano Livenza; ma il 22 febbraio il mercantile venne affondato da aerosiluranti britannici a nord di Heraklion. Dal 24 febbraio al 15 marzo la TA 17 fu in riparazione per danni alle macchine.
Alle 20 del 18 marzo la TA 17, insieme alla TA 16, ai cacciasommergibili UJ 2105 ed UJ 2106 ed ai motodragamine R 34 e R 210 (questi ultimi due rimorchiavano dei palloni di sbarramento), salpò dal Pireo per scortare a Suda il piroscafo Gertrud. Alle 5.50 del 19 marzo il convoglio fu avvistato dal sommergibile britannico Unswerving (tenente di vascello Michael Dent Tattersall), alla sua prima missione in Mediterraneo: Tattersall, che alle 5.45 aveva rilevato trasmissioni ASDIC su rilevamento 287° e due minuti dopo ben dodici idrovolanti Arado in ricerca antisommergibili, osservò che il mare era piatto ed il convoglio aveva rotta verso sud con la scorta aerea di un idrovolante Arado. Identificò correttamente il Gertrud, e la sua scorta come due torpediniere classe Solferino e due cacciasommergibili, che rimorchiavano dei palloni di sbarramento. Avvicinatosi a 3660 metri, alle 6.29 l’Unswerving lanciò quattro siluri contro il Gertrud in posizione 36°35' N e 23°15' E (a undici miglia per 110° da Monemvassia, una decina di miglia a nord-nord-est di Capo Maleas), mancando il bersaglio: due siluri passarono proprio sotto la TA 16, ma senza esplodere. La scorta avvistò le scie di tutti e quattro i siluri e la TA 17 contrattaccò con bombe di profondità (per altra fonte, fu la TA 16 a lanciarne quattro, senza però riuscire a stabilire un contatto con il sommergibile, mentre anche l’Arado sganciò delle bombe), senza arrecare danni all’Unswerving, frattanto sceso a 36 metri (per altra fonte il contrattacco gli avrebbe arrecato danni lievi, ma ciò contrasta con il giornale di bordo del sommergibile, da cui risulta che questi nemmeno si accorse del contrattacco, visto che Tattersall annotò che non c’era stato), dopo di che le navi giunsero a Suda alle 17. La TA 17 ne ripartì poco dopo scortando il piroscafo Anita, diretto al Pireo, dove giunse l’indomani.
Il 25 marzo la TA 17 trasportò truppe dal Pireo a Milo; il 26 marzo, alle quattro del mattino, lasciò Suda insieme a TA 16, R 34 e R 210, per scortare il Gertrud al Pireo. Durante il viaggio il convoglietto ebbe un nuovo incontro con l’Unswerving: avvistate dapprima le due torpediniere (alle 5.20, mentre doppiavano Capo Maleka; in precedenza aveva già rilevato alle 5.10 rumori di macchine e trasmissioni ASDIC su rilevamento 290°) e poi il Gertrud in uscita dalla baia di Suda (alle 5.22), in condizioni di mare calmo ma forte pioggia, il sommergibile britannico iniziò la manovra d’attacco alle 5.25, mentre torpediniere e dragamine si disponevano intorno al piroscafo a formare uno schermo protettivo; Tattersall avvistò in questo frangente numerosi idrovolanti, ma dato che stava piovendo, e la pioggia avrebbe impedito loro di vedere il suo sommergibile, si limitò ad ignorare la loro presenza. Alle 5.55 l’Unswerving lanciò quattro siluri – gli ultimi rimasti – da 1740 metri di distanza, in posizione 35°33' N e 24°18' E (o 35°40' N e 24°20' E). Di nuovo il bersaglio venne mancato (il Gertrud avvistò ed evitò due siluri; anche se Tattersall avvertì una detonazione alle 5.59 e scrisse nel giornale di bordo che il rumore delle macchine del bersaglio era cessato); alle 6.31 la TA 17 contrattaccò con dieci bombe di profondità (un contrattacco giudicato “debole” dal comandante avversario, che scrisse che le bombe esplosero piuttosto lontane), ma arrecando soltanto danni minori all’Unswerving, che si ritirò alla profondità di 36 metri. Le navi giunsero al Pireo alle 20.30.
Tra il 5 ed il 6 aprile la TA 17 scortò i piroscafi Sabine e Susanne dal Pireo a Suda, mentre l’8 aprile la TA 17 (capitano di corvetta Helmuth Duvelius), la TA 19 (capitano di corvetta Hans Dahmen) ed il posamine Drache (capitano di corvetta Joachim Wünning) posarono un campo minato in Mar Egeo, scampando ad un attacco aereo verificatosi durante la posa. Più tardi quello stesso giorno, la TA 17 salpò da Volo di scorta al piroscafo Claudia, con cui giunse a Lero il giorno seguente.
Il 12 aprile la TA 17 scortò il trasporto Anita da Rodi a Lero, insieme a TA 16 e TA 19; alle 15.45 di quel giorno, in posizione 36°34' N e 27°06' E, il convoglio venne avvistato dal sommergibile britannico Unsparing (tenente di vascello Aston Dalzell Piper), che alle 16.25 (in posizione 36°33' N e 27°02' E) lanciò quattro siluri da 2300 metri contro le navi tedesche (identificate come un mercantile scortato da tre cacciatorpediniere a due fumaioli, di cui uno classe Turbine in testa, uno classe Curtatone sul fianco sinistro ed uno non identificato sul fianco dritto, con almeno sei aerei in pattugliamento nelle vicinanze), che procedevano a 8 nodi su rotta 328°. Nessuno dei siluri andò a segno (alcuni mancarono di stretta misura la TA 19), anche se sull’Unsparing vennero avvertite tre esplosioni che vennero attribuite a siluri a segno; la scorta contrattaccò alle 16.29 con due bombe di profondità, che esplosero vicine al sommergibile, ed alle 16.32 con altre otto. Ulteriori otto bombe furono lanciate alle 16.55. Alle 17.32 l’Unsparing poté tornare a quota periscopica, constatando che il convoglio se n’era andato.
Il 13 aprile la TA 17 scortò il Claudia da Lero a Samo.
Il 16 aprile la TA 17, insieme alla TA 16 ed alla TA 19, fu inviata al largo dei Dardanelli per assumere la scorta della nave cisterna Bertha, da scortare al Pireo. Durante la navigazione verso i Dardanelli, all’1.17, la TA 19 avvistò scie di siluri a sud dell’isola di Samotracia. Le torpediniere raggiunsero la Bertha alle 4.30, ne assunsero la scorta e diressero per il Pireo, passando a nord di Samotracia nel timore che a sud vi fosse un sommergibile in agguato.
Alle 23.21 il sommergibile britannico Unruly (tenente di vascello John Paton Fyfe), in agguato in attesa del convoglio (del cui arrivo era stato preavvisato), avvistò le sagome oscurate della Bertha e delle torpediniere, in avvicinamento da nordest (aveva rilevato il rumore delle loro macchine già alle 23.16 su rilevamento 340°, accostando verso ovest per interporsi tra la terraferma ed i bersagli), ed accostò verso di esse per attaccare. Alle 23.25 l’Unruly era a proravia sinistra delle tre navi, e Fyfe vide che si trattava della Bertha e di due cacciatorpediniere, a tre quarti di prora sui due lati della cisterna. A causa del buio e della posizione sfavorevole del sommergibile (che si trovava verso il mare aperto rispetto al convoglio, così che le sagome delle navi si confondevano con la terraferma), il convoglio lo superò prima che questi potesse attaccare; nondimeno, Fyfe decise di tentare ugualmente la sorte ed alle 00.20 del 17 aprile, in posizione 38°02' N e 24°39' E (nel Canale di Doro), l’Unruly lanciò quattro siluri contro la nave cisterna da tre quarti di poppa (distanza 2750 metri), poi accostò per 360° e s’immerse. La TA 17, che procedeva in coda al convoglio, avvistò l’Unruly all’ultimo momento, dopo che aveva lanciato i siluri e subito prima che s’immergesse, ma non fece in tempo ad intervenire.
I siluri non andarono a segno; due mancarono di poco la TA 19, che procedeva in testa al convoglio e che reagì con un infruttuoso lancio di bombe di profondità, mentre gli altri le passarono a proravia. L’Unruly riemerse alle 00.52 e si ritirò verso nord. Le quattro navi raggiunsero il Pireo alle 6.30 del 17.
Il 24 aprile la TA 17 effettuò una serie di esercitazioni di tiro, di navigazione e di rimorchio, ed il 25 trasportò truppe dal Pireo a Santorini. Il 28 aprile 1944 la TA 17, insieme a TA 16 e TA 19, ai cacciasommergibili UJ 2101, UJ 2105, UJ 2106 e UJ 2110 (che rimorchiavano dei palloni frenati di sbarramento), al motodragamine R 210, all’avviso GK 92 e ad aerei, salpò da Candia scortando il piroscafo tedesco Lüneburg, diretto al Pireo (per altra fonte, invece, il convoglio sarebbe partito il 27 e sarebbe stato diretto dal Pireo a Candia). Le navi in partenza furono osservate, alle 12.30, dal sommergibile britannico Sportsman (tenente di vascello Richard Gatehouse), che aveva già osservato le unità di scorta locali radunarsi al largo di Capo Stavros per andare incontro al convoglio; la scorta era sul chi va là, lanciando bombe di profondità a scopo intimidatorio, ed il mare calmo rendeva più difficile avvicinarsi senza essere avvistati o localizzati al sonar. Gatehouse decise di non tentare di penetrare lo schermo protettivo, ma invece di attendere che il convoglio si avvicinasse, prevedendo un suo cambiamento di rotta; al calare delle distanze, il comandante britannico decise di allargare l’angolo tra la rotta dello Sportsman e quella del convoglio, ma poi cambiò idea. Raggiunta una posizione idonea al lancio, alle 16.34 lo Sportsman lanciò due siluri da 4600 metri di distanza, in posizione 35°28' N e 25°07' E, per poi scendere in profondità. Dai tubi lanciasiluri uscì una grossa bolla di lancio, che venne avvistata da uno dei velivoli della scorta aerea; l’aereo indicò le scie dei siluri alle navi aprendo il fuoco contro di esse con le mitragliatici.
Il Lüneburg accostò a sinistra per evitare i siluri, ma fu egualmente colpito da una delle armi, quattro minuti dopo il lancio (per altra fonte entrambi i siluri sarebbero esplosi sotto il suo scafo), ed affondò nel punto 35°26' N e 25°07' E, quattro miglia a nord di Iraklion, nonostante i tentativi di rimorchiarlo in porto. La scorta recuperò 124 superstiti, su un totale di 133 uomini imbarcati sul piroscafo.
Tra le 16.36 e le 16.46 la scorta effettuò due attacchi col lancio in totale di 18 bombe di profondità, lancio che risultò piuttosto accurato ma che non produsse danni allo Sportsman, che si ritirò indenne verso nord alla quota di 116 metri.
Tra il 5 ed il 6 maggio la TA 17 trasportò truppe dal Pireo a Lero, ed il 6 maggio TA 17, TA 16 e TA 19 salparono da Lero per scortare al Pireo il piroscafo tedesco Agathe. Alle 5.21 del 7 le quattro navi furono brevemente avvistate, nel Canale di Doro, dal sommergibile britannico Sickle (tenente di vascello James Ralph Drummond), che tuttavia le perse subito di vista a causa della nebbia; le navi giunsero al Pireo in giornata.
L’8 ed il 9 maggio 1944 TA 17 e TA 19 scortarono il Drache durante una missione di posa di un campo minato difensivo al largo del Pireo; le tre navi vennero attaccate da aerei Alleati con lancio di razzi, ma li respinsero con l’intenso fuoco del loro armamento contraereo. Tra il 15 ed il 16 maggio la TA 17 scortò il veliero greco Doxa dal Pireo a Lero e ritorno, mentre il 26 maggio partecipò ad un’esercitazione tattica notturna insieme a tre motosiluranti della 21. Schnellbootflottille.
La TA 17 fotografata da un’altra unità tedesca (da www.kreiser.unoforum.pro) |
All’alba del 1° giugno, il convoglio fu raggiunto anche dalla scorta aerea, composta da sei Junkers Ju 88 ed un Arado Ar 196. I comandi della Royal Air Force erano a conoscenza della navigazione del convoglio e del suo importante carico, grazie sia alle intercettazioni di messaggi tedeschi ad opera di “ULTRA”, sia ai rapporti della ricognizione aerea (le navi mercantili, infatti, avevano passato settimane ferme al Pireo, esposte alla ricognizione aerea britannica, in attesa che fosse disponibile un adeguato numero di navi per la scorta); per distruggerlo, misero insieme la più poderosa formazione aerea britannica creata per l’intercettazione di un convoglio nell’intera guerra del Mediterraneo: diciotto bombardieri leggeri Martin Baltimore del 15th e 454th Squadron della South African Air Force (SAAF), dodici bombardieri medi Martin B-26 “Marauder” del 24th Squadron della SAAF, ventiquattro cacciabombardieri Bristol Beaufighter del 227th, 252nd e 603rd Squadron RAF e 16th Squadron SAAF, tredici caccia Supermarine Spitfire del 94th e 213rd Squadron della RAF e quattro North American P-51 “Mustang” del 213rd Squadron RAF.
L’attacco fu lanciato in due ondate: la prima era composta dai Baltimore e dai Marauder, scortati dai Mustang e dagli Spitfire; questi aerei intercettarono il convoglio quando era a nord di Creta, a circa trenta miglia da Heraklion, e lo innaffiarono con una pioggia di bombe. Alcune di quelle sganciate dai Baltimore colpirono a poppa il Sabine, che procedeva in testa al convoglio; altre caddero intorno ai cacciasommergibili senza colpirli, mentre i Marauder mancarono il Sabine facendo cadere le loro bombe a prua. Un Baltimore del 454th Squadron venne abbattuto.
Cinque minuti più tardi sopraggiunse la seconda ondata, composta dai Beaufighter (guidati dal tenente colonnello Meharg del 252nd Squadron). L’attacco ai mercantili fu portato da otto Beaufighter del 252nd Squadron e da altrettanti del 603rd Squadron, mentre altri due velivoli del 252nd Squadron, insieme a quattro del 16th Squadron SAAF, avevano il compito di “sopprimere” la reazione delle armi contraeree delle navi; due Beaufighter del 227th Squadron, infine, avevano il compito di impegnare eventuali caccia di scorta. L’aereo del tenente colonnello Meharg fu il primo ad essere abbattuto dal tiro delle navi (sia Meharg che il suo navigatore sopravvissero e furono fatti prigionieri); analoga sorte ebbe un Beaufighter del 603rd Squadron, abbattuto con la morte di entrambi gli uomini dell’equipaggio (sergenti Ronald M. Atkinson e Dennis F. Parsons), mentre un terzo del 16th Squadron SAAF (capitano E. A. Barrett) fu danneggiato e costretto ad un atterraggio d’emergenza a Creta, ove il suo equipaggio fu fatto prigioniero. I due Beaufighter del 227th Squadron attaccarono gli Arado Ar 196: uno dei due (sergente F. G. W. Sheldrick) riuscì ad abbatterne uno, mentre l’altro fu danneggiato e precipitò sulla costa cretese, dove uno dei due uomini dell’equipaggio (tenente John W. A. Jones) fu fatto prigioniero mentre l’altro (tenente Ronald A. R. Wilson) trovò rifugio presso i partigiani greci.
Queste perdite furono ricompensate dagli ingenti danni inflitti al convoglio: il Sabine venne colpito ripetutamente ed incendiato; il Gertrud fu colpito nella sala macchine ed incendiato a sua volta; il Tanais fu anch’esso centrato (nell’opera morta) e danneggiato tanto seriamente che alcuni membri dell’equipaggio si gettarono in mare; il cacciasommergibili UJ 2105, incendiato, si capovolse ed affondò alle 19.20; il cacciasommergibili UJ 2101 fu a sua volta mortalmente danneggiato ed affondò alle 19.30; la TA 16 fu gravemente danneggiata e resa quasi ingovernabile; il motodragamine R 211 subì anch’esso danni.
Il Tanais e la TA 16 raggiunsero il porto di Heraklion con i propri mezzi, nonostante i gravi danni, mentre il Gertrud vi dovette essere rimorchiato; quando al Sabine, ridotto ad un relitto carbonizzato, dovette essere finito col siluro da alle 21.17 una delle tre torpediniere tedesche rimaste efficienti (la TA 14), che rientrò poi al Pireo insieme alle altre (qui giunsero il 2 giugno).
A rimorchiare il Gertrud ad Heraklion fu la TA 19, con la scorta di TA 14 e TA 17; alle 21.58 di quella sera, a quattro miglia per 340° dall’isola di Standia, le quattro navi furono avvistate da circa 9150 metri di distanza, su rilevamento 180°, dal sommergibile britannico Vox (tenente di vascello John Martin Michell), che stimò che avessero rotta verso ovest. Alle 21.59 il Vox accostò verso il convoglio per intercettarlo, ma tre minuti dopo fu il convoglio stesso ad accostare verso il sommergibile, ed alle 22.05 una delle navi tedesche sparò dei proiettili illuminanti verso il Vox, ma il tiro fu troppo corto perché la luce potesse illuminare il sommergibile e rivelarne così la presenza. Michel avvistò due navi che identificò come cacciasommergibili, che si avvicinavano al suo battello procedendo a zig zag; alle 22.07, di conseguenza, decise di immergersi in posizione 35°30' N e 25°13' E (al largo di Heraklion), per poi attaccare il cacciasommergibili di testa. Alle 22.31 il Vox avvistò un cacciatorpediniere su rilevamento rosso 90°, a distanza di 1830 metri; interruppe allora l’attacco contro il cacciasommergibili per passare a questo nuovo e più grande bersaglio, identificato da Michell come il San Martino/TA 17 (ma Uboat.net afferma che più probabilmente si trattava della TA 14), contro il quale lanciò, alle 22.36, quattro siluri. Le armi non andarono a segno, e dalle 22.50 alle 00.30 del 2 giugno il Vox fu sottoposto a caccia con bombe di profondità dal cacciasommergibili UJ 2142 (uscito da Heraklion insieme alla cannoniera ausiliaria GK 62 per condurre una ricerca antisom presso Standia ed andare poi a rinforzare la scorta del Gertrud), che gli arrecò alcuni modesti danni con tre bombe di profondità lanciate piuttosto vicine alle 23.19 (altre sei vennero lanciate dopo le 00.30, ma ben più lontane, dopo che il cacciasommergibili aveva perso il contatto sonar).
Il giorno seguente un nuovo attacco della RAF su Heraklion affondò anche i danneggiati Gertrud e TA 16 (quest’ultima non fu colpita direttamente dalle bombe, ma affondò perché investita dall’esplosione del Gertrud, carico di carburante e munizioni).
Dopo questo disastro, i Comandi tedeschi sospesero ogni ulteriore invio di convogli verso Creta, riducendo i collegamenti con quest’isola al solo traffico con unità minori.
Tra il 5 ed il 7 giugno la TA 17 scortò nuovamente il Doxa dal Pireo a Lero, mentre il 9 giugno scortò il trasporto militare Mannheim al Pireo. Alle 21.15 dell’11 giugno 1944, la TA 14, la TA 17 e la TA 19, insieme ai motodragamine R 178 e R 195, salparono dal Pireo per scortare a Portolago (Lero) un convoglio formato dai mercantili tedeschi Agathe, Anita, Carola e Celsius (i primi tre ex italiani – rispettivamente Aprilia, Arezzo e Corso Fougier – ed il quarto ex spagnolo): stavolta la navigazione non fu disturbata dagli attacchi aerei, perché il viaggio fu compiuto seguendo una rotta che tenesse il convoglio al di fuori del raggio d’azione dei Beaufighter. Quei quattro bastimenti, dopo il disastro del 1° giugno, erano quanto di meglio restasse ai tedeschi in Egeo in fatto di naviglio mercantile.
Il mattino del 12 giugno il convoglio fu invece avvistato da un sommergibile, il britannico Sickle (tenente di vascello James Ralph Drummond), nel canale di Steno (tra le isole di Andro e Tino); questi lanciò alle 12.55 un segnale di scoperta relativo a quattro navi mercantili scortate da tre cacciatorpediniere e due motosiluranti in posizione 37°41’ N e 25°04’ E, ma non fu in grado di attaccare. Il convoglio raggiunse Portolago alle 6.30 del 13 giugno.
Il 14 giugno TA 14, TA 17, TA 19, R 178 e R 195 ripartirono da Lero per scortare a Rodi l’Agathe e la motozattera MFP 497. Alle 18.52 il piccolo convoglio – identificato come un mercantile scortato da tre cacciatorpediniere, uno a proravia e gli altri due sui fianchi, con rotta 220° e velocità 8 nodi – fu avvistato in posizione 36°40' N e 26°54' E (a sudovest di Coo) dal sommergibile britannico Vivid (tenente di vascello John Cromwell Varley), a 7 km di distanza su rilevamento 017°. Il Vivid manovrò per attaccare, ed alle 19.12 un’accostata del mercantile migliorò la sua posizione; ma alle 19.21 la TA 19 avvistò il suo periscopio mentre si apprestava a lanciare proprio contro di essa (che distava in quel momento meno di 400 metri), e lanciò un razzo Very rosso per dare l’allarme, virando al contempo con tutta la barra a sinistra, mettendogli la prua addosso, per impedirgli di lanciare. Il Vivid fu così costretto ad interrompere l’attacco e scendere a quota profonda, venendo bombardato alle 19.34 e 19.36 con otto bombe di profondità (quattro ogni volta) che non causarono danni. Le navi del convoglio giunsero a Rodi il 15 giugno.
Compiuta anche questa missione, la TA 17 tornò a Portolago.
Ma se il viaggio per mare stavolta era andato bene, ormai le sempre più sparute navi tedesche dell’Egeo non potevano considerarsi al sicuro nemmeno in porto: neanche quattro giorni dopo questo viaggio, nella notte tra il 17 ed il 18 giugno 1944, la TA 17 venne seriamente danneggiata da un’incursione di commandos britannici – operazione «Sunbeam A» – mentre si trovava ormeggiata a Portolago.
Eliminare le navi della 9. Torpedobootsflottille, che rappresentavano – a dispetto della loro età – le più potenti unità tedesche nell’Egeo, era divenuto un obiettivo primario per i Comandi britannici in quel settore. Per questo, nella notte tra il 17 ed il 18 giugno tre kayak "Mark 2" del Royal Marine Boom Patrol Detachment (RMBPD), denominati Shark, Salmon e Shrimp ed aventi a bordo due Royal Marines ciascuno (li comandava il tenente J. F. Richards), penetrarono col favore del buio nella baia di Portolago (davanti alla quale erano stati portati dalla motolancia ML 360) e piazzarono delle cariche esplosive sugli scafi delle navi ormeggiate: nelle prime ore del 18 giugno, le cariche esplosero, affondando la cannoniera ausiliaria GD 91 (un piropeschereccio requisito) ed il rimorchiatore di salvataggio Titan, e danneggiando gravemente la TA 14 e la TA 17, scosse rispettivamente dall’esplosione di due e cinque cariche esplosive; la TA 17, in particolare, ebbe gravi danni nella zona poppiera.
I sei incursori britannici, oltre al tenente Richards (ai comandi del kayak “Shark”), erano il marine W. S. Stevens, secondo di Richards sullo “Shark”; il sergente J. M. King ed il marine R. N. Ruff sul kayak “Salmon”; il caporale E. W. Horner ed il marine E. Fisher sul kayak “Shrimp”. Tutti e sei, dopo aver completato la missione, raggiunsero nuovamente il largo e vennero raccolti dalla stessa motolancia che li aveva portati sul posto.
Il 10 settembre 1944 il diario di guerra della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine riportava la seguente annotazione: "Sulla scorta delle esperienze guadagnate in conseguenza del sabotaggio delle torpediniere TA 14 e TA 17 a Lero, la Divisione Logistica dello Stato Maggiore della Marina invia un ordine al Comando della flotta ed al Comando dei cacciatorpediniere chiedendo se esista un ordine definitivo per la flotta [che prescriva] che il lato di una nave [ormeggiata] rivolto verso il mare aperto debba essere continuamente vigilato da una barca. È necessario che le esperienze guadagnate dagli eventi di Lero siano utilizzate sotto tutti gli aspetti".
La sfortuna si accanì anche sul comandante della TA 17, il tenente di vascello Düvelius: il 24 giugno rimase gravemente ferito in un incidente stradale in cui trovò la morte il direttore di macchina, tenente di vascello Gerhard Sachse. Da Portolago la TA 17 fu in grado di trasferirsi con i propri mezzi a Salamina tra il 29 ed il 30 giugno 1944, sotto il comando provvisorio del tenente di vascello Jobst Hahndorff, entrando nel locale arsenale per le riparazioni; il 1° luglio ne assunse il comando il tenente di vascello Winfried Winkelmann (già suo comandante in seconda), che l’avrebbe mantenuto fino al 15 settembre. I lavori di riparazione non videro mai la conclusione: l’eliminazione delle ultime torpediniere tedesche in Egeo era diventato un obiettivo primario per le forze Alleate in quello scacchiere, ed il 17 o 18 settembre 1944 (un sito, probabilmente erroneo, indica invece la data del 15 settembre ed identifica gli aerei come statunitensi) la TA 17, mentre era ai lavori a Salamina (per altra fonte, a Skaramanga), vi venne ulteriormente danneggiata da un attacco aereo britannico, a tal punto da essere considerata irreparabile e dunque perduta, venendo pertanto radiata dai quadri della Kriegsmarine il 18 settembre 1944.
L'8 ottobre, infine, il bacino galleggiante in cui la ex TA 17 si trovava venne minato con cariche esplosive da sabotatori dell’organizzazione "Yvonne" della Resistenza greca (altra fonte parla invece di un’altra organizzazione, "Apollo"). Quando le due cariche esplosero, alle 23 dell'8 ottobre 1944, il bacino si capovolse con la torpediniera al suo interno, affondando nelle acque del porto (secondo un’altra versione, la TA 17 “scivolò fuori” dal bacino mentre questo affondava, ma affondò a sua volta a causa delle falle non ancora riparate). Vani furono i tentativi tedeschi di riportare a galla bacino e torpediniera per affondarli all’imboccatura del porto, che si preparavano ad abbandonare nel quadro della loro imminente ritirata dalla Grecia.
Altre fonti, probabilmente erronee, danno la TA 17 come affondata al Pireo il 12 ottobre 1944, in seguito ad un attacco aereo, od autoaffondata al Pireo od a Salamina (essendo ormai inutilizzabile e nella conseguente impossibilità di rimorchiarla altrove) nella stessa data, in cui le ultime truppe tedesche evacuarono il Pireo per ritirarsi verso nord ed evitare di restare tagliate fuori dall’avanzata sovietica nei Balcani; od ancora come autoaffondata sempre in tale data in seguito ai danni causati da un altro attacco aereo. Secondo Zvonimir Freivogel, autore del libro "Beute-Zerstoerer und -Torpedoboote der Kriegsmarine", la TA 17 venne gravemente danneggiata da un bombardamento aereo il 19 settembre, considerata irreparabile ed autoaffondata dai tedeschi il 12 ottobre; il subacqueo e ricercatore greco Kostas Thoctarides convalida questa versione e precisa che la nave venne autoaffondata all'interno del bacino galleggiante e davanti ai bacini in cemento Vasiliadis, in modo da ostruirne l'accesso.
Il relitto di quella che era stata la San Martino venne trovato dai britannici nel porto del Pireo al loro arrivo, il 15 ottobre 1944; secondo Platon Alexiades, il suo relitto sarebbe stato da alcune fonti erroneamente identificato come quello della TA 15, ex Crispi, dando origine all’errata notizia secondo cui a fine guerra il relitto della TA 15 sarebbe stato trovato al Pireo, mentre in realtà l'ex Crispi era stato affondato da un attacco aereo in mare aperto, al largo di Creta (su fondali di 400 metri), e mai recuperato.
La San Martino su Trentoincina
La San Martino su WarshipsWW2
La TA 17 su Historisches Marinearchiv
La TA 17 su German Navy
The Cockleshell Canoes: British Military Canoes of World War Two
La TA 17 su Navypedia
Target Corinth Canal: 1940-1944
War Diary, German Naval Staff Operations Division, November 1943
La 9. Torpedobootsflottille
Vittorio De Spirito su La Voce del Marinaio
Dalmazia, una cronaca per la storia – Parte I
Italian Navy Destroyer Aka Novel Sight In The Thames (1922)