La Cassiopea in manovra nel porto del Pireo
nell’ottobre 1942; sulla destra il cacciatorpediniere Crispi (da “Le torpediniere italiane 1881-1964” dell’USMM via
Marcello Risolo, e g.c. STORIA militare) 27 novembre 1942
Il marinaio Mario
Giacometti della Cassiopea, di 23
anni, da Arquà Petrarca, muore in
territorio metropolitano.
11 febbraio 1943
La Cassiopea (capitano di corvetta Virginio
Nasta) viene inviata da Messina a Strongoli, una decina di miglia a nord di
Crotone, per rilevare la torpediniera Pegaso
(tenente di vascello Mario De Petris) nella protezione al piroscafo Petrarca, incagliatosi il giorno precedente
ad ottocento metri da terra, in un punto in cui le carte nautiche segnalavano
erroneamente una profondità superiore di un paio di metri al pescaggio del
piroscafo. Due rimorchiatori inviati da Taranto tentano vanamente di
disincagliare il Petrarca, mentre la Cassiopea fornisce protezione
antisommergibili; il tempo va però peggiorando sino a degenerare in un Fortunale da scirocco, che costringe Cassiopea, Pegaso e rimorchiatori a puggiare a Crotone. Il 15 febbraio,
passato il Fortunale, mentre proseguono
i tentativi di disincaglio, il Petrarca
verrà silurato e distrutto dal sommergibile britannico Una.
17 marzo 1943
Alle 22 la Cassiopea (capitano di corvetta
Virginio Nasta) salpa da Messina insieme alle torpediniere Tifone (capitano di corvetta
Stefano Baccarini), Antares (capitano
di corvetta Maurizio Ciccone) e Perseo (capitano
di corvetta Saverio Marotta) ed ai cacciatorpediniere Lampo (capitano di corvetta Loris Albanese) e Lubiana (caposcorta, capitano di
fregata Luigi Caneschi) per scortare a Biserta le motonavi Marco Foscarini e Nicolò Tommaseo.
18 marzo 1943
Alle 14 Lubiana e Tifone lasciano la scorta del convoglio, dirigendo per Napoli,
dove devono assumere la scorta di altri convogli in partenza per la Tunisia.
19 marzo 1943
All’1.30 il Lampo subisce una grave avaria di
macchina, al punto da dover essere preso a rimorchio dalla Cassiopea; entrambe le unità devono così
lasciare la scorta del convoglio e dirigere per Napoli, sotto la scorta del
cacciatorpediniere Vincenzo Gioberti (capitano di fregata
Pietro Tona), appositamente inviato.
20 marzo 1943
Cassiopea, Lampo e Gioberti raggiungono Napoli alle
2.50.
29 marzo 1943
La Cassiopea (capitano di corvetta
Virginio Nasta) salpa da Napoli alle 19.30, scortando i piroscafi Crema, Chieti e Nuoro diretti
a Biserta, insieme alla Cigno (al
comando del capitano di corvetta Carlo Maccaferri, ma con a bordo il caposcorta,
capitano di vascello Francesco Camicia) ed ai cacciasommergibili tedeschi UJ 2203 e UJ 2210.
30 marzo 1943
Alle 16 si unisce al
convoglio la corvetta Cicogna (tenente
di vascello Augusto Migliorini), giunta da Trapani, che lo lascia dopo qualche
ora insieme al Chieti, diretto a
Palermo.
31 marzo 1943
Dall’1.45 alle tre di
notte il convoglio sosta a Trapani, per attendere il piroscafo Benevento (partito da Napoli in
ritardo per alcune avarie).
Alle 6.30 si uniscono
al convoglio, poco ad ovest delle Egadi, il Benevento,
la torpediniera Clio (capitano
di corvetta Carlo Brambilla) ed il cacciasommergibili tedesco UJ 2207, così formando un unico
convoglio denominato «GG». Si tratta di un convoglio lento, con una velocità di
nove nodi.
Alle 6.40 si unisce
di nuovo al convoglio la Cicogna;
le navi godono inoltre di forte scorta aerea.
Già da giorni i
decrittatori britannici di “ULTRA” seguono attentamente gli spostamenti del
convoglio: il 27 marzo hanno decifrato un messaggio dal quale risultava che i
mercantili Crema, Nuoro, Benevento, Capua e Caterina Costa erano «attesi a
breve scadenza in Tunisia, provenienti dall’Italia», il 28 marzo hanno
intercettato un’altra comunicazione che ha rivelato che «Benevento, Nuoro e Crema avrebbero dovuto lasciare Napoli il giorno 27
per la Tunisia, tempo permettendo», e l’indomani un’altra ancora da cui è
risultato che «Sono attesi i seguenti
arrivi, sempre condizionati dallo stato del tempo: a Tunisi il giorno 31 verso
le 23.00 Crema, Nuoro e Benevento». Il 31 marzo, infine, un’ultima
intercettazione ha permesso ad “ULTRA” di apprendere che «Crema, Nuoro e Benevento hanno lasciato Napoli alle 22.00 del giorno
29. Essi doppieranno l’isola di Marettimo alle 6.30 del 31 e procederanno per
Biserta».
Sulla scorta di
queste informazioni, la Marina e l’aviazione Alleate sottopongono il convoglio
ad una successione di attacchi aerei e navali.
Alle 13.52, mentre il
convoglio è dieci miglia ad est del banco Skerki, si verifica il primo attacco
da parte di otto bombardieri (identificati da parte italiana come Lockheed
Hudson, mentre in realtà si tratta di North American B-25 “Mitchell” del 321st Bomb
Group dell’USAAF: ne erano originariamente decollati quattordici dalle basi
nordafricane alle 13.45, scortati da 25 caccia P-38 del 1st Fighter
Group, ma sei bombardieri e tredici caccia sono tornati indietro poco più
tardi), scortati da 4-5 caccia Lockheed Lighting, che sganciano le bombe da
2500-3000 metri di quota, senza colpire alcuna nave. Sia i mercantili che
le navi di scorta reagiscono violentemente con le proprie mitragliere, ma non
colpiscono alcun aereo; priva di risultati è anche la battaglia aerea
ingaggiata con i caccia italiani e tedeschi di scorta al convoglio, nonostante
le opposte rivendicazioni (da parte statunitense, il danneggiamento di un
caccia tedesco ed il probabile abbattimento di un altro da parte di un B-25; da
parte tedesca, l’abbattimento di tre B-25 da parte dei Messerschmitt del
7./Jagdgeschwader 53).
Alle 14.24 si unisce
alla scorta la torpediniera Enrico Cosenz (capitano
di corvetta Emanuele Campagnoli), distaccata alle 11.25 mattino dal caposcorta
del convoglio «RR» (motonavi Belluno e Pierre Claude, in navigazione da Napoli
a Tunisi con la scorta delle torpediniere Fortunale, Antares e Sagittario e di due
cacciasommergibili tedeschi), che precede il «GG» di una quarantina di miglia,
con il compito di rafforzare ulteriormente la scorta di quest’ultimo. Raggiunto
il convoglio, la Cosenz funge
inoltre da unità pilota sulla rotta di Zembretta.
Alle 15.57, mentre il
convoglio si trova già in linea di fila per imboccare la rotta obbligata di
Zembretta, subisce un attacco di tre ondate di aerei, una dopo l’altra: la
prima, composta da altri otto bombardieri identificati come Hudson scortati da
caccia Lighting, sgancia molte bombe da 2500 metri, senza colpire nulla;
la seconda, formata da otto bombardieri e quattro aerosiluranti, sopraggiunge
da ovest (direzione del sole, lato dritto del convoglio) e sgancia molte bombe
ed alcuni siluri, di nuovo senza fare danni; alle 16 la terza ondata di sei
bombardieri e cinque aerosiluranti attacca il convoglio su entrambi i lati. (Secondo
fonti statunitensi, questi attacchi furono portati da una formazione di
quindici bombardieri B-25 Mitchell del 321st Bomb Group,
decollati alle 13.45 e scortati da venticinque caccia P-38 del 95th Squadron
dell’82nd Fighter Group; uno dei B-25 e tre dei P-38 erano
dovuti rientrare alla base poco dopo il decollo).
La scorta aerea
italo-tedesca reagisce prontamente: un singolo bombardiere Junkers Ju 88 del
II./Kampfgeschwader 76 riesce ad attirare su di sé l’attenzione di diverse
squadriglie di P-38, portandoli lontano dai bombardieri; i piloti dell’82nd Fighter
Group si ritrovano sotto attacco da parte di un totale di dieci Messerschmitt
Bf 109, uno Ju 88 ed alcuni caccia italiani (numero e tipo non specificato).
Gli aerei dell’Asse scompaginano la formazione dei bombardieri, costringendo
molti di essi a scaricare le loro bombe in mare ed a ritirarsi senza attaccare;
i restanti B-25 attaccano in due gruppi, dei quali uno effettua il suo attacco
da appena 30 metri di quota, secondo la tattica dello “skip bombing” (nel quale
le bombe vengono sganciate dal bombardiere a bassissima quota ed a ridotta
distanza dalla nave attaccata, in modo tale da rimbalzare sulla superficie
dell’acqua, come un sasso tirato a “rimbalzello”, e colpiscano la nave), mentre
l’altro sgancia le bombe da alta quota, circa 2440 metri.
Secondo il rapporto
del caposcorta Camicia, il tiro contraereo delle navi riesce ad abbattere due
dei velivoli attaccanti (secondo quanto riferito allo Stato Maggiore della
Kriegsmarine dagli ufficiali tedeschi di collegamento presso Supermarina,
invece, le navi dell’Asse avrebbero rivendicato il probabile abbattimento di
ben sei aerei, uno da un cacciasommergibili tedesco e gli altri cinque dalle
unità italiane), mentre un terzo, un quadrimotore, viene abbattuto dai caccia
della Luftwaffe di scorta aerea, che però subiscono a loro volta la perdita di
due dei loro aerei nei duelli combattuti sul cielo del convoglio.
Durante la battaglia
aerea combattuta sul cielo del convoglio, i piloti dei P-38 statunitensi
rivendicano l’abbattimento di uno Ju 88 e di un Messerschmitt Bf 109
(rispettivamente da parte dei sottotenenti Marion Moore e Ralph C. Embrey, entrambi
una ventina di miglia a nord-nord-est di Cap Zembra), mentre i mitraglieri dei
B-25 (tre del 445th Bomb Squadron ed uno del 448th)
ritengono di aver certamente abbattuto tre Messerschmitt Bf 109 ed un
Focke-Wulf Fw 90, di aver probabilmente abbattuto un altro Bf 109 e di averne
danneggiati altri tre. In realtà, le perdite complessive da parte tedesca
ammontano all’abbattimento di un singolo Messerschmitt Bf 109 (il WNr 15039 del
caporale Konstantin Benzien del 4./JG. 27, abbattuto da caccia nemici 20 km a
nord di Zembra e rimasto ferito) e di uno o due Junkers Ju 88 del
4./Kampfgeschwader 76 (questi ultimi andati perduti mentre erano impegnati in
compiti di scorta convogli; uno abbattuto alle 15.50, quasi certamente nel
corso dei combattimenti aerei attorno al convoglio «GG», mentre meno sicuro è
il coinvolgimento dell’altro Ju 88). I caccia tedeschi del II./Jagdgeschwader
27 e del III./Zerstörergeschwader 1 rivendicano l’abbattimento di due P-38 e
due B-25 (più precisamente, un P-38 dal sottotenente Hans Lewes del 5./JG 27,
alle 15.58; un altro dal sergente Bernard Schneider dello stesso reparto; un
B-25 dal caporale Hans Reiter del 4./JG 27; un presunto Lockheed Ventura –
altro bimotore simile al B-25 – dal tenente Walter Lardy del III./ZG 1; i primi
tre alle 15.58 ed il quarto alle 16, tutti 20 km a nordest di Zembra). In
effetti, le fonti statunitensi riconoscono la perdita di due P-38 (quelli dei
sottotenenti Joseph R. Sheen jr. e Francis M. Molloy, entrambi rimasti uccisi),
ad ovest di Zembra, e di due B-25 del 448th Bomb Group, dei
quali uno (il 41-13205 del tenente Charles A. McKinney, rimasto ucciso con sei
uomini del suo equipaggio) abbattuto alle 16.14 da caccia nemici, e l’altro (il
41-13209 “Trouble” del tenente Robert G. Hess, morto insieme a cinque uomini
del suo equipaggio) abbattuto alle 15.55 dal tiro contraereo delle navi.
Stavolta – sono le 16
– il Nuoro viene colpito
sul lato sinistro da un siluro (o così si ritiene a bordo: non essendo però
l’attacco stato svolto da aerosiluranti, è più probabile che si sia trattato di
una delle bombe lanciate con la tecnica dello “skip bombing”, scambiata
dall’equipaggio per un siluro), e scoppia un incendio a bordo.
Il Nuoro viene lasciato indietro con
l’assistenza della Cicogna (esploderà
alle 16.34, dopo essere stato abbandonato dall’equipaggio), mentre il resto del
convoglio prosegue. Per il resto del pomeriggio e della sera non si verificano
altri attacchi aerei.
1° aprile 1943
Intorno all’una di
notte, mentre il convoglio si trova tre miglia a sud-sudovest dell’isola dei
Cani ed a dieci miglia da Biserta, si verifica un improvviso attacco di
motosiluranti britanniche, che erano rimaste ferme in agguato ed attaccano
sulla dritta del convoglio. In origine erano salpate da Bona quattro
motosiluranti: MTB 265, MTB 266, MTB 315 e MTB 316; le MTB 265 e 316, tuttavia, sono state costrette a lasciare la formazione, la
prima per cercare un uomo caduto in mare, l’altra a causa di un’avaria ai
motori. Le rimanenti due unità, sotto il comando del tenente di vascello
Richard Routledge Smith della MTB 266,
hanno raggiunto il punto prestabilito per l’agguato, un miglio a nord di Capo
Zebib (e tre miglia a sud/sudovest dell’Isola dei Cani), alle 00.10 del 1°
aprile; fermati i motori, si sono messe ad attendere l’arrivo del convoglio,
ferme e acquattate nel buio.
Alle 00.50 gli
equipaggi britannici avvistano delle navi in avvicinamento da est; entrambe le
motosiluranti mettono subito in moto i loro motori ed iniziano a lento moto
l’avvicinamento al convoglio, del quale apprezzano la composizione come tre
navi mercantili scortate da due cacciatorpediniere e diverse motosiluranti
(“E-Boats”). Cogliendo di sorpresa il convoglio, le due MTB silurano sia
il Crema che il Benevento e subito dopo si
dileguano a tutta forza nell’oscurità, con il mare in poppa, nonostante una
rapida e confusa mischia – nella quale la MTB 315 subisce leggeri danni ed un ferito lieve tra
l’equipaggio – con la Cassiopea e
l’UJ 2203 (quest’ultimo riterrà infatti di aver “almeno danneggiato” una
delle motosiluranti), che proteggono i due mercantili sul lato di dritta. (Dopo
aver lanciato contro il Crema, la MTB 266 cerca di avvicinarsi al
“cacciatorpediniere” che si trova a poppavia dritta del convoglio –
probabilmente proprio la Cassiopea –
per attaccarlo con bombe di profondità, ma viene ben presto dissuasa
dall’intenso fuoco aperto da questi, che la induce a ripiegare ed allontanarsi.
Anche la MTB 315 si disimpegna
passando a proravia di questo “cacciatorpediniere” e, ritirandosi verso nord,
viene presa sotto un tiro piuttosto accurato da parte del “cacciatorpediniere”
e di uno dei cacciasommergbili tedeschi, subendo qualche danno superficiale).
Il Crema affonda in soli due minuti a
tre miglia per 210° dall’Isola dei Cani, mentre il Benevento può essere portato ad incagliare presso Capo Zebib,
ma andrà egualmente perduto (permettendo però di recuperarne il carico).
La Cassiopea partecipa al salvataggio dei
naufraghi; su 70 uomini imbarcati sul Crema,
soltanto in 26 possono essere tratti in salvo, a causa dell’oscurità e del
maltempo che intralciano i soccorsi. Due membri dell’equipaggio della
torpediniera, i nocchieri Aniceto Fortini e Salvatore Sorrentino, verranno
decorati con la Croce di Guerra al Valor Militare per il loro ruolo nel
salvataggio (per Fortini, con motivazione "Imbarcato su torpediniera di scorta a convoglio attaccato in primo
tempo da aerei e successivamente da motosiluranti avversarie, colpiti da siluri
ed affondati due piroscafi, si prodigava con slancio, abnegazione e perizia nelle
difficili operazioni di ricupero dei naufraghi, svolte nottetempo in avverse
condizioni di mare"; per Sorrentino, con motivazione "Imbarcato su torpediniera di scorta a
convoglio attaccato in primo tempo da aerei e successivamente da motosiluranti
avversarie, colpiti da siluri ed affondati due piroscafi, si prodigava nel
salvataggio dei naufraghi, effettuato nottetempo in difficili condizioni di
mare, e si tuffava più volte per soccorrere i pericolanti. Esempio di generoso
altruismo"); il comandante Nasta riceverà la Medaglia di Bronzo al
Valor Militare, con motivazione "Comandante
di silurante di scorta a convoglio attaccato ripetutamente da aerei,
contribuiva con azione decisa all'abbattimento di due velivoli avversari, e,
durante la notte, ad effettuare pronta e vivace reazione contro motosiluranti
avversarie. Colpiti da siluri due piroscafi scortati, perdurando la minaccia
avversaria, ed in particolari condizioni di luce e di mare, dirigeva con
perizia e decisione le operazioni di ricerca e ricupero di numerosi naufraghi".
14 aprile 1943
Alle 10.45 la Cassiopea si unisce alla Cigno ed alle torpediniere Groppo e Sagittario (caposcorta, capitano di fregata Marco
Notarbartolo) nella scorta della motonave Marco Foscarini, salpata da Napoli alle 5.10 e diretta a Biserta.
Il convoglio entra a
Trapani alle 21.10 e ne riparte alle 23.40.
15 aprile 1943
Tra le 00.53 e le
5.43, tra Trapani e Zembra, il convoglio viene continuamente sorvolato da aerei
isolati e subisce sei attacchi da parte di essi, che lanciano varie bombe ed un
siluro. Nel primo attacco la Foscarini viene
mitragliata, con la morte di un militare tedesco; nell’ultimo, un siluro manca
la motonave di pochissimo, passandole qualche metro a proravia. Il caposcorta
Notarbartolo osserverà poi che è stato probabilmente grazie alla notte molto
buia, con nuvole basse, se non si sono verificati attacchi da parte di
formazioni aeree più numerose.
Alle sei del
mattino Cigno e Cassiopea lasciano la scorta per
rientrare a Trapani, venendo rimpiazzate dalle gemelle Libra e Perseo.
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Spilletta
in argento della Cassiopea (g.c.
Carlo Di Nitto) |
Capo Lilibeo
All’una di notte del
16 aprile 1943 la Cassiopea, al
comando del capitano di corvetta Virginio Nasta, salpò da Trapani insieme alla
gemella Cigno (capitano di
corvetta Carlo Maccaferri, capo sezione della sezione Cigno-Cassiopea) per
formare lo schermo avanzato della scorta della motonave Belluno, in navigazione da Trapani
(dov’era giunta alle otto di sera del giorno precedente, provenendo da Livorno)
a Tunisi con un carico di munizioni e la scorta diretta delle torpediniere Tifone (caposcorta, capitano di
corvetta Stefano Baccarini) e Climene (capitano
di corvetta Mario Colussi).
Era la fase finale
della battaglia dei convogli, ed ogni giorno l’offesa angloamericana diventava
più accanita. Di lì a meno di un mese, la Tunisia sarebbe caduta e, delle
cinque navi coinvolte in questo convoglio, solo la Cassiopea si sarebbe trovata ancora a galla.
Partita da Livorno
alle 16.05 del 14 aprile, la Belluno
aveva sostato nella rada di Trapani dalle 20 del 15 aprile all’una di notte (o
1.30) del 16, per poi ripartire insieme alla Tifone, che la precedeva in linea di fila, ed alla Climene, che invece la seguiva; Cassiopea e Cigno precedevano il convoglio di cinque miglia, per scoprire e
respingere eventuali motosiluranti od altre unità sottili in agguato (a questo
scopo, partirono prima delle altre navi). Le due torpediniere procedevano a
dodici nodi, gli equipaggi vigili e all’erta; il mare era calmo.
Dopo poco più di
un’ora e mezza, alle 2.38 (si trovavano in quel momento una quindicina di
miglia ad ovest/sudovest di Capo Lilibeo e dieci miglia a sudovest di Punta
Marsala di Favignana), Cassiopea
e Cigno videro effettivamente
qualcosa: due navi sconosciute, otto chilometri verso sudovest, con rotta verso
nord. Era una notte chiara, senza nuvole; la luna, al primo quarto, stava per
tramontare.
Subito le due
torpediniere misero la prua sulle due navi sconosciute, preparandosi al
combattimento; non essendo però sicure che non si trattasse di navi italiane,
alle 2.45 la Cigno effettuò
il segnale di riconoscimento.
Non ci fu risposta:
né avrebbe potuto esserci, perché le navi erano due cacciatorpediniere nemici,
il Paladin (capitano di
corvetta Lawrence St. George Rich) ed il Pakenham (capo sezione, capitano di fregata Basil Jones),
usciti da Malta per intercettare convogli italiani e che, avendo rilevato il
convoglio con i loro radar (Type 285, della portata di cinque miglia), ora
dirigevano a 20 nodi per attaccarlo. (Il pomeriggio del 15 aprile, i due
cacciatorpediniere erano impegnati in esercitazioni al largo di Malta quando
avevano ricevuto dal comandante delle forze navali di base nell’isola l’ordine
di andare ad investigare l’avvistamento di un convoglio segnalato al largo di
Pantelleria; si erano quindi diretti verso di esso alle 17.45, procedendo in
linea di fila con il Pakenham in
testa, seguito da Paladin a tre
miglia di distanza).
Le navi britanniche
avevano avvistato quelle italiane alle 2.42, da 6600 metri (per altra fonte, il
Pakenham le aveva rilevate al radar
alle 2.42, ma aveva perso il contatto mentre virava, per poi ritrovarlo alle
2.45); identificati i bersagli come due torpediniere che procedevano in linea
di fila, i cacciatorpediniere avevano accostato verso dritta in modo da porre
l’avversario tra sé e la luna, contro la quale si sarebbero così andare a
stagliare le sagome delle navi italiane.
Riconosciuti i nuovi
arrivati come cacciatorpediniere, la Cigno notò
che mentre il Pakenham stava
continuando ad avvicinarsi rapidamente (procedendo cioè verso nordest, verso la
Cigno), il Paladin stava accostando verso nord, con l’apparente
intenzione di “avvolgere” Cassiopea
e Cigno, ponendole fra due
fuochi. La Cigno intanto
aveva fatto segnalazioni col proiettore al convoglio, che seguiva a distanza,
per informarlo della presenza dei due cacciatorpediniere; quando Belluno, Climene e Tifone ricevettero
la segnalazione, ripiegarono verso Trapani (assumendo rotta nordest),
mettendosi al sicuro.
Ai dieci cannoni
da 102 mm, otto mitragliere da 40 mm, sei da 20 mm e
quattro tubi lanciasiluri da 533 mm, di cui disponevano in tutto i due
cacciatorpediniere, Cassiopea
e Cigno potevano opporre
complessivamente 6 cannoni da 100 mm, 20 mitragliere da 20 mm e
quattro tubi lanciasiluri da 450 mm. Il capo sezione Macccaferri credeva
però di trovarsi in una situazione ancor peggiore, in quanto aveva erroneamente
identificato i due avversari come cacciatorpediniere della classe J, armati con
6 cannoni da 120 mm anziché 5 da 102 come la classe P cui
appartenevano Paladin e Pakenham.
Sebbene meno armate dei
cacciatorpediniere, le torpediniere italiane aprirono il fuoco per prime, alle
2.48: la Cigno contro
il Pakenham, che distava 2300
metri, la Cassiopea – che
aveva anch’essa accostato verso nord/nordovest, su ordine di Maccaferri –
contro il Paladin, che ne
distava 4100. I cacciatorpediniere misero la prua sulle navi italiane e
risposero subito al fuoco, con tiro diretto dai radar (utilizzati per
determinare la distanza, ed impiegando i proiettori solo per accertare che i
colpi andassero a segno). Quando la distanza fu calata a meno di due
chilometri, da entrambe le parti venne aperto il fuoco anche con le
mitragliere. (Per altra fonte, il Pakenham
avrebbe aperto per primo il fuoco da 2700 metri, dopo aver illuminato la Cigno con il proprio proiettore, e poi
la torpediniera italiana avrebbe risposto al fuoco).
Lo scontro,
combattuto a distanza serrata, fu breve ed accanito. La Cigno riuscì a colpire ripetutamente il Pakenham, ma venne ben presto raggiunta a sua volta dalle salve
dell’avversario; immobilizzata da un colpo in caldaia alle 2.53 (una caldaia
esplose, uccidendo nove uomini ed ustionandone molti altri), continuò a sparare
e lanciò i propri siluri, finché alle 2.58 non venne spezzata in due da un
siluro lanciato dal Pakenham. Il
troncone poppiero affondò immediatamente, quello prodiero lo seguì dopo un paio
di minuti, non prima che – alle tre di notte, mentre il Pakenham accostava verso nord per rivolgere le sue attenzioni alla Cassiopea – il cannone di prua avesse
sparato i suoi ultimi colpi, centrando ancora il Pakenham sul lato sinistro, in sala macchine, con uno o due colpi
(per altre fonti, quattro o sei), provocando l’allagamento di tale locale (con
conseguente rapido sbandamento di 15 gradi sulla sinistra) e danneggiandone le
tubolature principali del vapore, dalle quali uscirono nubi di vapore
surriscaldato che obbligarono il personale di macchina ad abbandonare
precipitosamente il locale. Il Pakenham
rimase immobilizzato, senza corrente elettrica e con un incendio a poppa.
(Alcune fonti attribuiscono questi colpi fatali al tiro della Cassiopea, invece che della Cigno).
Di 150 uomini che
componevano l’equipaggio della Cigno,
solo 47 sopravvissero, compreso il comandante Maccaferri.
Affondata l’unità
sezionaria, la Cassiopea, che fino a
quel momento aveva scambiato colpi con il Paladin,
senza subire niente più che qualche modesto danno da schegge, si ritrovò da
sola contro i due cacciatorpediniere nemici, sebbene l’efficienza del Pakenham fosse a questo punto seriamente
menomata. Presa sotto il tiro di entrambi, iniziò ad essere colpita alle 3.02:
una pioggia di proiettili da 40 mm proveniente dall’impianto quadrinato
“pom-pom” del Paladin investì i
cannoni, gli impianti lanciasiluri e la dinamo dell’impianto elettrico di
bordo, squarciando il fumaiolo, devastando la plancia e la sovrastruttura, seminando
ovunque morti e feriti e danneggiando anche il timone, che smise di funzionare;
a prua ed a poppa scoppiarono incendi, e la nave iniziò ad imbarcare acqua,
sbandando sulla dritta. Ma non per questo la torpediniera desisté dal seguire
la rotta convergente con quella del Paladin,
che aveva assunto.
Continuando a sparare
intensamente con i propri cannoni, alle 3.06 la Cassiopea lanciò un siluro contro il Paladin (contro cui stava sparando con i pezzi poppieri), da 1100
metri, senza successo; due minuti dopo il cacciatorpediniere britannico spense
il suo proiettore e cessò il fuoco, ritirandosi verso sudest, pertanto la Cassiopea – che secondo una fonte
avrebbe pertanto erroneamente concluso di aver colpito l’avversario – rivolse
le sue attenzioni al Pakenham (che
frattanto aveva rimesso in moto, dirigendo verso nord e colpendo la Cassiopea con una bordata sparata da
3700 metri di distanza, che secondo una fonte avrebbe causato alla torpediniera
i danni maggiori subiti nel corso del combattimento e gli incendi), sparando
contro di esso – e colpendolo, alle 3.13, con due proiettili che centrarono
rispettivamente il complesso “pom-pom” poppiero ed il proiettore – finché alle
3.15 anche questi non spense a sua volta il suo proiettore e cessò il tiro.
(Secondo lo storico
Vincent O’Hara, il Paladin cessò il
fuoco e spense il proiettore, avendo erroneamente concluso di stare combattendo
contro un incrociatore, e si diresse verso il Pakenham, rimasto immobilizzato per i danni subiti nel
combattimento contro la Cigno, per
prestargli soccorso; prima che il Paladin
lo raggiungesse, il Pakenham riuscì a
rimettere in moto, dirigendo verso nord, ed aprì il fuoco con le mitragliere –
da 3660 metri di distanza – sulla Cassiopea,
che però era frattanto riuscita a riparare il timone e manovrò per
disimpegnarsi, sparando sul Pakenham
coi pezzi poppieri fino alle 3.13. Due dei suoi colpi centrarono
rispettivamente il proiettore del cacciatorpediniere ed il suo impianto contraereo
da 40 mm, uccidendo nove uomini, ed il comandante britannico decise allora di cessare
il fuoco, ripiegare e riunirsi al Paladin,
che raggiunse mezz’ora dopo).
Lo scontro poteva
dirsi concluso: sorpresi dalla rabbiosa reazione delle due torpediniere, i
comandanti britannici si erano convinti – sovrastimando di molto le dimensioni
delle colonne d’acqua sollevate dai proiettili che finivano in mare – di avere
a che fare con nientemeno che un incrociatore leggero della classe Capitani
Romani, e dato anche lo stato del Pakenham,
avevano deciso di ritirarsi, rinunciando a portare a fondo l’attacco. La Belluno era salva.
La fine del
combattimento non comportava però la fine dei guai per la Cassiopea, che in quella manciata di minuti era stata devastata dal
fuoco concentrato delle navi britanniche: a prua ed a poppa ardevano due
violenti incendi, mancava la corrente, la maggior parte dell’equipaggio era
morto o ferito, e lo sbandamento sulla dritta andava aumentando in modo preoccupante a causa di numerose vie d'acqua. Gli uomini rimasti validi riuscirono a domare l’incendio a
poppa verso le 3.45, ma per quello a prua non ci fu niente da fare: continuò ad
ardere rabbiosamente fin verso le cinque del mattino, quando infine si estinse
semplicemente perché non era rimasto più niente da bruciare.
Rimasta alla deriva e
fortemente sbandata, poco più che un relitto galleggiante, la Cassiopea venne raggiunta e presa a
rimorchio dalla Climene alle
7.30 (secondo Vince O’Hara, sopraggiunse anche la Tifone, che con la Climene
aveva scortato in salvo in porto la Belluno
prima di tornare indietro, e che rimase sul posto per prestare assistenza se
necessario); le due torpediniere diressero verso Trapani, ed alle 10.45 furono
raggiunte dal rimorchiatore Tifeo,
cui la Climene passò il cavo di
rimorchio per poi assumere la scorta della Cassiopea.
Le tre navi raggiunsero infine Trapani alle 14.30.
La Belluno, dopo aver sostato
temporaneamente davanti a Trapani (il convoglio aveva invertito la rotta subito
dopo aver avvistato verso proravia le vampe del combattimento, per ordine della
Tifone, ancorandosi davanti a Trapani
alle 4.25), riprese la navigazione alle 5.45 e giunse a Tunisi senza un graffio
alle 17.15 di quello stesso giorno.
Quello di Cassiopea e Cigno fu l’unico caso, nella guerra dei convogli tra l’Italia
e l’Africa settentrionale, nel quale la scorta di un convoglio italiano – per
giunta in condizioni di inferiorità – riuscì a respingere un attacco di navi di
superficie e salvare il convoglio.
I cacciatorpediniere
britannici si ritirarono verso sud; il Pakenham,
colpito quattro o sei volte dalle navi italiane (sul lato sinistro; le fonti
divergono nell’attribuire la paternità dei colpi fatali alla Cigno od alla Cassiopea, ma la storia ufficiale dell’USMM sembrerebbe propendere
per la prima, mentre fonti britanniche tendono ad accreditare i colpi alla
seconda), aveva un incendio a poppa, un proiettore ed alcune mitragliere
da 40 mm messe fuori uso. Poteva ancora raggiungere i 25 nodi, ma il
vapore ad alta pressione che fuoriusciva dalle tubolature danneggiate impediva
al personale di macchina di rimanere ai propri posti. La scelta che si
presentava al comandante Jones era tra fermare le macchine ed aspettare che la
temperatura in sala caldaie scendesse a sufficienza da consentire dei pur
sommari lavori di riparazione – ma ci sarebbero volute due ore – oppure
continuare fino all’esaurimento dell’acqua delle caldaie, dopo di che la nave
sarebbe rimasta completamente immobilizzata. Data la pericolosa vicinanza delle
basi aeree dell’Asse, Jones scelse la seconda opzione; dopo tredici miglia,
alle 3.50 il Pakenham rimase definitivamente
immobilizzato in seguito all’esaurimento dell’acqua per le caldaie (al
contempo, venne a mancare anche la corrente elettrica), dovendo pertanto essere
preso a rimorchio dal Paladin, che
aveva invece subito solo alcuni danni da schegge, alle 4.30. I due
cacciatorpediniere diressero verso Malta (verso sudest) alla bassissima
velocità di quattro-cinque nodi; da Malta furono impiegati 29 caccia Spitfire
degli Squadrons 229, 249 e 1435 della RAF per proteggerli (il comandante delle
forze navali britanniche di base a Malta ringraziò il suo collega
dell’aeronautica, vicemaresciallo dell’aria Keith Park, per la copertura aerea
garantita durante il mattino, affermando che “aveva indubbiamente impedito che il Paladin fosse attaccato”), che
si scontrarono a più riprese con aerei dell’Asse, abbattendo due Junkers Ju 88
tedeschi ed un Macchi Mc 202 italiano e subendo il danneggiamento di tre
Spitfire.
Alle sei del mattino
i cacciatorpediniere britannici vennero attaccati da due aerei, seguiti da
altri due, ed il Paladin mollò il
rimorchio per poter meglio evoluire, mentre entrambe le navi aprivano il fuoco
con l’armamento contraereo; passato l’attacco senza danni, il rimorchio riprese
alle 6.20, ma dopo pochi minuti il cavo si spezzò. Alle 6.30 il viceammiraglio Stewart
Bonham-Carter, comandante delle forze navali britanniche di base a Malta,
ordinò al Paladin di
affondare il gemello, non essendo possibile fornire alle due unità copertura
aerea sufficiente lungo tutta la navigazione di rientro (a quella velocità, ci
avrebbero messo 27 ore per arrivare a Malta) e temendo che intestardirsi nel
salvare il Pakenham avrebbe rischiato
di portare a perdere entrambe le navi.
Dopo aver mollato il
rimorchio e recuperato l’equipaggio del sezionario, il Paladin lo affondò con due siluri
in posizione 37°26’ N (o 37°30’ N) e 12°30’ E (11-12 miglia a sudovest di
Capo Granitola; altra fonte parla di 37°28’ N e 12°32’ E), alle otto del
mattino. Assistettero alla scena alcuni aerei da caccia italiani Macchi Mc 202:
sopraggiunti sul posto, sorvolarono i due cacciatorpediniere per alcuni minuti,
poi osservarono una violenta esplosione su un fianco di uno dei due, che si
capovolse ed affondò, lasciando una persistente nube di fumo nero (secondo una
fonte, mentre il Pakenham veniva
autoaffondato era in corso sul suo cielo un combattimento tra aerei da caccia).
Finì così il Pakenham, venti miglia a sud/sudovest di
Marsala; il suo equipaggio aveva perso nove uomini uccisi in combattimento, ed
un decimo sarebbe morto due giorni dopo per le ferite subite. Terminato il suo
mesto compito, il Paladin diresse ad
alta velocità – 32 nodi – verso Malta, con a bordo l’equipaggio del gemello.
Da parte britannica la
commissione d’inchiesta istituita sulla perdita del Pakenham concluse, a torto, che Paladin e Pakenham avessero
incontrato due cacciatorpediniere di squadra, affondandoli entrambi. L’interrogatorio
di ufficiali e marinai di Paladin e Pakenham non permise di risalire con
certezza all’identità delle navi avversarie, in quanto le opinioni erano
discordanti, e nell’oscurità la colorazione mimetica delle torpediniere le
faceva assomigliare a varie classi di cacciatorpediniere; il consenso era però
che alla luce della luna e da 5500 metri di distanza, le navi italiane
sembravano troppo grandi per essere delle torpediniere, e l’idea che si
trattasse di cacciatorpediniere fu rinforzata dalla misurazione dei fori di
proiettile sul Paladin, erroneamente
ritenuti essere di proiettili da 120 mm, e dalle dichiarazioni del comandante
del Paladin circa le dimensioni delle
colonne d’acqua sollevate dai colpi caduti in mare (non venne invece creduto
che ci potesse essere davvero stato un incrociatore).
Il risultato dello
scontro fu attribuito all’inesperienza degli equipaggi britannici: Paladin e Pakenham, infatti, erano stati trasferiti in Mediterraneo da pochi
mesi, provenendo dall’Oceano Indiano, dove non avevano mai partecipato ad
operazioni del genere (il solo Paladin aveva
affondato, insieme a due altri cacciatorpediniere, un minuscolo trasporto
militare italiano, lo Stromboli, ma quella nave era sola e quasi
disarmata); gli equipaggi di Cigno e Cassiopea, al contrario, avevano
l’esperienza accumulata in tre anni di scorte sulle rotte dei convogli. La
perdita del Pakenham fu attribuita
dai britannici ad un colpo fortunato; venne criticata la decisione di
utilizzare i cacciatorpediniere classe P, nati originariamente per impiego
contraereo nelle acque costiere della Gran Bretagna ed armati solo con cannoni
da 102 mm, per dare la caccia a convogli nemici scortati, e venne rilevato che
l’efficienza delle flottiglie di cacciatorpediniere britanniche era logorata da
oltre tre anni e mezzo di intenso impiego bellico.
Vince O’Hara commenta
in proposito: “La decisione del Paladin
di ritirarsi per via di una minaccia immaginaria [quella della presenza di
un incrociatore] fu insolitamente cauta.
Tuttavia, il fatto che costituisse un successo il salvataggio di un convoglio
composto da un mercantile al costo della perdita di un’unità di scorta e del
grave danneggiamento di un’altra indica quale fosse la superiorità britannica
nel combattimento notturno”.
La salvezza del
convoglio fu pagata a carissimo prezzo dall’equipaggio della Cassiopea, che dovette lamentare 56 tra
morti e dispersi: praticamente metà dell’equipaggio, senza contare i feriti. I
morti vennero sepolti a Trapani.
I loro nomi:
Rino Barbotti, marinaio cannoniere, da Ancona,
deceduto
Pietro Barricella, marinaio nocchiere, da
Sant’Angelo a Cupolo, disperso
Alberto Bellini, marinaio cannoniere, da Grumo
Nevano, deceduto
Marcello Berruto, marinaio torpediniere, da
Baldissero Torinese, deceduto
Enzo Berti, marinaio, da Adria, disperso
Mario Cadore, marinaio, da Revere, disperso
Nicola Casalina, sottocapo silurista, da
Pozzuoli, deceduto
Luciano Cattozzo, marinaio nocchiere, da
Rovigo, disperso
Francesco Cilio, marinaio cannoniere, da
Scaletta Zanclea, deceduto
Gigino Contini, marinaio cannoniere, da
Oristano, disperso
Antonino Costanza, marinaio fuochista, da
Palermo, disperso
Alberto Criscuolo, marinaio fuochista, da
Sparanise, deceduto
Bartolomeo De Bernardi, secondo capo
meccanico, da Villadossola, disperso
Giuseppe De Gennaro, marinaio, da Sapri,
deceduto
Carlo De Vivo, sottocapo nocchiere, da Napoli,
disperso
Giuseppe Denegri, marinaio cannoniere, da
Sassari, deceduto
Carlo Dordolin, sergente silurista, da Fiume,
deceduto
Aniceto Fortini, capo nocchiere di terza
classe, da Formignana, deceduto
Rodolfo Fratoni, sottocapo cannoniere, da
Terni, deceduto
Enzo Fumoso, marinaio fuochista, da Siracusa,
disperso
Vincenzo Galletta, sergente cannoniere, da
Brancaleone, deceduto
Giovanni Gandossi, marinaio fuochista, da
Desenzano del Garda, deceduto
Antonio Gasperini, marinaio, da Parenzo,
disperso
Cesare Girardi, marinaio silurista, da Susa,
disperso
Tommaso Grassi, marinaio silurista, da Ghedi,
deceduto
Caio Guarnone, secondo capo elettricista, da
Bergamo, deceduto
Michele Illiano, marinaio silurista, da Monte
di Procida, deceduto
Eugenio Iob, sottocapo nocchiere, da
Ravascletto, deceduto
Mario Iuliano, marinaio cannoniere, da Napoli,
disperso
Bruno Izzinosa, marinaio fuochista, da
Trieste, deceduto
Giuseppe Leotta, marinaio fuochista, da
Acireale, disperso
Alessandro Losa, sottocapo fuochista, da
Alzano Lombardo, disperso
Francesco Magnani, marinaio cannoniere, da
Rubiera, disperso
Nunzio Mammoli, marinaio S.D.T., da
Manfredonia, deceduto
Giovanni Mariani, marinaio silurista, da
Pontremoli, deceduto
Marino Masi, marinaio cannoniere, da Campi
Bisenzio, deceduto
Giuseppe Napoleone, sergente fuochista, da
Vasto, deceduto
Antonio Pedio, sottocapo cannoniere, da Muro
Leccese, disperso
Giulio Pellegrino, marinaio cannoniere, da
Vietri sul Mare, deceduto
Pietro Petrosillo, marinaio cannoniere, da
Monopoli, disperso
Luigi Pigozzo, sottocapo meccanico, da Noale,
disperso
Alfredo Polito, sottocapo elettricista, da
Eboli, deceduto
Nello Principetti, marinaio torpediniere, da
Senigallia, deceduto
Edoardo Romita, marinaio fuochista, da
Modugno, disperso
Francesco Rossetti, sottocapo cannoniere, da
Terracina, disperso
Saverio Santacroce, marinaio cannoniere, da
Teramo, disperso
Alfredo Segoni, sottocapo S.D.T., da Guidonia
Montecelio, disperso
Otello Simoncini, sottotenente del Genio
Navale, da Pescara, deceduto
Salvatore Sorrentino, marinaio nocchiere, da
Palermo, disperso
Giobatta Stagnaro, marinaio fuochista, da Genova,
disperso
Ettore Stuparich, marinaio fuochista, da
Trieste, deceduto
Paolo Tempesta, marinaio fuochista, da Trani,
disperso
Edoardo Troisi, secondo capo meccanico, da
Avellino, disperso
Luigi Trosti, capo segnalatore di terza
classe, da Pisino, deceduto
Angelo Vicario, marinaio fuochista, da
Borgomanero, disperso (*)
Franco Zorzenon, marinaio elettricista, da
Taranto, deceduto
(*) Per Angelo Vicario gli elenchi dei caduti e dispersi della Marina Militare indicano il 16 marzo 1943 come data di dispersione, mentre la banca dati online di Onorcaduti (Ministero della Difesa) indica il 16 aprile. Sembra probabile un refuso negli elenchi della Marina.
Il comandante Nasta
venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione
"Comandante di torpediniera di
scorta a convoglio nel Canale di Sicilia, avvistati nella notte due grandi
cacciatorpediniere nemici in fase di attacco, seguiva la torpediniera del capo
sezione in pronta contromanovra riuscendo ad attrarre l'offesa nemica. Con l'unità
ripetutamente colpita e ridotta nell'efficienza da perdite fra il personale
alle armi e dalle fiamme di due incendi, reagiva con le armi e si portava
all'attacco col siluro costringendo le unità nemiche a ritirarsi con grossi
danni. In seguito alle avarie riportate, una delle due unità avversarie fu
abbandonata ed affondata. Si dedicava quindi alla salvezza della propria nave
ormai in precarie condizioni di galleggiabilità e riusciva nell'intento fino a
raggiungere a rimorchio una vicina base navale. Il valoroso comportamento delle
nostre torpediniere consentiva al convoglio loro affidato di raggiungere il
porto di destinazione".
Al sottotenente del
Genio Navale Otello Simoncini, unico ufficiale tra i caduti, venne conferita
alla memoria la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione “Sott’ordine di macchina su torpediniera,
durante un combattimento notturno contro due super ct., si adoperava con
perizia per il buon funzionamento dei servizi; successivamente, informato dello
sviluppo di un grave incendio a prora, attraversava una zona scoperta per
portarsi sul luogo. Malgrado fosse rimasto leggermente ferito, continuava a
dirigere l’opera di spegnimento e circoscrizione dell’incendio e quando le
fiamme si propagavano all’anticastello, benché dissanguato ed asfissiato voleva
personalmente accertarsi dell’entità dell’incendio. In questa sua opera trovava
gloriosa morte”.
Alla memoria dei
cannonieri Rino Barbotti, Alberto Bellini e Giuseppe Denegri, dei fuochisti
Alberto Criscuolo, Giovanni Gandossi, Edoardo Romita ed Ettore Stuparich, dei
siluristi Tommaso Grassi e Giovanni Mariani, del marinaio Giuseppe De Gennaro e
del secondo capo elettricista Caio Guarnone venne conferita la Croce di Guerra
al Valor Militare.
La Cassiopea a Taranto nel maggio 1943, in
attesa di entrare in Arsenale per le riparazioni dei gravi danni riportati
nello scontro notturno del precedente 16 aprile. Nella foto in alto è ben
visibile la traccia lasciata sullo scafo dalla nafta che galleggiava sul mare
durante la battaglia, che dà un’idea dello sbandamento raggiunto; si nota anche la plancia semidistrutta. Nella foto in
basso, particolare del fumaiolo squarciato (g.c. STORIA militare)
Da Trapani (dove
venne così descritta dal sottocapo Alberto Ferrari della Tifone, che la vide il 20 aprile al ritorno dalla Tunisia: «…era indescrivibile la devastazione di
bordo: dalla plancia a poppa non s’intravedevano che rottami informi e
carbonizzati. La ciminiera era squarciata come un barattolo di marmellata»)
la Cassiopea venne poi rimorchiata a
Taranto per i lavori di riparazione, che si svolsero nel locale Arsenale e si protrassero
per oltre sei mesi (nell’estate del 1943, la nave risultava formalmente
inquadrata nella I Squadriglia Torpediniere di base a Napoli, insieme alle
gemelle Sirio, Aretusa, Lince, Sagittario e Clio; il 12 luglio 1943 risulterebbe essere deceduto nel
Mediterraneo centrale il marinaio cannoniere Giulio Cavallari di Portomaggiore,
20 anni, della Cassiopea, ma non sono
chiare le circostanze, dal momento che all’epoca la nave si trovava ai lavori).
Di conseguenza, alla
proclamazione dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) la Cassiopea si trovava ancora ai lavori a
Taranto, una delle poche basi della Penisola a rimanere saldamente sotto
controllo italiano. Così preservata dai drammatici eventi armistiziali, rientrò
in servizio quando ormai l’Italia era divenuta “cobelligerante” con gli
Alleati.
1943-1945
Durante la
cobelligeranza, la Cassiopea viene
adibita alla scorta di convogli con rifornimenti militari e civili italiani ed
Alleati.
Nel 1944 effettua
anche una missione “speciale” (sono tali le missioni di
infiltrazione/esfiltrazione di informatori in territorio occupato, contatto e
rifornimento di formazioni partigiane, azioni di fuoco contro truppe nemiche,
recupero di militari sbandati nei Balcani) in Mare Adriatico.
27-29 gennaio 1944
Si trasferisce da
Augusta a Taranto insieme al cacciatorpediniere Grecale, alla torpediniera Sirio,
alle corvette Urania e Sibilla ed al sommergibile Jalea.
23 maggio 1945
Il sergente
cannoniere Pietro Binetti della Cassiopea,
26 anni, da Brescia, muore in territorio metropolitano.
3 novembre 1945
Cassiopea, Libra e la
torpediniera Ariete salpano da Taranto
per andare incontro ai sommergibili Dandolo,
Onice, Atropo, Tito Speri, Marea, Giovanni Da Procida
e Ciro Menotti, di ritorno
dall’Atlantico dove, durante la cobelligeranza, hanno partecipato
all’addestramento delle unità antisommergibili Alleate. Incontrati i
sommergibili al largo di Taranto, le tre torpediniere ne assumono la scorta e
li conducono in porto, dove giungono alle 10.30 del 3 novembre.