La Giuseppe Sirtori (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
Torpediniera, già
cacciatorpediniere, capoclasse della classe omonima (dislocamento di 790
tonnellate di dislocamento in carico normale, 850 o 865 tonnellate a pieno
carico).
Le quattro navi della
classe Sirtori rappresentavano una evoluzione della precedente classe Pilo del
1914-1915; costruiti dallo stesso cantiere (Odero di Sestri Ponente) che aveva
progettato e realizzato la maggior parte dei Pilo, i Sirtori erano pressoché
uguali ai predecessori nell’aspetto e nelle dimensioni (il loro tipo fu infatti
chiamato inizialmente anche “Pilo migliorato”, od anche “Indomito migliorato
seconda serie”, dato che la classe Pilo era a sua volta derivata dalla classe
Indomito), mentre la principale differenza consisteva nell’armamento principale,
costituito da sei cannoni Schneider-Armstrong Mod. 1914-1915 da 102/35 mm
disposti sui lati, in luogo dei pezzi da 76/40 mm dei Pilo. I tubi lanciasiluri
erano sempre quattro, da 450 mm, ma in due impianti binati laterali, anziché in
quattro impianti singoli (pure laterali) come sui Pilo. Anche la potenza
dell’apparato motore (15.500 HP, generati da due turbine Tosi alimentate da
quattro caldaie Thornycroft) e la velocità (33 nodi alle prove, effettuate con
un dislocamento medio di 685 tonnellate: la velocità contrattuale era di 30)
erano molto simili a quelle della classe Pilo. Lo scafo era pressoché uguale a
quello dei Pilo, eccetto che per la prua estrema, dotata di “rostro” e
caratterizzata da un dritto di prora più slanciato, che accrebbe leggermente la
lunghezza fuori tutto (73,5 metri in luogo di 73). L’armamento contraereo era
costituito in origine da due mitragliere pesanti Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm
e due Colt leggere da 6,5/80 mm, altra differenza rispetto ai Pilo che fu però
colmata nel primo dopoguerra, quando anche queste navi ricevettero analogo
armamento antiaereo. Completavano l’armamento le attrezzature per trasportare a
poppa 10 mine Bollo nonché l’equipaggiamento per la caccia antisom (si riteneva
anche il “rostro” potenzialmente utile a questo scopo) ed il dragaggio in
corsa. C’erano infine alcune migliorie secondarie rispetto ai Pilo per quanto
riguardava gli elettrogeneratori e relativi apparati; questo ed il maggior
calibro dei cannoni facevano sì che il dislocamento dei Sirtori superasse
quello dei Pilo di alcune decine di tonnellate.
Nel 1920 i cannoni
dell’armamento principale dei Sirtori vennero sostituiti con altrettanti del
più moderno modello Schneider-Armstrong 1917 da 102/45 mm. Questo ed altri
ammodernamenti comportarono un certo incremento del dislocamento, che nel 1940
raggiungeva le 845 tonnellate in carico normale e superava le 880 a pieno
carico.
Facevano parte della
numerosa serie dei “tre pipe”, cacciatorpediniere costruiti a cavallo della
Grande Guerra e molto simili nelle caratteristiche e nell’aspetto,
caratterizzato da tre alti e snelli fumaioli, dai quali derivava tale
nomignolo.
Unità robuste e di
buone caratteristiche all’epoca della loro costruzione, i Sirtori risultavano
del tutto antiquati allo scoppio della seconda guerra mondiale, senza la quale
sarebbero stati probabilmente demoliti nel giro di alcuni anni; nel 1943 erano
giudicati non più adatti alla scorta d’altura, per via della loro vetustà.
Poterono tuttavia svolgere ancora un utile servizio in acque costiere e sulle
rotte meno insidiate, “liberando” navi più moderne per l’impiego in acque dove
l’offesa nemica era più agguerrita.
Durante la seconda
guerra mondiale la Sirtori venne
impiegata in compiti di scorta e vigilanza antisommergibili, inizialmente nelle
acque della Libia e successivamente lungo le coste dell’Italia meridionale.
Breve e parziale cronologia.
2 febbraio 1916
Impostazione nei
cantieri Odero di Sestri Ponente.
24 settembre 1916
Varo nei cantieri
Odero di Sestri Ponente.
22 dicembre 1916 (o 19 gennaio 1917)
Entrata in servizio.
Dislocato nel Basso
Adriatico/Mar Ionio.
Novembre 1916
Il Sirtori, insieme a Stocco, Acerbi ed Orsini, forma la V Squadriglia
Cacciatorpediniere, di base a Venezia.
13-14 agosto 1917
Il Sirtori parte nottetempo da Venezia
insieme ai gemelli Francesco Stocco,
Giovanni Acerbi e Vincenzo Giordano Orsini, che con il Sirtori formano una squadriglia, ad
una seconda squadriglia di cacciatorpediniere (Ardente, Audace, Animoso e Giuseppe Cesare Abba) ed alla sezione di cacciatorpediniere Carabiniere-Pontiere, per attaccare una formazione leggera austroungarica
(cacciatorpediniere Streiter, Reka, Velebit, Scharfschutze e Dinara e 6 torpediniere) che ha
fornito appoggio ad un attacco da parte di 32 aerei contro Venezia, durante il
quale è stato colpito l’ospedale di San Giovanni e Paolo e sono rimaste uccise
14 persone, e ferita un’altra trentina. Di tutta la formazione italiana, solo
l’Orsini riesce a prendere
contatto con le navi nemiche, ma, condotto verso i campi minati nemici, deve
rompere il contatto per non finire tra le mine. Il gruppo navale
austroungarico, rotto il contatto, rientra alla base senza ulteriori
complicazioni.
19 novembre 1917
Sirtori, Stocco, Orsini ed un altro
cacciatorpediniere, l’Ardito, bombardano
con i cannoni da 102 mm le linee austroungariche tra Caorle e
Revedoli (sul fronte del Piave), sparando cento colpi per pezzo, in appoggio
alle operazioni delle forze di terra.
20 novembre 1917
Altro bombardamento
navale, stavolta contro le linee austoungariche della zona paludosa di
Grisolera (oggi Eraclea), vicino alla foce del Piave.
23 novembre 1917
Altra azione di
cannoneggiamento contro le posizioni nemiche di Grisolera, con l’impiego di
otto cacciatorpediniere. La reazione delle batterie costiere e degli aerei
austroungarichi è del tutto inefficace.
28 novembre 1917
Sirtori, Stocco, Acerbi, Orsini, Animoso, Ardente, Ardito, Abba ed Audace, unitamente agli
esploratori Aquila e Sparviero, lasciano Venezia e – in
cooperazione con idrovolanti da ricognizione – si mettono alla ricerca di
una formazione navale austroungarica che ha appena compiuto un attacco contro
le coste italiane. I gruppi nemici sono due: i cacciatorpediniere
austroungarici Triglav, Reka e Dinara e le torpediniere TB 78, 79, 86 e 90 hanno cannoneggiato e danneggiato un treno merci e le linee
ferroviaria e telegrafica alle foci del Metauro, causandone la temporanea
interruzione (e venendo poi indotti alla ritirata dalla reazione del treno
armato n. 3 inviato da Senigallia, anche se il suo tiro non è molto accurato),
mentre i cacciatorpediniere Dikla, Streiter ed Huszar e quattro torpediniere,
formando un secondo gruppo, hanno infruttuosamente attaccato dapprima Porto Corsini,
venendo messi in fuga dall’immediata reazione delle batterie costiere, e
poi Rimini, dove sono stati parimenti respinti dalla decisa reazione del treno
armato n. 6. I due gruppi austroungarici, riunitisi in uno solo, stanno
rientrando alle basi, attaccati più volte da idrovolanti. Le navi italiane
arrivano in vista di quelle nemiche solo quando queste ormai si trovano al
largo di Capo Promontore, troppo vicino a Pola, principale base delle K.u.K.
Kriegsmarine, così che devono lasciar perdere l’inseguimento.
10 febbraio 1918
Sirtori, Stocco, Acerbi, Ardente, Ardito e
l’esploratore Aquila salpano da
Venezia con l’ordine di portarsi nelle acque di Porto Levante (Porto Viro) per
dare supporto, qualora necessario, al progettato attacco di tre MAS contro il
naviglio austroungarico all’ancora nella baia di Buccari, nel Golfo del
Quarnaro (poco a sudovest di Fiume), incursione che diverrà famosa come la
«beffa di Buccari».
L’operazione è stata
decisa il 9 gennaio 1918 dal viceammiraglio Luigi Cito di Filomarino,
comandante della Piazza Marittima di Venezia, che ne ha affidato la direzione
al contrammiraglio Mario Casanuova, comandante della Divisione dell’Alto
Adriatico, il quale ha emanato gli ordini dettagliati il giorno seguente.
Obiettivo è appunto attaccare il naviglio nemico ancorato nella baia di Buccari
(dove sono spesso presenti piroscafi impiegati nel rifornimento delle truppe
austroungariche) nonché, eventualmente, a Porto Re; incursione da compiersi con
tre MAS in una notte senza luna (per minimizzare la possibilità di essere
scoperti) e con favorevoli condizioni meteomarine (per permettere un’agevole
navigazione per i piccoli MAS).
I MAS prescelti per
l’azione sono i MAS 94 (sottotenente
CREM Andrea Ferrarini), 95 (tenente
di vascello Profeta De Santis) e 96
(capitano di corvetta Luigi Rizzo); su quest’ultimo prendono imbarco il
comandante della Flottiglia MAS, capitano di fregata Costanzo Ciano, ed il
poeta Gabriele D’Annunzio. I tre MAS dovranno essere rimorchiati fino
all’imboccatura del canale di Fasana dalle torpediniere costiere 12 PN, 13 OS e 18 OS, scortati
da naviglio leggero ed appoggiati da una forza di esploratori e
cacciatorpediniere; poi penetreranno da soli in acque controllate dal nemico,
raggiungeranno la baia di Buccari e silureranno le navi presenti, per poi
fuggire prima che le forze austroungariche possano reagire.
Il maltempo impedisce
di eseguire l’operzione in gennaio; il 4 febbraio, tuttavia, un aereo S.I.A.
della 38a Squadriglia (pilota sottotenente Lombardi, osservatore
sottotenente di vascello Capacci), messo a disposizione dal comando della III
Armata, esegue una ricognizione fotografica su Pola, Fiume e la Baia di
Buccari, rilevando che in quest’ultima sono presenti quattro piroscafi
austroungarici all’ancora (tre da carico ed uno passeggeri; inizialmente una
delle navi viene erroneamente ritenuta un’unità da guerra), mentre a Porto Re
non vi sono navi. Analizzati i risultati della ricognizione, il 7 febbraio il Comando
in Capo di Venezia decide di dare il via alla missione, da compiere in una
delle prossime notti senza luna, poi fissata come quella tra l’11 ed il 12
febbraio; l’8 febbraio il contrammiraglio Casanuova impartisce le direttive al
Comando Flottiglia Torpediniere, all’esploratore Aquila, alle Squadriglie Cacciatorpediniere «Orsini» (di cui fa
parte il Sirtori) ed «Animoso» ed
alla Flottiglia MAS.
Dei tre gruppi
previsti per l’operazione, Sirtori, Stocco, Acerbi, Ardente, Ardito e l’esploratore Aquila formano il 1° Gruppo (che
comprende anche il MAS 18, a
rimorchio dello Stocco, tenuto di
riserva nel caso uno dei tre MAS destinati all’attacco dovesse subire avarie ai
motori), al comando del capitano di fregata Piero Lodolo; il 2° Gruppo
(capitano di fregata Arturo Ciano) consiste nei cacciatorpediniere Giuseppe Cesare Abba, Animoso ed Audace, mentre il 3° Gruppo (capitano di corvetta Matteo Spano) è
quello formato dalle tre torpediniere (12
PN, 13 OS e 18 OS) che dovranno rimorchiare i MAS fin nelle acque istriane.
Sono coinvolte nell’operazione anche le stazioni semaforiche di Piave, San
Nicolò, Torre Piloti, Sottomarina, Porto Levante, Punta Maestra, Fiumi Uniti e
Monte Cappuccini, che devono inviare le loro rilevazioni meteorologiche che,
unitamente alle previsioni dell’Ufficio Metereologico di Padova, hanno
un’importanza cruciale per il successo della missione (è indispensabile che il
tempo rimanga bello e stabile per circa 20 ore).
All’alba del 10
febbraio, essendoci bel tempo e previsioni favorevoli, viene deciso di dare il
via alla missione; i MAS 94, 95 e 96,
con a bordo in tutto 30 uomini (dieci per MAS) tra cui Ciano e D’Annunzio, lasciano
da Venezia alle 10.45 a rimorchio di Abba,
Audace ed Animoso del 2° Gruppo. D’Annunzio ha portato con sé tre bottiglie,
fasciate con nastri tricolori, nelle quali ha racchiuso un messaggio di scherno
per la flotta austroungarica («In onta
alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti
sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a
scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d'Italia, che si
ridono d'ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l'inosabile. E
un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il
nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della
taglia»), che intende gettare in acqua una volta giunto nel Quarnaro.
Le siluranti, in
linea di fila, imboccano la rotta di sicurezza meridionale, raggiungendo la boa
di Punta Maestra alle 13.08 ed accostando per 110° alle 14.05 (al largo del
fanale del Po di Goro). Alle 16.43 Abba,
Audace e Animoso incontrano le tre torpediniere del 3° Gruppo; i due gruppi
si riuniscono ed assumono rotta 90° fino a giungere nel punto 44°30’ N e 13°50’
E (20 miglia ad ovest dell’isola di Sansego nonché al largo dell’isolotto della
Galiola), nel quale alle 18.15 fermano le macchine e cedono il rimorchio dei
MAS alle torpediniere. Poi, i cacciatorpediniere del 2° Gruppo prendono il
largo, dirigendosi verso il punto di crociera loro assegnato (lungo la costa
veneta a sud di Chioggia).
Mentre questo accade,
il Sirtori e le altre unità del 1°
Gruppo (chiamato anche gruppo «Aquila» o «Gruppo Esploratore»), si portano a
Porto Levante e qui si mettono all’ancora, tenendosi pronti ad intervenire su
ordine del Comando in Capo di Venezia nel caso di uscita in mare di forze
navali nemiche (per altra fonte, incrociano in quelle acque a protezione dei
MAS). Successivamente, i cacciatorpediniere incrociano a scopo protettivo in
due gruppi («Aquila» con Aquila, Ardente, Ardito, Acerbi, Sirtori e Stocco ed «Animoso» con Animoso, Abba ed Audace); ma il loro intervento non sarà
necessario. Partecipano all’operazione, con agguati protettivi, anche i
sommergibili F 3 (ad ovest di Pola) e
F 5 (a sud di Capo Promontore).
Le tre torpediniere
rimorchiano i MAS fino all’imbocco del Canale di Fasana (più precisamente sulla
congiungente Punta Kabile di Cherso-Punta Sant'Andrea), dove alle 22.15 mollano
i rimorchi; a questo punto le torpediniere dirigono verso Fianona, mentre i MAS
imboccano il canale di Farasina. Giunti, non visti, ad un miglio dalla costa di
Buccari, i tre motoscafi siluranti spengono i motori a scoppio e proseguono con
quelli elettrici, più silenziosi; alle 00.35 dell’11 febbraio imboccano la
stretta che porta alla baia di Buccari, dove giungono indisturbati per poi
lanciare, all’1.20, sei siluri contro quattro piroscafi alla fonda.
A causa delle reti
parasiluri di cui questi sono provvisti, solo uno dei siluri lanciati va a
segno (per altra versione, nessuno), il che fa mancare un successo pratico;
l’azione avrà però notevole risonanza mediatica e propagandistica, abilmente
orchestrata da D’Annunzio (che al rientro a Venezia pubblicherà un resoconto
epicizzato dell’impresa, subito diffuso sui principali giornali nazionali,
seguito poco dopo dalla pubblicazione della “Canzone del Quarnaro”), con
effetto positivo sul morale italiano e negativo su quello austroungarico, il
cui sistema di sorveglianza costiera e portuale si è rivelato completamente
inefficace: i tre MAS hanno potuto navigare indisturbati per ore in acque che
sarebbero dovute essere sotto saldo controllo austroungarico, navigando per più
di 90 miglia tra le coste nemiche, superando la strettoia di Farasina (larga
meno di due miglia e, in teoria, strettamente sorvegliata) e penetrando non
visti fino nella baia di Buccari, nella quale sono rimasi per più di un’ora. A
questo si aggiunge la beffa di D’Annunzio, che come pianificato ha lanciato
nelle acque interne della baia di Buccari le tre bottiglie con il suo messaggio
irrisorio. La fragilità e inadeguatezza del sistema di sorveglianza e difesa
costiero austroungarico, messa in risalto dall’incursione di Buccari, andrà ad
indebolire la posizione del Ministro della Marina asburgico, ammiraglio
Maximilian Njegovan, già sotto attacco da parte dei vertici dell’esercito
imperiale per la sua condotta passiva della guerra navale in Adriatico.
I MAS giungono ad
Ancona alle 7.45; il capo di Stato Maggiore della Marina, informato del
completamento della missione, invierà un telegramma di elogio («Al Comandante Ciano ai Comandanti ed
equipaggi tutti che cooperarono ardita operazione invio vivo plauso»).
8-9 aprile 1918
Il Sirtori ed altre siluranti escono
in mare nottetempo per fornire supporto ad un tentativo di attacco della base
austroungarica di Pola mediante i “barchini saltatori” (siluranti) «Grillo», «Locusta»,
«Pulce» e «Cavalletta». Alle 18 le torpediniere costiere 13 OS, 14 PN, 15 OS, 16 OS, 18 OS, 46 OS e 48 OS escono da Malamocco rimorchiando i MAS 95 e 96 ed i quattro “barchini saltatori”, ma l’operazione
viene interrotta perché il convoglio procede troppo lentamente, e non risulta
possibile arrivare in tempo utile agli sbarramenti di Pola; la 13 OS (con un “barchino” a rimorchio)
rientra alle 3 del 9 aprile, seguita dalle altre torpediniere con i relativi
rimorchi alle 5.30.
12-13 aprile 1918
Seconda uscita
notturna per attaccare Pola con i “barchini saltatori”, stavolta solo «Pulce»
(al comando del tenente di vascello Alberto Da Zara) e «Cavalletta» (al comando
del tenente di vascello Mario Pellegrini), sotto la direzione del capitano di
vascello Carlo Pignatti di Morano, coadiuvato dal parigrado Costanzo Ciano. Il Sirtori partecipa alla spedizione con la
squadriglia «Orsini», che forma insieme ai tre gemelli; prendono inoltre parte
all’operazione anche gli esploratori Aquila
e Sparviero, la Squadriglia
Cacciatorpediniere «Animoso» (Animoso,
Abba, Ardente, Audace), le
torpediniere 13 OS, 16 OS e 18 OS (avente a bordo Ciano, Pignatti di Morano ed anche il poeta
Gabriele D’Annunzio) ed i MAS 95 e 96. Alle 16 del 12 aprile le
torpediniere, al comando del capitano di corvetta Matteo Spano, lasciano la
Giudecca, ed alle 17.30 escono dal Passo di Spignon ed imboccano la rotta di
sicurezza sud (la 18 OS rimorchia i
due MAS, mentre 13 OS e 16 OS rimorchiano rispettivamente
«Pulce» e «Cavalletta», seguendo rotta vera 103°. Alle 00.53 del 13 aprile
viene mollato il rimorchio, ed i due MAS e i due barchini (Ciano, Pignatti di
Morano e D’Annunzio sono trasbordati sul MAS
95) proseguono da soli verso Pola. Verso le due, anche i MAS si fermano,
lasciando proseguire i due barchini. Alle 3.53, però, i comandanti di «Pulce» e
«Cavalletta» si rendono conto che neanche stavolta riusciranno a raggiungere le
ostruzioni prima dell’alba; quindi, per non destare sospetti nel nemico
facendosi vedere con le loro imbarcazioni, tornano indietro. Alle 5.15 avviene
l’incontro con i MAS, che li prendono a rimorchio per riportarli a Venezia;
dopo non molto, però, il rimorchio si spezza, e viene deciso di autodistruggere
«Pulce» e «Cavalletta» per evitare che la ricognizione austroungarica – essendo
ormai sorto il sole – li possa avvistare ed intuirne la destinazione d’uso,
prendendo contromisure che vanificherebbero nuovi tentativi. Il personale viene
trasferito sui MAS, dopo di che i due “barchini saltatori” vengono
autoaffondati a colpi d’accetta e con il brillamento di cariche esplosive.
Intanto il Gruppo
Esploratori e Cacciatorpediniere, di cui fa parte il Sirtori, dopo essere uscito dal Passo di Lido durante la notte ha
svolto regolarmente la sua missione; alle 7.30 esso incontra al largo di Punta
Mastra le torpediniere ed i MAS. Durante la manovra di trasbordo di Ciano,
Pignatti di Morano e D’Annunzio dal MAS
95 alla 18 OS, la formazione viene
attaccata da idrovolanti austroungarici, che sganciano bombe sui
cacciatorpediniere, che si trovano poco distanti dalle torpediniere; nessuna
nave viene colpita, ed alle 8 la formazione dirige per Venezia, dove giunge
indenne.
Si decide di
replicare l’operazione nella fase priva di luna del mese seguente, con un solo
barchino.
6-7 maggio 1918
Altra uscita di notte
a supporto di un nuovo tentativo di attacco di Pola con il «Grillo», pure
interrotta.
9-10 maggio 1918
Nuovo tentativo
notturno d’attacco a mezzo «Grillo» a sua volta cancellato.
11-12 maggio 1918
Ennesima uscita
notturna in appoggio ad un altro attacco abortito del «Grillo» contro Pola.
13-14 maggio 1918
Alle 17.30 del
13 Sirtori, Stocco, Acerbi, Orsini
ed Animoso salpano da Venezia insieme
alle torpediniere costiere 9 PN e 10 PN ed ai MAS 95 e 96 (questi ultimi due al comando del tenente di vascello
Alfredo Berardinelli) per dare appoggio ad un altro tentativo di attacco del
«Grillo» contro Pola: l’operazione, decisa dal viceammiraglio Paolo Marzolo
(Comandante in Capo della Piazza Marittima di Venezia), è affidata al capitano
di fregata Costanzo Ciano, ispettore e comandante superiore dei MAS, imbarcato
sulla 9 PN insieme al capitano di
vascello Cesare Vaccaneo (comandante della Flottiglia Torpediniere) ed al
capitano di fregata Tista Scapin (comandante della Flottiglia MAS di Venezia).
I cacciatorpediniere hanno compiti di vigilanza a distanza.
Torpediniere e MAS
mollano gli ormeggi alle 16.40; la 10 PN
rimorchia il «Grillo» (al comando del capitano di corvetta Mario Pellegrini e
con equipaggio composto dal secondo capo torpediniere Antonio Milani, dal
marinaio scelto Francesco Angelino e dal fuochista scelto Giuseppe Corrias).
Alle 17.27 le quattro unità superano il Passo di Spigon, alle 20 raggiungono
Punta Maestra e fanno rotta per Capo Promontore, ed alle 23.42 la 9 PN prende a rimorchio i due MAS,
dirigendosi verso Punta Cristo.
Nel mentre, Sirtori, Stocco, Acerbi, Orsini ed Animoso (nave di bandiera del capo flottiglia, capitano di vascello
Giovannini) escono dal Passo di Lido prima di mezzanotte e dirigono per Punta
Maestra lungo le rotte meridionali, dopo di che fanno rotta per Capo
Promontore; al contempo Missori, Ardente, Ardito e La Masa si
tengono pronti per intervenire di rinforzo a mezzanotte.
All’una del 14 maggio
le torpediniere mollano i rimorchi, ed i comandanti Ciano e Scapin trasbordano
sul MAS 95; all’1.15 MAS e «Grillo» si
dirigono verso l’imbocco della rada di Pola, mentre le due torpediniere si
allontanano verso la zona di crociera loro assegnata. Alle 2.18, arrivata la
formazione nel punto prestabilito (a 1300 metri dalla diga di Pola), i
MAS si separano dal barchino, ed alle 3.16 inizia l’attacco del «Grillo»: il
mezzo d’assalto mette il motore alla massima forza e scavalca la prima
ostruzione alle 3.25, ma nel farlo viene scoperto e fatto segno ad intenso
fuoco di fucili, mitragliere ed anche un cannoncino; nondimeno prosegue e
riesce a scavalcare altre tre ostruzioni, ma mentre cerca di superare la quinta
viene illuminato da un proiettore ed attaccato anche da un’imbarcazione armata
di vigilanza. Essendo impossibile proseguire, il tenente di vascello Pellegrini
avvia le manovre per l’autodistruzione ed al contempo tenta di lanciare i
siluri, dal punto in cui si trova, verso l’interno del porto; in quel momento,
tuttavia, il «Grillo» viene colpito in pieno da una cannonata che ne provoca
l’immediato affondamento. Il suo equipaggio è catturato (uno dei quattro
uomini, il marinaio Angelino, è ferito ad un braccio, gli altri sono rimasti più
o meno illesi).
Alle 3.25, frattanto,
i MAS e le torpediniere osservano due fiammate rossastre levarsi da Pola,
seguite alle 3.27 dall’accensione dei riflettori interni della rada e dalle
vampe dei cannoni. Alle 3.30 MAS 95 e
10 PN avvistano un razzo Very
separatore (che dovrebbe segnalae l’affondamento di una corazzata classe
Viribus Unitis: questo, insieme alle esplosioni, indurrà inizialmente a
ritenere che l’attacco abbia avuto successo) seguito da un Very verde, segnale
concordato con Pellegrini per indicare l’affondamento del «Grillo», ed alle
3.35 anche i proiettori foranei di Pola si accendono, illuminando i MAS; le
batterie costiere iniziano a tirare nella loro direzione. Le piccole unità si
ritirano sotto il fuoco nemico, senza riportare danni (neanche quando, alle
3.40, i fasci dei proiettori convergono su di loro, attirando un tiro
particolarmente concentrato di diverse batterie), ricongiungendosi ai
cacciatorpediniere del gruppo di supporto alle 5 del 14 per poi fare ritorno alla
base.
2 luglio 1918
All’una di notte del
2 luglio Sirtori, Stocco, Acerbi, Orsini, Audace ed altri due
cacciatorpediniere, il Giuseppe
Missori ed il Giuseppe La
Masa, salpano a Venezia per dare appoggio a distanza ad un’azione di
bombardamento e sbarco simulato tra Cortellazzo e Caorle. I cacciatorpediniere
sono divisi in due squadriglie: «Orsini», formata da Sirtori (capitano di corvetta Mercalli), Stocco (capitano di corvetta Bonaldi), Acerbi (capitano di corvetta Guido Po) e Orsini (capitano di fregata Domenico Cavagnari, caposquadriglia); e
«Missori», formata da Missori
(capitano di fregata Bellavita, caposquadriglia), La Masa (capitano di corvetta Viale) ed Audace (capitano di corvetta Starita), il tutto sotto il comando
del capitano di vascello Giovannini, capo flottiglia. A copertura della
formazione ci sono in agguato tre sommergibili (uno nel Golfo di Trieste, un
altro tra Rovigno e San Giovanni in Pelago, un altro ancora a sud di Capo
Promontore) e due MAS (MAS 9 e MAS 91, ad ovest di Capo Compare,
appoggiati dalle torpediniere 4 PN e 16 OS).
L’operazione vede le torpediniere costiere
64 PN, 65 PN, 66 PN, 40 OS e 48 OS, appoggiate dalle torpediniere d’alto mare Climene e Procione, procedere a lento moto tra Cortellazzo e Caorle
bombardando le retrovie austroungariche (specialmente tra Caorle e Revedoli);
un cannoneggiamento “preparatorio” protrattosi per oltre un’ora, che viene seguito
da uno sbarco simulato (eseguito dalle torpediniere 15 OS, 18 OS e 3 PN che rimorchiano alcuni finti
pontoni da sbarco) per distogliere l’attenzione delle forze nemiche e così
favorire l’avanzata di quelle italiane. Il bombardamento e lo sbarco simulato
hanno infatti lo scopo di attirare il tiro delle artiglierie austroungariche
verso il mare, in modo da agevolare la pianificata e contemporanea avanzata
delle truppe del Reggimento Marina e del 64° e 65° Reggimento Bersaglieri nei
settori contigui del fronte del Piave (attacco che viene infatti lanciato alle
sei del mattino del 2 luglio); le torpediniere del finto convoglio da sbarco,
insieme a rimorchiatori e pontoni armati, si portano sottocosta ed attirano su
di sé un violento fuoco nemico, mentre marinai e bersaglieri vanno all’attacco,
ottenendo tuttavia guadagni territoriali piuttosto limitati a causa del terreno
e della forte reazione delle mitragliatrici nemiche. L’operazione fa parte di
una più vasta azione offensiva intrapresa dalla III Armata sul Piave, da
Intestadura al mare, iniziata il 2 luglio e che entro il 6 luglio porterà alla
riconquista del territorio compreso tra il Piave ed il tratto di Sile chiamato
Piave Vecchio.
A supporto delle
diverse formazioni in mare operano alcune squadriglie di idrovolanti, una delle
quali guidata dal sottotenente di vascello Aimone di Savoia, avente come
osservatore incaricato di fare segnalazioni sul tiro il tenente di vascello
Accorretti.
Nel corso di questa
operazione, i cacciatorpediniere italiani s’imbattono negli
austroungarici Csikós e Balaton e nelle torpediniere TB 83F e la TB 88F, partite da Pola nella tarda
serata del 1° luglio per supportare un’incursione aerea su Venezia e giunte in
zona dopo aver superato l’attacco di un MAS – che ha infruttuosamente lanciato
un siluro contro il Balaton, che
ha una caldaia guasta, il che rallenta la formazione – all’alba del 2 luglio.
Le unità italiane stanno
incrociando ad una decina di miglia dalla costa di Cortellazzo, in condizioni
di cielo quasi sereno ma leggermente fosco all’orizzonte (la luna è sorta da
poco) e mare abbastanza calmo con brezza da scirocco, quando avvistano due
“globi luminosi bianchi” scendere dall’alto a forte distanza per poi spegnersi,
dopo di che avvistano anche una lieve nuvola di fumo che va facendosi via via
più nitida. Alle 3.05 vengono avvistate le sagome delle quattro navi nemiche,
ed alle 3.23 (per altra fonte, le 3.10) l’Orsini
apre il fuoco per primo, seguito dagli altri cacciatorpediniere della sua
squadriglia, dopo di che anche le siluranti austroungariche – che per una fonte
austriaca alle 3.10 avrebbero invece avvistato fumo di diverse navi, al
traverso e verso poppa, giungendo poi all’avvistamento – rispondono
immediatamente: la distanza è di 4000 metri, in rapida diminuzione. In breve le
formazioni contrapposte si trovano a poco più di mille metri l’una dall’altra;
la Squadriglia «Missori» poco dopo l’apertura del fuoco si dispiega sulla
dritta per avere il campo di tiro libero, dopo di che, quando la Squadriglia «Orsini»
accosta a sinistra, ne imita la manovra, formando così un’unica linea di fila.
Il tiro nemico risulta presto centrato soprattutto sullo Stocco.
Nel breve scambio di
colpi le unità austroungariche, soprattutto il Balaton, subiscono alcuni danni, ma anche lo Stocco viene colpito da due
proiettili (uno tra plancia e fumaiolo prodiero, l’altro nella riservetta del
cannone n. 3), con alcuni morti e feriti tra l'equipaggio ed un incendio a
bordo che lo obbliga a fermarsi (dopo aver evitato due siluri con la manovra),
e l'Acerbi si deve fermare per
fornire aiuto all’unità gemella; successivamente, soffocate le fiamme quasi del
tutto, lo Stocco ritornerà sul luogo
dello scontro per cercare di unirsi nuovamente al comattimento. Il Balaton, centrato più volte in coperta a
prua, si porta in posizione più avanzata e successivamente ripiega verso
Parenzo, mentre Missori, Audace e La Masa combattono contro il Csikós e le due torpediniere, rimaste indietro: da entrambe le
parti si lanciano infruttuosamente siluri, mentre il Csikós viene colpito da un proiettile nel locale caldaie
poppiero ed anche le due torpediniere ricevono un colpo ciascuna. Dopo qualche
tempo le unità italiane si allontanano per riprendere il loro ruolo, mentre
quelle austroungariche accostano per allontanarsi e rientrano a Pola. Alle
3.40, perso reciprocamente di vista l’avversario, le due parti cessano il
fuoco.
1° novembre 1918
Il Sirtori fa parte della V
Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Venezia, che forma coi gemelli Stocco, Acerbi ed Orsini.
La V Squadriglia forma la Flottiglia cacciatorpediniere di Venezia insieme alle
Squadriglie I (Ardito, Audace, Francesco Nullo e Giuseppe
Cesare Abba) e III (Nicola Fabrizi,
Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo, Giuseppe Missori).
3-4 novembre 1918
Mentre la prima
guerra mondiale sul fronte italiano volge al termine con la vittoria italiana a
Vittorio Veneto, il Sirtori (al
comando del capitano di corvetta Mercalli), lo Stocco, l’Acerbi e l’Orsini partono alle 7 del 3
novembre da Venezia unitamente all’anziana corazzata Emanuele Filiberto (nave ammiraglia del contrammiraglio
Guglielmo Rainer, comandante del gruppo) per raggiungere Fiume, dove tutelare
gli interessi italiani e la popolazione italiana della città dai disordini
scoppiati dopo il collasso dell’Impero Austro-Ungarico.
Il
patto di Londra non ha assegnato Fiume all’Italia, ma alla Croazia (che
all’epoca della stipula del patto di Londra, nel 1915, si pensava sarebbe
rimasta unita all’Ungheria, non potendo prevedere la nascita di un nuovo Stato
jugoslavo), ragion per cui le forze italiane non dovranno occupare la città; il
loro invio – che comunque rappresenta anche un tentativo di porre i presupposti
per una futura annessione all’Italia, reclamata da buona parte della
popolazione – è stato determinato da una richiesta di una delegazione di cinque
rappresentanti (divenuti poi noti come gli «Argonauti del Carnaro»: Mario
Petris, Giuseppe de’ Maineri, Giovanni Siglich, Attilio Prodam e Giovanni
Matcovich) del Consiglio Nazionale Italiano italiano costituitosi a Fiume, che
il 2 novembre si sono recati a Venezia – con un periglioso viaggio in motoscafo
fino a Trieste attraverso acque insidiate, mentre le ostilità sono ancora in
corso, per poi imbarcarsi il 29 ottobre su un piroscafo che li ha portati a
Venezia –, presso l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, capo di stato maggiore
della Regia Marina, per chiedere l’intervento della flotta a tutela della
popolazione italiana, minacciata dalle milizie croate (capeggiate dal capitano
Petar Teslić, e cui i fiumani
possono opporre una guardia civica molto meno armata), ed in appoggio al
consiglio nazionale italiano. La popolazione di Fiume (o piuttosto, la sua
componente italiana), città multietnica a maggioranza italiana (oltre il 60 %)
ma con una notevole minoranza slava (circa il 30 %, soprattutto croati ed in
minor misura sloveni), è preoccupata dalla prospettiva dell’annessione al
neocostituito Regno dei serbi, croati e sloveni, futura Jugoslavia. In seguito all’abbandono
di Fiume da parte della polizia e delle autorità austroungariche (o più
precisamente ungheresi, siccome Fiume è da due secoli parte del Regno di
Ungheria, del quale rappresenta l’unico sbocco sul mare: il governatore
ungherese, Zoltan Jekel-Falussy, ha consegnato i poteri al podestà italiano
Antonio Vio, col mandato di trasferirli al Consiglio Nazionale Croato di Sussak),
verificatosi il 29 ottobre a seguito di uno scontro tra ungheresi e croati, la
città è nel caos: sono scoppiati disordini, si sono costituiti due contrapposti
consigli nazionali, uno italiano ed uno croato/jugoslavo (esiste a Fiume,
infatti, anche una considerevole minoranza croata, che ammonta a circa un
quarto della popolazione), e desta preoccupazione la presenza in città delle
truppe dell’ormai ex esercito austroungarico rimaste senza più comandanti o
disciplina, e specialmente di quelle di etnia croata, che sono ora passate agli
ordini del nuovo regno dei serbi, croati e sloveni che reclama l’annessione di
Fiume. Per giunta, collassato lo Stato asburgico e dissoltesi le sue autorità,
iniziano a scarseggiare in città persino cibo e medicinali. Il 30 ottobre il
Consiglio Nazionale Italiano ha emesso un proclama col quale chiede
l’annessione della città all’Italia, in nome del principio di
autodeterminazione dei popoli enunciato dal presidente statunitense Wilson (del
quale si chiede anche la tutela); nello stesso giorno la sua controparte
jugoslava, che fruisce dell’appoggio armato dei soldati croati ex
austroungarici (i quali occupano gli uffici dell’amministrazione statale e
s’impadroniscono di navi, artiglierie e linee di comunicazione), ha occupato il
palazzo del governatore, ed il capo del Consiglio Nazionale jugoslavo ha
assunto l’incarico di governatore provvisorio (mentre l’amministrazione
comunale rimane in mano al consiglio italiano). I due consigli nazionali,
naturalmente, non si riconoscono vicendevolmente alcuna autorità; sulla torre civica
sventola la bandiera italiana, sul palazzo del governatore quella croata. Data
la delicata situazione relativa al patto di Londra, l’ammiraglio Thaon di Revel
ha chiesto specifica autorizzazione per l’invio delle navi a Fiume al
presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, cui ha prospettato la
possibilità di catturare alcune navi mercantili presenti in tale porto.
La navigazione della
divisione navale dell’ammiraglio Rainer è ostacolata dalla fitta nebbia e dalle
mine vaganti; a mezzogiorno giunge notizia che tre U-Boote tedeschi, fuggiti da
Pola prima della consegna della flotta ex austroungarica alla neonata
Jugoslavia, si trovano ora nel golfo di Trieste, pertanto i cacciatorpediniere
vengono disposti in formazione protettiva attorno all’Emanuele Filiberto, e s’intensifica la vigilanza da parte delle
vedette. Ma non viene avvistata traccia di sommergibili.
La formazione, per
via della bassa velocità che deve tenere a causa di nebbia e mine, giunge
all’imbocco del Quarnaro quando è già sera, di nuovo con nebbia (dopo una
moderata schiarita durante il giorno) e scirocco fresco; i piloti ritengono
troppo pericoloso l’attraversamento notturno (notte particolarmente buia, senza
luna) del canale della Faresina in tali condizioni (ci sono anche dei campi
minati), quindi l’ammiraglio Rainer decide di incrociare in quelle acque fino
all’alba. Durante la notte giunge per radio la notizia della firma
dell’armistizio di Villa Giusti, e l’annuncio che le ostilità tra Italia e
Austria-Ungheria cesseranno per mare, per terra e nell’aria dalle ore 15 del 4.
Infine, all’alba del 4 novembre, riprende la navigazione, con lo Stocco in testa, seguito dalla
corazzata; la formazione segue la costa istriana, entra nel Quarnaro,
attraversa senza incidenti gli stretti minati.
Lungo il
percorso Acerbi e Orsini vengono distaccate per
prendere possesso di Abbazia e Lussino; le altre tre navi, tra cui il Sirtori, arrivano invece a Fiume alle
10.30 (le 14 per altra fonte) del giorno stesso, festosamente accolte dalla popolazione
italiana della città, assiepatasi sui moli del porto. Per primo si ormeggia lo Stocco, avente a bordo due degli
“argonauti” (gli altri tre sono distribuiti a bordo delle altre navi), seguito
dal Sirtori, che ha a bordo
l’ammiraglio Rainer (per altra fonte questi si sarebbe trovato sull’Emanuele Filiberto, il che sembrerebbe
più logico), e per ultimo dalla Emanuele
Filiberto. Si recano a bordo delle navi italiane il podestà della città,
Antonio Vio, il commendator Antonio Grossich, presidente del Consiglio
Nazionale Italiano, ed una delegazione di tale Consiglio, capeggiata
dall’avvocato Salvatore Bellasich. Alle 11.30 l’ammiraglio Rainer scende a
terra, venendo acclamato dagli astanti e ricevendo il saluto della città,
portato dal sindaco Vio; l’ammiraglio dichiara alla folla che “In nome del Re d'Italia sbarco a Fiume con
marinai d'Italia per tutelare l'ordine della città, per difendere gl'interessi
della cittadinanza italiana e dell'Italia, interessi che saranno difesi a
qualunque costo”. Seguito da un lungo corteo (che oltre ai rappresentanti
italiani e ad una moltitudine di cittadini comprende anche i rappresentanti del
Consiglio Nazionale jugoslavo, probabilmente non altrettanto contenti),
l’ammiraglio Rainer viene condotto al municipio, dove viene entusiasticamente
accolto dai consiglieri comunali e dai membri del Consiglio Nazionale Italiano,
e successivamente si reca anche a visitare il palazzo del governatore, dove
incontra il capo del Consiglio Nazionale dei serbi, croati e sloveni, dottor Rikard
Lenac, che dal 21 ottobre ha assunto su incarico del Consiglio Nazionale dei
Serbi, Croati e Sloveni il ruolo di «conte supremo» (in sostanza, governatore
provvisorio) di Fiume. Più tardi, due ufficiali jugoslavi si recano
sull’ammiraglia italiana per portare il saluto del loro Consiglio. Nel
pomeriggio il Comitato jugoslavo di Sussak (sobborgo di Fiume, a maggioranza
croata) organizza un altro corteo, che attraversa la città; non si verificano
incidenti.
Non vi è però una
vera e propria occupazione di Fiume da parte italiana: per i motivi
“diplomatici” sopra citati, pur essendovi su Sirtori, Stocco ed Emanuele Filiberto un migliaio di uomini
in tutto, i marinai non sbarcano dalle navi (a differenza che in Istria), e
l’occupazione rimane meramente nominale fino al 17 novembre. La situazione
rimane comunque tesa: l’ammiraglio Rainer si trova a dover fronteggiare il
comitato jugoslavo che vuole che la città entri a far parte del nuovo Stato
jugoslavo, mentre la popolazione italiana chiede l’annessione all’Italia o la
nascita di uno Stato autonomo fiumano; le prime truppe francesi arrivate a
Fiume si mostrano fin da subito amichevoli verso gli jugoslavi ed ostili agli
italiani (coi quali scoppieranno, nelle settimane seguenti, incidenti anche
gravi, con morti e feriti); un ammiraglio serbo contesta l’occupazione italiana
di Fiume, e nel porto ci sono numerose navi da guerra ex austroungariche (varie
siluranti, due sommergibili e la nave scuola Panther) alcune delle quali hanno già alzato la bandiera jugoslava
(gli equipaggi sono composti in gran parte da croati). Bisogna poi provvedere
al trasferimento a Venezia dei militari del dissolto esercito asburgico di
etnia non slava (austriaci, tedeschi, polacchi) e fronteggiare anche il
diffondersi dell’epidemia di influenza “spagnola”.
Il 15 novembre
giungeranno a Fiume due battaglioni croati mandati da Zagabria, al comando del
tenente colonnello Ljubomir Maksimovic, per occupare la città; due giorni dopo,
con l’arrivo dell’incrociatore corazzato San
Marco e del cacciatorpediniere Audace,
sbarcheranno le prime truppe italiane (un battaglione di fanteria, due di
marinai ed un centinaio di carabinieri) unitamente ad un distaccamento
statunitense (nonché a truppe serbe giunte via terra, al pari di una divisione
italiana di granatieri), che riusciranno ad imporre lo sgombero delle truppe
croate da Fiume al sobborgo croato di Sussak, così completando l’occupazione di
Fiume in nome di tutti gli Alleati dell’Intesa anziché, come altrove, della
sola Italia (in quella data, il dottor Lenac verrà rimpiazzato nel ruolo di
governatore dal generale italiano Enrico Asinari di San Marzano).
L’approdo
di Sirtori (a sinistra) e Stocco a Fiume il 4 novembre 1918 (sopra:
g.c. STORIA militare; sotto: ANMI Taranto)
8 novembre 1918
Il Sirtori, proveniente da Fiume, procede
all’occupazione della cittadina di Fianona, sulla costa orientale dell’Istria.
11 novembre 1918
Alle otto il Sirtori, inviato da Fiume, approda nel
villaggio di Volosca, vicino ad Abbazia (Golfo del Quarnaro, non lontano da
Fiume), per procedere alla sua occupazione, dopo che già il 4 novembre l’Acerbi aveva stabilito i primi contatti.
15 novembre 1918
Lasciata Fiume
insieme alla torpediniera costiera 3 PN,
il Sirtori raggiunge l’isola dalmata
di Veglia, nel Golfo del Quarnaro, e procede alla sua occupazione, sebbene non
sia prevista dall’armistizio di Villa Giusti (a differenza di altre località istriane
e dalmate). A Veglia la situazione è anche più tesa che a Fiume: mentre il
capoluogo dell’isola (Veglia città) è abitato quasi esclusivamente da italiani,
gli altri villaggi dell’isola sono popolati nella quasi totalità da croati, che
desiderano l’annessione al nascente regno dei serbi, croati e sloveni; al loro
arrivo, Sirtori e 3 PN trovano che sull’isola sventola già
la bandiera jugoslava. Le due navi sbarcano marinai che ammainano la bandiera
jugoslava ed issano quella italiana. Ad ogni modo, dato che la maggioranza
della popolazione dell’isola è croata (circa i quattro quinti), Veglia sarà
assegnata dal trattato di Rapallo alla Jugoslavia.
Il Sirtori ed il gemello Orsini all’ormeggio a Fiume il 29
novembre 1918; in primo piano tre cacciasommergibili statunitensi della classe
SC-1 (SC-124, SC-125 e SC-127) e sullo
sfondo, a sinistra, la corazzata Emanuele
Filiberto (Naval History and Heritage Command; sopra: via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net; sotto: da www.navsource.org)
24 marzo 1919
Il Sirtori è tra le navi che partecipano
alla «Parata della Vittoria», tenuta a Venezia per celebrare la vittoria nella
prima guerra mondiale, che vedrà il suo culmine nel trasferimento da Pola a
Venezia dell’ormai ex flotta austroungarica (o più precisamente, della parte di
tale flotta assegnata all’Italia), divenuta preda di guerra. La Serenissima è
pavesata a festa per l’occasione, e straripante di gente che si affolla sulle
rive per assistere allo spettacolo dell’arrivo della flotta avversaria
sconfitta; sulle antenne di Piazza San Marco e della Basilica sventolano la
bandiera italiana e quella di San Marco, «raffiguranti
due pagine di storia diversamente grande ed immortale». Tra le navi che
partecipano alla cerimonia vi sono i cacciatorpediniere Audace (carico di autorità: il re d’Italia, Vittorio Emanuele III;
il principe di Udine, nonché capitano di vascello, Ferdinando di Savoia; il
viceammiraglio Mario Casanuova, comandante in capo della Piazza Marittima di
Venezia; il capitano di vascello Giuseppe Sirianni, comandante del Reggimento
Marina – che di lì a poco sarà ribattezzato Reggimento "San Marco" –
che nel 1917-1918 ha combattuto alle foci del Piave a difesa di Venezia), Nicola Fabrizi (con a bordo il generale
Pietro Badoglio nonché tecnici, fotografi e cineoperatori dell’Ufficio Speciale
del Capo di Stato Maggiore della Marina, che dovranno riprendere gli eventi) e Giacomo Medici (con a bordo gli addetti
navali delle altre potenze dell’Intesa), nonché parecchi altri; le torpediniere
Climene (carica di giornalisti) e Procione (con a bordo ufficiali del
Comando Supremo); i piroscafi San Giorgio
(con a bordo le rappresentanze di Camera e Senato), Roma (con le rappresentanze del Comune e della Provincia di
Venezia, tra cui il sindaco Filippo Grimani ed il viceprefetto Tiretta) e San Marco (con a bordo i capi servizio
dell’Esercito e della Marina), e quattro MAS, uno dei quali ha a bordo il
contrammiraglio Ricci, comandante in seconda del Dipartimento di Venezia, con
l’incarico di dirigere il “corteo” navale che si va formando. Partecipano
inoltre anche 10 idrovolanti. Le navi del corteo escono dal porto degli
Alberoni e si recano incontro alla flotta ex austroungarica, in arrivo da Pola
e composta tra l’altro dalle corazzate Tegetthoff
e Erzherzog Franz Ferdinand,
dall’esploratore Admiral Spaun, dai
cacciatorpediniere Tatra e Csepel, dalle torpediniere TB 80, 81, 82 e 86 e da quattro sommergibili (questi
ultimi sono in coda alla formazione).
Il Sirtori è una delle navi che scortano le
unità ex austroungariche da Pola a Venezia: insieme allo Stocco ed all’esploratore Nibbio
(avente a bordo il viceammiraglio Umberto Cagni), il Sirtori naviga ai lati del convoglio di navi ex nemiche, in testa
al quale procede il caposquadriglia Orsini.
Le navi austroungariche navigano a bassa velocità; giunte nel punto d’incontro
con il corteo uscito da Venezia, issano bandiera bianca e rossa per segnalare
di aver fermato le macchine ed essere in attesa. Il corteo proveniente da
Venezia, guidato dall’Audace, defila
sul lato sinistro della formazione ex austroungarica, i cui equipaggi,
schierati in coperta, rendono gli onori militari; Vittorio Emanuele III passa
in rassegna la squadra, e sulla Tegetthoff
viene alzato il gran pavese. Poi, l’Audace
si pone in testa al convoglio per tornare in porto; le navi austroungariche si
dispongono in linea di fila, mentre Sirtori,
Stocco ed Orsini si schierano all’estremità della diga settentrionale della
laguna per assistere alla sfilata. Una volta che le navi già avversarie li
hanno superati per entrare in porto, Sirtori,
Stocco ed Orsini lasciano Venezia per tornare a Pola.
Le navi dell’ex
k.u.k. Kriegsmarine entrano a Venezia accolti da una moltitudine di gondole e
barche di ogni tipo, dal fischio delle sirene delle navi ormeggiate, e dallo
scampanio di tutti i campanili della città, specialmente quello di San Marco;
tra le navi da guerra che presenziano, anch’esse straripanti di folla, ci sono
le corazzate Re Umberto e Dante Alighieri e gli incrociatori Goito e Montebello.
Agosto 1920
Il Sirtori rimpatria da Tripoli a Napoli il
generale Giuseppe Vaccari, sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito.
1920
Lavori di modifica
dell’armamento: i 6 pezzi singoli Schneider-Armstrong 1914-1915 da 102/35 mm
vengono sostituiti con altrettanti Scheider-Armstrong 1917 da 102/45 mm, più
moderni.
Due foto
del Sirtori a inizio 1923 (foto Ugo
Pucci & Figli-La Spezia, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)
30 agosto 1923
Nel corso della Crisi
di Corfù, scatenata dall’assassinio (avvenuto ad opera di ignoti, il 27 agosto,
tra Giannina e Porto Edda) del generale Enrico Tellini e di altri tre membri di
una delegazione italiana che avrebbe dovuto definire i confini tra Grecia ed
Albania (eccidio che le autorità italiane hanno subito attribuito alla Grecia,
anche se la reale identità e nazionalità dei colpevoli non verrà mai scoperta:
di fatto Mussolini approfitta dell’accaduto per guadagnare prestigio a livello
nazionale con una dimostrazione di forza ai danni della Grecia, oltre a
considerare l’idea, poi abbandonata per l’opposizione anglo-francese, di
occupare permanentemente Corfù e le Isole Ionie), il Sirtori salpa da Taranto con una forza navale incaricata di
difendere il Dodecaneso da possibili azioni ostili da parte della Grecia. La
squadra, che oltre al Sirtori
comprende anche i cacciatorpediniere Giuseppe
La Masa, Generale Antonio Cantore, Generale Antonio Chinotto, Generale Marcello Prestinari e Generale Achille Papa, le
corazzate Duilio ed Andrea Doria, l’esploratore Augusto Riboty, un dragamine e due navi
ausiliarie, viene dislocata a Portolago, nell’isola di Lero.
Al contempo, prende
il mare da Taranto una seconda squadra navale italiana (la compongono le
corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, gli incrociatori
corazzati San Giorgio e San Marco, l’esploratore Premuda, 5 cacciatorpediniere, due
torpediniere, due sommergibili e quattro MAS) che bombarderà ed occuperà
l’isola di Corfù, occupazione che si protrarrà per poco meno di un mese, fino a
quando la Grecia non cederà alle pretese italiane (scuse ufficiali all’Italia,
onori tributati alla squadra navale italiana al Falero, pagamento di un
risarcimento di 50.000.000 di lire).
Il Sirtori a inizio 1925 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
1929
Il Sirtori, insieme ad Acerbi e Stocco nonché
all’Ippolito Nievo della classe Pilo,
forma la X Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla IX Squadriglia
Cacciatorpediniere (Giuseppe Cesare Abba, Giuseppe Dezza, Antonio Mosto, Giuseppe Missori, Fratelli Cairoli) ed
all'esploratore Aquila, compone
la 5a Flottiglia della Divisione Speciale, che comprende anche
l'esploratore Brindisi, nave
comando.
1° ottobre 1929
Declassato a
torpediniera, come i tre gemelli e tutti i vecchi “tre pipe”.
26 marzo 1930
La Sirtori salpa in serata da Messina per
recarsi a Filicudi, che alle 11.30 di quel mattino è stata colpita da un
violento terremoto che ha gravemente lesionato quasi tutte le abitazioni
dell’isola (un articolo di decenni dopo parla di decimo grado della scala
Mercalli, ma ciò sembra eccessivo), pur senza causare vittime (si registrano
soltanto cinque feriti, non gravi). La popolazione di Filicudi, in
considerazione dello stato degli edifici e per il timore di altre scosse
(difatti le scosse di assestamento continuano anche durante il pomeriggio), si
è accampata all’aperto; come se non bastasse, il mare è in tempesta e rende
difficile un tempestivo invio di soccorsi, organizzati dalla Regia Marina,
tanto che la prima nave mandata da Messina, il rimorchiatore Romano, ha dovuto rinunciare all’approdo
e rifugiarsi a Lipari. La Sirtori
tenta a sua volta ripetutamente di entrare nel porticciolo di Filicudi durante
la notte tra il 26 ed il 27, ma i tentativi sono infruttuosi; soltanto con le
luci dell’alba la torpediniera riesce a sbarcare le autorità ed i primi
soccorsi. Vengono poi forniti alla popolazione tende e generi di prima
necessità.
Foto ufficiale della Sirtori (da www.marina.difesa.it) |
12 luglio 1930
Si tiene a bordo
della Sirtori, ancorata davanti al
porto di Reggio Calabria, una imponente cerimonia commemorativa del decimo
anniversario dell’uccisione del capitano di corvetta Tommaso Gullì (originario
della città), ucciso a Spalato il 12 luglio 1920 da nazionalisti jugoslavi nel
corso dei tumulti tra italiani e croati in quella città, noti come “incidenti
di Spalato”. La commemorazione, organizzata dall’Associazione Nazionale Volontari,
vede la partecipazione della vedova del comandante Gullì, baronessa Nesci, del
giovane figlio e di autorità e cittadini, nonché del deputato Eugenio
Coselschi, che tiene un’orazione a bordo della nave.
11 settembre 1930
Pochi mesi dopo il
terremoto di Filicudi, la Sirtori
viene nuovamente coinvolta nelle operazioni di soccorso di un’isola colpita da
un disastro naturale: questa volta si tratta di Stromboli, dove si è verificata
un’eruzione esplosiva che ha causato 6 vittime (nel villaggio di San Vincenzo,
colpito da una nube ardente) e 22 feriti, danneggiando parecchie abitazioni ed
inducendo la restante popolazione a fuggire sulle barche. La Sirtori e la torpediniera costiera 46 OS sono le prime navi ad essere
inviate in soccorso della popolazione di Stromboli, seguite poi da altre due
torpediniere inviate da Messina con provviste, tende e diverse compagnie di
pompieri.
Primi anni Trenta
La Sirtori fa parte del Gruppo Navi Scuola
Meccanici di Taranto.
1934-1935
Comandano la Sirtori, in successione, il capitano di
fregata Ignazio Castrogiovanni (futura MOVM) ed il capitano di corvetta Alfredo
Viglieri (già membro della tragica spedizione polare di Umberto Nobile sul
dirigibile Italia, nel 1928, e sopravvissuto della “Tenda Rossa”). Nel periodo
immediatamente precedente è stato comandante in seconda della Sirtori il tenente di vascello Francesco
Dell’Anno, altra futura MOVM.
In questo periodo la
nave ha base a Bengasi, in Cirenaica.
La Sirtori a fine anni Trenta (Coll. Maurizio Brescia, via www.associazione-venus.it) |
10 giugno 1940
L’Italia fa il suo
ingresso nel secondo conflitto mondiale. La Sirtori (tenente di vascello Nicola Ferrone) forma la VI
Squadriglia Torpediniere, di base a Taranto (alle dipendenze del Dipartimento
Militare Marittimo Ionio e Basso Adriatico), insieme alla Stocco ed alle similari Giuseppe Missori e Rosolino Pilo.
9 settembre 1940
La Sirtori salpa da Napoli per Tripoli alle
15.30, scortando il piroscafo Castelverde e
la motonave Tergestea.
12 settembre 1940
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 13.
4 ottobre 1940
La Sirtori lascia Bengasi alle 17.30 per
scortare a Tripoli un convoglio formato dalla nave cisterna Utilitas e dai piroscafi San Giovanni Battista, Prospero e Ravenna.
7 ottobre 1940
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 18.
23 ottobre 1940
La Sirtori lascia Tripoli alle 18.30
scortando Castelverde e Tergestea, diretti a Bengasi.
24 ottobre 1940
Le tre navi arrivano
a Bengasi alle 11.30.
30 ottobre 1940
La Sirtori lascia Bengasi alle 16.30 per
scortare a Derna il piroscafo Prospero.
1° novembre 1940
Sirtori e Prospero arrivano a
Derna alle 7.30.
2 novembre 1940
La Sirtori salpa da Tobruk alle 8.30
scortando il piroscafo Goggiam,
diretto a Tripoli.
8 novembre 1940
Sirtori e Goggiam arrivano a
Tripoli alle 20.30.
Sempre secondo la
cronologia dell’U.S.M.M., tuttavia, la Sirtori
avrebbe scortato nel primo tratto di navigazione i piroscafi Adele ed Igea, salpati da Tobruk alle 17.30 del 2 novembre e giunti a Bardia
alle otto del 4 novembre, il che sembra difficilmente conciliabile con la
missione di scorta al Goggiam.
7 novembre 1940
La Sirtori salpa da Bengasi per Tobruk alle
18.30, scortando i piroscafi Marocchino
ed Ezilda Croce (di nuovo, discrepanza con la scorta al Goggiam, a meno che la Sirtori
non abbia lasciato il piroscafo prima dell’arrivo a Tripoli).
9 novembre 1940
Sirtori, Ezilda Croce e Marocchino raggiungono Tobruk alle 8.30.
11 novembre 1940
La Sirtori lascia Tobruk alle 00.30 per
scortare il Marocchino ad
Ain-el-Gazala.
12 novembre 1940
Sirtori e Marocchino arrivano
ad Ain-el-Gazala alle 7.30.
15 novembre 1940
La Sirtori salpa da Bengasi per Tripoli alle
15.50, di scorta alla motonave Giulia.
17 novembre 1940
Sirtori e Giulia giungono a
Tripoli alle 8.30.
25 novembre 1940
La Sirtori lascia Tripoli alle 18 diretta a
Bengasi, scortando il piroscafo Sturla e
la pirocisterna Marangona.
28 novembre 1940
Il convoglietto
giunge a Bengasi alle 10. Alle 20.30 la Sirtori ne
riparte scortando un convoglio formato da Sturla, Marocchino ed Ezilda Croce.
30 novembre 1940
Le navi si separano,
dirigendosi verso le rispettive destinazioni: lo Sturla raggiunge a Derna, il Marocchino Ain-el-Gazala e l’Ezilda
Croce Tobruk.
4-5 dicembre 1940
La Sirtori lascia Bengasi e va incontro a Sturla e Marocchino, provenienti rispettivamente da Derna e Tobruk (entrambi
sono partiti alle 14 del 3 dicembre), assumendone la scorta fino a Bengasi,
dove arrivano alle 15 del 5.
20 gennaio 1941
La Sirtori salpa da Tripoli alle 20 per
scortare a Palermo i piroscafi Goggiam
ed Aquitania.
23 gennaio 1941
La Sirtori si ridossa presso le Egadi dalle
16 (o assume la scorta dei piroscafi solo a quest’ora, al largo delle Egadi).
24 gennaio 1941
Il convoglietto
arriva a Palermo alle 20.
10 aprile 1941
La Sirtori salpa da Trapani per Tripoli
alle 7.30, scortando i piroscafi Marocchino,
Serica e Ninfea.
13 aprile 1941
16 aprile 1941
La Sirtori, insieme ai cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (capitano di
vascello Giovanni Galati, che assume la direzione dei soccorsi), Antonio Da Noli, Lanzerotto Malocello e Dardo, alle torpediniere Clio, Centauro, Perseo
e Partenope , alla nave
ospedale Arno, alla nave
soccorso Giuseppe Orlando ed
ai piroscafi Capacitas ed Antonietta Lauro, partecipa alle
operazioni di soccorso ai naufraghi delle navi del convoglio «Tarigo»,
distrutto nella notte precedente dai cacciatorpediniere britannici Jervis, Janus, Nubian e Mohwak (quest’ultimo affondato a
sua volta dal Tarigo). I
cacciatorpediniere Luca Tarigo e Baleno ed i piroscafi Adana, Aegina, Iserlohn e Sabaudia sono stati affondati, il
cacciatorpediniere Lampo ed
il piroscafo Arta sono stati
portati all’incaglio con danni gravissimi.
L’operazione di
soccorso, organizzata da Marilibia non appena tale Comando ha ricevuto notizia
dell’accaduto, vede anche la partecipazione di idrovolanti ed aerei da
trasporto. Complessivamente vengono tratti in salvo 1271 naufraghi, mentre le
vittime sono circa 700 (altre fonti parlano di 1800 vittime, ma sembrano basate
su stime errate).
23 aprile 1941
La Sirtori salpa da Tripoli a mezzogiorno
scortando il piroscafo Securitas,
diretto a Sfax.
Durante la navigazione
il Securitas s’incaglia sulle secche
di Kerkennah; disincagliato, riceverà ordine di raggiungere Biserta, ove
giungerà alle 17 del 24.
26 aprile 1941
La Sirtori salpa da Tripoli alle 19 di
scorta al piroscafo Silvio Scaroni,
diretto a Bengasi. La torpediniera accompagna il piroscafo solo fino a Sirte,
poi il mercantile prosegue da solo (arriverà a Bengasi alle 20 del 28).
21 giugno 1941
Salpata da Messina,
la Sirtori si unisce alla scorta di
un convoglio in navigazione da Tripoli a Napoli, e formato dal piroscafo Nirvo e dalla nave cisterna Pozarica (inizialmente vi era anche un
altro piroscafo, il Caffaro, con a
rimorchio la torpediniera Polluce, ma
queste due navi si sono fermate a Trapani), scortati dalle torpediniere Cigno (caposcorta), Calliope e Generale Achille Papa.
22 giugno 1941
Il convoglio arriva a
Napoli alle 8.
29 luglio 1941
Alle 17 la Sirtori si aggrega alla scorta del
convoglio lento «Ernesto», in navigazione da Tripoli (da dov’è partito il 27
alle 7) a Napoli e formato dai piroscafi Ernesto, Nita, Nirvo, Aquitania e Castelverde e
dalla cannoniera Palmaiola,
scortati dai cacciatorpediniere Folgore
(caposcorta), Fulmine e Saetta. Inizialmente facevano parte
della scorta anche i cacciatorpediniere Fuciliere
ed Alpino, ma il 28 luglio, in seguito
al siluramento dell’incrociatore leggero Garibaldi
del gruppo di copertura a distanza, tali unità sono state distaccate per
prestare assistenza al Garibaldi. Il
convoglio naviga a 8 nodi di velocità, lungo la rotta del Canale di Sicilia.
Alle 3.20 il
convoglio (in navigazione a 9 nodi con rotta 030°) viene avvistato a nordest di
Capo San Vito dall’Upholder, che si
prepara a lanciare ma che deve poi interrompere all’attacco in seguito
all’arrivo di un cacciatorpediniere in avvicinamento subito prima del lancio,
alle 3.35. Alle 3.46 l’Upholder emerge,
ed alle 3.52 lancia l’ultimo siluro rimasto contro due mercantili ed un
cacciatorpediniere, in posizione 38°28’ N e 12°14’ E, ma l’arma li manca,
passando a proravia. L’attacco non viene nemmeno notato.
Alle 14.51 il
convoglio viene avvistato in posizione 39°51’ N e 13°46’ E (una sessantina di
miglia a sudovest di Napoli) dal sommergibile olandese O 21 (capitano di corvetta Johannes
Frans Van Dulm), che già alle 12.15 ha rilevato rumore di macchine su rilevamento
184°, seguito alle 13.09 dall’avvistamento di fumo su rilevamento 180° ed alle
14.01 da quello di un aereo su rilevamento 175°. L’O 21 inizia subito l’attacco, che culmina alle 15.53 nel lancio di
quattro siluri contro due dei mercantili, dalla distanza di 4150 metri; poi
s’immerge a 35 metri e si allontana verso sudovest. Nessuna nave
viene colpita; il Folgore bombarda
l’O 21 con 24 bombe di
profondità dalle 16.09 alle 17.01, ma il battello olandese elude senza danni il
contrattacco scendendo ad una quota di 87 metri.
30 luglio 1941
Il convoglio
raggiunge Napoli alle 3.10.
16 agosto 1941
La Sirtori salpa da Palermo alle 16 per
andare a rinforzare la scorta – torpediniere Procione e Pegaso,
cacciatorpediniere Freccia (caposcorta,
capitano di fregata Giorgio Ghè), Dardo
ed Euro – del convoglio «Odero»,
partito da Napoli alle 00.30 e diretto a Tripoli, composto dai piroscafi Nicolò Odero, Maddalena Odero e Caffaro,
dalla nave cisterna Minatitlan e
dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo.
Alle 9.13 il sommergibile
olandese O 23 (tenente di
vascello Gerardus Bernardus Michael Van Erkel) avvista il convoglio, che
procede con rotta 212° a dieci nodi di velocità, a 10 miglia per 057°, ed alle
10.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a sudovest di Capri), lancia due siluri
da cinque miglia per poi scendere subito a 40 metri. Nessuna delle armi
colpisce, ma dopo undici minuti alcune unità della scorta si portano al
contrattacco e lanciano, fino alle 13.30, un centinaio di bombe di profondità.
L’O 23 evita danni scendendo a
95 metri; terminata la caccia, alcune unità continuano a lanciare una carica di
profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
La Sirtori raggiunge il convoglio tra il
tardo pomeriggio e la sera, aggregandosi alla scorta.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio
il convoglio, mentre procede a 9 nodi a sud di Pantelleria, viene avvistato da
ricognitori nemici.
Alle 20.45 (o 20.47),
17 minuti dopo che la scorta aerea ha lasciato le navi per rientrare alle basi,
il convoglio viene attaccato da aerosiluranti britannici (a nord della Sicilia
e 17 miglia a sud di Lampione): due sezioni di due aerei ciascuna, provenienti
dai fianchi, appaiono ai lati del convoglio, defilando lungo i mercantili e
sganciando i loro siluri da poca distanza. Le navi della scorta reagiscono con
opportune manovre, l’apertura del fuoco (sia con le artiglierie che con le
mitragliere) e l’emissione di cortine nebbiogene per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro
siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche all’azione della scorta (e
soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che disorientano gli ultimi
aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero, immobilizzandolo. Sirtori e Pegaso vanno
subito al suo soccorso, per tentarne il rimorchio e recuperare il personale
imbarcato, mentre il resto del convoglio prosegue per Tripoli. La Pegaso riesce a prenderlo a
rimorchio e, nonostante la notevole differenza di massa tra la piccola
torpediniera ed il mercantile, che per giunta è appesantito dall’acqua
imbarcata, riesce a rimorchiarlo fino all’isola di Lampedusa. La Sirtori fornisce scorta ed assistenza nella
difficile operazione.
18 agosto 1941
Il Maddalena Odero viene portato inizialmente
all’incaglio a Punta Galera (Lampedusa), e poi disincagliato e portato nuovamente
ad incagliare, verso le 11, all’interno dell’insenatura di Cala Croce, nella
medesima isola. Alle 13.30, mentre sono in corso tentativi di spostare il Maddalena Odero in un luogo più sicuro
dell’insenatura, sopraggiungono cinque bombardieri britannici Bristol Blenheim
del 105th Squadron della Royal Air Force, uno dei quali
colpisce il Maddalena Odero con
diverse bombe incendiarie; equipaggio e militari imbarcati fanno appena in
tempo a mettersi in salvo, dopo di che il Maddalena Odero viene distrutto da una colossale esplosione,
che travolge e affonda anche la cannoniera Maggiore Macchi della Guardia di Finanza, che stava
partecipando al tentativo di disincaglio.
Il resto del
convoglio, nel frattempo, giunge a Tripoli alle 17.30. Verso le 15.30 il
sommergibile britannico P 32 (tenente
di vascello David Anthony Bail Abdy), in agguato a quota periscopica fuori
Tripoli, avvista il convoglio e si porta all’attacco, ma dieci minuti dopo, nel
corso della manovra, affonda per esplosione accidentale di uno dei siluri (per
lungo tempo attribuita erroneamente ad una mina), che viene notata anche dalle
navi del convoglio in arrivo a Tripoli.
La Sirtori fotografata probabilmente durante la seconda guerra mondiale (da www.steelnavy.com) |
5 dicembre 1941
Alle 12.50 i
piroscafi Vertunno e Tigrai, che la Sirtori sta scortando al largo della costa calabra (vicino allo
Stretto di Messina), vengono avvistati dal sommergibile britannico P 34 (tenente di vascello Peter Robert
Helfrich Harrison), che alle 12.55 inizia la manovra d’attacco contro il
piroscafo di testa, scendendo a 21 metri ed accelerando al massimo per
avvicinarsi il prima possibile. Risalito a quota periscopica alle 13.10, il P 34 avvista due sommergibili italiani
(sono Mocenigo e Veniero, in navigazione da Napoli a Taranto) che però non è in
grado di attaccare, a causa della sua posizione; prosegue pertanto nel suo
attacco contro il mercantile di testa del convoglio, avvistando la Sirtori (“una torpediniera vecchio
tipo”) solo in questa fase. Alle 13.28, in posizione 37°48’ N e 16°05’ E (al
largo di Capo dell’Armi), il sommergibile britannico lancia tre siluri da 4600
metri; nessuna delle armi va a segno, ed alle 13.37 la Sirtori dà inizio ad un contrattacco che si protrarrà per tutto il
pomeriggio, col lancio in tutto di 35 bombe di profondità (il P 34 ne conta 31, ma sente anche tre
esplosioni, una alle 13.31 e due alle 13.35, che potrebbero essere state
causate da altrettante bombe di profondità). La Sirtori ritiene di aver affondato il sommergibile, ma questi è in
realtà sopravvissuto al contrattacco.
13 dicembre 1941
La Sirtori, insieme a quattro MAS ed alcune
unità minori, viene inviata dalla Sicilia (per ordine di Marina Messina) al
largo di Capo Bon (Tunisia), dove durante la notte sono stati affondati da
cacciatorpediniere britannici gli incrociatori leggeri Da Barbiano e Di Giussano
(in missione di trasporto, carichi di benzina in fusti), per partecipare ai
soccorsi (cui prende parte anche un idrovolante CANT Z. 506). Marina Messina
dispone l’invio delle unità di soccorso non appena viene a sapere
dell’accaduto, ordinando loro di raggiungere il più velocemente possibile il
luogo del disastro. In tutto vengono tratti in salvo 645 superstiti, su un
totale di 1504 uomini imbarcati sui due incrociatori; la maggior parte dei
naufraghi (oltre 500) sono però stati recuperati prima dell’arrivo della Sirtori dalla torpediniera Cigno, che scortava Da Barbiano e Di Giussano
nel momento in cui erano stati affondati.
1942
In seguito a lavori,
due dei sei cannoni da 102 mm vengono rimossi, e sono imbarcati due
scaricabombe per bombe di profondità. Secondo alcune fonti, Sirtori e Stocco avrebbero anche ricevuto un potenziamento dell’armamento
contraereo, con l’installazione di 6-8 mitragliere da 20 mm.
17 gennaio 1942
La Sirtori salpa da Napoli per Tripoli
alle 17, insieme alla similare Enrico
Cosenz (caposcorta), scortando il piroscafo tedesco Atlas.
Le tre navi fanno
scalo a Trapani e poi proseguono fino al largo di Marettimo, dove Sirtori e Cosenz lasciano l’Atlas per
rientrare alla base, venendo sostituite nella scorta dalle torpediniere Circe e Perseo inviate da Tripoli.
25 gennaio 1942
La Sirtori salpa da Taranto per scortare a Catania
il piroscafo Dalmatia L.
Alle 13.05 le due
navi vengono avvistate da circa 9150 metri di distanza, su rilevamento 350°,
dal sommergibile britannico P 34 (poi
Ultimatum, tenente di vascello Peter
Robert Helfrich Harrison), che si avvicina ad alta velocità per attaccare. Dopo
aver identificato, alle 13.26, il bersaglio come “un mercantile di circa 7000
tonnellate a pieno carico scortato da una torpediniera vecchio tipo”, alle
13.39 il P 34 lancia quattro siluri
da 4600 metri di distanza.
Uno dei siluri
colpisce il Dalmatia L. a prua (alle
13.50, secondo fonti italiane), a 14 miglia per 234° da Capo Melito; il
piroscafo inizia subito ad appruarsi e sbandare, ed i 40 uomini dell’equipaggio
lo abbandonano sulle scialuppe. Il Dalmatia
L. rimane inizialmente a galla, ma lo scoppio del siluro ha prodotto una
vistosa fenditura che va da un lato all’altro dello scafo; accorre sul posto
una seconda torpediniera, la Giuseppe
Cesare Abba, che si trovava nei paraggi per caso ed ha assistito al
siluramento. Sirtori ed Abba contrattaccano con bombe di
profondità (il P 34 ne conta nove,
lanciate dalle 13.46 alle 13.56, una sola delle quali esplosa vicino al
sommergibile, seguite da altre 16 lanciate ad intervalli irregolari fino alle
quattro del pomeriggio: durante questo periodo il sommergibile riesce anche,
alle 13.54, a tornare a quota periscopica, vedendo che la torpediniera di
scorta si trattiene vicino al piroscafo colpito durante il lancio delle bombe),
poi il Sirtori recupera l’equipaggio
del Dalmatia L. (secondo una fonte il
Sirtori recupera parte degli uomini
del Dalmatia L. dopo aver lungamente
navigato a zig zag lanciando bombe di profondità, mentre gli altri sono
recuperati da un peschereccio). Si cerca poi di rimorchiare in salvo il
piroscafo danneggiato; allo scopo giunge sul posto il rimorchiatore militare Titano, che prende a rimorchio il Dalmatia L., sul quale risale anche
parte dell’equipaggio. Tutto inutile: dopo alcune ore di rimorchio, all’1.40
del 26 gennaio il piroscafo si spezza in due ed affonda rapidamente nel punto
37°45' N e 15°30' E, a sudovest di Capo dell’Armi.
5 marzo 1942
La Sirtori, il cacciatorpediniere Sebenico e la torpediniera San Martino scortano i piroscafi Goggiam e Leonardo Palomba da Corfù a Patrasso.
La Sirtori con colorazione mimetica, foto variabilmente
datata come risalente al 1942 od agli inizi del 1943 (foto Aldo Fraccaroli, via
Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)
16 marzo 1942
La Sirtori parte da Messina alle 16
insieme ai cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta,
capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni), Lanzerotto Malocello, Emanuele
Pessagno e Nicolò Zeno ed
alla torpediniera Pallade, per
scortare a Tripoli la motonave Vettor
Pisani (avente a bordo 2623 tonnellate di carburanti e lubrificanti, 456
tonnellate di materiali vari, 146 tra automezzi e rimorchi, 20 carri armati e
34 soldati). È in corso l’operazione di traffico «Sirio», che vede in mare una
serie di convogli da e per la Libia (motonavi Gino Allegri e Reginaldo
Giuliani da Tripoli a Palermo con le torpediniere Perseo e Circe; piroscafo Assunta
De Gregori da Palermo a
Tripoli con il cacciatorpediniere Premuda e
la torpediniera Castore;
motonavi Nino Bixio e Monreale da Tripoli a Napoli con la
stessa scorta che ha scortato Pisani e
Reichenfels sulla rotta opposta)
fruenti della protezione a distanza dell’incrociatore leggero Emanuele Filiberto Duca d’Aosta (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione
Alberto Da Zara) e dei cacciatorpediniere Grecale e Scirocco.
Nello stretto di
Messina Vettor Pisani e
scorta si uniscono ad un secondo gruppo proveniente da Napoli, composto dalla
motonave tedesca Reichenfels scortata
dalla torpediniera Lince (che
lascia quindi la scorta e raggiunge Messina).
Il convoglio così
formato procede verso Tripoli lungo la rotta che passa ad est di Malta, con la
protezione a distanza di Duca
d’Aosta, Scirocco e Grecale. Passato a circa 200 miglia dall’isola
insieme alla forza di protezione, il convoglio punta poi su Tripoli.
Alle 16.37, al largo
di Capo Bruzzano (Calabria, non lontano da Capo Spartivento), il sommergibile
britannico Unbeaten (capitano
di corvetta Edward Arthur Woodward) avvista la Pisani ed uno dei cacciatorpediniere della scorta, a 7 miglia
per 241°. Iniziata la manovra d’attacco, Woodward sovrastima la stazza del
bersaglio (11.000 tsl) e nota le altre due unità della scorta (in questo
momento la Pisani sta
procedendo con la scorta di Sirtori, Vivaldi e Malocello); alle 17.06 lancia quattro siluri da 3660 metri.
L’idrovolante assegnato alla scorta aerea, il CANT Z. 501 n. 4 della 184a Squadriglia,
avvista il siluro, stimandone la distanza di lancio dalle navi in circa 2000
metri, e dà l’allarme, poi sgancia due bombe da 160 kg sul presunto punto in
cui si dovrebbe trovare il sommergibile, senza però riuscire ad accertare
l’esito dell’attacco. Nello stesso momento, la Sirtori spara una salva per dare l’allarme e si lancia al
contrattacco, gettando quattro bombe di profondità; il Malocello inverte la rotta e
lancia a sua volta 16 bombe di profondità.
Nessuno dei siluri va
a segno, così come è infruttuoso il contrattacco della scorta (l’ultima bomba
di profondità viene gettata alle 18.25; nel corso del contrattacco, alle 18, l’Unbeaten si porta a quota periscopica,
ma avvistando una torpediniera “classe Generali” – in realtà la Sirtori, molto simile a tale classe – a
soli 460 metri di distanza, torna subito ad immergersi in profondità).
Successivamente, la Sirtori lascia il convoglio e rientra a
Messina. Il convoglio, raggiunto dalla torpediniera Generale Marcello Prestinari (inviata incontro da
Tripoli), giungerà a Tripoli il giorno seguente.
18 maggio 1942
Alle 3.30 la Sirtori salpa da Palermo per scortare a
Napoli la nave cisterna Saturno,
proveniente da Tripoli.
19 maggio 1942
Sirtori e Saturno raggiungono
Napoli alle 13.15.
24? luglio 1942
La Sirtori scorta da Messina a Gallipoli la
motonave Manfredo Camperio (carica di
104 tra automezzi e rimorchi), in navigazione da Napoli a Bengasi con soste
intermedie a Messina, Gallipoli e Patrasso. Tre torpediniere si avvicendano
nella scorta della motonave durante il suo viaggio, durato nove giorni (dal 23
luglio al 1° agosto): per il primo tratto, da Napoli a Messina, la Camperio è stata scortata dalla
torpediniera Climene; tocca poi alla Sirtori, mentre per l’ultimo tratto, da
Gallipoli a Bengasi, la motonave verrà scortata dalla torpediniera Pegaso.
2 settembre 1942
La Sirtori lascia Messina alle 19.30,
scortando, insieme alle torpediniere Circe
e Cosenz, la motonave Monti, proveniente da Napoli e diretta a
Bengasi con un carico di 544 tonnellate di munizioni ed artiglierie, 582
tonnellate di materiali vari, 45 tra automezzi e rimorchi e 78 militari di
passaggio.
La sera stessa
(intorno alle 23.40), al largo di Roccella Ionica, la Cosenz inverte la rotta per rientrare a Messina; pochi minuti dopo
(alle 23.45), a tre miglia per 090° da Roccella Ionica, il convoglio –
localizzato da ricognitori nemici – viene attaccato da aerosiluranti britannici
della Fleet Air Arm, ed alle 23.55.02 la Monti viene colpita da un siluro a poppa sinistra, restando
immobilizzata.
Dopo più di due ore,
alle due di notte, la Sirtori prende
a rimorchio la Monti e fa rotta per
Messina, mentre la Circe,
rimasta in zona, provvede a recuperare gli uomini gettati in mare dallo scoppio
del siluro. Terminato il salvataggio, la Circe dà la caccia contro un bersaglio rilevato
all’ecogoniometro e ritenuto un sommergibile (non risulta in realtà che ve ne
fossero), terminandola alle 4.20, dopo di che si allontana per riunirsi a Sirtori e Monti in navigazione verso Messina. Inviato sul posto da
Supermarina, raggiunge la Circe anche
il cacciatorpediniere Giovanni Da
Verrazzano.
La situazione
della Monti, tuttavia, va
aggravandosi: la nave continua ad imbarcare acqua, finché non si rende
necessario decidere di portarla all’incaglio per evitarne l’affondamento. Con
l’assistenza della Sirtori, il
mercantile viene mandato ad incagliarsi su un fondale sabbioso presso la
Fiumara Condoianni (Gerace), vicino al paese di Sant’Ilario Jonico.
Successivamente, tamponata alla meglio la falla, la Monti verrà rimorchiata a Messina, dove giungerà alle 16 del 10
settembre.
3 settembre 1942
Sirtori, Cosenz e Da Verrazzano, insieme al
cacciatorpediniere Corsaro, si
uniscono al largo di Messina alla scorta della motonave Luciano Manara, in navigazione da Napoli a Crotone con la scorta del
cacciatorpediniere Freccia (un
secondo cacciatorpediniere, il Maestrale,
ha lasciato la Manara poco prima per
entrare a Messina). Il convoglio naviga a circa 15 nodi.
4 settembre 1942
In mattinata il
convoglio, mentre procede verso Crotone, riceve ordine di proseguire verso
Taranto; nel suo cielo vi è una scorta aerea di caccia della Regia Aeronautica
(ben 14, per una fonte). Le navi raggiungono Taranto a mezzanotte.
9 settembre 1942
La Sirtori salpa da Crotone per scortare a
Messina i piroscafi Loreto e Leonardo Palomba. Il sommergibile
britannico P 42 (poi
Unbroken, tenente di vascello Alastair Campbell Gillespie Mars), in agguato
fuori del porto, avvista entrambi i piroscafi non appena essi escono dal porto:
il primo esce alle 18.22 ed accosta poco dopo verso sud, il che permette a Mars
di vedere che è scortato da una “torpediniera vecchio tipo”; il secondo lascia
il porto alle 18.40 e si unisce alle altre due navi. Alle 19.22 il P 42 attacca il secondo piroscafo col
lancio di due siluri, dalla distanza di 4115 metri; nessuno dei siluri va a
segno, e la Sirtori contrattacca
a partire dalle 19.50 col lancio di quattro bombe di profondità, a notevole
intervallo l’una dall’altra, che non arrecano danni al P 42 (il contrattacco ha termine prima
delle 21.15, quando il P 42 registra
che “adesso tutto tace”).
18 ottobre 1942
Alle 5.20 la Sirtori (tenente di vascello di
complemento Emilio Gaetano) salpa da Messina insieme ai cacciatorpediniere Maestrale (caposcorta, capitano di
vascello Riccardo Pontremoli) e Grecale (capitano
di fregata Luigi Gasparrini) ed alla torpediniera Giuseppe Dezza (tenente di vascello richiamato Reginaldo Scarpa)
per scortare a Tripoli la motonave cisterna Panuco, proveniente da Napoli e carica di carburante (nel tratto da
Napoli a Messina è stata scortata soltanto dai due cacciatorpediniere, cui a
Messina si uniscono Sirtori e Dezza quale rinforzo).
Il convoglio
costeggia verso nord la costa della Calabria e poi raggiunge le acque della
Grecia, per poi puntare su Tripoli cercando di mantenersi sempre alla massima
distanza possibile da Malta.
Alle 10.20
Supermarina comunica al convoglio di stare pronto a fronteggiare un possibile
attacco aereo: le navi sono state avvistate da ricognitori nemici.
Alle 12.50 il
sommergibile britannico Una (tenente
di vascello Compton Patrick Norman), in posizione 38°26’ N e 16°41’ E (al largo
di Capo Spartivento ed a nord di Catania), avvista su rilevamento 220° il fumo
delle navi del convoglio, e si avvicina per attaccare, identificando le unità
del convoglio – che hanno rotta 040° – alle 13.30. Alle 13.56, poco prima di
poter lanciare i siluri, l’Una viene
localizzato e costretto a rinunciare all’attacco e scendere in profondità; ad
individuarlo ed a dargli la caccia è il Grecale, che procede in testa alla formazione (ma l’orario indicato
dalle fonti italiane è alquanto differente, le 15.15). Il Grecale dà la caccia all’Una per un’ora, con lancio di bombe
di profondità, ma senza risultato.
Alle 19 il
caposcorta lascia libere Sirtori e Dezza, con l’ordine di effettuare un
rastrello antisommergibili prima di rientrare a Messina.
In serata la Panuco sarà silurata ed incendiata
da un aerosilurante, ma riuscirà a raggiungere Taranto con l’assistenza
di Maestrale e Grecale.
13 novembre 1942
Alle 6.15 la Sirtori (tenente di vascello di
complemento Emilio Gaetano) salpa da Palermo per scortare a Biserta il
piroscafo Sivigliano.
Alle 16.14 il
sommergibile britannico Parthian
(capitano di corvetta Drummond St.Clair-Ford) avvista il convoglietto (“una
grossa nave mercantile scortata da una torpediniera a tre fumaioli con un aereo
che volava sul loro cielo”) a nord di Marettimo, a 6 miglia di distanza, su
rilevamento 074°. Portatosi all’attacco, alle 16.37 il Parthian lancia tre
siluri da 3660 metri di distanza; Sirtori
e Sivigliano avvistano le scie dei
tre siluri, e li evitano tutti con la manovra (l’orario indicato dalle fonti
italiane sono le 17). Dalle 16.43 alle 17.56 la Sirtori sottopone il Parthian
a caccia antisom col lancio di 23 bombe di profondità, alcune delle quali
esplodono piuttosto vicine al sommergibile, causando alcuni leggeri danni.
Quello del Parthian contro il convoglio Sirtori-Sivigliano è stato in assoluto il primo attacco subito da un
convoglio dell’Asse diretto in Tunisia, rotta aperta soltanto da pochi giorni (il
primo convoglio per la Tunisia è partito da Napoli l’11 novembre) a seguito
dell’occupazione del Paese nordafricano da parte delle forze italo-tedesche,
dopo la sconfitta di El Alamein (che ha dato inizio alla lunga ritirata
dall’Egitto e attraverso la Libia, che si concluderà con la caduta di Tripoli
nel gennaio 1943) e gli sbarchi angloamericani in Marocco ed Algeria
(operazione "Torch", 8 novembre 1942).
14 novembre 1942
Alle 7.30 (o 9.30), otto
miglia ad est del canale d’ingresso di Biserta, un altro sommergibile lancia
due siluri contro Sirtori e Sivigliano; anche questa volta le armi
vengono evitate.
In realtà, nella
mattinata del 14 novembre il convoglio Sirtori-Sivigliano scampa indenne non ad uno, ma
a ben due attacchi di sommergibili nel giro di neanche due ore: il primo da
parte del P 45 (poi divenuto Unrivalled), il secondo da parte del P 48.
Il P 45 (tenente di vascello Hugh Bentley
Yurner) avvista fumo su rilevamento 110° alle 7.25, ed accosta per avvicinarsi;
poco dopo avvista un “cacciatorpediniere” (la Sirtori) e successivamente gli alberi di un mercantile (il Sivigliano), con rotta 240° e scorta
aerea. Alle 7.54, in posizione 37°25’ N e 10°11’ E (a nordest di Biserta), il
sommergibile britannico lancia quattro siluri contro il Sivigliano, da una distanza di circa 5 km. I siluri vanno a vuoto,
e nel lanciarli il P 45 affiora
accidentalmente in superficie; vedendo l’aereo di scorta alle navi dirigergli
incontro, il sommergibile si affretta ad immergersi di nuovo e ad intraprendere
manovre evasive.
Alle 8.25 è il turno
del P 48 (tenente di vascello Michael
Elliot Faber) di avvistare un aereo che gira in cerchio, verso nordest; tre
minuti dopo il battello britannico avverte una esplosione, il che induce il
comandante Faber a ritenere che un convoglio nemico si stia avvicinando. Alle
8.38, infatti, il P 48 avvista il Sivigliano e la Sirtori (quest’ultima viene identificata come una torpediniera
classe Generali, il cui profilo assomiglia molto a quello della classe Sirtori), con una scorta aerea di tre
velivoli, a dieci chilometri di distanza, su rilevamento 039°. Il sommergibile
inizia la manovra di attacco, ed alle 9.05 vede la scorta aerea lasciare il
convoglio; alle 9.30, in posizione 37°20’ N e 10°00’ E (a nordest di Biserta),
il P 48 lancia tre siluri contro il Sivigliano, del quale giudica la rotta
come 230° e la velocità come 9 nodi. La nave italiana evita le armi, e tra le
9.37 e le 9.52 il P 48 viene
bombardato con 6 bombe di profondità da un’unità identificata come una
motosilurante, senza tuttavia subire danni.
Alle 11 Sirtori e Sivigliano raggiungono Biserta.
16 dicembre 1942
La Sirtori (tenente di vascello Emilio
Gaetano) e la moderna torpediniera di scorta Groppo (tenente di vascello Beniamino Farina, caposcorta)
salpano alle 10 (o 10.40) da Biserta per scortare a Napoli i piroscafi Campania (italiano) e Rhea (tedesco). Alle 11.57 (12.10
per altra fonte), al largo di Biserta, un aerosilurante attacca il convoglio
nel Canale di Sicilia: non colpisce alcuna nave, ma abbatte un caccia tedesco
della scorta. La Sirtori viene
inviata a soccorrere gli avieri tedeschi; dei quattro membri dell’equipaggio
dell’aereo abbattuto, la torpediniera riesce a salvarne tre, mentre il quarto è
scomparso.
Alle 16.34 il
sommergibile britannico P 44 (poi United, tenente di vascello John Charles
Young Roxburgh) avvista il convoglio (“due navi mercantili scortate da una
torpediniera vecchio tipo [la Sirtori]
ed uno sloop simile all’Eritrea ma più piccolo [la Groppo]”), in navigazione verso nord, ed inizia la manovra
d’attacco. Alle 17.17, in posizione 37°46’ N e 11°05’ E (40 miglia a nord di
Capo Bon), il P 44 lancia quattro
siluri da 1830 metri contro i due mercantili, che in quel momento si
“sovrappongono” nel suo periscopio; subito dopo, scende a 36 metri di
profondità, deviando dalle scie dei siluri e volgendo la poppa alla nave di
scorta più vicina. Nessuno dei siluri va a segno (il Rhea ne avvista uno, che gli passa sulla dritta) e dopo cinque
minuti inizia il contrattacco della scorta, che si protrae per circa un’ora;
vengono lanciate solo cinque bombe di profondità, nessuna delle quali esplode
vicina al sommergibile.
17 dicembre 1942
Il convoglio arriva a
Napoli alle 20.30.
Una foto a colori della Sirtori, scattata nel 1942-1943 (da www.warshipsww2.eu) |
1943
Assegnata al III
Gruppo Torpediniere (Dipartimento Militare Marittimo «Ionio e Basso Adriatico»)
con le similari Francesco Stocco, Giuseppe Missori, Giuseppe Cesare Abba, Giuseppe Dezza ed Enrico Cosenz.
Primavera 1943
Mentre la Sirtori si trova all’ormeggio a Taranto,
scoppia in città una rissa tra un gruppetto di suoi marinai in libera uscita
(tra i quali il sottocapo meccanico Federico Vincenti) ed alcuni soldati
tedeschi, che hanno cercato di cacciarli da un locale pubblico che reputavano
loro esclusivo territorio. I marinai della Sirtori
coinvolti nella rissa, dopo essere rientrati a bordo, verranno arrestati per
insubordinazione in attesa di processo da parte del Tribunale Militare
Marittimo di Taranto, ma saranno rilasciati dopo qualche mese.
3 giugno 1943
La Sirtori, insieme al cacciasommergibili
italiano VAS 217 ed al tedesco UJ 2212, salpa da Messina per dare la
caccia al sommergibile britannico Unruffled
(tenente di vascello John Samuel Stevens), che alle 15.31 ha silurato e
affondato la nave cisterna tedesca Henry
Desprez (in navigazione da Napoli a Taranto) nel punto 39°13’ N e 16°01’ E
(una settantina di miglia a nordest di Messina).
27 giugno 1943
Sirtori e Stocco, insieme al
minuscolo incrociatore ausiliario Rovigno,
scortano i piroscafi Campidoglio, Milano e Quirinale da Patrasso a Brindisi.
30 giugno 1943
Sirtori e Rovigno scortano i
piroscafi Ezilda Croce e Giorgio Brunner da Bari a Patrasso, via
Corfù.
13 luglio 1943
La Sirtori scorta la nave cisterna Cesco da Bari a Valona.
8 settembre 1943
Viene annunciato
l’armistizio di Cassibile tra l’Italia e gli Alleati. In questa data, la Sirtori è l’unità capogruppo del III
Gruppo Torpediniere (che forma insieme a Stocco,
Missori, Cosenz, Abba e Dezza) agli ordini del Dipartimento
Militare Marittimo Ionio e Basso Adriatico, e si trova a Brindisi.
La Sirtori in una foto di fine anni Venti (dalla rivista “Aviazione e Marina” n. 26, agosto-settembre 1965, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
Corfù
L’epilogo della lunga
storia della Giuseppe Sirtori si colloca nel quadro delle
vicende della battaglia di Corfù, combattuta nella seconda metà del settembre
1943.
Corfù, seconda per
estensione tra le Isole Ionie (dopo Cefalonia), era sede del governatore di
quell’arcipelago, Piero Parini (che però proprio a inizio settembre aveva
ceduto tutti i poteri al comandante militare dell’isola, ed aspettava solo il
completamento delle pratiche di trasferimento dell’amministrazione civile per
poter rientrare in Italia con tutti gli impiegati civili del Governatorato); la
sua guarnigione contava circa 4500 militari italiani (tra cui 160 ufficiali),
al comando del colonnello Luigi Lusignani, e circa 500 tedeschi (tra cui 15
ufficiali).
I militari italiani
appartenevano in massima parte al 18° Reggimento Fanteria della 33a
Divisione Fanteria "Acqui", il grosso della quale era stanziato a
Cefalonia; per ragioni di competenza territoriale, mentre la Divisione
"Acqui" dipendeva dall’VIII Corpo d’Armata (generale Mario
Marghinotti), il 18° Fanteria era stato posto alle dirette dipendenze del XXVI
Corpo d’Armata (generale Guido Della Bona, con quartier generale a Giannina), anziché
del suo comando di divisione (generale Antonio Gandin, a Cefalonia), pur
continuando a far parte della "Acqui". In aggiunta al 18° Fanteria,
erano stanziati a Corfù il III Gruppo da 75/27 del 33° Reggimento Artiglieria
(anch’esso facente parte della Divisione "Acqui"), un gruppo da
105/28 dell’8° Raggruppamento Artiglieria di Corpo d’Armata, il 33° Battaglione
mortai da 81, una compagnia del 110° Battaglione mitraglieri di Corpo d’Armata,
una compagnia di Carabinieri (aveva sede nell’isola il comando del VII
Battaglione Carabinieri Reali), la 1a e la 3a Compagnia
della Guardia di Finanza (facenti parte del I Battaglione della Regia Guardia
di Finanza, il cui comando, retto dal capitano Luigi Bernard, aveva sede a
Corfù), la 33a Compagnia cannoni da 47/32, la 333a
Batteria contraerea da 20/65 mm, una compagnia del Genio Artierie, un plotone
del Genio Telegrafisti e reparti della Sanità e della Sussistenza, nonché un
distaccamento servizi della Regia Aeronautica (comandato da un tenente) presso
la base aerea di Garitsa e l’idroscalo di Gufino. Il Comando Marina di Corfù,
dal quale dipendevano gli Uffici di porto di Corfù e Gomenizza (Igoumenitsa),
era retto dal capitano di fregata di complemento Nicola Ostuni, dipendente per
le questioni territoriali dal colonnello Lusignani; le forze a disposizione di
questo Comando erano assai modeste, consistendo in una flottiglia di dragamine
(al comando del capitano di corvetta di complemento Aristide Lagorio) ed in
naviglio ausiliario e d’uso locale. La difesa costiera e quella contraerea
erano interamente affidate all’Esercito, e la Marina a Corfù, a differenza che
a Cefalonia, non possedeva neanche una batteria costiera; in generale le difese
costiere e contraeree dell’isola erano molto esigue, ed era previsto il loro
potenziamento con batterie tedesche.
I militari tedeschi
presenti a Corfù, al comando del tenente colonnello Norbert Klotz, erano in
gran parte specialisti della Luftwaffe (ed in minor misura delle comunicazioni
e della Kriegsmarine), concentrati in massima parte nella base di Kassiopi per
il controllo degli spazi aerei tra Otranto e la costa greco-albanese; dal
maggio 1943 essi avevano realizzato nell’isola, per questa funzione, una stazione
meteorologica e due radiofari, ed installato due radar “Freya”. I velivoli
della Luftwaffe frequentavano piuttosto assiduamente l’aeroporto di Corfù e
usualmente se diretti in Italia imbarcavano i militari italiani che andavano in
licenza, il che aveva dato luogo a rapporti piuttosto cordiali tra i due
alleati. C’erano inoltre uomini del Marine-Bau-Bataillon 313 (313°
Battaglione Pionieri di Marina). Secondo il volume “La Marina italiana dall’8
settembre 1943 alla fine del conflitto” dell’USMM, si trovavano sull’isola
anche uomini della 1. Gebirgs-Division (1a Divisione da Montagna),
soprannominata "Edelweiss": una grande unità – paragonabile, per
preparazione ed impiego, alle divisioni alpine italiane – che si era già
macchiata di diversi crimini di guerra nei Balcani e che proprio in quei giorni
sarebbe stata protagonista dell’eccidio di Cefalonia. Questo sembra però essere
un errore; dalla maggior part delle fonti risulterebbe che i tedeschi presenti
a Corfù al momento dell’armistizio erano tutti personale della Luftwaffe, della
Kriegsmarine e di reparti minori, mentre le truppe della 1. Gebirgs-Division (che
furono poi protagoniste della battaglia) giunsero sull’isola soltanto con gli
sbarchi del 23 settembre.
La presenza tedesca,
in uomini e materiali, si era andata accrescendo dopo la deposizione di Benito
Mussolini, il 25 luglio 1943, quando i comandi tedeschi avevano intuito la
probabilità di un prossimo sfilamento dell’Italia dalla guerra: avevano
pertanto iniziato a trasferire loro truppe sia in Italia che nei territori
oltremare sotto occupazione italiana, col pretesto di rinforzare gli alleati
italiani, ma il reale intento di essere pronti a neutralizzarli in caso di
defezione. All’atto dell’armistizio, i tedeschi a Corfù stavano realizzando due
batterie da 150 mm, e si apprestavano ad inviare nell’isola altri rinforzi
della consistenza di un battaglione, da Prevesa e da Gomenizza.
Come altrove, anche
Corfù l’annuncio dell’armistizio e l’illusione della fine della guerra produsse
notevole euforia: «La comunicazione radio
dell’avvenuto armistizio e il comunicato di Badoglio suscitano nella
popolazione civile manifestazioni di giubilo e di fratellanza con i militari
italiani. In tutti è la convinzione che la guerra sia finita e che non debbano
più sussisitere cause di divergenze e di risentimento fra italiani e greci. In
tutta l’isola, e in specie nella città di Corfù, sventolano bandiere italiane e
greche, fra luminarie e canti di gioia che si protraggono per tutta la notte».
Ci pensò il Comando dell’11a Armata, quella sera, a raffreddare gli
animi, rammentando i compiti assegnati e prescrivendo di non prendere
iniziative, ma di reagire contro ogni eventuale offesa armata.
Subito dopo
l’annuncio dell’armistizio vennero meno i collegamenti via filo sia con
l’Italia che con la Grecia continentale (comandi tedeschi di Ioannina e
Salonicco), salvo che con Gomenizza; via radio giunsero invece le istruzioni
armistiziali e l’ordine di trasferire a Brindisi tutti i mezzi navali non
necessari alla difesa dell’isola, imbarcandovi tutto il materiale
trasportabile, carburante compreso. Tra l’8 e l’11 settembre, dopo avervi
imbarcato tutto ciò che potevano trasportare, furono dunque fatti partire per
l’Italia diversi dragamine, la cisterna militare Sesia, la motocisterna Oberdan
(carica di nafta), la motovedetta Spanedda
della Guardia di Finanza, il motoveliero Ida
II (carico di benzina) ed altre unità minori. Il dragamine ausiliario (ex
motopeschereccio) Angelo ed un
motoveliero greco furono invece inviati a Gomenizza, dove il secondo venne
catturato dai tedeschi, mentre l’Angelo imbarcò
il personale della Marina di stanza a Gomenizza e lo portò a Corfù, dove giunse
il 10 settembre (qui il tenente di porto Luigi Chilò, comandante dell’Ufficio
di porto di Gomenizza, assunse il comando dell’Ufficio di porto di Corfù al
posto del capitano di porto Giuseppe Campo, che essendo malato s’imbarcò il
giorno seguente su un piroscafo in partenza per l’Italia con a bordo civili e
militari ammalati). Rimasero a Corfù soltanto due piccoli piroscafi, Richard e Tergeste, il rimorchiatore Fiume,
qualche motoveliero requisito e due imbarcazioni della Guardia di Finanza (la
motobarca MB. 30 e la motolancia ML. 27). Il 9 settembre fu fatto
rientrare in Italia anche un idrovolante (altri sei, rimasti a Corfù, andarono
distrutti durante i successivi bombardamenti tedeschi).
Il 9 settembre non
giunse da Brindisi alcun ordine sul da farsi, così la notte successiva fu
inviato in quella città il maggiore Capra, con l’incarico di contattare il Comando
Supremo e chiedere istruzioni; ma anche la giornata del 10 trascorse senza
notizie.
L’ex governatore
civile Parini ed i funzionari del suo seguito lasciarono Corfù la sera dell’11
settembre, a bordo del panfilo Cervo
(Parini, che avrebbe poi aderito alla Repubblica di Salò, si fece sbarcare a
Fano il 14 settembre ed ordinò al Cervo
di raggiungere Venezia, dove cadde in mano tedesca). Rimase invece a Corfù il
commissario civile, Ludovico Barattieri, di tendenze antifasciste.
Il mattino del 10
settembre, intanto, parlamentari tedeschi – il tenente colonnello Klotz,
comandante della guarnigione tedesca di Corfù, ed il console Spengelin – avevano
intavolato trattative con il colonnello Lusignani, pretendendo l’immediata
cessione del controllo dell’isola. Il 9 settembre il generale Carlo
Vecchierelli, comandante dell’11a Armata, aveva ordinato di sua
iniziativa la resa ai tedeschi di tutti i reparti sotto il suo comando,
credendo alle promesse tedesche (poi puntualmente tradite: tutte le truppe
finirono in prigionia in Germania) di rimpatrio di tutta la sua armata; anche
il presidio di Corfù dipendeva dall’11a Armata, e Vecchierelli gli
aveva inviato l’ordine di consegnare le al comando tedesco «postazioni
fisse, antinavi et antiaeree, conservando artiglierie mobili et armamento
individuale» e promettendo poi «ordini
circa rimpatrio». I due parlamentari tedeschi chiesero l’esecuzione
degli ordini del generale Vecchierelli (che secondo la loro interpretazione
prevedevano la consegna sia delle armi collettive che di tutte le artiglierie e
relative munizioni, e la totale cessione del controllo dell’isola), ma il
colonnello Lusignani spiegò di non potersi attenere al suo ordine di cedere
pacificamente le armi ai tedeschi, in quanto detta disposizione era stata data
da un generale che era già prigioniero e dunque non libero nella sua volontà. Mentre
si mostrò da subito fermo nei confronti delle richieste tedesche di consegna
delle armi, cui non intendeva cedere, Lusignani restava tuttavia esitante ad
intraprendere azioni armate contro gli ex alleati, caldeggiate invece dal suo
vice, tenente colonnello Alfredo D’Agata (comandante del gruppo d’artiglieria),
e dal commissario civile Barattieri. In precedenza, dopo aver ricevuto l’ordine
di Vecchierelli sulla consegna delle armi, che aveva giudicato “contrario
all’onore militare”, Lusignani aveva convocato il tenente colonnello D’Agata ed
i suoi tre comandanti di battaglione (tenente colonnello Giuseppe Randazzo,
tenente colonnello Ugo Besozzi, maggiore Carbonaro); tutti si erano dichiarati
d’accordo con lui ed avevano garantito per il comportamento dei loro uomini. I
comandi tedeschi non si limitarono all’invio di parlamentari, ma si attivarono
con opera di propaganda nei confronti della truppa: aerei della Luftwaffe sorvolarono
Corfù lanciando volantini con il seguente messaggio: «Camerati italiani! Per chi combattete ancora? Il governo Badoglio vi ha
venduto all’Inghilterra, affinché voi nella vostra stessa Patria, non gli
mettiate il bastone fra le ruote. Ora vi si vorrebbe trasportare in prigionia
britannica, separandovi dalle vostre famiglie, dalle vostre mogli, dai vostri
figli, e questo in premio della vostra fedele guardia, fatta per lunghi anni
nell’isola di Corfù, durante i quali non avete goduto delle benché minima
licenza. L’intendimento dell’esercito germanico è quello di prendere il vostro
posto e rimandarvi, sani e salvi, in Patria. L’esercito germanico vuole
frustrare questo odioso tentativo egoistico ai vostri danni. Rientrate in voi
stessi. Deponete le armi, dopo di che nulla si opporrà al vostro rimpatrio. Assumete
il contegno dei vostri camerati in Grecia ed altrove, i quali hanno
immediatamente iniziato il loro viaggio di ritorno in Patria». Altri
militari tedeschi crearono incidenti cercando di impadronirsi delle auto del
Ministero Affari Civili e pretendendo che le armi del personale italiano
dell’aeroporto venissero raccolte e chiuse in un locale, ma questi episodi
vennero rintuzzati prima di poter degenerare in scontro aperto.
Quella sera giunse
finalmente qualche ordine da Brindisi: il maggiore Capra era riuscito a
riferire la situazione al Comando Supremo, che ordinava a Lusignani di «considerare
le truppe tedesche come nemiche et regolarvi di conseguenza». Il giorno seguente (11 settembre), di
conseguenza, i rappresentanti tedeschi riferirono al loro comando che «Il
comandante di Corfù ha dichiarato che seguirà gli ordini impartiti dal
maresciallo Badoglio e che non opporrà alcuna resistenza a un eventuale sbarco
anglo-americano sull’isola. Il suo comportamento nei confronti dell’uffi ciale
di collegamento tedesco è sempre stato estremamente corretto, non dando alcun
motivo di attriti di sorta. Si è dichiarato disposto a intavolare delle
trattative; tuttavia avrebbe ordinato di aprire il fuoco sulle truppe tedesche
che avessero tentato di sbarcare sull’isola». Lusignani confidava che dalla
vicina Puglia sarebbero giunti rinforzi, navi, aerei per fronteggiare un
eventuale sbarco tedesco; sperava inoltre nell’appoggio della popolazione
civile, decisamente avversa ai tedeschi, e dei partigiani locali, che erano
ricercati dai tedeschi ma che nei confronti dell’occupante italiano si erano
finallora mostrati piuttosto moderati, non avendo lanciato alcun attacco
armato. Già il 9 settembre, difatti, il capo dei partigiani greci di Corfù,
Papas Spiru, aveva chiesto un incontro col tenente colonnello D’Agata, avvenuto
il giorno stesso; a seguito di tale incontro ci si era accordati per la
liberazione dei prigionieri politici e la distribuzione di armi e munizioni ai
partigiani, «per combattere il comune nemico». Nelle settimane a venire i
partigiani avrebbero cooperato con i militari italiani per mantenere l’ordine
pubblico, ed il comandante dei carabinieri, capitano Caggiano, sarebbe riuscito
a radunare circa 600 isolani disposti a combattere contro i tedeschi insieme
agli italiani. La popolazione, come sperato, si mostrò da subito collaborativa
e dispostissima ad appoggiare gli italiani contro i tedeschi; anzi, nella città
di Corfù fu necessario istituire un servizio di pattuglia per evitare che i
tedeschi presenti nell’abitato non venissero aggrediti dagli abitanti.
Il mattino dell’11 settembre arrivarono a Corfù due telegrammi del
comando della 7a Armata (generale Mario Arisio), dislocata in
Puglia, che chiarirono una volta per tutte l’orientamento da seguire: il primo
ordinava di opporsi «con forza at qualsiasi tentativo sbarco reparti
germanici», il secondo aggiungeva «Provvedete immediata cattura elementi
tedeschi considerandoli prigionieri di guerra». Poco dopo giunse il
capitano Wilhelm Spindler, comandante del Gebirgsjäger-Bataillon 54 (54° Battaglione
cacciatori da montaga), a chiedere di nuovo la resa dell’isola; il colonnello
Lusignani respinse nettamente la richiesta, affermando che intendeva mantenere
la situazione esistente, così come rispedì al mittente un’analoga ambascia
portata il 12 settembre dal maggiore Harald von Hirschfeld, cui rispose che «i reparti tedeschi dell’isola non potranno
essere aumentati né spostati, nessun natante tedesco potrà approdare né alcun
aereo atterrare». Ai rappresentanti tedeschi Lusignani dichiarò che avrebbe
seguito gli ordini del governo regio, difendendo Corfù ad ogni costo se fosse
stata attaccata; diede al contempo assicurazione che avrebbe provveduto a
sfamare e proteggere i militari tedeschi che si trovavano nell’isola. Quella
sera, von Hirschfeld riferì ai suoi superiori che «il comandante, dallo stile asciutto e conciso, non [è] assolutamente disposto a trattare. Lo Stato
maggiore orientato in modo totalmente ostile verso i tedeschi». Con questo,
le trattative potevano considerarsi concluse; più o meno nello stesso momento,
i prigionieri politici internati nel campo di concentramento del Lazzaretto
(circa 500) venivano liberati, e si decideva di fornire armi e munizioni ai
partigiani corfioti. Iniziava la battaglia di Corfù.
Il primo atto ostile
da parte tedesca ebbe luogo alle 6.45 (per altra fonte, alle otto) del 13
settembre, quando tre bombardieri della Luftwaffe piombarono di sorpresa sulla
città di Corfù, colpendone il porto e l’abitato, mentre al contempo le batterie
tedesche da poco installate vicino a Melichià aprirono il fuoco contro alcuni
punti dell’isola. Tre aerei tedeschi furono abbattuti. Su questo episodio
esistono versioni contrastanti; secondo una versione gli aerei tedeschi
avrebbero iniziato a sorvolare a bassa quota la città di Corfù, la fortezza e
l’aeroporto gettando volantini che invitavano alla resa, e dopo qualche minuto
sarebbe iniziato il fuoco incrociato, non è chiaro iniziato da chi. Le batterie
italiane avevano l’ordine di aprire il fuoco soltanto se gli aerei avessero
cercato di atterrare; il tenente colonnello Giuseppe Randazzo, comandante il
III Battaglione del 18° Reggimento Fanteria, affermò in seguito che i velivoli
accennavano a voler atterrare nell’aeroporto, e che le mitragliere del suo
battaglione (stanziato vicino alla base aerea) ed una vicina batteria da 20 mm
aprirono il fuoco dopo che un aereo da trasporto tedesco fu atterrato
nell’aeroporto, presidiato da truppe tedesche.
Tutto ciò si svolse
mentre il maggiore von Hirschfeld si stava nuovamente recando a Corfù per
rivolgere al presidio un ultimo invito alla resa; aveva cercato di recarvisi in
aereo, ma era dovuto tornare indietro a causa del tiro contraereo aperto dopo
l’incidente appena descritto, così aveva riprovato via mare, a bordo di un
motoveliero. Von Hirschfeld consegnò un ultimatum con cui richiedeva la resa
entro le 11.30, e dichiarò che l’attacco aereo si era svolto tre ore prima del
previsto; affermò anche di considerarsi prigioniero degli italiani, ma
Lusignani rispose che avrebbe rispettato il suo status di parlamentare. Con il
maggiore tedesco era arrivato anche il colonnello Rossi, capo di stato maggiore
del XXVI Corpo d’Armata (facente parte dell’11a Armata, e dal quale
dipendeva il presidio di Corfù), che recapitò al colonnello Lusignani un
fonogramma del generale Della Bona, che affermava di aver deposto le armi “per
evitare inutile spargimento di sangue” e che il Corpo d’Armata era “avviato in
Albania per essere inviato in Italia” (falso: finirono tutti prigionieri in
Germania), concludendo con la pilatesca frase “A evitare spargimento di sangue in Corfù potete se del caso regolarvi
di conseguenza”. (Secondo il tenente colonnello D’Agata, nel consegnare il
messaggio a Lusignani il colonnello Rossi trovò il modo di confidargli,
sottovoce, che il fonogramma era stato firmato dal generale Dalla Bona sotto
minaccia di morte, e che in realtà il generale consigliava al colonnello
Lusignani di resistere, dato che lui si trovava su un’isola ed aveva dunque
maggiori possibilità di difendersi).
Frattanto, 13 (per
altra fonte 15) tra motovelieri e motopescherecci con a bordo truppe da sbarco
della 1. Gebirgs-Division – un “gruppo tattico” al comando del capitano
Siegfried Dodel – si avvicinavano alle spiagge di Benizza (Benitses), a sud di
Corfù città, per tentare uno sbarco a sorpresa. Alle 12.05 von Hirschfeld
comunicò al suo comando il nuovo rifiuto della resa da parte di Lusignani, e
poco dopo ebbe luogo il tentativo di sbarco, che nonostante il supporto di nove
bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 (la cui azione fu però mal coordinata
rispetto a quella dei mezzi da sbarco) venne respinto dalle batterie costiere
italiane: il loro tiro affondò un motoveliero e ne danneggiò altri, oltre ad abbattere
uno Ju 87; la flottiglia tedesca dovette invertire la rotta e tornare indietro,
giungendo a Gomenizza alle 18.45. Secondo quanto scritto in seguito dal tenente
colonnello D’Agata, il giorno seguente furono rinvenuti sulle spiagge di Corfù
i cadaveri di oltre 40 tedeschi morti nell’affondamento del motoveliero.
Questo attacco
giustificò l’immediato uso della forza da parte italiana; alle 12.30 due
compagnie del 18° Fanteria, appoggiate da una batteria del 3° Gruppo del 33°
Reggimento Artiglieria, accerchiarono la base aerea tedesca, il cui presidio si
arrese senza combattere. Restavano altre truppe tedesche nei capisaldi di Capo
Bianco (a sud), Avliotes, Episkepsis e Kassiopi; i presidi di Avliotes ed
Episkepsis si arresero nel pomeriggio, quello di Capo Bianco (che contava 250
uomini) resisté tutto il giorno prima di cedere. Il distaccamento di Kassiopi
resistette fino alle sette del mattino del 14, quando anch’esso cedette le
armi; questi iniziali successi diffusero una certa euforia tra le truppe
italiane. Le perdite tedesche in questa fase furono di una cinquantina di morti
e 426 o 441 prigionieri; questi ultimi furono rinchiusi nella Fortezza Nuova,
adibita a temporaneo campo di prigionia.
Mentre si organizzava
la resistenza, vennero presi accordi anche col comandante del presidio del
vicino porto di Porto Edda (nome imposto all’epoca alla cittadina di Santi
Quaranta, a sua volta vecchio nome italiano di Saranda, in Albania), che
contava 5000 uomini in gran parte del 49° Reggimento Fanteria (49a
Divisione Fanteria "Parma"): pressato sia dalla minaccia potenziale
dei tedeschi (che stavano procedendo alla “neutralizzazione” delle truppe
italiane in Albania) che da quella immediata dei partigiani albanesi (che
avevano circondato la città ed intendevano occuparla), il colonnello Elio
Bettini decise, d’accordo col colonnello Lusignani e con i partigiani, di
trasferire i suoi uomini a Corfù. Con l’impiego anche di mezzi mandati da
Brindisi (perlopiù pescherecci), in tre viaggi furono trasferiti da Porto Edda
a Corfù tra i 3500 e i 4000 uomini (i primi giunsero nella notte dell’11
settembre), compreso un certo numero di sbandati che avevano raggiunto Porto
Edda provenendo dall’entroterra albanese, così raddoppiando la consistenza numerica
del presidio dell’isola. Arrivarono su un motoveliero anche un centinaio di
finanzieri dei distaccamenti dell’Albania meridionale, riuniti sotto il comando
del sottotenente Scalabrini, comandante della tenenza della R.G.d.F. di Porto
Edda; con loro c’erano anche dei carabinieri, il direttore della dogana e
quello della Banca d’Albania, che avevano portato con sé le loro famiglie.
Nel corso della
giornata del 13 settembre iniziarono ad arrivare a Corfù da Porto Edda gli
uomini del I Battaglione del 49° Fanteria (un migliaio in tutto, suddivisi in
vari gruppi, con anche il comando di reggimento), seguiti il giorno seguente dal
III Battaglione del 232° Reggimento Fanteria (11a Divisione Fanteria
"Brennero") e dal 547° Battaglione Costiero, nonché da reparti minori
tra cui due sezioni da 75/27 del XV Gruppo Artiglieria della Guardia alla
Frontiera (uniche artiglierie trasferite dall’Albania, ma senza munizioni:
qualche giorno dopo una motobarca venne inviata a Porto Edda da Corfù e riuscì
a recuperare 600 colpi) ed il 31° Ospedale da Campo, oltre ad elementi del
Genio fotoelettricisti, della Marina, della G.d.F., della sussistenza. Il
colonnello Bettini annunciò al Comando della 7a Armata che «Isolato Comandi Superiori preferendo
combattere ancora per la Patria alla umiliazione di cedere le armi chiede che
sia con la quasi totalità presidio Porto Edda inutilizzando quanto non
trasportabile sono sbarcati Corfù cooperando difesa isola dal giorno 13
corrente alt Dati forza mezzi et materiali vi perverranno tramite difesa Corfù
alt Pregasi informare potendo 9a Armata».
Non tutti questi
uomini erano però pienamente affidabili: tra i reparti trasferiti da Porto Edda
c’erano anche l’8° Battaglione Camicie Nere "Varese" e il 109°
Battaglione Camicie Nere "Macerata", due reparti di fede fascista sulla
cui affidabilità il tenente colonnello Bettini espresse seri dubbi; e difatti
durante la battaglia gli uomini dei due battaglioni si sarebbero in gran parte
schierati con i tedeschi, combattendo insieme a loro ed aiutandoli, dopo la
caduta dell’isola, a cacciare i soldati italiani fuggiti sui monti per
sottrarsi alla cattura. Anche tra gli uomini non di fede fascista ce n’erano
non pochi sul cui affidamento in caso di scontro armato si potevano esprimere
riserve: molti dei soldati giunti da Saranda erano ormai degli sbandati;
disarmati, demoralizzati (al punto che si temette che i contatti tra loro ed i
reparti del presidio di Corfù avrebbe potuto “inquinare” il morale di questi
ultimi, che invece era alto) e privi di inquadramento, la loro presenza a Corfù
rischiava di essere più un peso sulle riserve alimentari della guarnigione che
un concreto aiuto. Anche quei reparti che erano rimasti relativamente intatti ed
efficienti erano armati del solo armamento individuale e poche armi di reparto;
niente munizioni, artiglierie, viveri o veicoli.
La sera del 13 la
Luftwaffe si ripresentò sui cieli di Corfù, effettuando un secondo
bombardamento con un numero più nutrito di bombardieri; la contraerea italiana
rivendicò l’abbattimento di quattro dei velivoli attaccanti. Questo
bombardamento, iniziato alle 20 e proseguito per parecchie ore con il lancio di
spezzoni incendiari, fu particolarmente disastroso per l’abitato di Corfù, dove
molti edifici erano realizzati in legno. Lo spettacolo divenne in breve
apocalittico: gran parte della città bruciò per tutta la notte, ed al mattino
gli sfollati ed i senzatetto erano migliaia; morirono sotto le bombe 30 soldati
italiani ed un imprecisato numero di civili corfioti. Il bombardamento fu poi così
descritto dal tenente colonnello D’Agata: «Alla
mezzanotte, mentre il bombardamento continua, tutta la città è in fiamme. Non è
possibile dare alcun aiuto, per mancanza di mezzi adeguati, contro incendi così
vasti e diffusi che coinvolgono interi quartieri cittadini. (…) Alle 7 del mattino l’incendio ha assunto
proporzioni spaventose. Corfù è un solo rogo: tutto arde e rovina in cumuli di
macerie combuste e fumanti». Furono colpiti anche il comando del I
Battaglione della Guardia di Finanza e la caserma della 3a Compagnia
della G.d.F., i cui militi, che nel bombardamento avevano perso il capitano
Francesco Cultrona, si prodigarono per portare aiuto ai civili. La popolazione
civile, terrorizzata, sfollò in massa; le bombe avevano colpito anche il
carcere, dal quale erano fuggiti parecchi detenuti, criminali comuni che ora
rappresentavano un nuovo problema.
Fu poco dopo questa
incursione, sempre nella serata del 13 settembre, che arrivarono a Corfù la Sirtori e la Stocco (tenente di vascello Renato Lupi): il loro invio dall’Italia
era stato deciso da Supermarina a seguito di richiesta avanzata dal comando di
Corfù, che riteneva che col loro armamento le due torpediniere avrebbero potuto
contribuire a rinforzare le modeste difese dell’isola in funzione antinave e
contraerea. Per una fonte, il 13 settembre Corfù aveva chiesto urgentemente a
Supermarina di inviare due navi da guerra per contrastare un possibile sbarco
tedesco; Sirtori e Stocco erano le uniche navi disponibili
a Brindisi in quel momento, quindi Supermarina ne aveva disposto l’immediata
partenza. Il comandante titolare della Sirtori,
tenente di vascello Carlo Pulcini, si era ammalato, pertanto aveva dovuto
sostituirlo all’ultimo momento il parigrado Alessandro Senzi, che si era
imbarcato sulla nave al momento della partenza da Brindisi.
Verso le nove del mattino
del 14 settembre, mentre stava sbarcando l’ultimo scaglione di soldati
provenienti da Porto Edda, la Luftwaffe tornò alla carica con una formazione
mista di bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 “Stuka” e di bombardieri medi
Junkers Ju 88, che sganciarono bombe dirompenti ed incendiarie in gran quantità
sulla città e sul porto di Corfù. Tre degli “Stukas” – appartenenti al I.
Gruppe/Sturzkampfgeschwader 3 (1° Gruppo del 3° Stormo da Bombardamento in
Picchiata) e guidati dal capitano Helmut Naumann – presero di mira proprio Sirtori e Stocco, all’ancora a soli 150 metri di distanza l’una dall’altra,
eseguendo ripetuti attacchi in picchiata: la Stocco uscì indenne dall’attacco, ma alle 9.10 la Sirtori fu investita da una salva di sei
bombe. Uno degli ordigni colpì in pieno la torpediniera, perforando tutti i
ponti ed esplodendo sotto lo scafo; le altre cinque bombe caddero in mare
tutt’attorno, così vicine da aprire parecchie falle per effetto della
concussione delle esplosioni. Gravemente danneggiata e con incendi a bordo, la Sirtori iniziò ad imbarcare acqua ed assunse
in breve un forte sbandamento; presa a rimorchio, verso l’una del pomeriggio dovette
essere portata all’incaglio sulla spiaggetta di Potamos (Alykes Potamos), a sud
dell’isolotto Lazzaretto, per scongiurarne l’affondamento in acque profonde. La
Stocco ricevette ordine dal Comando
Marina di allontanarsi dall’isola, e successivamente fu fatta tornare a
Brindisi.
L’attacco aereo che mise
fuori uso la Sirtori provocò un’unica
vittima tra il suo equipaggio: il sottocapo fuochista Bartolo Boscardin, di 23
anni, nato ad Isola Vicentina (Vicenza) ma residente ad Oggiona Santo Stefano
(Varese). Fu sepolto a Corfù, da dove in seguito i suoi resti sarebbero stati
trasferiti nel cimitero di Jerago con Orago, in provincia di Varese.
Non fu, questo,
l’unico bombardamento della giornata: nel pomeriggio del 14 settembre ebbero
luogo a più riprese altre incursioni aeree, seguite da altre ancora il giorno
seguente. Nella giornata del 14, inoltre, Corfù fu fatta segno del tiro di una
batteria da 150 mm situata sulla vicina costa dell’Epiro. Già nel corso dei
primi bombardamenti la sede del Comando Marina di Corfù e la caserma che
ospitava il distaccamento di marinai vennero entrambi colpiti da bombe e resi
inagibili; tra il 13 ed il 14 settembre, pertanto, sia il Comando che il
distaccamento vennero trasferiti in altra sede al di fuori della città di
Corfù.
Da quel momento in
poi, i bombardamenti da parte del X. Fliegerkorps tedesco divennero un
appuntamento pressoché quotidiano per la guarnigione di Corfù.
Il 15 settembre ebbe
luogo un altro tentativo di sbarco da parte tedesca: circa quindici unità,
motovedette e motozattere, si presentarono davanti a Benizza, ma vennero
costrette alla ritirata dal fuoco delle batterie dell’Esercito.
Quella sera il
comandante Senzi della Sirtori,
d’accordo col comandante Ostuni di Marina Corfù, prese la decisione di adibire
anche l’equipaggio della torpediniera alla difesa terrestre dell’isola; venne
così costituito un reparto che fu posto al comando del tenente di vascello
Luigi Salto, comandante in seconda della Sirtori,
e che fu schierato nella parte settentrionale dell’isola. Soltanto un ridotto
numero di marinai vennero esclusi da questa decisione e trattenuti presso la Sirtori per tentarne il recupero
(secondo una fonte, vennero anche trattenuti a bordo alcuni cannonieri e
mitraglieri; secondo un’altra, parte dell’armamento della Sirtori, specie i pezzi di minor calibro, venne rimosso per
potenziare la difesa terrestre).
Vicino alla Sirtori giaceva il relitto di un’altra
nave, incagliata da più di un anno: si trattava del piroscafo Monstella, silurato nell’agosto 1942 dal
sommergibile HMS Rorqual e portato
all’incaglio per evitarne l’affondamento, proprio come adesso era avvenuto per
la Sirtori. Da allora, il piroscafo
non era più stato recuperato, in quanto ritenuto troppo danneggiato. Pur nella
loro condizione di navi immobilizzate, nei giorni a venire Sirtori e Monstella
avrebbero contribuito, con le loro armi contraeree, alla difesa di Corfù dagli
attacchi aerei.
Il tenente Mario
Caruso del I Battaglione del 49° Reggimento Fanteria, giunto a Corfù da Porto
Edda per contribuire con i suoi uomini alla difesa dell’isola, ricorda con
queste parole, nel suo diario, la vista del relitto della Sirtori: "La Sirtori
inchiodata da bombe nemiche nella baia corfiota, con la sua sagoma ancora
affiorante, pareva che dicesse: sono qui con voi, non ho nulla da darvi, né
pane, né fuoco, tutta la mia anima ho donato".
La Fortezza Nuova, il
cui comando era stato frattanto affidato al capitano Bernard della Guardia di
Finanza, era diventata affollata: insieme ai 426 o 441 prigionieri tedeschi
catturati il 13-14 settembre, nell’edificio si erano concentrati centinaia di
soldati e marinai provenienti dall’Albania e 3000 civili corfioti che avevano
perso le loro case sotto il bombardamento della notte del 13. Questi ultimi si
erano accampati ovunque in preda al panico ed alla confusione, in condizioni
igieniche e di promiscuità spaventose. Si cercò di farli sfollare nelle
campagne, ma molti non volevano saperne di lasciare la sicurezza della
fortezza.
Il 16 settembre
ebbero luogo altri attacchi aerei tedeschi; da quel giorno e fino al 25
settembre, le incursioni della Luftwaffe videro un costante crescendo di frequenza
e violenza. Nelle parole del tenente colonnello D’Agata: «Ogni sopravvissuto avrà nel cervello per tutta la vita lo spietato
martellare degli scoppi che si succedono con una continuità inesorabile.
Dell’abitato cittadino non resta più ormai che qualche focolare». I
bombardamenti presero di mira soprattutto gli obiettivi militari (nodi
stradali, postazioni di artiglieria, capisaldi di fanteria, fortificazioni, accampamenti
delle truppe, il porto), ma neanche l’abitato di Corfù fu risparmiato; buona
parte della cittadina venne distrutta dalle bombe e dagli spezzoni incendiari, che
provocarono gravi distruzioni anche nel centro storico della città vecchia. Molti
civili cercarono rifugio nei sotterranei delle due fortezze veneziane, unico
posto sicuro dalle bombe. Il commissario civile Barattieri organizzò un
servizio di assistenza per i civili, con distribuzione di provviste e
medicinali.
Dall’Italia fu
inviato un idrovolante della Croce Rossa per evacuare i feriti più gravi, ed
elogi per il comportamento del colonnello Lusignani, ma pochi aiuti concreti.
La contraerea di Corfù abbatté altri aerei tedeschi (dall’inizio dei
bombardamenti al 16 settembre erano stati rivendicati undici abbattimenti), ma
non poté fermarne l’impeto distruttore. Ai partigiani greci, intanto, fu
conferito l’incarico di mantenere l’ordine pubblico tra la popolazione locale
(compito condiviso con carabinieri e finanzieri, coi quali c’era in realtà
qualche comprensibile screzio); il tenente colonnello D’Agata si occupò di
concertare l’azione dei partigiani insieme a quella delle truppe italiane,
dando loro ordini per un’attenta vigilanza contro paracadutisti tedeschi (i
partigiani aiutarono anche a rastrellare i pochi tedeschi ancora in libertà,
sbandatisi e fuggiti dopo gli scontri del 13). Aerei britannici sorvolarono
l’isola lanciando volantini di “incoraggiamento”: «L’ottava armata inglese continua la sua rapida avanzata oltre Bari, la
Vostra flotta è arrivata felicemente a Malta e Gibilterra, i nostri Spitfire
proteggono la vostra flotta». Forse, più che notizie del genere, i soldati
di Corfù avrebbero preferito un po’ più di aiuto contro gli attacchi che la
Luftwaffe seguitava a sferrare contro l’isola.
Dopo il fallimento
del tentativo di sbarco del 13 settembre, il generale Hubert Lanz, comandante
del XXII. Gebirgs-Armeekorps (XXII Corpo d’Armata di Montagna, di cui faceva
parte la 1. Gebirgs-Division) ed incaricato della conquista delle Isole Ionie,
progettò un secondo tentativo di sbarco con l’impiego di forze più numerose,
preceduto da un pesante bombardamento aereo sulle posizioni italiane a partire
dalla notte. Inizialmente questo attacco era programmato per la notte tra il 16
ed il 17 settembre, ma nel frattempo si era presentato un ostacolo imprevisto:
Cefalonia.
L’isola più grande e
meglio difesa dell’arcipelago, sede del grosso della Divisione
"Acqui" con un totale di 12.000 uomini, si era inizialmente mostrata
propensa a cedere le armi senza combattere; ma le pressioni degli ufficiali
sottoposti e gli ordini provenienti da Brindisi avevano infine spinto il
comandante della divisione, generale Antonio Gandin, ad opporre resistenza
armata al tentativo tedesco d’impadronirsi dell’isola. Il 13 settembre alcune
batterie costiere italiane avevano aperto il fuoco per iniziativa dei loro
comandanti su due motozattere tedesche, affondandone una e danneggiando l’altra
(e cià andò a ridurre i mezzi disponibili per lo sbarco a Corfù, dal momento
che queste due unità erano tra quelle che avrebbero dovuto prendere parte a
tale operazione), ed il 15 settembre le trattative tra i rappresentanti
tedeschi ed il generale Gandin si conclusero con l’affermazione della volontà
italiana di resistere; di conseguenza, Cefalonia prese il posto di Corfù
(inizialmente designata come prima isola da attaccare, per via della sua
maggior vicinanza all’Italia che in teoria avrebbe agevolato l’invio di aiuti)
nell’ordine delle priorità tedesche. Un battaglione della 1. Gebirgs-Division,
già pronto a Prevesa per essere lanciato contro Corfù, fu dirottato su
Cefalonia, dove servivano rinforzi dopo i successi italiani della notte del
15-16 settembre.
Mentre a Cefalonia si
combatteva, Corfù rimase sotto la pressione aerea della Luftwaffe. Il 17
settembre salparono dall’Italia due torpediniere con provviste, acqua
(l’acquedotto di Corfù era fuori uso già da prima dell’armistizio, per effetto
dei bombardamenti britannici) e munizioni, ma l’ammiraglio britannico Peters le
dirottò per altro compito prima che giungessero a destinazione; il 18 settembre
i bombardieri tedeschi affondarono nel porto di Corfù il piroscafetto Tergeste ed il rimorchiatore Fiume del Ministero dei Lavori Pubblici.
Lo stesso giorno il colonnello Lusignani riferì ai comandi in Italia la caotica
e drammatica situazione che aveva luogo sulla vicina costa albanese: «Da messaggio inviato da Ufficiale Porto Edda
risulta che in detta località siano raccolti 2.200 militari attesa essere
sgombrati e in difficili condizioni alimentazione alt Stesso messaggio segnala
prossimo afflusso altri 1.500 militari provenienti interno alt Viene infine
segnalato che Divisione Perugia ripiega combattendo su Porto Edda alt Data mia
difficile situazione conseguente sovraccarico personale sprovvisto mezzi et
mancanza natanti proporrei che elementi cui trattasi siano sgomberati
direttamente madrepatria aut riorganizzati difesa Porto Edda nel caso Divisione
Perugia ricevesse ordine di resistervi a oltranza come sarebbe desiderabile alt
Col. Lusignani». Dall’Italia fu risposto che sarebbe stata inviata a Corfù
una motosilurante con gli ordini per le truppe di Porto Edda; quei reparti che
risultavano ancora in efficienza dovevano essere adibiti alla difesa ad
oltranza, gli altri evacuati verso la Puglia.
Il 19 settembre –
mentre i bombardamenti sull’isola proseguivano – giunse infatti da Brindisi la
motosilurante MS 33, che consegnò al
presidio un quantitativo di medicinali; arrivarono anche le torpediniere Sirio e Clio e la motonave Probitas,
che proseguirono per Porto Edda ove imbarcarono quante più truppe possibile,
che trasportarono poi a Brindisi. La Regia Aeronautica, in uno dei pochi casi
in cui manifestò la sua presenza nel corso della tragedia delle Isole Ionie,
inviò da Manduria (Taranto) sei Reggiane Re 2002 per attaccare i mezzi da
sbarco tedeschi concentrati nella baia di Sagiada, sulla costa greca
frontistante Corfù.
Il 20 settembre si
tenne un colloquio tra il generale Lanz, il comandante della 1.
Gebirgs-Division ed il capo di stato maggiore; fu deciso di rinviare
l’occupazione delle isole di Paxos ed Antipaxos, i cui presidi erano così
ridotti e poco armati da non rappresentare una minaccia (le due isole furono
poi occupate in ottobre) e di concentrarsi invece su Corfù; l’operazione per la
conquista dell’isola avrebbe portato il nome in codice di
"Tradimento".
Quello stesso giorno,
Marina Corfù riferì a Supermarina che i prigionieri tedeschi sarebbero stati
imbarcati su due motovelieri e trasferiti in Puglia. Già il 15 settembre i
comandi italiani avevano chiesto a Lusignani di mandare in Puglia i
prigionieri, e adesso era sorto il timore che nell’eventualità di uno sbarco
tedesco i prigionieri potessero riuscire a liberarsi ed aiutare gli attaccanti.
(Secondo una fonte, il 16 settembre i prigionieri furono trasferiti nella baia
di San Giorgio “in attesa della torpediniera che avrebbe dovuto trasportarli in
Italia”, e viene fatto il nome della Sirtori,
che tuttavia “era bloccata in rada”; per la verità la nave, come detto, era già
da giorni incagliata con gravi danni, quindi sembra improbabile che possa
essere stata presa in considerazione per il trasferimento dei prigionieri). Da
Corfù venne anche comunicato che ormai i soldati arrivati dall’Albania erano
circa 3000, e che la loro presenza incideva negativamente sulle scorte del
presidio, soprattutto per quanto riguardava i viveri.
La situazione a
Cefalonia volgeva intanto al peggio: fino alla sera del 20 fu possibile
mantenere i contatti tra Corfù ed il comando della "Acqui", ma dalla
sera successiva non arrivò più alcun messaggio da Cefalonia, dove ormai le
truppe italiane, a corto di munizioni, incalzate dai rinforzi tedeschi e
martellate dalla Luftwaffe, stavano per essere sopraffatte.
I comandi Alleati,
nel frattempo, avevano iniziato a mostrare un tardivo interesse per quanto stava
accadento nelle Isole Ionie; il 21 settembre fu paracadutata su Corfù la
missione militare britannica "Acheron", guidata dal capitano William
Oliver Churchill, con l’incarico di stabilire contatti col colonnello Lusignani
e preparare uno sbarco angloamericano nell’isola. L’inviato britannico,
catturato dai partigiani di Papas Spiru che lo consegnarono subito al comando
italiano, spiegò di essere stato mandato dal generale Henry Maitland Wilson per
volere del comandante in capo Alleato, generale Dwight Eisenhower. Scrisse poi
il capitano Churchill: «…il generale
Eisenhower considera Corfù importante per gli alleati nella campagna dei
Balcani. Aveva deciso di inviarci immediatamente una piccola forza per rinforzare
le truppe italiane contro l’invasione tedesca. (…) La missione era quella di
contattare il comandante italiano di Corfù, esporgli le intenzioni degli
Alleati, congratularsi con lui per la resistenza che opponeva ai tedeschi e
fare tutto quello che potevo per rassicurare la sua volontà di resistere in
attesa delle truppe alleate. Io dovevo mandare informazioni di carattere
militare al Quartier Generale del Medio Oriente per mezzo della mia
trasmittente, così che M04 mi avrebbe fornito dettagli sullo sbarco che
dovevamo proporre agli italiani». Sfortuna volle che dopo il lancio
Churchill ed il suo compagno, il radiotelegrafista Harrison, atterrassero
malamente su terreno roccioso, danneggiando la loro radio; dopo un iniziale
contatto con il Cairo, l’apparecchio si guastò ed ogni contatto con i comandi
Alleati in Egitto venne meno, vanificando lo scopo dell’operazione. Soltanto il
24 settembre il generale Forster, dopo ripetute richieste da parte del Comando
Supremo italiano, avrebbe convinto i suoi superiori ad intervenire con le forze
aeree in appoggio di Corfù, ma sarebbe stato troppo tardi.
Il 21 settembre fu
inviata da Brindisi a Corfù, dietro richiesta delle autorità britanniche, la
torpediniera Sagittario, affinché
rinforzasse col suo armamento la difesa contraerea ed antisbarco dell’isola.
Il 22 settembre la
resistenza di Cefalonia volse al termine; il generale Gandin, la maggior parte
dei suoi ufficiali ed un numero ancor oggi discusso di soldati vennero
fucilati. Adesso Corfù era sola, e i tedeschi avrebbero potuto concentrare
tutti i loro sforzi per conquistare anche quest’isola. Il generale Lanz diede
una disposizione semplice quanto sinistra: «Il
trattamento del presidio italiano di Corfù [va eseguito] secondo gli stessi
punti di vista applicati nei confronti del presidio di Cefalonia».
Nel dare istruzioni
alle truppe destinate all’attacco, i comandi tedeschi posero enfasi sul
cosiddetto “tradimento” italiano; e "Tradimento" era il nome dato
all’intera operazione. Il piano d’attacco, elaborato del comando del XXII.
Gebirgs-Armeekorps, fu approvato da Lanz il 22 settembre; era previsto
l’impiego di un battaglione del 98° reggimento da montagna, una sezione del 79°
reggimento artiglieria da montagna, una compagnia del 54° battaglione pionieri
da montagna, al comando del capitano Dittmann, ed anche di una compagnia di
soldati sudtirolesi armati e vestiti con uniformi ed equipaggiamento del Regio
Esercito, destinati ad infiltrarsi nelle linee italiane facendosi passare per
italiani (quest’ultimo reparto non fu poi però effettivamente impiegato nei
combattimenti). Il tutto, appoggiato dagli aerei del X. Fliegerkorps.
Proprio mentre a
Cefalonia iniziavano i massacri dei prigionieri italiani, a Corfù i 426
prigionieri tedeschi (tra cui il tenente colonnello Klotz ed altri 11 ufficiali;
altra fonte parla di 441 prigionieri, tra cui 7 ufficiali) catturati tra il 13
ed il 14 settembre venivano trasportati al porticciolo di Paleocastrizza,
scortati da 10 carabinieri e 10 finanzieri, ed imbarcati su due motovelieri
procurati dai partigiani, che li avrebbero portati in Puglia. Sarebbero stati i
primi, e per parecchio tempo gli unici, prigionieri di guerra tedeschi nelle
mani del “Regno del Sud”.
Nella notte tra il 22
ed il 23 settembre il colonnello Lusignani riferì nuovamente al Comando Supremo
la precaria situazione del suo comando, con i continui bombardamenti mal
contrastati dalla contraerea, e chiese di nuovo che fossero mandati degli aerei
dei caccia ed anche dei veicoli, perché quelli disponibili avevano subito un
notevole logorio per il loro continuo utilizzo nelle ultime due settimane. In
mattinata Lusignani contattò nuovamente il Comando Supremo per riferire i suoi
(fondati) timori che nelle ore successive avrebbero compiuto un nuovo tentativo
di sbarco; chiese ancora una volta supporto aereo e navale, invano. Alle 13 del
23 settembre i reparti tedeschi incaricati dell’assalto contro Corfù iniziarono
ad imbarcarsi sui mezzi da sbarco, nel porto di Prevesa.
La Regia Aeronautica
disponeva, in verità, di residue forze aeree nelle basi pugliesi di Brindisi,
Bari (sede del comando della 4a Squadra Aerea), Galatina (ove si
trovava un Comando Caccia Intercettori), Leverano e Manduria: circa 300 aerei
in tutto, di cui 117 – al 15 settembre – in condizioni di efficienza,
soprattutto moderni caccia Macchi M.C. 205, Macchi M.C. 202 e Reggiane Re 2002.
C’erano anche 20 bombardieri CANT Z. 1007 bis, che rimasero parcheggiati negli
aeroporti senza fare nulla. Fino al 19 settembre, l’unico impiego di questi
aerei furono missioni nei cieli della Puglia alla ricerca di reparti tedeschi
di retroguardia; per volere degli Alleati, la Regia Aeronautica doveva per il
momento astenersi dall’intervenire sul territorio nazionale, eccettuata la zona
di Brindisi. Corfù sarebbe stata raggiungibile con relativa facilità dalle basi
pugliesi (delle Isole Ionie, era quella più facilmente raggiungibile), ma
ciononostante i comandi di quel che restava dell’aviazione italiana fecero ben
poco per difenderla dalle incursioni della Luftwaffe; vi fu soltanto un tardivo
intervento in Albania, senza invece attaccare le basi greche (Ioannina e
Paramythia) da dove decollavano gli aerei tedeschi diretti contro Corfù e
Cefalonia od i porti in cui si imbarcavano le loro truppe (a partire da
Prevesa), nonostante le continue richieste in questo senso avanzate dal comando
di Corfù. Alcuni caccia vennero inviati a pattugliare a coppie il cielo di
Corfù, ma solo di mattina e solo ad orari fissi, ed influirono poco o niente
sulle sorti della battaglia.
Il colonnello
Lusignani propose di utilizzare l’aeroporto di Corfù per il rifornimento e la
sosta dei velivoli italiani da impiegarsi a difesa dell’isola: in tal modo,
infatti, avrebbero evitato il volo di 250 km dalle basi della Puglia (mentre
gli aerei tedeschi, che decollavano dalle vicine basi greche, avevano bisogno
di volare solo pochi minuti prima di giungere sui cieli di Corfù). Il 19
settembre il generale britannico Forster domandò al generale Renato Sandalli,
capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, quale fosse lo stato dell’aeroporto di
Corfù; Sandalli disse che la base non era utilizzabile “per la presenza di
ostruzioni”, ma queste ostruzioni non erano altro che fusti di benzina che si
sarebbero potuti agevolmente eliminare: il 23 settembre il Comando Supremo
avrebbe confermato che l’aeroporto di Corfù avrebbe potuto essere rimesso in
efficienza nel giro di cinque ore. Lo stesso giorno il colonnello Lusignani
inviò al Comando Supremo un messaggio in cui analizzava lucidamente la
situazione e suggeriva le modalità di un intervento dell’Aetonautica: «Il nemico nei confronti dell’isola di Corfù
svolge un’attività che fa presumere imminente un attacco in forze. Infatti
risulta che a Igoumenizza sono già concentrati circa 40-50 mezzi da sbarco con
una o due torpediniere. Sembrerebbe anche che il nemico stia facendo raccolta
di altri mezzi o piroscafi nei porti di Parga e Prevesa. Sarebbe molto
opportuno, come già segnalato precedentemente, eseguire azioni di bombardamento
sui natanti dislocati in detta località – specialmente Igoumenizza – come poi
risulterebbe indispensabile il bombardamento dei campi d’aviazione di Giannina,
Paramithia e Prevesa. Il bombardamento aereo tedesco sempre più intenso e le
notizie d’intelligence che continuano ad arrivare sull’isola fanno
prevedere l’imminenza di uno sbarco». Seguirono altri messaggi in cui si
precisavano le basi usate dagli aerei tedeschi per attaccare Corfù: Prevesa,
Paramythia, Drenava, Valona ed Argirocastro; di queste, solo Paramythia fu
oggetto di qualche attacco aereo italiano, senza apparente risultato. Né fu più
convinto l’intervento contro i porti dove si concentravano i mezzi da sbarco
tedeschi: ci furono solo due bombardamenti di Gomenizza il 20 ed il 21
settembre, che provocarono qualche danno alle infrastrutture ed alcuni morti
tra le truppe tedesche.
Nemmeno gli Alleati,
al di là dell’invio della missione "Acheron" che nulla concluse per
via dei citati problemi alla radio, intrapresero azioni concrete per dare
appoggio, specialmente aereo, salla guarnigione italiana. Il 26 settembre,
quando tutto ormai si era compiuto, il generale britannico Forster avrebbe
dichiarato ai rappresentanti italiani di aver ricevuto nel pomeriggio del 24 «Nel pomeriggio del 24 settembre aveva
ricevuto l’autorizzazione dal suo Comando Supremo ad adoperare i P.40 per
bombardare Corfù e la costa greca, ma che essendo ormai capitolata Corfù, non
se ne sarebbe fatto niente»: informazione errata, dato che il 24 Corfù
resisteva ancora e la situazione non sembrava ancora del tutto perduta. Il che
fa apparire doppiamente assurda la richiesta avanzata dalla Royal Air Force, il
29 settembre, per avere informazioni sugli attacchi della Luftwaffe contro
Corfù e contro le navi italiane in preparazione di un intervento sull’isola: dopo
aver dato Corfù per capitolata mentre ancora resisteva, adesso qualcuno nei
comandi britannici non sembrava essersi accorto che l’isola era caduta da
quattro giorni (!).
La Sirtori (a sinistra) e la Stocco nei primi anni di servizio: dopo una vita trascorsa in gran parte insieme, entrambe queste navi terminarono la loro esistenza a poche settimane l’una dall’altra, nelle acque di Corfù (da www.forums.airbase.ru) |
In tutto, si stima
che dal 13 al 24 settembre 1943 Corfù sia stata sottoposta a circa 200 incursioni
aeree, ad una media di 15-20 al giorno, dall’alba al tramonto; ogni mattina,
inoltre, le batterie tedesche sulla costa di Gomenizza sparavano sull’isola un
centinaio di colpi da 155 mm, diretti soprattutto contro le fortificazioni
italiane della zona di Melichia. Le batterie costiere di Corfù non potevano
rispondere, perché la loro gittata non era sufficiente a colpire la costa
greca.
Il continuo
martellamento aereo andò progressivamente riducendo l’efficienza delle difese
di Corfù, non grande già all’inizio; nella notte tra il 23 ed il 24 settembre, quando
questa fu sufficientemente indebolita, le forze tedesche tentarono un nuovo
sbarco, a Lefkimo e presso la località di San Giorgio (sulla costa
sudoccidentale dell’isola), e questa volta vi riuscirono. Il gruppo principale
di mezzi da sbarco intraprese una serie di manovre diversive volte a confondere
i difensori circa l’ubicazione dell’aerea di sbarco, per poi raggiungere la
laguna di Corissa (Korission, costa occidentale dell’isola) intorno alle 00.30
del 24 settembre; la zona di Corissa era in una posizione chiave perché situata
nel punto in cui l’isola raggiungeva la sua larghezza minima (appena 4 km): occupare
quella stretta fascia avrebbe permesso alle forze tedesche di tagliare fuori le
truppe italiane dislocate nel settore meridionale. Al contempo, Corissa era
stata scelta dai pianificatori tedeschi anche perché i difensori l’avrebbero
ritenuta una delle zone meno probabili per operazioni di questo tipo, dato che
dopo lo sbarco sarebbe stato necessario avanzare nell’acqua alta un metro della
laguna: ed infatti gli italiani furono colti di sorpresa, la zona di Corissa
era uno dei tratti più sguarniti della costa corfiota. Le truppe tedesche, un
gruppo tattico del 99° reggimento Gebirsjäger, vennero celermente sbarcate e
formarono una forte testa di ponte, che venne presto localizzata e
cannoneggiata dalle artiglierie italiane che però non riuscirono a snidarla.
Altri mezzi
sbarcarono truppe in altri punti della costa, vanamente contrastati dalle batterie
costiere, che furono eliminate una dopo l’altra, non senza aver inflitto
perdite agli attaccanti (secondo fonti tedesche, furono colpiti il
cacciasommergibili UJ 2105, con un
morto e sei feriti tra cui il comandante, ed i motodragamine R 195 e R 211). Cominciarono anche i combattimenti tra le truppe sbarcate e
la fanteria italiana. Alle quattro del mattino le alture di Malauna, che
dominavano l’area dello sbarco, erano in mano tedesca; le truppe italiane
ripiegarono verso nord, e dopo le cinque ebbe inizio il rastrellamento tedesco
nella parte meridionale dell’isola. Nei combattimenti, le truppe tedesche non
facevano prigionieri; chi era trovato con armi in mano veniva immediatamente
fucilato, i reparti che resistevano erano sterminati senza lasciare superstiti.
Si iniziarono a registrare, da parte italiana, alcune diserzioni. Presso il
caposaldo di Argirades un reparto italiano ben inquadrato attaccò due compagnie
tedesche che scendevano lungo la strada principale, ma fu annientato
dall’intervento della Luftwaffe, che lasciò sul terreno una settantina di
caduti italiani per nessuna perdita da parte tedesca. Più a sud, altri reparti
italiani furono sorpresi nei rifugi, dove avevano cercato riparo dai continui
attacchi aerei. Impossatesi verso mezzogiorno del caposaldo di Argirades, più
nell’interno (il cui controllo aveva un forte impatto sulla sorte dell’intero
fronte sud, che fu così messo in crisi), le truppe tedesche avanzarono verso la
costa orientale; quelle italiane ripiegarono, attestandosi sul fiume Messonghi.
Il I, II e III Battaglione del 49° Fanteria furono inviati a presidiare
rispettivamente i passi di Stavros, Coritza e Garuna, a sud di Corfù, divenuti
altrettanti capisaldi della nuova linea difesa; la Luftwaffe li colpì
duramente.
Nella giornata del 24
altri reparti tedeschi (altri due gruppi tattici della 1. Gebirgs-Division) sbarcarono
anche sulla costa orientale di Corfù; appoggiate da incursioni aeree sempre più
intense, le forze tedesche sbarcate sui due lati si riunirono ed avanzarono
verso nord lungo la costa orientale, isolando le truppe italiane dislocate
nella parte meridionale di Corfù. Il Comando dell’isola riferì in Italia che la
situazione era sempre più grave («Se non
intervenite immediatamente con caccia e bombardamento per evitare ulteriore
immediato sbarco, è difficile sostenere la difesa dell’isola»); in risposta
alle richieste di aiuto, Supermarina ordinò alla Stocco, che in quel momento era in mare nelle vicinanze per
scortare un altro convoglio diretto a Porto Edda, di separarsi dal convoglio e
precipitarsi immediatamente al largo di San Giorgio, dove avrebbe dovuto
contrastare lo sbarco tedesco. Purtroppo l’unico risultato di questa decisione
fu quello di condannare la Stocco ad
una tragica fine: giunta a San Giorgio quando gli sbarchi erano già finiti, la
torpediniera cercò inutilmente per un’ora i mezzi da sbarco tedeschi; Marina
Corfù le comunicò che erano in atto altri sbarchi sull’altro lato dell’isola,
ma il messaggio non fu ricevuto, e la Stocco
diresse per ricongiungersi col suo convoglio. In questo frangente, la vecchia
torpediniera venne attaccata da una dozzina di Stukas ed affondata con quasi
tutto l’equipaggio, mitragliato in mare dagli aerei della Luftwaffe e disperso
dal maltempo.
La sera del 24
settembre, il secondo battaglione del 98° reggimento Gebirsjäger aveva
raggiunto tutti gli obiettivi prefissati; la parte meridionale di Corfù era
saldamente in mano tedesca, e tre battaglioni italiani erano stati distrutti.
Tra i difensori si contavano 500 morti e 1500 prigionieri, che i tedeschi
considerarono “disertori”. Il colonnello Lusignani inviò ai comandi pugliesi un
radiogramma che riassumeva una situazione disperata: «Nemico nella giornata odierna con dominio aereo incontrastato ha
bombardato quasi totalità caposaldi et ha sbarcato ingenti rifornimenti uomini
et materiali alt Possibilità difesa è limitata al solo caso che velivoli da
bombardamento abbiano predominio su quello nemico alt Che mezzi navali vigilino
contro ulteriori azioni di sbarco che mezzi corazzati et artiglieria contraerea
et campali siano sbarcati sull’isola entro 48 ore alt».
In conseguenza
dell’iniziale successo, i comandi tedeschi poterono rapidamente sbarcare un
secondo gruppo, al comando del capitano Feser: reparti del 99° reggimento Gebirsjäger
rimasti a Gomenizza, nonché una sezione del 79° reggimento artiglieria da
montagna (lo sbarco fu ultimato all’alba del 25 settembre). Sbarcò a Corfù
anche il generale Walter Stettner, comandante della 1. Gebirgs-Division, con lo
stato maggiore del gruppo incaricato della conquista dell’isola, al comando del
tenente colonnello Josef Remold (comandante il 99° reggimento).
Il 25 settembre le
sorti della battaglia di Corfù apparivano compromesse. In mattinata il
colonnello Lusignani, nonostante la parte meridionale dell’isola fosse ormai
perduta, cullava ancora speranze di poter prolungare la resistenza nella
regione montuosa che si trovava nella parte settentrionale di Corfù; ma le
munizioni erano sempre più ridotte, soprattutto quelle antiaeree. I soldati
erano sfibrati dai giorni passati insonni per effetto dei bombardamenti, ed in
alcuni reparti iniziava a scarseggiare anche l’acqua. La Luftwaffe regnava
incontrastata nei cieli, ed ebbe un ruolo determinante nella battaglia (la
storia ufficiale dell’U.S.M.M. giunge ad affermare che «Corfù cadde per effetto
quasi esclusivo dell’azione aerea, che noi non potremmo contrastare»); da parte
italiana si vide finalmente qualche aereo da attacco al suolo (tre bombardieri
e due caccia in tutta la giornata del 25), che eseguì azioni di bombardamento e
mitragliamento recando qualche noia ai reparti d’assalto tedeschi. Altri aerei
italiani attaccarono il naviglio tedesco che rientrava a Gomenizza dopo lo
sbarco, affondando, secondo fonti tedesche, la piccola motosilurante LS 6, e danneggiando il motodragamine R 194 e la motozattera F 131.
Restava ancora una
linea di fortificazioni italiane, a sudest della città di Corfù, appoggiate
dalle batterie contraeree: l’ultima linea di difesa, che si articolava sui
capisaldi dei passi di Stavros, Coritza e Garuna e sulle alture circostanti. I
loro presidi erano già stati indeboliti dagli attacchi aerei. Durante la
mattina due colonne tedesche, guidate dai capitani Feser e Dittmann, mossero
contro di essa; per avere ragione della linea di difesa italiana il comando
tedesco organizzò un attacco combinato: l’artiglieria pesante tedesca concentrò
il suo tiro sulla cittadella, mentre la colonna del capitano Feser aggirava
verso nord le fortificazioni italiane per tagliarne la possibilità di ritirata.
Poi, a mezzogiorno, la colonna del capitano Dittmann attaccò la linea italiana,
che fu travolta dopo gli ultimi accaniti combattimenti. Rallentate dal tiro
dell’artiglieria italiana, le truppe tedesche nondimeno conquistarono una dopo
l’altra tutte le posizioni. Il caposaldo di Coritza cadde per primo, alle
13.30, mentre Stavros e Garuna prolungarono la loro resistenza per un’altra ora
prima di essere sopraffatti. I superstiti cercarono scampo verso nord.
Alcuni reparti
italiani mostravano ormai segno di cedimento e scoraggiamento, anche perché
proseguiva la pratica tedesca di passare per le armi chiunque opponesse
resistenza: di parecchi capisaldi da loro conquistati non fu lasciato alcun
superstite.
Verso le quattro di
quel pomeriggio la resistenza italiana era ormai quasi del tutto cessata, ed in
serata una bandiera bianca sventolava sulla Fortezza Vecchia (non si è mai
saputo se fu fatta issare dal colonnello Lusignani, o da un comandante
sottoposto di sua iniziativa). Alle 16.20 la radio del presidio inviò il suo
ultimo messaggio: «Abbiamo distrutto
tutte pubblicazioni segrete. Ci apprestiamo a distruggere radio». Alle 17
le truppe tedesche entrarono in città, prendendo prigionieri 5000 soldati
italiani.
Il colonnello Lusignani,
che aveva trasferito il suo comando tattico a Schiperò (Skriperon), nella parte
settentrionale dell’isola, fece il punto della situazione: in quella zona
c’erano solo 200 uomini, tra ammalati e militari dei vari servizi, praticamente
senz’armi e sparsi tra due passi che distavano tra loro 4-5 km in linea d’aria,
ma in realtà a sei ore di marcia l’uno dall’altro. Il comandante di Corfù commentò
amaramente al tenente colonnello D’Agata: “Tutto è finito. Se ci avessero
aiutato, avremmo potuto resistere”.
Un documento tedesco
avrebbe liquidato in poche parole la battaglia di Corfù: «Si emana l’ordine di attacco a Corfù. L’attacco inizia il 24,
incontrando una forte resistenza che viene infranta; così dal 26 Corfù è in
nostra mano». Poco di più si dilungava il commento dell’Ufficio Operazioni
del Comando Supremo: «I tedeschi,
valendosi della supremazia aerea locale e della larga disponibilità di natanti
sulle vicine coste greche, sono riusciti a sbarcare consistenti rinforzi di
fanteria e artiglieria ed hanno attaccato a fondo il presidio dell’isola. La
difesa non ha potuto reggere all’urto avversario anche per deficienza di
munizioni ed è stata travolta nel pomeriggio del 25».
Il reparto composto
dagli uomini della Sirtori, essendo
dislocato nella parte settentrionale dell’isola, non fu coinvolto nei
combattimenti. Il relitto incagliato della Sirtori,
non essendo possibile muoverlo, venne completamente distrutto all’atto della
resa dal comandante Senzi e dagli uomini rimasti con lui, per ordine del
capitano di fregata Ostuni, comandante di Marina Corfù, onde evitare che la
nave potesse essere recuperata e riparata dai tedeschi.
Le operazioni nel
nord dell’isola proseguirono anche dopo la caduta di Corfù città, col
rastrellamento degli ultimi reparti italiani che ancora resistevano. Il
colonnello Lusignani ed il suo stato maggiore furono catturati verso le 23, a
Skriperon. Dopo brevi “trattative”, il 26 settembre Lusignani ordinò alle sue
residue truppe di arrendersi.
Tra le truppe
italiane le perdite, nel corso della battaglia, erano state di circa 700 morti
e 1200 feriti, un terzo della guarnigione; tutti i superstiti, eccetto pochi
uomini (tra cui anche alcuni della Sirtori)
che riuscirono a raggiungere l’Italia su mezzi di fortuna, caddero prigionieri.
Tra coloro che trovarono il modo di fuggire da Corfù c’erano anche il capitano
britannico Churchill ed il suo radiotelegrafista, che raggiunsero
rocambolescamente Otranto su una piccola imbarcazione con tre marinai greci ed
undici militari italiani; ed il tenente colonnello D’Agata, vice di Lusignani,
fuggito dopo la resa su una motobarca, così sottraendosi a certa fucilazione da
parte dei tedeschi.
Le perdite tedesche,
secondo alcune fonti, sarebbero assommate a 200 morti (inclusi quelli negli
scontri del 13 settembre) e circa 450-550 prigionieri, compresi quelli (la
grande maggioranza) fatti nei combattimenti del 13 settembre e trasferiti in
Italia. La difesa italiana avrebbe abbattuto 18 aerei, più altri tre abbattuti
da caccia della Regia Aeronautica, ed affondato cinque mezzi navali. Altre
fonti indicano invece perdite tedesche molto più limitate nei combattimenti
terrestri tra il 24 ed il 26 settembre: appena 52 tra morti e feriti; un dato
che però – anche considerando la disparità di armamento e la supremazia aerea tedesca
– sembra poco plausibile, se rapportato ai 1900 tra morti e feriti da parte
italiana.
Gli ufficiali
italiani, 280 in tutto, furono separati dalla truppa e concentrati nella Fortezza
Nuova di Corfù; il 26 settembre il generale Lanz aveva ordinato al comando
della 1. Gebirgs-Division: «Gli ufficiali
che hanno combattuto contro le unità tedesche sono da fucilare secondo il
diritto statuario […] Eccezione: a) fascisti;
b) ufficiali di origine germanica; c) ufficiali medici; d) Cappellani».
Rispetto a Cefalonia, però, la rappresaglia tedesca fu più “selettiva”; si
decise di non passare per le armi tutti gli ufficiali, ma “soltanto” quelli in
posizioni di comando, ritenuti “colpevoli” della resistenza.
Per “capire” chi
fucilare, i tedeschi esaminarono gli elenchi degli ufficiali in loro possesso;
formarono così una lista di 27 nomi, il primo dei quali era naturalmente il
colonnello Lusignani. Vi erano poi altri undici ufficiali del 18° Fanteria, due
del 49° Fanteria tra cui il colonnello Bettini, dieci ufficiali d’artiglieria,
due ufficiali dell’Aeronautica ed uno della Marina. Il generale Lanz aveva
persino stabilito per iscritto le modalità con cui dovevano avvenire le
esecuzioni, la composizione e disposizione del plotone d’esecuzione, il numero
di ufficiali che dovevano essere fucilati per scarica del plotone
(singolarmente per gli ufficiali superiori, due/tre per volta gli altri).
Il 27 settembre i
colonnelli Lusignani e Bettini e gli altri 25 ufficiali vennero fucilati,
alcuni di essi nella Fortezza Vecchia, altri fuori città, altri ancora in
piazza; i corpi furono zavorrati e gettati in mare, come ordinato da Lanz ("Nessuna sepoltura sull’isola, bensì portarsi
al largo sul mare ed affondare i corpi in punti diversi dopo averli zavorrati").
Tra i fucilati vi furono anche il capitano Ernani Falcocchio, del III gruppo
del 33° Reggimento Artiglieria; il capitano Gino Francato, comandante della 7ª
batteria dello stesso gruppo; il tenente Ernesto Albano dell’Aeronautica,
comandante dell’aeroporto; il tenente medico Bringalli; il capitano Carlo
Ferraro, aiutante maggiore del colonnello Lusignani; il capitano Pietro Brera,
aiutante maggiore del colonnello Bettini; il capitano Carlo Bonali, comandante
della 333a Batteria contraerei da 20 mm (quella che aveva sparato
contro gli aerei tedeschi il 12 settembre); i tenenti Natale Pugliese, Mario
Mantini ed Alfredo Quagli ed i sottotenenti Natale Augugliaro e Giuseppe De
Leo, tutti della 333a Batteria contraerei (l’unico ufficiale
superstite di quella batteria fu il sottotenente Terreni, che riuscì a
sottrarsi alla cattura raggiungendo l’Italia con due barche munite di vele di
fortuna, unitamente ai soldati della sua sezione); il tenente Luigi Martinelli,
dell’Ufficio Operazioni del 18° Fanteria; il tenente Bruno Zanoni, della 33a
Compagnia Genio Radiotelegrafisti. Alcuni superstiti di Corfù raccontarono in
seguito del ritrovamento di alcuni corpi con le mani legate e numerose ferite
inferte da baionetta; non vi furono eccidi su larga scala come a Cefalonia, ma
non è improbabile che anche qualche soldato, oltre agli ufficiali, sia rimasto
vittima di esecuzioni sommarie dopo la resa. Il 28 settembre il generale Löhr
intervenne a fermare ulteriori rappresaglie.
Parte dell’equipaggio
della Sirtori e del personale di
Marina Corfù riuscì a sottrarsi alla cattura, imbarcandosi sugli ultimi
galleggianti rimasti in efficienza e sbarcando ad Otranto il 27 settembre. Tra
gli uomini che riuscirono a raggiungere l’Italia vi erano il comandante Senzi e
gli uomini della Sirtori rimasti presso
di lui, che lasciarono Corfù dopo aver completato l’amaro compito di
distruggere la loro nave, nonché il comandante Ostuni ed il personale di Marina
rimasto con lui.
Il comandante Senzi
venne poi decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare per i fatti di
Corfù: la motivazione fu «Assunto il
Comando di unità sottile rimasta senza titolare, partecipava con energia ed
attività alla difesa di posizioni terrestri minacciate dal nemico. Colpita
gravemente la sua nave durante attacco aereo, provvedeva con calma e serenità,
nell’imperversare dell’offesa avversaria, ad incagliare la sua unità per
assicurarne la distruzione ed a dare in seguito ogni possibile ausilio alla
difesa terrestre locale. Caduta la posizione in mano nemica, evitava la cattura
e riusciva a raggiungere una base nazionale con mezzi di fortuna dando prova di
elevate qualità militari e marinaresche». Senzi divenne poi vice comandante
di battaglione nel Reggimento "San Marco", col quale si distinse
durante la campagna d’Italia.
Dagli elenchi dei
caduti e dispersi della Marina Militare risulta che un marinaio della Sirtori, il nocchiere Carmine Iacovelli
(di 19 anni, da Napoli), sarebbe deceduto in Italia il 29 settembre 1943. Non è
stato possibile trovare informazioni sulla sua sorte; si potrebbee ipotizzare
che egli fosse rimasto ferito durante uno degli attacchi aerei di Corfù (quello
che mise fuori uso la Sirtori, oppure
uno successivo) e che fosse tra i marinai che riuscirono a raggiungere l’Italia
dopo la caduta dell’isola, soccombendo però alle sue ferite qualche giorno più
tardi. Ma questa non è che una congettura.
Non poté sottrarsi
alla cattura il personale di Marina distaccato presso i reparti dell’Esercito
per partecipare alla difesa terrestre dell’isola, e quello rimasto isolato
dalla rapida avanzata tedesca verso la città di Corfù: condivisero la sorte
degli uomini dell’Esercito e caddero prigionieri dei tedeschi. Tra di essi,
anche parecchi uomini della Sirtori.
Alcuni militari
italiani trovarono rifugio presso la popolazione locale, che li nascose dai
tedeschi. I corfioti, che avevano dato sostegno alla resistenza italiana nel
corso della battaglia, specie curando i feriti, continuarono il loro aiuto
anche dopo la resa; donne e ragazzi cercarono di portare cibo ai prigionieri
internati nel campo d’aviazione, nonostante il pericolo costituito dalle
sentinelle tedesche che non esitavano a sparare. Il campo di aviazione divenne
presto traboccante di prigionieri, tanto che risultava difficile anche sedersi;
le razioni di viveri distribuite erano insufficienti per un numero tanto enorme
di uomini, molti rimasero senza cibo per giorni. Poi iniziò il trasferimento,
via mare, verso la Grecia continentale, dove sarebbe iniziato il viaggio verso
i campi di prigionia.
Dei circa 8000-9000
prigionieri italiani catturati alla caduta di Corfù, e concentrati
nell’aeroporto dell’isola (sottufficiali e soldati, mentre gli ufficiali erano
rinchiusi nella Fortezza Nuova), un primo gruppo di 1588 uomini furono
trasferiti via mare ad Atene (altra fonte parla di Gomenizza, che appare più
logico, dopo di che furono trasferiti a Florina) già il 30 settembre, pochi
giorni dopo la resa; il grosso dei restanti prigionieri, circa 5500, furono
imbarcati tra il 9 ed il 10 ottobre sulla Mario
Roselli, una motonave da carico italiana catturata dai tedeschi, per essere
trasferiti sul continente. Prima che la Roselli
potesse lasciare il porto di Corfù, tuttavia, il mattino del 10 ottobre piombarono
su di essa alcuni cacciabombardieri britannici, che la bombardarono e
mitragliarono a più riprese; il giorno seguente, colpita ancora, affondò nella
rada di Corfù. L’attacco provocò una vera carneficina tra i prigionieri
italiani stipati all’inverosimile sulla motonave: morirono sulla Roselli 1302 prigionieri, uccisi dalle
bombe (una esplose all’interno della stiva prodiera, sovraffollata di
prigionieri, facendone strage, mentre un’altra mandò in pezzi un motoscafo che
stava trasferendone altri dalla riva alla nave) o dalle pallottole delle
mitragliere, o annegati nelle acque della rada dopo essersi gettati in mare. I
sopravvissuti raggiunsero la riva a nuoto. Questa tragedia appare ancor più
assurda se si pensa che i velivoli Alleati non si erano mai fatti vedere sopra
Corfù quando ancora si combatteva: apparsi nei cieli dell’isola quando ormai il
loro intervento non serviva più a nulla, ottennero il solo risultato di
massacrare centinaia di prigionieri. Non risulterebbe che tra le vittime della Roselli vi siano stati uomini della Sirtori.
Qualche giorno dopo
l’affondamento della Roselli, circa
2000 prigionieri furono imbarcati su un’altra nave che li condusse ad Atene; i
rimanenti italiani furono presumibilmente trasferiti in Grecia continentale
mediante motovelieri ed unità minori, nei mesi successivi. Un numero imprecisato
di prigionieri italiani riuscì a fuggire dal campo di prigionia allestito a
Corfù approfittando di un bombardamento Alleato che l’aveva colpito il 4
ottobre (e nel quale trovò la morte un numero imprecisato di prigionieri,
uccisi dalle bombe e dalle mitragliatrici degli aerei come pure dalle guardie
tedesche); si dispersero per l’isola, cercando di sopravvivere alla macchia,
braccati da tedeschi e collaborazionisti.
Dopo l’arrivo in
Grecia, i prigionieri di Corfù furono avviati verso i campi di prigionia della
Germania, della Polonia e della Bielorussia; furono questi ultimi, tra cui il
sergente Giovanni Secchi della Sirtori,
i più sfortunati.
Originario di Poggio
alla Malva (Prato), dopo il rifiuto di aderire alla R.S.I. Giovanni Secchi
venne internato inizialmente in Grecia e poi, il 31 maggio 1944, deportato
nello Stalag 352, nel villaggio di Masyukovschina vicino a Minsk, con
distaccamenti a Ratornka, Radischkovichi, Zhdanovichi ed Olekhnovichi nonché
nella stessa Minsk. Lo Stalag 352 era circondato da un doppio recinto di filo
spinato, alto 2-3 metri e sorvegliato da torrette di guardia con riflettori e
mitragliatrici; il trattamento degli italiani internati qui non differiva da
quello, terribile, riservato ai prigionieri sovietici. All’arrivo nel campo i nuovi
arrivati venivano spogliati e rasati a zero, dopo di che venivano portati nelle
docce per lavarsi e poi rivestiti con una divisa a righe, simile a quella dei
lager, e zoccoli di legno. I prigionieri erano alloggiati in baracche di legno cadenti,
con pavimento di terra battuta, senza riscaldamento e con aperture nei tetti
che lasciavano entrare un freddo tremendo; sporche e buie, infestate dai
pidocchi e prive di acqua corrente. In ogni baracca erano alloggiati 40-50
uomini, che dormivano sui tavolacci.
Dopo il tramonto non
era consentito uscire dalle baracche, pena la fucilazione immediata; era
vietato usare la luce all’interno e le sentinelle, se vedevano luce da qualche
parte, aprivano subito il fuoco. Il pasto giornaliero consisteva in 80-100
grammi di pane e due tazze di zuppa d’orzo perlato, patate marce e paglia; con
una simile dieta, nel giro di qualche settimana anche gli individui più sani si
reggevano a stento in piedi. Percosse e maltrattamenti da parte delle guardie
erano la norma, una minima “colpa” era sovente punita con parecchi giorni di cella
di rigore (dove al detenuto veniva dato da mangiare solo una volta ogni tre
giorni, il che nella maggior parte dei casi lo portava alla morte) o con la
reclusione in gabbie di ferrro – alcune delle quali troppo basse anche per
potervi stare in piedi – che venivano poi lasciate esposte per giorni al freddo
e alle intemperie. Anche in questo caso, il più delle volte il prigioniero
moriva. Bastava alzare la testa o, peggio ancora, guardare negli occhi le
guardie per ricevere bastonate o peggio. Ogni giorno si contavano morti per la
denutrizione, i maltrattamenti, le esecuzioni sommarie.
Di giorno, i
prigionieri italiani abbastanza in forze erano condotti a lavorare nelle
fabbriche di Minsk, ora sotto controllo tedesco. Di mattina presto, quando
ancora era buio, le guardie irrompevano nelle baracche con i mitra puntati,
gridando “Raus!”. Veniva fatto l’appello, dopo di che “Persone denutrite tutti
i giorni dovevano camminare per 15 chilometri, spesso trascinando addosso
mattoni, pietre, sassi”. Quando i prigionieri tornavano al campo, era di nuovo
buio. In alcuni casi, come in una fabbrica di scarpe di Minsk, furono
realizzate delle baracche vicino allo stabilimento per poter alloggiare i
prigionieri nei suoi pressi, e risparmiare il tempo degli spostamenti. Altri
prigionieri erano impiegati nel caricamento e scaricamento di treni e veicoli,
nella realizzazione di trincee, nel trasporto di munizioni.
Si calcola che in
tutto lo Stalag 352 abbia “ospitato” 140.000 prigionieri nel corso della
guerra, in massima parte sovietici; di questi, 80.000 morirono e furono sepolti
in 197 fosse comuni scavate vicino al villaggio di Glinische, in un bosco di
pini vicino alla linea ferroviaria Minsk-Molodechno, mentre la maggior parte
degli altri furono trasferiti in altri campi. Gli italiani rappresentavano una
percentuale molto ridotta della popolazione del campo; circa 5000, arrivati a
partire dall’autunno del 1943 in due gruppi, il primo di 3500 prigionieri ed il
secondo di 1500. Non sembrano esserci dati certi su quanti italiani morirono
nel campo e quanti furono trasferiti altrove. Quando l’Armata Rossa liberò lo
Stalag 352, nel luglio 1944, i soldati sovietici trovarono nell’ospedale del
campo 98 prigionieri italiani più morti che vivi, “deperiti a tal punto che
sembravano scheletri ricoperti di pelle”; questi raccontarono loro di non aver
ricevuto alcuna assistenza sanitaria, né un’alimentazione almeno un poco
maggiore di quella – scarsissima – somministrata ai prigionieri sani; anche i
maltrattamenti erano analoghi a quelli riservati agli altri prigionieri, e tra
i pazienti del lazzaretto le vittime si contavano a decine al giorno. Altri
italiani, incolonnati con altri prigionieri per il trasferimento verso ovest,
furono liberati dai partigiani presso Vilnius durante un attacco ad una colonna
tedesca in ritirata (il 28 giugno 1944 era iniziata l’evacuazione dei
prigionieri dello Stalag 352, proprio verso Vilnius). Quelli che non
sopravvissero – quanti, non sembra essere noto – sono sepolti tra i pini della
Bielorussia insieme ai prigionieri sovietici dei quali condivisero la sorte.
Il sergente Giovanni
Secchi della Sirtori ebbe la relativa
“fortuna” di arrivare allo Stalag 352 solo il 31 maggio 1944, poco più di un
mese prima che Minsk e buona parte della Bielorussia venissero liberate
dall’esercito sovietico; rimase nel campo solo per alcune settimane prima di
essere liberato dai russi insieme ad altri prigionieri.
Il numero dei
prigionieri italiani internati in campi della Bielorussia fu relativamente
ridotto, circa 10.000 su un totale di circa 650.000 "internati militari
italiani"; la maggior parte degli I.M.I. furono imprigionati in campi
situati in Germania, dove il trattamento, pur pessimo in generale e peggiore
rispetto a quello riservato ai prigionieri Alleati (agli italiani non era
riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, per evitare di dover
rispettare la convenzione di Ginevra: a questo scopo fu ideato l’espediente
della denominazione di "internati militari"), non raggiungeva i
livelli di quello visto in Bielorussia. Vita sempre dura: i prigionieri erano
impiegati nelle fabbriche, o nei lavori agricoli, o nello sgombero di macerie
delle città bombardate, o ancora – quando l’avanzata degli eserciti Alleati si
andò avvicinando ai confini del Reich – nella realizzazione di trincee; dieci o
dodici ore di lavoro, di giorno o di notte, con il costante pericolo dei
bombardamenti angloamericani, il cui obiettivo erano proprio quelle fabbriche
nelle quali lavoravano tanti prigionieri italiani e non. Vitto scarso e
mediocre, anche se sufficiente a tirare avanti; dai tedeschi, militari e
civili, astio e angherie verso gli italiani chiamati “traditori”.
Altri uomini della Sirtori fatti prigionieri seguirono un
“percorso” ancora diverso, attraverso i Balcani: è il caso ad esempio del
fuochista artefice scelto Wilson Valle, classe 1919, da Fornaci di Barga
(Lucca). Insieme ad altri compagni, dopo la resa di Corfù Valle fu imbarcato su
un peschereccio che, sotto forte scorta tedesca, li portò a Gomenizza. Una
volta giunti nel porto greco, furono distribuiti ai prigionieri alcune
gallette, dopo di che Valle, che soffriva di un’infezione ad un callo
sanguinolento nel piede sinistro, venne separato dagli altri e portato nel
locale ospedale, da cui poi venne trasferito nell’ospedale di Florina. Qui
rimase ricoverato fino a quando l’ospedale non dovette essere sgomberato; nel
frattempo, però, gli era venuta anche la scabbia, per cui venne trasferito in
un altro ospedale, quello di Salonicco, dove trovò ricoverati anche prigionieri
britannici. Quando finalmente guarì anche dalla scabbia, Valle venne obbligato
a lavorare aggregato ad una compagnia di sanità tedesca; il suo compito era di
seppellire i morti. Le condizioni di vita in questo periodo furono così
sinteticamente descritte nella deposizione che Valle rese a guerra finita, il 2
giugno 1945: «vitto quello della
compagnia di sanità, distribuito dopo servito gli uomini della stessa; alloggio
alla meglio e di fortuna, denaro nulla, vigilanza normale». Rimase con
quella compagnia fino alla fine della guerra: seguendo la graduale ritirata
tedesca attraverso i Balcani, dal 1° ottobre 1943 al maggio 1945 Valle si
ritrovò ad attraversare la Grecia, l’Albania, il Montenegro ed il resto della
Jugoslavia, per poi arrivare a Villach, in Austria, il 5 maggio 1945. Due
giorni dopo la Germania si arrendeva, e Valle fu finalmente libero: un po’ a
piedi, un po’ con mezzi di fortuna, rientrò in Italia e riuscì a tornare a
casa.
In tutto, furono sei
gli uomini della Sirtori che non
tornarono dalla prigionia.
Il marinaio Carlo
Esposito, di 21 anni, da Sorrento (Napoli), fu dichiarato disperso in prigionia
a Corfù il 27 novembre 1943.
Il marinaio Giovanni
Bonanno, di 21 anni, da Belmonte Calabro (Cosenza), morì in prigionia il 23
agosto 1944 nello Stalag XXI C/H di Wolsztyn, cittadina della Polonia
occidentale non lontano da Poznan, chiamata Wollstein durante l’occupazione
tedesca. (Questo campo di prigionia, creato nel 1939 e diviso in tre settori,
ospitò nel corso della guerra un totale di 18.000 prigionieri di varie
nazionalità: sovietici – il gruppo più numeroso, detenuti in una parte del
campo separata da quella degli “occidentali” –, polacchi, francesi, britannici,
statunitensi e norvegesi. Gli italiani, circa 250, arrivarono nello Stalag XXI
C dopo il settembre 1943 e furono messi insieme agli occidentali – che
all’epoca erano principalmente britannici, statunitensi e norvegesi – nel
settore "C" del campo, che consisteva in nove baracche-alloggio, due
ospedali, un cinema ed un campo sportivo. I prigionieri erano impiegati in una
fabbrica di sigari in costruzione e nel lavoro agricolo nei campi circostanti;
gli “occidentali” erano trattati relativamente bene e fruivano anche di alcune
attività ricreative, tra cui un cinema, una biblioteca, un campo sportivo,
strumenti musicali e giochi da tavola, mentre i sovietici ricevettero un
trattamento disumano e morirono in massa. Faceva parte del campo un grande
ospedale per prigionieri, il Reserve Lazarett für Kriegsgefangene, che fu
l’ultima parte del campo ad essere “chiusa”; qui operava una squadra medica
internazionale, composta da medici polacchi, francesi, britannici, statunitensi
e sovietici, che si prodigavano per curare i prigionieri con lo scarso
materiale medico disponibile. Tra le principali patologie trattate c’erano
tubercolosi, febbre tifoidea, altre malattie e congelamento, soprattutto tra i
prigionieri sovietici, in ragione del trattamento loro riservato). Giovanni
Bonanno è oggi sepolto nel cimitero militare italiano di Bielany, presso
Varsavia.
Il marinaio
cannoniere Loris Ferri, anch’egli di 21 anni, da Crespellano (Bologna), morì in
prigionia in Albania il 14 ottobre 1944.
Il secondo capo
silurista Giuseppe Lamberti, di 30 anni, da Cava de’ Tirreni (Salerno), ebbe
una sorte assurda: internato dai tedeschi in un campo di prigionia dell’Europa
orientale, quando l’Armata Rossa raggiunse il suo campo anziché essere liberato
fu nuovamente imprigionato dai sovietici; morì il 17 gennaio 1945 nel campo
ospedale 5919 di Iurkovka, in Ucraina (dove morirono in tutto 100 italiani,
quasi tutti ex I.M.I. trovati dai russi nei campi tedeschi e qui trasferiti).
Fu sepolto nel cimitero militare di Lidiyevka, alla periferia di Donetsk.
Il marinaio fuochista
Gaetano Toffali, di 22 anni, da Villafranca di Verona (Verona), fu dichiarato
disperso in prigionia in Jugoslavia il 6 aprile 1945.
Morì anch’egli in
Jugoslavia, ma in circostanze del tutto differenti, il marinaio meccanico
Sergio Marteddu, di 19 anni (ne aveva appena 17 all’epoca della perdita della Sirtori e della cattura), nato a Trieste
ma di origini sarde. Imprigionato dai tedeschi, riuscì a fuggire e ad unirsi ai
partigiani jugoslavi, insieme ai quali combatté. Morì combattendo proprio negli
ultimi giorni della guerra, il 25 aprile 1945 (altra fonte indica la data del
27 aprile), e fu decorato alla memoria con la Medaglia d’Argento al Valor
Militare. La motivazione: «Evaso dalla
prigionia tedesca, entrava a far parte di una formazione partigiana portandovi
l’ardore e l’entusiasmo della sua giovanissima età. Nel corso di aspro
combattimento accorreva sempre fra i primi dove maggiormente infuriava la lotta
galvanizzando i commilitoni con l’esempio e con la parola. Colpito da una
raffica di fuoco nemico, offriva la sua esistenza alla causa della libertà
nell’atto di pronunciare parole di amor patrio. Quota 279 (Jugoslavia), 25
aprile 1945».
Il relitto
semidistrutto della Sirtori rimase ad
arrugginire sulla spiaggia di Potamos per quasi nove anni. Ufficialmente radiata
dai quadri della Regia Marina il 27 febbraio 1947, la Sirtori venne demolita a Corfù – probabilmente nello stesso punto
in cui giaceva – dalla ditta A. Terka tra il 1951 ed il 1952.
Un’altra foto della Sirtori (da www.regiamarinaitaliana.it) |