Cacciatorpediniere,
già esploratore leggero, della classe Leone (dislocamento standard di 1773
tonnellate, in carico normale 2003 tonnellate, a pieno carico 2203 o 2648).
Durante
la seconda guerra mondiale effettuò undici missioni di guerra (tre per
intercettazione di convogli britannici nel Mar Rosso, tre per esercitazioni,
cinque di altro tipo), percorrendo in tutto 3029 miglia nautiche e trascorrendo
197 ore in mare.
Motto:
"Quaerens Predam" (“cerco la preda”).
Breve e parziale cronologia.
19 dicembre 1921
Impostazione
nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova); numero di
costruzione 659.
Una serie
di immagini del Pantera in
costruzione (dal sito della Fondazione Ansaldo):
(1° giugno 1922) |
(1° giugno 1922) |
Inizio 1923 |
(30 luglio 1923) |
18 ottobre 1923
Varo
nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova). La nave viene
varata con lo scafo finito, ma ancora priva di armamento, per liberare lo
scalo; madrina è la marchesa Pallavicini in Negrotto Cambiaso.
Durante
le prove in mare, effettuate con pesi ridotti, l’apparato motore del Pantera sviluppa una potenza massima di
48.705 S.H.P., permettendo alla nave di raggiungere una velocità di 34,3 nodi
(quella effettiva, in condizioni operative a pieno carico, risulterà invece
essere di 31 nodi).
Una
sequenza di immagini del varo del Pantera
(Fondazione Ansaldo):
Sullo scalo, pronto al varo
Appena varato (da www.tsushima.su)
Alcune immagini, datate 1° novembre 1924, dell’unità durante l’allestimento, svolto presso l’Officina Allestimento Navi di Genova (Fondazione Ansaldo):
Sullo scalo, pronto al varo
Il lancio
della bottiglia
La nave
scende in mare
Appena varato (da www.tsushima.su)
Alcune immagini, datate 1° novembre 1924, dell’unità durante l’allestimento, svolto presso l’Officina Allestimento Navi di Genova (Fondazione Ansaldo):
Una serie
di immagini del Pantera durante le
prove di velocità al largo del promontorio di Portofino, nel 1924 (Fondazione
Ansaldo)
Altre
quattro immagini del Pantera nel
Golfo di Genova nel 1924 (Fondazione Ansaldo):
28 ottobre 1924
Entrata
in servizio, ultima delle tre unità della classe Leone ad essere completata.
Dopo
il completamento, il Pantera ed i
gemelli Tigre e Leone entrano a far parte della Squadra Navale, e svolgono un breve
ciclo di addestramento integrato di squadriglia.
Ufficiali del Pantera a Genova, 1924 (Fondazione Ansaldo) |
6 marzo 1925
Terminate
le prove e l’addestramento iniziale, il Pantera,
insieme ai gemelli Tigre e Leone, va a formare il Gruppo Autonomo
Esploratori Leggeri (alle dirette dipendenze del Ministero della Marina), al
comando del capitano di vascello Domenico Cavagnari, futuro capo di Stato
Maggiore della Marina. Le tre unità si preparano ad una lunga crociera lungo le
coste atlantiche dell’Europa e nel Mar del Nord.
4 aprile-22 settembre 1925
Pantera (al comando dello stesso capitano di vascello Cavagnari), Tigre (capitano di fregata Inigo
Campioni) e Leone (capitano di
fregata Francesco De Orestis di Castelnuovo) compiono una crociera di
rappresentanza della durata di cinque mesi in Spagna, Portogallo, Regno Unito,
Norvegia, Danimarca, Unione Sovietica, Finlandia, Estonia, Lettonia
(all’andata), Germania, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Algeria e Libia (al
ritorno).
La
crociera è stata decisa in seguito al notevole successo, diplomatico e
mediatico, riscosso da un’analoga crociera compiuta in Nordeuropa l’anno
precedente dall’esploratore Carlo
Mirabello: il capo del governo (nonché ministro degli Esteri, oltre che di
varie altre cose), Benito Mussolini, ed il ministro della Marina, Paolo Thaon
di Revel, hanno pertanto deciso di replicarla con un numero maggiore di unità,
per “mostrare la bandiera” nei porti in cui il Mirabello non ha fatto scalo. Come
scritto dallo storico Pier Paolo Ramoino: «In
quegli anni, (…) le altre Potenze
Navali inviavano in crociere all’estero moderne unità in formazioni
consistenti, proprio a dimostrare l’efficienza dei propri cantieri e il
potenziale militare delle loro Marine. (…) La campagna navale in Nord Europa e, soprattutto, la visita a
Leningrado possono essere inquadrate nella politica estera mussoliniana, ricercante
un riconoscimento più significativo del nostro Paese non solo da parte dei
vecchi alleati del trascorso conflitto, ma anche dagli Stati europei nati
proprio dal cambiamento geopolitico del 1919-1920 quali la Finlandia, le
Repubbliche Baltiche e l’Unione Sovietica. Non si trascurò anche una nostra
amichevole presenza nelle nazioni scandinave, in Olanda e in Spagna, che erano
rimaste neutrali nella conflagrazione mondiale».
Pantera, Tigre e Leone, entrati in servizio pochi mesi
prima, sono stati ritenuti le unità più adatte – per autonomia, efficienza e
tenuta del mare – ad affrontare le non facili condizioni dei mari nordici;
inoltre, essendo tra le navi più moderne della Regia Marina (praticamente nuove
di zecca), e tra le più potenti del loro tipo all’epoca della costruzione,
permetteranno di mostrare il meglio della flotta italiana nei Paesi visitati,
consentendo un confronto favorevole con le analoghe unità di altre nazioni, e
rafforzando così il prestigio della Marina italiana all’estero.
Negli
stati maggiori dei tre esploratori figurano diversi ufficiali che saranno
protagonisti delle vicende della Marina italiana nella seconda guerra mondiale.
Oltre al comandante del Pantera,
Cavagnari (ritenuto all’epoca uno degli ufficiali più brillanti della Marina, e
per questo scelto per tale delicata missione), che come ammiraglio sarà capo di
Stato Maggiore della Marina dal 1934 al 1940, si annoverano: sempre sul Pantera, come comandante in seconda, il
capitano di corvetta Luigi Sansonetti, che come ammiraglio di divisione
comanderà in guerra la III Divisione incrociatori e sarà poi sottocapo di Stato
Maggiore della Marina dal 1941 al 1943; sul Leone,
come comandante in seconda, il capitano di corvetta Luigi Biancheri, che in
guerra sarà ammiraglio comandante delle forze navali del Dodecaneso, della
Marina in Tunisia ed infine dell’VIII Divisione incrociatori; sul Tigre, come comandante, il capitano di
fregata Inigo Campioni, che come ammiraglio di squadra comanderà la flotta da
battaglia nella prima fase della guerra, e verrà fucilato dalla Repubblica di
Salò per aver difeso Rodi contro l’invasione tedesca dopo l’8 settembre 1943.
Infine, tra gli ufficiali del Leone è
anche un giovane sottotenente di vascello, Primo Longobardo, che in guerra sarà
sommergibilista in Atlantico, decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla
memoria.
Pantera, Tigre e Leone in una rivista britannica del 1925 (da www.gracesguide.co.uk) |
Dopo
la partenza da La Spezia (4 aprile 1925), vengono toccati i porti di Valenza
(6-9 aprile), Almeria (10-11 aprile), Malaga (11-15 aprile), Cadice (15-23
aprile), Lisbona (24-27 aprile), Vigo (28-29 aprile), Portsmouth (1-8 maggio),
Bristol (9-12 maggio), Liverpool (13-17 maggio), Glasgow (18-24 maggio),
Edimburgo (26 maggio-3 giugno), Bergen (4-10 giugno), Oslo (11-17 giugno),
Copenhagen (17-24 giugno: re Cristiano X di Danimarca offre un ricevimento in
onore degli ufficiali italiani), Leningrado (25-29 giugno, una delle prime
visite di un Paese occidentale alla Russia post-rivoluzionaria, dopo anni di
isolamento), Helsinki (30 giugno-4 luglio), Reval (4-6 luglio), Riga (6-8 luglio),
Brema (10-14 luglio), Amsterdam (15-21 luglio), Gand (21-27 luglio), Ostenda
(27-31 luglio; i comandanti ed alcuni ufficiali degli esploratori si recano a
Bruxelles dove sono ricevuti dal re del Belgio Alberto I), Le Havre (1-6
agosto), Lorient (7-12 agosto), Bordeaux (13-20 agosto), Santander (21-25
agosto; qui le navi sono visitate dai reali di Spagna), Gibilterra (27-28
agosto), Orano (29 agosto-2 settembre) e Tripoli (4-15 settembre). In ogni
porto l’accoglienza, da parte sia delle autorità che della popolazione locale,
è molto cordiale (financo “affettuosa” in Francia e Spagna), tranne che a
Brema, dove il trattamento riservato dalle autorità locali è piuttosto freddo,
forse per la guerra ancora troppo vicina.
I
formali “scambi di cortesie” seguono più o meno sempre lo stesso schema: visite
alle autorità militare, amministrative e religiose il giorno stesso
dell’arrivo, ricambiate nei giorni successivi, ed unite ad una colazione a
bordo e sovente anche ad un ricevimento pomeridiano, con numerosi invitati, in
base alle istruzioni del locale console italiano. Le navi vengono inoltre
aperte alle visite da parte della popolazione civile, ed anche dei membri delle
comunità italiane all’estero. Vengono anche organizzate delle partite di calcio
tra squadre locali ed una rappresentativa degli equipaggi del Gruppo
Esploratori, capitanata dall’ufficiale di rotta del Pantera, sottotenente di vascello Asso (che è anche centravanti):
ne vengono disputate in tutto quindici, di cui ben undici vengono vinte dalla squadra
italiana.
In
ogni Paese gli esploratori (od il solo Pantera,
in qualità di capogruppo) ricevono anche la formale visita dei rappresentanti
diplomatici italiani: a Lisbona il principe Borghese, ambasciatore in
Portogallo; a Portsmouth il marchese della Torretta; ad Oslo il ministro
d’Italia Cambiago; a Copenhagen l’incaricato d’affari Cittadini; a Leningrado
l’ambasciatore a Mosca conte Manzoni; ad Helsinki il marchese Paternò, ministro
d’Italia in Finlandia; a Brema l’ambasciatore italiano in Germania, conte
Bosdari; ad Amsterdam il ministro d’Italia all’Aja, marchese Maestri Molinari;
a Bruxelles l’incaricato d’affari Daneo; in Spagna l’ambasciatore marchese
Paolucci ed in Francia l’ambasciatore barone Avezzana (di questi ultimi due
Cavagnari sottolineerà nel suo rapporto la particolare cura avuta “nei rapporti
sia formali sia di amicizia con le navi”). Importante è anche il ruolo svolto
dagli addetti navali italiani in ciascun Paese, che hanno organizzato le visite
con «la massima cura ed in ogni particolare»;
tra di essi il capitano di fregata Giuseppe Raineri Biscia in Gran Bretagna, il
capitano di fregata Oscar Di Giamberadino in Germania e nei Paesi Baltici, ed
il capitano di vascello Gustavo Bogetti per la Francia, il Belgio ed i Paesi
Bassi. In merito ai consoli, Cavagnari scriverà nel suo rapporto che «in genere
siamo ben rappresentati sia dai Consoli di carriera che da quelli onorari».
Nel
Regno Unito, l’accoglienza è cordiale sia nei porti commerciali (come Bristol e
Liverpool) che nelle basi militari; comandanti ed ufficiali delle tre unità
vengono invitati a pranzo a Londra dal primo ministro britannico, Stanley
Baldwin, e l’ammiraglio Sydney Fremantle, comandante del dipartimento navale di
Portsmouth, si complimenta con il comandante Cavagnari per l’efficienza, forma
fisica ed organizzazione di navi ed equipaggi. Il Monthly Information Bulletin dell’ufficio d’intelligence della
Marina britannica menziona l’entusiastica accoglienza ricevuta a Glasgow dai
tre esploratori, che durante la loro permanenza nel porto scozzese sono
visitati in media da 15.000 persone al giorno, nonché la soddisfazione destata
da questa visita presso le comunità italiane nel Regno Unito, ed il parere
espresso dalle autorità tecniche della Royal Navy in Scozia, colpite dalla
velocità massima degli esploratori (35 nodi, anche se per la verità si tratta
di una velocità soltanto teorica). Da parte sua, il comandante Cavagnari
scriverà nel suo rapporto: «Poiché i
nostri ufficiali e i nostri marinai hanno, come tutti della nostra razza, buoni
occhi per vedere e buona memoria per ricordare, la visita ai porti inglesi sarà
stata per loro splendidamente istruttiva. Così, mentre a Portsmouth poterono
vedere quanto possa la forza della tradizione e dell’ordine a tenere alta la possanza
non solo quantitativa ma qualitativa di una grande Marina, così a Bristol
ebbero l’impressione di un’attività mercantile alla quale anche grandissima
parte della forza è data da una tradizione di successo legato a una mai
smentita abitudine di laboriosità, di tenacia e soprattutto di scrupolosità
commerciale», ma commenterà anche negativamente in merito al «senso diffuso di progressivo disamore al
lavoro e la generale ricerca di ogni forma di piacere che va guadagnando
rapidamente tutti gli strati sociali dai più alti ai più bassi in quella
nazione troppo ricca». Su un piano più “pratico”, le cambiali tratte in
lire italiane per il pagamento di nafta e lubrificanti nei vari porti toccati
non sono molto ben accette, a differenza dei pagamenti in sterline (non solo
nel Regno Unito).
Egualmente
favorevole è l’accoglienza ricevuta in Norvegia e Danimarca (in quest’ultimo
Paese, scrive Cavagnari, «l’Italia
[è] soprattutto conosciuta come un paese
di gioia serena (…) le nostre Fiat,
le nostre Lancia, le nostre Alfa-Romeo sono diffusissime e nei migliori ritrovi
offrano vermouth italiano e spumante italiano»). L’atteggiamento sobrio e
corretto degli equipaggi viene elogiato dalle autorità locali, che lo
paragonano favorevolmente a quello del personale di altre Marine.
Durante
la permanenza ad Helsinki, dove i tre esploratori vengono accolti con
dimostrazioni di simpatia e di ammirazione, il Pantera viene visitato da un gruppo di tecnici civili e militari
del Ministero della Difesa finlandese, che al termine della loro accurata
ispezione esprimono giudizi molto positivi sull’unità italiana. Il 3 luglio,
penultimo giorno nella capitale finlandese, il comandante Cavagnari viene
invitato a colloquio dal ministro della Difesa della Finlandia, generale Lauri
Malmberg; durante l’incontro, il ministro finlandese domanda a Cavagnari un
parere qualificato sui provvedimenti da prendere per la difesa costiera della
Finlandia (il neonato Stato scandinavo sta per impostare un piano di
costruzioni navali a questo scopo, e potrebbe anche rivolgere il suo interesse
ai prodotti della cantieristica italiana). Cavagnari, data la conformazione
della costa finlandese – rocciosa e costellata di scogli, fiordi ed isolotti –,
ritiene inutile e costoso un modello difensivo “classico”, e sostiene che la
soluzione migliore sarebbe costituita da una flottiglia di siluranti di elevato
tonnellaggio ed alta velocità, appoggiate da MAS, alcuni sommergibili di medie
dimensioni e qualche posamine, in modo da permettere il controllo dell’ingresso
del Golfo di Finlandia con azioni rapide (sarebbero particolarmente adatti a
questo scopo i MAS di costruzione italiana). Inoltre, le autorità finlandesi
esprimono la loro gratitudine per l’ospitalità offerta dall’Italia agli allievi
ufficiali finlandesi nelle proprie scuole militari.
Pantera (a destra), Leone (al centro)
e Tigre (a sinistra) a Riga nel 1925 (da
www.modellismopiu.net)
Durante
la visita a Leningrado e Kronstadt dell’estate 1925, il capitano di vascello
Cavagnari stabilisce i primi contatti tra la Marina italiana e quella
sovietica, contatti che saranno ulteriormente sviluppati sino a portare la Marina
sovietica, alcuni anni più tardi, ad ordinare la costruzione di diverse navi in
cantieri italiani. Le autorità sovietiche si mostrano molto cortesi nei
confronti dei visitatori italiani, ma è facile immaginare un certo imbarazzo
nell’incontro tra i rappresentanti di due Paesi dominati da regimi contrapposti
– quello fascista italiano e quello comunista sovietico. Cavagnari, pur
esprimendo la sua soddisfazione per l’accoglienza ricevuta, annoterà nel suo
rapporto che la Marina sovietica cerca di «supplire
con la quantità alla deficienza della qualità e mostrare la ricerca affannosa
di una efficienza attraverso l’inesorabile ritorno ai metodi ed alle forme del
passato», e che «nessuno (…) potrà dimenticare la visione di miseria, di
rovina, di terrore diffuso che presenta quella povera immensa città. E nessuno
(…) dei nostri marinai scesi a terra a
Leningrado diverrà mai comunista!».
Anche
in Estonia e Lettonia si verificano manifestazioni di simpatia della
popolazione nei confronti degli equipaggi italiani; buona è pure l’accoglienza
nei Paesi Bassi, Paese che secondo Cavagnari «è fiorente, ricco, ma non ha fatto la guerra. Quale differenza di
attività spirituale fra i Paesi che passarono nell’ardente crogiuolo e quelli
che vi si mantennero estranei!». Particolarmente calorosa è l’accoglienza
ricevuta in Belgio, sia da parte delle autorità, sia da parte della
popolazione; a Gand gli ufficiali visitano il cimitero militare, dove figura
anche un bassorilievo commemorativo della Grande Guerra nel quale compaiono
anche dei bersaglieri all’assalto. Sempre in quest’ultimo porto, scriverà
Cavagnari nel suo rapporto, «Le navi
giunsero il giorno della festa nazionale, quando nella grande piazza
illuminata, per antichissima tradizione, è lecito alle fanciulle che danzano
sotto i platani scegliere il proprio cavaliere nella folla ed il cavaliere
chiedere loro un bacio. Quella sera i nostri marinai dai solini azzurri ebbero
– perché negarlo? – il più lusinghiero dei successi».
A
Santander, durante la navigazione di rientro in Italia, le navi vengono
visitate dai reali di Spagna; Cavagnari scriverà nel rapporto che tale visita «ha avuto un carattere assolutamente
eccezionale ed è stata una manifestazione che non sarà dimenticata da nessuno
di coloro che vi presero parte» e che autorità e popolazione «fecero a gara, seguendo l’esempio del loro
Sovrano, a colmare di attenzioni, di cortesie, di manifestazioni di simpatia
evidentemente sincera, cordiale e non ordinaria comandanti, ufficiali ed
equipaggi», esaltando la naturale amicizia tra Italia e Spagna dovuta a «la affinità della razza e… l’assenza di
qualsiasi interesse [politico] divergente».
In
Francia, in ogni porto le unità del Gruppo Autonomo Esploratori ricevono
manifestazioni di fraternità; una delegazione capeggiata dallo stesso Cavagnari
si reca a Parigi per deporre una corona sulla tomba del milite ignoto,
ricevendo anche qui dimostrazioni di simpatia.
Lasciata
Tripoli (città che, secondo il rapporto di Cavagnari, «ha destato nei nostri equipaggi una grata impressione di orgoglio
nazionale»), i tre esploratori fanno scalo a Napoli dal 16 al 21 settembre
(ancora dal rapporto di Cavagnari: «…il
golfo di Napoli nel quale le navi giunsero in un pomeriggio di luminosità e di
limpidezza veramente eccezionali, disse loro che di tutti i paesi visitati
senza dubbio il più bello è pur sempre l’Italia») ed infine concludono la
crociera a La Spezia, dove giungono il 22 settembre 1925 dopo aver percorso in
tutto 12.000 miglia. Nella base ligure i tre esploratori vengono visitati, come
di consueto (“ispezione di fine campagna”), dal comandante in capo del
Dipartimento di La Spezia, ammiraglio Molè, che esprimerà il suo compiacimento
nell’ordine del giorno steso al termine dell’ispezione; Mussolini invierà un
messaggio di elogio.
Tra
gli equipaggi, per via dei nomi delle tre unità protagoniste, questa crociera
sarà nota come “crociera delle belve”.
La “Squadriglia Belve” (ANMI Taranto) |
Nel
complesso, durante tutta la crociera navi ed equipaggi danno ottima prova di
sé, sia nell’affrontare ogni impedimento lungo nella navigazione (nebbie, bassi
fondali, correnti negli stretti, estuari e letti di fiumi), che nelle visite
nei porti. La stampa italiana dà ampio risalto al successo della crociera,
esaltando le virtù “romane” dei marinai italiani. A questo proposito il
comandante Cavagnari, a margine del suo rapporto, scriverà che sarebbe
opportuno scegliere gli equipaggi da destinare a queste missioni “anche in base a criteri estetici, portando
all'estero i marinai maggiormente atti a rappresentare la virilità italiana,
facendoli addestrare a torso nudo sui ponti delle navi, pure nelle fredde
mattinate nordiche, al fine di esemplificare in tal modo l'indole e il
temperamento di un popolo”.
Nel suo rapporto, il
comandante Cavagnari, pur ritenendo che l’organizzazione della crociera sia
stata nel complesso coerente rispetto ai tempi ed alle stagioni, scriverà che
soste più lunghe in ciascun porto (4-5 giorni) avrebbero permesso di meglio
organizzare le attività di rappresentanza, obiettivo primario della crociera. Cavagnari
approva invece la scelta di incaricare della crociera tre unità nuove, anche se
di dimensioni non grandissime, piuttosto che grandi navi di concezione
superata; scrive che «È innegabile che
buona parte del successo di questa campagna è dovuta al fatto che i tre esploratori
erano esteticamente belli, nuovi ben rifiniti», che «non si deve lesinare la pittura, i mezzi di pulizia, i materiali di
consumo» per permettere alle unità di presentarsi in ogni porto nel miglior
stato possibile, e che grande importanza hanno anche le imbarcazioni di bordo e
le loro attrezzature perché sono osservate e giudicate da tutti alla banchina,
ragion per cui non bisogna fare «economia
nelle bandiere e nelle insegne, che devono essere sempre fiammanti e non troppo
piccole». Concludendo il rapporto, Cavagnari afferma che lo scopo della
campagna è stato raggiunto e che «il
desiderio di dare l’impressione diretta di una Italia attiva, progredita,
ordinata ed esuberante di giovanile energia fu in noi ardente ed appassionato e
che ricorderemo sempre la missione affidataci con fierezza ed orgoglio, per
tutto l’ardore e tutta la passione che infiammano il nostro indissolubile
fascio di anime nell’amore della nostra Patria divina».
Il commissario di
bordo del Pantera stila una relazione
nella quale elenca i costi complessivi della campagna: 378.603,64 lire di
provviste; 1.862.708,90 lire di nafta; 94.346,96 lire di materiali di consumo;
2.111.791,62 lire di spese varie di campagna; per un totale di 4.447.450,31
lire, che Cavagnari giudicherà “non eccessivo”.
Il capitano di vascello Domenico Cavagnari, comandante del Pantera nel 1925 e poi capo di Stato Maggiore della Marina, col grado di ammiraglio d’armata, dal 1933 al 1940 (USMM) |
Da
un articolo dell’"Eco di Biella" a firma di Danilo Craveia si
apprendono alcuni episodi di quella crociera, aventi per protagonista
l’ufficiale del Genio Navale Pierino Pandale, di Candelo, classe 1883: «Durante il ricevimento che l’allora re di
Danimarca Cristiano X volle offrire agli ufficiali della piccola flotta
italiana, uno dei regali ospiti si avvicinò a Pierino Pandale chiedendogli in
perfetto italiano una “Macedonia”, ossia una delle sigarette italiane di
maggior diffusione tra la borghesia (meno micidiali delle “Nazionali” e delle
“Popolari”). Sorpreso dalla richiesta e, soprattutto, dall’udirla nella sua
lingua, il maggiore Pandale estrasse di tasca il pacchetto morbido e porse la
“Macedonia” al giovane alto e dinoccolato che aveva di fronte. Ne nacque una
breve chiacchierata con il danese, che era il principe Christian Frederik Franz
Michael Carl Valdemar Georg (1899-1972), che salì poi al trono come Federico IX
nel 1947. Il futuro re di Danimarca aveva studiato all’Accademia di Livorno ed
era innamorato dell’Italia. Tanto da saper riconoscere l’accento piemontese
nella voce dell’attonito ufficiale di macchina. A quel punto il principe, avuta
conferma della sua intuizione, non espresse come ci si poteva aspettare visto
il rango e il sito un dubbio amletico, ma assai più prosaicamente volle la
ricetta della bagna cauda. E non solo: quando Pierino Pandale disse di essere
biellese fece brillare gli occhi di Christian Frederik Franz Michael Carl
Valdemar Georg che affermò di aver visitato Biella in incognito e di essere
salito a Oropa come un semplice turista. Del santuario della Madonna Nera si
ricordava più che altro la polenta concia (che Sua Altezza Reale tentò di
pronunciare in dialetto con risultati non proprio eccezionali) e non si fece
scrupoli nel chiedere la ricetta anche di quel piatto. Ma il primogenito di
Cristiano X dimostrò di essere non solo un buongustaio, ma anche un attento
osservatore. Confidò al sempre più basito interlocutore di essersi stupito
dell’operosità Industriale della nostra città e delle sue vallate, ma di non
aver capito la ragione della marchiatura “made in England” delle stoffe
nostrane. (…) Sulla via del ritorno
sbarcarono in Scozia. All’epoca il tessuto scozzese andava per la maggiore in
Italia e a Edimburgo i marinai delle “tre belve” erano intenzionati a
procurarsene una scorta, contando sul fatto che lassù i prezzi fossero più
accessibili. Rimasero, invece, piuttosto delusi. Il tessuto scozzese nella
capitale della Scozia non c’era. Panni in tinta unita o spigati campeggiavano
in tutte le vetrine. E una di queste, in pieno centro, vendeva solo stoffa
“made in Biella” delle migliori marche. A prezzi doppi rispetto a quelli
italiani. La doppia parentesi tessile fu solo un aspetto di quell’intenso e
indimenticabile percorso. La buona memoria di Pierino Pandale non tralasciò di
segnalare l’episodio poco piacevole di Leningrado. La nutrita colonia italiana
residente nella vecchia San Pietroburgo fu invitata sul “Pantera” per una festa
tra compatrioti. Al termine del ricevimento, una volta scesi a terra, gli
invitati furono tutti tratti in arresto dalle zelanti autorità sovietiche che,
con tutta evidenza, non avevano gradito quel contatto con gli emissari di una
nazione occidentale non comunista e addirittura monarchica. A Tallin le cose
andarono diversamente anche se la rappresentanza italiana in terra lettone era
costituita da una sola persona, guarda caso una signora biellese, ossia una
Boggio Lero di Lessona. Pierino Pandale, cui la parte gastronomica della vita
doveva essere particolarmente cara, non lesinò critiche alla perfida Albione
accrescendo il cospicuo novero di coloro che sostengono che in Gran Bretagna si
mangia malissimo. A Londra fu il primo ministro Stanley Baldwin (…) a invitare a pranzo i tre comandanti e gli
ufficiali più alti in grado. Fu uno strazio. Il servizio scadente, il cibo
scarso e tremendo. Sopravvissuto a quel supplizio alimentare, l’esperto Pandale
si mise al timone di un (de)nutrito drappello di affamati marinai e li condusse
in un porto sicuro, ovvero alla trattoria di un certo Alessandro Scanzio, anche
lui di Candelo, che a pochi passi dal 10 di Downing Street serviva veri
maccheroni e vero barbera. Stando alla testimonianza resa dal macchinista
l’etichetta non fu più tanto rigida e anche i capitani si allacciarono il
tovagliolo al collo e piantarono i gomiti sul tavolo per far onore alle portate
abbondanti e tipiche della Patria lontana. (…) Un ultimo fatto gli era rimasto in mente di quella marziale ma pacifica
“sfilata” nautica del 1925. Avvenne a Copenaghen, appena prima dell’incontro
con il principe goloso di bagna cauda e di polenta concia. L’equipaggio dei tre
esploratori leggeri aveva scoperto il “Tivoli”, il giardino pubblico e parco di
divertimenti famoso in tutto il mondo. All’interno della più nota attrazione
della capitale danese gli stessi marinai si erano rivelati dei ludopatici. In
Italia non esistevano ancora le “macchinette” in cui inserire spiccioli per
azionare la leva che avrebbe consegnato una tavoletta di cioccolata, una gomma
da masticare o una piccola “sorpresa”. Divenne una mania, specialmente quando i
militari italiani scoprirono che le suddette “macchinette” non funzionavano
solo con corone danesi, ma anche con soldini da cinque centesimi di lira. Non
riuscivano a smettere, ma con quella trovata (…) si stava frodando il fisco dell’integerrimo Regno di Danimarca. A bordo
si cedeva una monetina contro una lira intera e il “cambio” andava crescendo
fino a quando gli ufficiali si accorsero del fenomeno (o magari c’erano dentro
anche loro?) e decisero di vederci chiaro. La verità si manifestò sotto forma
di cassette piene di vile conio italiano al posto di pregiata valuta locale. La
direzione del “Tivoli” accettò le scuse del comandante Cavagnari e con esse
circa 12.000 lire, cioè la differenza conteggiata tra quello sarebbe dovuto
essere l’incasso corretto e il più misero effetto della “furbata” dei
commilitoni del maggiore Pandale. Secondo quest’ultimo “la marachella dei
marinai aveva destato il divertito stupore dei danesi” e una certa invidia per
la capacità di adattamento degli italiani, oltre che per l’onestà degli
ufficiali nel denunciare per primi e nel riconoscere la propria colpa».
22 agosto 1926
Il
Pantera riceve a Livorno la bandiera
di combattimento.
Il Pantera (al centro, fiancheggiato da alcuni cacciatorpediniere tipo “tre pipe”) riceve a Livorno la bandiera di combattimento (USMM) |
1927
Lavori
di modifica: vengono aggiunte allo scafo delle alette antirollio, che riducono
la tendenza al rollio in virata.
Il Pantera in navigazione, foto scattata da un Macchi M 18 che lo affiancava volando a distanza ravvicinata (USMM) |
(Coll. Alberto Rosselli via www.icsm.it) |
1928
Altra
crociera di rappresentanza con Tigre
e Leone, questa volta in Spagna.
Dal
24 al 30 giugno il Pantera visita le
Baleari insieme ai cacciatorpediniere Nazario
Sauro, Francesco Nullo, Cesare Battisti e Daniele Manin, venendo accolto amichevolmente dalle autorità
spagnole e dalla popolazione locale.
In navigazione (g.c. Anton Shitarev, via www.naviearmatori.net) |
(da www.warshipsww2.eu) |
1929
Il
Pantera è unità capoflottiglia
(conduttore di flottiglia) della 2a Flottiglia Cacciatorpediniere,
formata dalle Squadriglie Cacciatorpediniere III (Nazario Sauro, Cesare
Battisti, Francesco Nullo, Daniele Manin) e IV (Francesco Crispi, Quintino Sella, Giovanni
Nicotera, Bettino Ricasoli).
La
2a Flottiglia Cacciatorpediniere, insieme alla 1a
Flottiglia (formata dal Leone e dalle
Squadriglie Cacciatorpediniere I e II), forma la I Divisione Siluranti (a sua
volta facente parte della 1a Squadra Navale), che ha come nave
ammiraglia l’esploratore Quarto e
come base La Spezia.
1930
Nuova
crociera, in Mar Egeo.
Il Pantera a Venezia nel 1930 (foto Bassan-Venezia, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
1° agosto 1930-19 marzo 1931
Sottoposto
a lavori di rimodernamento, svolti presso l’Arsenale di La Spezia; i 6 tubi
lanciasiluri DAAN-Whitehead da 450 mm in impianti trinati vengono sostituiti
con 4 San Giorgio da 533 mm, in due impianti binati, e vengono imbarcate due
mitragliere Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm a potenziamento dell’armamento
contraereo. Vengono inoltre allungati i fumaioli e viene installato un nuovo
sistema di direzione del tiro, composto da una centrale di tiro a poppavia della
controplancia, una torretta telemetrica principale con due telemetri ed una
torretta telemetrica secondaria con un telemetro, situata sulla tuga poppiera.
(g.c. Giacomo Toccafondi) |
1931
Il Pantera, insieme ai
cacciatorpediniere Ostro, Aquilone, Turbine, Borea, Daniele Manin e Giovanni Nicotera, forma la 2a Flottiglia
Cacciatorpediniere della II Divisione della 1a Squadra Navale.
In
questo periodo è imbarcato sul Pantera,
quale direttore di tiro, il tenente di vascello Salvatore Pelosi, futura
Medaglia d’Oro al Valor Militare per le sue azioni in Mar Rosso durante la
seconda guerra mondiale (epoca e luogo che vedranno anche l’epilogo della vita
del Pantera).
Una cartolina del Pantera risalente agli anni Trenta (da www.modellismopiu.net) |
Dettaglio della zona poppiera del Pantera (da www.modellismopiu.it) |
1931
Partecipa
ad esercitazioni con la 1a Squadra Navale al largo di Gaeta.
Negli
anni successivi opera in Mediterraneo occidentale ed in acque nazionali.
Il Pantera in manovra nel bacino di San Marco a Venezia, a metà anni Trenta (g.c. Carlo Di Nitto via www.naviearmatori.net) |
Questa foto è variamente identificata come ritraente il Pantera od il gemello Leone (da www.alf.home.pl) |
1934
Dislocato
in Mar Rosso insieme all’incrociatore leggero Bari (capitano di vascello Diego Pardo, comandante superiore navale
in Africa Orientale), al cacciatorpediniere Palestro,
alla torpediniera Audace, ai posamine
Azio ed Ostia ed alla nave cisterna Niobe.
Il Pantera a metà anni Trenta (g.c. STORIA militare) |
14-15 maggio 1935
Il
Pantera viene inviato a Gedda, in
Arabia Saudita, in occasione della partenza dell’emiro Saud bin Abdulaziz Al
Saud, erede al trono saudita, per un viaggio in Europa mirato a rafforzare le
relazioni tra l’Arabia ed i Paesi europei, nonché a prendere spunto per la
futura modernizzazione dell’Arabia stessa.
All’arrivo
dell’emiro a Gedda dalla Mecca, il 14 maggio, il Pantera, all’ancora in rada, spara ventun colpi di cannone in segno
di saluto (egual numero di cannonate è sparato dalle artiglierie della locale
fortezza); il giorno seguente il principe saudita, prima di imbarcarsi sulla
motonave italiana Victoria che lo porterà in Europa (sbarcherà a Napoli il 19
maggio), visita il Pantera.
Come
si vedrà, il Pantera tornerà di nuovo
a Gedda, in circostanze molto meno felici, sei anni più tardi.
Il capitano di fregata Giovanni Marabotto a bordo del Pantera in Africa Orientale Italiana, nell’estate del 1935 (g.c. STORIA militare) |
Ottobre 1935
All’inizio
della guerra d’Etiopia, il Pantera (capitano
di fregata Giovanni Marabotto) si trova dislocato in Mar Rosso, insieme al
gemello Tigre, ai vecchi incrociatori
leggeri Bari e Taranto, ai cacciatorpediniere Impavido,
Audace e Palestro, ai sommergibili Luigi
Settembrini e Ruggiero Settimo, alla nave appoggio sommergibili
Alessandro Volta, ai posamine Azio ed Ostia, alle cannoniere Giovanni
Berta e Porto Corsini, al
trasporto militare Lussin ed al
rimorchiatore militare Ausonia.
Le
unità formano la Divisione Navale in Africa Orientale, al comando
dell’ammiraglio di divisione Guido Vannutelli.
Una mitragliera contraerea da 13,2 mm del Pantera durante un’esercitazione, nel 1935 (g.c. STORIA militare) |
1935-1936
Ormai
antiquati, il Pantera ed i
due gemelli vengono adibiti a servizio coloniale in Mar Rosso, e sottoposti a
lavori di adattamento per l’impiego in climi tropicali (vengono dotati di
impianti di condizionamento dell’aria e di refrigerazione dei depositi
munizioni, per evitarne un pericoloso surriscaldamento). Subiscono pertanto l’eliminazione
di due cannoni da 76/40 mm per allungare di alcuni metri il castello, allo
scopo di ricavare un nuovo locale per i compressori dei macchinari
dell’impianto di condizionamento (secondo altra fonte, invece, i due pezzi da
76/40 erano stati sbarcati già nel 1931, venendo sostituiti con le mitragliere
da 40/39); vengono anche installati degli apparati per impedire il
surriscaldamento dei depositi munizioni. Sono inoltre le prime unità della
Regia Marina ad adottare il cloruro di metile come gas refrigerante nei
frigoriferi, in luogo dell’anidride carbonica, rivelatasi inadatta alle
temperature dell’Africa Orientale.
Viene
anche leggermente incrementata la scorta di carburante; il dislocamento diviene
di 2000 tonnellate standard, 2150 in carico normale e 2648 a pieno carico.
(Secondo
una fonte, nell’ambito di questi lavori sarebbe anche stato eliminato uno degli
impianti binati da 120 mm, quello situato a poppavia della plancia).
Il Pantera in navigazione sottocosta nell’estate
del 1935 (g.c. STORIA Militare e Coll. Maurizio Brescia via www.associazione-venus.it)
25 gennaio 1936
Completati
i lavori, Pantera, Tigre e Leone vengono nuovamente assegnati alla Divisione Navale dell’Africa
Orientale (adesso passata al comando dell’ammiraglio di divisione Vittorio Tur
e formata dagli incrociatori leggeri Bari, Taranto e Quarto, dai cacciatorpediniere Francesco Nullo e Daniele
Manin, dalle torpediniere Audace, Generale Antonio Cantore e Giacinto Carini, dai sommergibili Luigi Settembrini, Ruggero Settimo, Narvalo, Tricheco, Salpa e Serpente, dalle navi appoggio
sommergibili Alessandro Volta ed Antonio Pacinotti, dall’incrociatore
ausiliario Arborea e da quattro
MAS) e dunque dislocati in Eritrea.
In
questo periodo (1935-1936, durante la guerra d’Etiopia) è comandante del Pantera il capitano di vascello Aimone
di Savoia-Aosta, duca di Spoleto.
Nei
successivi quattro anni, il Pantera
sarà quasi sempre dislocato in Africa Orientale, salvo una breve interruzione
nel 1939.
Aimone di Savoia, quarto duca d’Aosta e comandante del Pantera durante la guerra d’Etiopia, qui in divisa da ammiraglio (USMM) |
1938
Il
Pantera visita l’isola di Kamaran, in
Mar Rosso, al largo della costa dello Yemen e di fatto sotto controllo
britannico.
Un reparto di marinai armati del Pantera a Massaua, nel 1937. L’ufficiale è il guardiamarina Prospero Solimano (Camogli, 1915-1988), che sul Pantera ebbe il suo primo imbarco nel 1936, poco dopo aver completato i suoi studi presso l’Accademia Navale di Livorno. L’anno successivo venne trasferito sulla corazzata Giulio Cesare (Coll. Prospero Solimano, da www.sncmcamogli.org) |
Il Pantera in Adriatico (probabilmente davanti a Pola) nel 1937-1938 (Coll. Prospero Solimano, da www.sncmcamogli.org) |
1938
Stante
l’accresciuta minaccia posta dall’arma aerea rispetto agli ormai lontani tempi
della sua entrata in servizio, il Pantera
riceve un potenziamento dell’armamento contraereo: vengono aggiunte due
mitragliere binate Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm (per altra fonte, queste
sarebbero state aggiunte già durante i lavori del 1936) e due o quattro
mitragliatrici singole Colt da 6,5/80 mm. Viene inoltre installata una stazione
di direzione del tiro sulla tuga poppiera, per poter suddividere i pezzi da 120
mm in due gruppi di fuoco, se ciò si rendesse necessario. Il dislocamento
standard sale da 1745 a 2150 tonnellate, quello a pieno carico da 2289 a 2650
tonnellate.
Il Pantera a La Spezia nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
5 settembre 1938
Viene
riclassificato cacciatorpediniere, analogamente a Tigre e Leone, ed insieme
ad essi viene assegnato alla V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a
Massaua a partire dai primi mesi del 1939. Ormai le navi della classe Leone
sono anziane, obsolete (i loro cannoni da 120/45 mm risalgono al 1918-1919) ed
usurate dal lungo servizio.
Tre
immagini scattate sul Pantera a fine
anni Trenta (Coll. Prospero Solimano, via www.sncmcamogli.org)
1939
In
seguito a nuovi lavori, le mitragliatrici da 13,2 e 6,5 mm vengono sostituite
da due mitragliere binate Breda da 20/65 mm Mod. 1935.
1939
Pantera, Tigre e Leone (V Squadriglia Cacciatorpediniere)
sono dislocati a Massaua.
Il Pantera (a destra) ed il Tigre visti dalla nave coloniale Eritrea durante un’esercitazione in Mar Rosso, nel 1939 (g.c. STORIA militare) |
Giugno 1940
Nella seconda settimana
di giugno, subito prima dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale,
il Pantera viene temporaneamente
dislocato ad Assab (Eritrea meridionale) per effettuare la posa di due
sbarramenti difensivi di mine antinave tipo Bollo sulle rotte di avvicinamento
a quella base.
7 giugno 1940
Il Pantera posa i due campi minati al largo
di Assab, in prossimità dell’accesso settentrionale della rada, per un totale
di 110 mine (uno sbarramento è composto da 50 mine, l’altro da 60), dopo di che
rientra a Massaua.
Questi campi
coglieranno una vittima “postuma”: alle 16.07 del 30 aprile 1941, infatti,
settimane dopo l’affondamento del Pantera,
il pattugliatore ausiliario HMIS Parvati,
della Marina indiana, urterà due delle mine posate dal Pantera ed affonderà a nordest di Assab (in posizione 13°11’ N e
42°54’ E) in meno di due minuti, con la perdita di un ufficiale e sedici tra
sottufficiali e marinai. L’incrociatore Ceres
recupererà i 21 sopravvissuti tra cui il comandante, tenente di vascello Hajee
Mohammed Siddig Choudry, ferito al pari di altri tredici dei naufraghi.
La perdita del Parvati contribuirà a rimandare di quasi
un mese e mezzo la caduta di Assab: la piazzaforte, infatti, sarà evacuata per
ordine superiore ad inizio aprile 1941, ed il suo personale sarà trasferito
presso il bivio stradale di Combolcià, nell’interno, per contrastare l’avanzata
britannica; prima di ritirarsi, la guarnigione provvederà a distruggere tutte
le opere militari ed a smontare ed asportare tutte le artiglierie, portando queste
ultime con sé, come ordinato. I britannici, ignari di tutto ciò, invieranno il Parvati in avanscoperta, seguito
dall’incrociatore leggero Ceres, con
l’intenzione di inviare una motolancia per condurre una ricognizione del porto
di Assab, in preparazione di un possibile attacco; in quel momento, Assab si
troverà ad essere presidiata soltanto da poche decine di militari armati dei
soli fucili, e se i britannici lo scoprissero, potrebbero agevolmente
occuparla. Invece, dopo l’affondamento del Parvati
si limiteranno a recuperarne i naufraghi per poi allontanarsi senza tentare
ulteriori ricognizioni; la sguarnita piazzaforte sarà raggiunta, qualche
settimana dopo, da parte della sua vecchia guarnigione, in ripiegamento dopo la
conclusione della battaglia di Combolcià, e continuerà a resistere fino all’11
giugno.
L’affondamento del Parvati è così descritto nella storia
ufficiale della Marina indiana: “…prima
che il Parvati avesse accelerato fino alla massima velocità, alle 16.07, mentre
stava virando per 302° ed era ancora nella scia dell’H.M.S. Ceres, una grande
esplosione venne avvertita nella parte anteriore della nave. Il ponte di legno
sovrastante la plancia inferiore venne lanciato in aria, ed il comandante cadde
sul ponte. Rendendosi conto che la nave aveva urtato una mina, si alzò
immediatamente e vide che la parte prodiera della nave stava affondando
rapidamente, immergendosi nel mare. Mise i telegrafi di macchina nella
posizione di ferma ed ordinò ‘Abbandonare la nave’ a voce e con la sirena.
(…) Il ponte superiore era quasi al
livello del mare. [La nave] aveva
iniziato a sbandare a sinistra. Volgendosi verso il ponte lance, [il
comandante] vide l’equipaggio radunato
all’ordine di abbandonare la nave ed intento a preparare le lance. Gridò
“Calare le scialuppe – gettare in mare le zattere” e poi, con una lampada Aldis
che giaceva nei pressi, segnalò tre volte “IN AFFONDAMENTO” all’H.M.S. Ceres (…)
A questo punto la parte prodiera della
nave era completamente sott’acqua. La nave era fortemente sbandata sulla
dritta, tanto che il ponte lance aveva un angolo di 40°. Forti difficoltà
furono incontrate nella messa a mare delle lance (…) La baleniera si capovolse non appena fu in mare, a causa del forte
sbandamento. A questo punto metà del ponte lance era sott’acqua. Il comandante
ordinò allora l’uso delle zattere (…) la
plancia inferiore era a quel punto inclinata di circa 45°. Il lato di dritta
del ponte lance era sott’acqua fino al basamento dell’albero principale, con la
poppa ed il lato sinistro sollevati verso il cielo. La maggior parte degli
uomini si erano gettati in mare. Il tenente di vascello Choudri aveva l’acqua
alle ginocchia quando iniziò ad allontanarsi a nuoto dalla nave, e nel farlo
vide la sommità dell’albero principale che scendeva rapidamente verso di lui.
(…) fu risucchiato circa dodici metri
sotto la superficie. Quando riemerse, il che gli riuscì a stento, non vide più
nessuna traccia della nave eccetto alcuni pezzi di legno ed alcuni uomini su
delle zattere (…) L’H.M.I.S. Parvati
affondò nel giro di un minuto e mezzo dall’urto contro la mina. La grossa
scialuppa di sinistra si riempì d’acqua prima di poter essere calata
completamente. La baleniera sul lato sinistro si capovolse non appena fu in
mare, e la terza scialuppa non poté essere calata a causa del forte sbandamento
a dritta. Il sottotenente di vascello Lodge ed il suo gruppo riuscirono a
gettare in mare cinque zattere, e le altre vennero a galla dopo l’affondamento”.
Notizia dell’affondamento del Parvati sul “Courier-Mail” di Brisbane del 15 maggio 1941 |
10 giugno 1940
All’ingresso
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Pantera (capitano di fregata Paolo Aloisi) fa parte della V
Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua, che forma insieme ai
gemelli Tigre e Leone: squadriglia nota anche, tra gli
equipaggi, come “Squadriglia Belve”.
Le
condizioni operative in Mar Rosso sono particolarmente difficili, specialmente
a causa del clima: temperature di 55 °C all’ombra, umidità prossima al 100%,
uniti alla mancanza di aria condizionata e di frigoriferi, causa la deficienza
di corrente elettrica e di gas per i relativi impianti. Nelle missioni di
guerra, con tutte le caldaie accese, le macchine si trasformano in un vero e
proprio inferno; in porto, non si possono stendere tende sui ponti per avere un
po’ d’ombra, perché gli attacchi aerei sono continui (una cinquantina tra il
luglio ed il novembre del 1940) e le tende intralciano l’impiego delle armi
contraeree. Ad ogni missione si registrano regolarmente numerosi svenimenti e
colpi di calore; gli equipaggi, che in gran parte vivono in questo clima già da
due o tre anni, lamentano molti casi di ulcere ed esaurimento fisico, che
devono essere sovente sbarcati subito prima delle uscite in mare ed inviati per
lunghi periodi di riposo sugli altopiani dell’Eritrea interna, dove il clima è
più clemente.
Il
clima non logora solo gli uomini ma anche i macchinari, riducendone la non già
elevata efficienza ed aumentando l’incidenza delle avarie, cui contribuisce
anche l’inadeguatezza delle strutture esistenti in Mar Rosso per la riparazione
e la manutenzione delle navi (in tempo di pace, queste venivano inviate in
Italia se erano necessari grandi lavori: ma adesso, ovviamente, ciò non è più
possibile, e risulta anche estremamente difficile inviare parti di ricambio). Gli
operai, spossati dal caldo, che rende insopportabile il lavoro in locali chiusi
(lavoro, per giunta, frequentemente interrotto dai continui allarmi aerei, che
impediscono anche di riposare), faticano a mantenere un rendimento passabile
nei lavori, che sono resi ancor più irregolari dai frequenti attacchi aerei.
L’operatività
delle navi italiane è condizionata dalla scarsità di carburante, problema molto
più grave che in Mediterraneo: l’Africa Orientale Italiana, infatti, non può
ricevere alcun rifornimento dall’Italia, se non modestissime quantità per via
aerea, il che significa che una volta esaurite le scorte di carburante
disponibili sul posto – non sufficienti neanche per un anno – le navi
resteranno immobilizzate.
Per di più, l’esigua
flottiglia italiana di base a Massaua, composta in gran parte da unità piuttosto
attempate (come appunto il Pantera ed
i gemelli) ed impossibilitata a ricevere rinforzi, si trova ben presto anche in
condizione d’inferiorità numerica: entro la fine dell’agosto 1940, infatti, la
Royal Navy ha dislocato ad Aden quattro incrociatori leggeri (Leander, Carlisle, Capetown e Coventry), tre cacciatorpediniere (Kandahar, Kingston e Kimberley) ed
otto sloops (Yarra, Indus, Auckland, Flamingo, Shoreham, Swan, Grimsby e Cornwallis) per la protezione dei
convogli in navigazione nel Mar Rosso. Si tratta della Red Sea Force, al comando del contrammiraglio Arthur J. L. Murray.
27 giugno 1940
In mattinata il Pantera lascia Massaua insieme
al Leone ed alla vecchia
torpediniera Giovanni Acerbi,
per andare in soccorso al sommergibile Perla,
incagliatosi presso Ras Cosar, a 20 miglia da Sciab Sciach (costa eritrea),
dopo che perdite di cloruro di metile hanno intossicato larga parte
dell’equipaggio.
L’invio delle tre
unità è stato disposto dal comandante di Marisupao (Comando Superiore della
Marina in Africa Orientale), contrammiraglio Carlo Balsamo, dopo che il
comandante del Perla ha telegrafato a
Massaua riferendo che i quattro quinti dell’equipaggio sono intossicati, e
chiedendo assistenza in quanto i tentativi per disincagliare il sommergibile
sono risultati infruttuosi. L’Acerbi dovrebbe
se possibile disincagliare e prendere a rimorchio il Perla, mentre Pantera
e Leone fornirebbero appoggio e
sostegno; qualora il disincaglio risultasse impossibile, le unità dovrebbero
recuperare l’equipaggio del sommergibile.
Poco dopo la
partenza, tuttavia, il Leone viene
colto da un’avaria che lo costringe a tornare alla base; il Pantera prosegue da solo per dare
appoggio all’Acerbi, che intanto ha
raggiunto Sciab Sciach, ma alle 12.30, in seguito all’avvistamento, da parte
della ricognizione aerea, di una superiore formazione navale britannica
(incrociatore leggero Leander,
cacciatorpediniere Kandahar e Kingston) diretta verso Sciab Sciach,
Marisupao ordina anche a Pantera ed Acerbi di ripiegare, portandosi sotto la
protezione delle batterie delle isole di Shumma e Dilemmi.
Sebbene attaccato
dalla formazione britannica, il Perla
verrà salvato dall’intervento dei bombardieri della Regia Aeronautica, che
costringeranno i britannici alla ritirata; il sommergibile potrà essere
disincagliato dopo alcuni giorni e rimorchiato a Massaua, dove sarà riparato.
Il Pantera in Mar Rosso a inizio 1940, in una foto scattata dall’Eritrea (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
27-28 giugno 1940
Pantera, Tigre, Leone ed i più piccoli
cacciatorpediniere Nazario Sauro e Daniele Manin escono in mare
durante la notte in cerca della formazione britannica segnalata
dall’Aeronautica il giorno precedente, che intendono ora intercettare ed attaccare
in forze; ma non riescono a trovarla, essendo questa ormai rientrata alla base.
1° agosto 1940
Il marinaio
cannoniere Mario Antonio Cavallo, 18 anni, da Cuneo, facente parte
dell’equipaggio del Pantera, muore a
Massaua. È possibile che sia rimasto vittima dell’incursione aerea che colpì
quel giorno la base eritrea: tra le 8.02 e le 8.34 del 1° agosto, infatti, tre
bombardieri Bristol Blenheim bombardarono Massaua con obiettivo le
installazioni dell’AGIP, provocando un modesto incendio.
28-29 agosto 1940
Pantera e Tigre vengono
inviati in crociera notturna al largo delle Isole Dahlak, in cerca dei
piroscafi greci Kastor e Stratatos, al servizio degli Alleati e
che secondo informazioni trasmesse da Supermarina (teledispaccio 19648 del 23
agosto) dovrebbero attraversare il Mar Rosso provenendo da Suez e diretti verso
sud. Il Comando Superiore di Marina in Africa Orientale ha stimato che il Kastor passerà probabilmente all’altezza
dell’isola di Harmil tra il 24 ed il 26 agosto, e lo Stratatos tra il 28 ed il 31; pertanto ha disposto per il periodo
in questione ricognizioni aeree la mattina, e crociere di cacciatorpediniere di
notte. Nelle ore diurne i cacciatorpediniere hanno l’ordine di restare alla
fonda presso Harmil, tenendosi pronti ad intervenire in caso di avvistamenti da
parte degli aerei.
Pantera e Tigre, al pari dei
cacciatorpediniere inviati nei giorni precedenti (Nazario Sauro e Francesco
Nullo, il 24-25 agosto) e successivi (Cesare
Battisti e Daniele Manin, il
30-31 agosto), non avvistano niente.
Il Pantera a Massaua nel 1940 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
Fine agosto-Inizio settembre
1940
Sottoposto a lavori
ad una caldaia.
20 settembre 1940
Pantera, Leone, Battisti e Manin salpano da Massaua per intercettare un convoglio britannico
proveniente da Singapore e diretto a Port Sudan con 4000 soldati (compresi due
battaglioni ritirati dalla Cina), segnalato dallo Stato Maggiore Generale il 17
settembre. Secondo le informazioni a disposizione del Comando Supremo, il
convoglio è partito da Singapore l’11 settembre, è scortato da un incrociatore,
quattro cacciatorpediniere e quattro unità minori (che dovranno poi ricevere
rinforzi, 150 miglia ad est di Socotra, con navi provenienti da Aden) e procede
a 15 nodi, senza tappa intermedia a Bombay.
Secondo fonti
britanniche, invece, il convoglio in questione sarebbe stato il BN. 5, partito Bombay
il 10 settembre diretto a Suez (dove giungerà il 26) e composto da 25 navi
mercantili (Akbar, Alavi, Ancylus, Ashbury, Bankura, Bhima, British Emperor, City of Christiania, Clearpool, Crista, Cyclops, Glenlea, Guido, Heron, Jalaganga, Karoa, Nils Moller, Ovington Court, Pellicula,
Protector, Santhia, Talma, Theseus, Tomislav, Treminnard, Westralia; tutte britanniche tranne la Tomislav, che è jugoslava) scortate dagli
incrociatori leggeri Caledon
(britannico) e Leander (neozelandese),
dall’incrociatore ausiliario Antenor
e dagli sloops Clive, Flamingo, Indus, Shoreham e Parramatta (secondo altra fonte, invece,
la scorta sarebbe stata composta dal Leander
e da tre sloops, il britannico Auckland
e gli australiani Yarra e Parramatta).
Sulla scorta delle
informazioni ricevute dal Comando Supremo, Marisupao ha concluso che il
convoglio entrerà in Mar Rosso non prima del 20 o 21 settembre; di conseguenza,
l’ammiraglio Balsamo si è accordato con il Comando del Settore Nord per
l’esplorazione aerea, ed ha disposto che tutte le navi di superficie si tengano
pronte ad accendere rapidamente le caldaie.
Il convoglio è stato
avvistato per la prima volta dai ricognitori alle 11 del 19 settembre, 30
miglia a sudovest di Aden; gli aerei ne hanno stimato la composizione in 21
mercantili scortati da un incrociatore e due cacciatorpediniere, diretti verso
lo stretto di Bab el Mandeb. In seguito a questo avvistamento sono usciti in
mare i sommergibili Archimede e Guglielmotti, mentre il 20 settembre
anche l’aviazione è passata all’attacco, bombardando il convoglio una prima
volta nel mattino e la seconda nel pomeriggio, a nord di Perim (un piroscafo
britannico, il Bhima, viene
danneggiato da alcune bombe cadute nei suoi pressi, venendo portato ad
incagliare ad Aden con due stive allagate ed una vittima tra l’equipaggio).
Lasciata Massaua, Pantera, Leone, Battisti e Manin escono per il Canale Nord e poi,
giunti al largo di Harmil, assumono una rotta per la ricerca notturna del
convoglio, divisi in sezioni, a partire dalle ore 21.
21 settembre 1940
Alle 4.30 i
cacciatorpediniere concludono la loro ricerca, senza aver avvistato niente.
L’ordine è di trovarsi sotto la protezione della batteria di Harmil alle prime
luci dell’alba in quanto la stazione di vedetta di Raheita ha segnalato alle 13
il transito di un altro convoglio, diretto verso nord ad elevata velocità e
scortato da un incrociatore ausiliario, e l’ammiraglio Balsamo teme che gli
incrociatori britannici possano unirsi, andando a formare una formazione di
armamento superiore rispetto a quella dei cacciatorpediniere italiani.
In mattinata Pantera, Leone, Battisti e Manin fanno ritorno a Massaua.
Il Pantera in una foto scattata
probabilmente a Massaua (Naval History and Heritage Command)
18 ottobre 1940
Dopo che, in serata,
la stazione di vedetta di Raheita ha comunicato l’avvistamento di un convoglio
composto da cinque navi mercantili, un incrociatore e quattro
cacciatorpediniere con rotta verso nord, l’ammiraglio Balsamo ordina che Pantera (capitano di fregata Paolo
Aloisi), Leone (capitano di fregata
Uguccione Scroffa), Sauro (capitano
di corvetta Enrico Moretti degli Adimari) e Nullo
(capitano di corvetta Costantino Borsini) si tengano pronti a muovere a
mezzogiorno dell’indomani.
19 ottobre 1940
In mattinata anche la
ricognizione aerea (un trimotore Savoia Marchetti S.M. 79 decollato da Dire
Daua e pilotato dal tenente Alberto Leonardi) avvista un convoglio diretto
verso nord a 14 nodi, una decina di miglia a sudovest di Gebel Tair, stimandone
la composizione come quattro mercantili, due incrociatori e quattro
cacciatorpediniere; tuttavia, siccome dal confronto dell’orario e della
posizione dei due avvistamenti emerge che il convoglio ha una velocità di
almeno 16 nodi, Marisupao conclude che i cacciatorpediniere italiani non
riuscirebbero a raggiungerlo durante la notte. Viene pertanto annullato
l’ordine di accensione delle caldaie.
Alle 22, tuttavia, la
stazione di Raheita segnala l’avvistamento di un nuovo convoglio, anch’esso con
rotta verso nord: stavolta si tratta di ben 23 mercantili, scortati da un
incrociatore e quattro cacciatorpediniere, con velocità di 10 nodi (questo
secondo la storia ufficiale dell’USMM; secondo altra fonte, probabilmente
erronea, il ricognitore avrebbe riferito di aver avvistato 36 navi mercantili
di stazza compresa tra le 10.000 e le 20.000 tsl, scortate da due incrociatori
ed alcuni cacciatorpediniere). Ritenendo possibile un’intercettazione,
l’ammiraglio Balsamo ordina di nuovo ai cacciatorpediniere di tenersi pronti a
muovere a mezzogiorno del 20.
Il convoglio
britannico è il BN 7, formato da ben 31 mercantili britannici (Australind, British Colonel, Cranfield, Ekma, Erica, Ethiopia, Hannah Moller, Hatarana, Jalakrishna, Karagola, King Arthur, Kingswood, Mandalay, Marcella, Margot, Marion Moller, Myrtlebank, Nevasa, Nurmahal, Serbino, Subadar, Tyndareus, Varsova), greci (Odysseus),
turchi (il posamine Sivrihisar,
costruito nel Regno Unito e diretto in Turchia per essere consegnato ai suoi
proprietari), olandesi (Arundo), francesi
(Felix Roussel) e norvegesi (Askot, Egero, Inviken, Nyco, Nyholm) partiti da Aden lo stesso 19 ottobre e scortati
dall’incrociatore leggero Leander
(caposcorta, capitano di vascello Henry Edward Horan), dal cacciatorpediniere Kimberley (capitano di corvetta John
Sherbrook Morris Richardson), dagli sloops Yarra
(australiano, capitano di corvetta Wilfred Hastings Harrington), Auckland (capitano di fregata John
Graham Hewitt) ed Indus (indiano,
capitano di fregata Eric George Guilding Hunt) e dai dragamine di squadra Huntler (capitano di corvetta Harold
Robert Austin King) e Derby (tenente
di vascello Francis Charles Victor Brightman). Vi è inoltre una cinquantina di
caccia e bombardieri, di base ad Aden, incaricati di fornire copertura aerea.
Il convoglio proviene
originariamente da Bombay, da dov’è partito il 10 ottobre con la scorta degli
incrociatori ausiliari Ranchi ed Antenor, rilevati il 16 ottobre da Leander, Yarra ed Auckland; il 18-19
ottobre, dopo aver attraversato l’Oceano Indiano, ha fatto scalo ad Aden, dove
si sono unite le restanti unità della scorta. La sua tabella di marcia è
regolata in modo tale che sia notte fonda quando il convoglio passerà al largo
di Massaua (intorno alla mezzanotte del 20 ottobre), che rappresenta il punto
più pericoloso del Mar Rosso per via delle forze aeronavali ivi concentrate. Dei
31 mercantili che lo compongono, 26 sono diretti a Suez e cinque a Port Sudan.
Il Pantera (sulla destra) alla fonda a Massaua con Tigre, Eritrea, Sauro e Battisti nel 1940 (g.c. STORIA militare) |
20 ottobre 1940
Alle undici del
mattino un trimotore Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero” della Regia Aeronautica
(ai comandi del sottotenente Mario Indri), inviato in ricognizione dal Comando
Settore su richiesta di Marisupao, avvista il convoglio – confermando che è
composto da 23 mercantili, un incrociatore e quattro cacciatorpediniere – a
sudest di Massaua e lo bombarda (due bombe cadono vicine al trasporto truppe
francese Felix Roussel, carico di
truppe neozelandesi, che però non subisce danni), venendo tuttavia a sua volta
attaccato da un bimotore Bristol Blenheim che lo mitraglia, ferendo il
radiotelegrafista e mettendo la radio fuori uso. Di conseguenza, lo “Sparviero”
non può riferire dell’avvistamento fino a dopo il suo atterraggio, avvenuto
alle 12.30.
Su ordine
dell’ammiraglio Balsamo, Pantera
(capitano di fregata Paolo Aloisi, capo formazione), Leone (capitano di fregata Uguccione Scroffa), Sauro (capitano di corvetta Enrico Moretti degli Adimari) e Nullo (capitano di corvetta Costantino Borsini)
salpano da Massaua nel tardo pomeriggio, in modo da essere in franchia di
Harmil al tramonto, passando per il Canale di Nord Est. La formazione è divisa
in due sezioni, con il Pantera al
comando della prima (che forma insieme al Leone)
ed il Sauro al comando della seconda
(che forma insieme al Nullo); per
cercare il convoglio nemico, i quattro cacciatorpediniere seguono rotte di
ricerca a rastrello. Secondo le disposizioni ricevute, dopo aver attaccato il
convoglio i comandanti possono scegliere se rientrare a Massaua passando da
Harmil o da Shumma. Secondo lo storico Vincent O’Hara, il piano italiano
sarebbe stato di usare la sezione Pantera-Leone, più lenta e meglio armata, per
distrarre la scorta ed allontanarla dal convoglio, e consentire così ai più
piccoli Sauro e Nullo di avvicinarsi ai mercantili ed attaccarli con i siluri.
Alle 18.22 Pantera, Leone, Sauro e Nullo escono da Harmil e dirigono verso
la zona di ricerca a 18 nodi, ed alle 21.30 (21.15 per altra fonte) le due
sezioni si separano per dare inizio alla ricerca, distanziate di dieci miglia
l’una dall’altra. La sezione Pantera-Leone, al comando del capitano di
fregata Aloisi, segue una rotta di ricerca verso sud/sudest.
Alle 23.21 il Pantera è il primo ad avvistare il
convoglio BN 7 (od il fumo prodotto dalle sue navi), dritto di prora (per altra
fonte, a proravia dritta); il Pantera
comunica immediatamente l’avvistamento a tutte le unità («nemico di prora») ed aumenta la velocità a 22 nodi (che permette
un’adeguata rapidità di manovra, senza tuttavia generare fumo e scia che
potrebbero rivelare la presenza del Pantera
alle vedette britanniche) accostando al contempo su rotta di allargamento sulla
dritta allo scopo di porre il convoglio tra sé e la luna, che è ancora bassa,
ed assumere così una posizione favorevole per l’attacco.
In quel momento il BN
7 si trova circa 150 miglia ad est di Massaua, e precisamente 35 miglia a
nord/nordovest dell’isola di Jabal al-Tair, a sua volta situata 110 miglia ad
est/nordest di Massaua; in testa alla formazione si trova lo Yarra (posizionato a proravia dritta del
convoglio), seguito dall’Auckland,
entrambi intenti a procedere a zig zag (come anche i mercantili), mentre il Kimberley è in coda al convoglio ed il Leander si trova al traverso a sinistra
(cioè sul lato del convoglio rivolto verso Massaua, probabile direzione di
provenienza di un attacco italiano). Il mare è calmo, la luna splendente, ma un
po’ di foschia limita la visibilità verso la sponda africana del Mar Rosso.
Alle 23.26 il Pantera accosta e va all’attacco; alle
23.31 lancia una prima coppiola di siluri contro il convoglio da 5000 metri di
distanza, seguita da un’altra tre minuti più tardi alla distanza di 6000 metri.
(Secondo alcune fonti, dopo il lancio dei siluri il Pantera avrebbe anche sparato alcune cannonate contro i mercantili
del convoglio). A bordo del Pantera
vengono avvertite due forti esplosioni e viste quelle che sembrano delle
fiammate, il che induce il comandante Aloisi a ritenere di aver messo a segno
almeno due siluri; in realtà si tratta di un’impressione errata, in quanto
nessuna delle armi è andata a segno. Al contempo vengono avvistate due scie di
siluri, che il Pantera evita con la
manovra.
Il Leone, che segue il Pantera a circa 800 metri di distanza, non avvista le navi
britanniche, e dunque non attacca.
La prima nave del
convoglio britannico ad avvistare gli attaccanti è lo Yarra, che poco prima delle 23 avvista a proravia sinistra i
“baffi” fluorescenti generati dalle prue di due navi – Pantera e Leone – in
avvicinamento ad alta velocità, ed esegue il segnale di riconoscimento, cui il Pantera risponde invece col lancio della
prima coppiola di siluri (secondo le fonti britanniche, l’attacco sarebbe
avvenuto alle 23.20). Dopo aver avvistato verso proravia sinistra dei lampi di
luce generati dal lancio di due siluri da parte dell’unità di testa (il Pantera), lo Yarra informa l’Auckland
della presenza di unità nemiche ed accosta nella loro direzione mettendo la
prua sugli attaccanti, mentre i cacciatorpediniere italiani virano di bordo e
cannoneggiano il convoglio con i pezzi poppieri: i proiettili ‘sorvolano’ lo Yarra e cadono tra i mercantili (secondo
una fonte britannica, in questo frangente il mercantile caponconvoglio avrebbe
subito alcuni modesti danni da schegge, specialmente ad una lancia di
salvataggio). L’Auckland, che avvista
i cacciatorpediniere italiani da circa quattro miglia di distanza (secondo la
storia ufficiale della Marina neozelandese, avrebbe aperto il fuoco dopo aver
effettuato il segnale di riconoscimento senza ottenere risposta), lancia un
messaggio di allerta a tutto il convoglio, per poi aprire a sua volta il fuoco
da una distanza stimata di 3660 metri (sempre secondo tale fonte, a questo
punto le due unità italiane si sarebbero separate e si sarebbero allontanate a
tutta forza, sparando con i cannoni poppieri). Dopo la prima salva dell’Auckland anche lo Yarra, che ha evitato di stretta misura i due siluri lanciati dal Pantera virando verso di essi in modo da
assumere rotta parallela alle loro scie, risponde al fuoco (l’equipaggio dello Yarra riterrà erroneamente di aver
colpito la nave italiana di testa con la quarta o quinta salva), mentre il Kimberley accelera a 30 nodi ad accosta
verso nordovest per portarsi a tiro.
Soltanto quest’ultimo
ed il Leander (che accosta verso
sudovest, nell’ipotesi che le navi italiane siano ora dirette verso il Canale
Sud di Massaua), tuttavia, lasciano il convoglio per inseguire gli attaccanti;
sloops e dragamine, invece, rimangono a proteggere i mercantili. (La storia
ufficiale neozelandese afferma che il Leander
avrebbe avvistato due chiazze di fumo su rilevamento nord alle 2.19 del 21
ottobre, per poi sentire e vedere dopo tre minuti fuoco d’artiglieria; a questo
punto avrebbe accelerato al massimo, per poi accostare verso sudovest dopo aver
ricevuto il messaggio dell’Auckland
relativo a due cacciatorpediniere italiani. Tuttavia l’orario delle 2.19 sembra
poco compatibile con quello delle fonti italiane, anche tenendo conto della
differenza di fuso orario).
Secondo fonti
britanniche Pantera e Leone, dopo essere stati impegnati dalle
unità di scorta, avrebbero ripiegato verso nordovest inseguiti da Leander e Kimberley, ma ciò risulta in contrasto con la rotta seguita da Pantera e Leone per rientrare a Massaua: secondo la storia ufficiale
dell’USMM, «è più probabile che il nemico
ad un certo momento abbia scorto quei due cacciatorpediniere in direzione N W e
che, pur avendoli quasi subito perduti di vista, abbia poi continuato in quella
direzione il presunto inseguimento». Dopo che da entrambe le parti è stato
cessato il fuoco, il Leander modifica
la propria rotta, accostando verso nord (o nordovest) per intercettare le unità
italiane qualora intendessero imboccare il canale che passa presso l’isola di
Harmil, e prosegue infruttuosamente l’inseguimento fino alle tre di notte,
quando – dopo aver sparato in tutto 129 colpi da 152 mm – inverte la rotta per
tornare a proteggere il convoglio, lasciando al Kimberley il compito di proseguire l’inseguimento.
Pantera e Leone, ritenendo di
aver completato con successo il loro attacco, si disimpegnano e fanno rotta
verso ovest/sudovest, dirigendo per rientrare a Massaua passando per il Canale
Sud.
Il comando britannico
di Aden accuserà poi le unità di scorta, eccetto il Kimberley, di “scarsa aggressività” per non aver inseguito le navi
italiane dopo l’attacco, per quanto sarebbe stato invero imprudente lasciare il
convoglio senza protezione per correre dietro ad un nemico (del quale la scorta
non sapeva, peraltro, l’esatta consistenza numerica) che si era rapidamente
dileguato nell’oscurità. I britannici rilevano, nel corso dello scontro, che le
navi italiane sono provviste di munizioni adatte al tiro notturno (buoni
proiettili traccianti e cordite senza vampa), non ancora in dotazione alle
unità della Royal Navy di stanza in Mar Rosso (i cui artiglieri, infatti,
durante il combattimento notturno sono stati temporaneamente abbagliati dalle
salve delle proprie artiglierie).
Da parte italiana, i
cacciatorpediniere hanno condotto l’attacco come da piano, ma senza riuscire a
colpire; Vince O’Hara osserva a posteriori che l’impiego di due sezioni incaricate
di cercare il convoglio procedendo ad elevata distanza l’una dall’altra
aumentava effettivamente la probabilità di intercettare il convoglio, ma
rendeva anche più difficile attaccare in forze, impegnando a fondo una scorta
superiore per numero e potenza di fuoco.
21 ottobre 1940
Verso le 00.20 viene
ricevuta sul Pantera una
comunicazione del Sauro, il quale
informa che, non avendo avvistato alcunché, proseguirà la ricerca secondo
l’orario prestabilito, per poi rientrare a Massaua dalla parte di Harmil.
Pantera e Leone raggiungono
Massaua alle dieci del mattino, senza aver incontrato altre unità nemiche.
Esito ben più funesto
avrà l’attacco della sezione composta da Sauro
e Nullo, che hanno ricevuto il
segnale di scoperta lanciato dal Pantera
poco dopo le 23.21. Avvistato il convoglio all’1.48 del 21, i due
cacciatorpediniere lo attaccheranno a loro volta con lancio di siluri, di nuovo
senza successo, ma durante tale manovra il Nullo
subirà un’avaria al timone e perderà il contatto col Sauro (secondo Vince O’Hara, invece, Sauro e Nullo non
avrebbero incontrato il convoglio, bensì il Leander,
intento nella ricerca di Pantera e Leone). Mentre quest’ultimo rientrerà
indenne a Massaua, il Nullo
s’imbatterà nel Kimberley, che sta
continuando l’“inseguimento” della sezione Pantera
(alle 3.50 la nave britannica avvista del fumo a proravia, che attribuisce a
due navi che si ritirano a tutta velocità: non è chiaro di quali unità si
trattasse, ammesso che ci fossero davvero), e verrà da questi affondato al
termine di un duello nelle acque di Harmil (le cui batterie costiere, a loro
volta, infliggeranno seri danni al Kimberley).
3 gennaio 1941
L’ammiraglio Mario
Bonetti, nuovo comandante di Marisupao, ordina ai cacciatorpediniere di
accendere le caldaie in preparazione dell’uscita in mare alla ricerca di un
convoglio britannico avvistato la sera precedente dalla stazione di Raheita e
poi ancora dalla ricognizione aerea il mattino successivo. Tuttavia, il mattino
del 3 gennaio aerei britannici bombardano il porto di Massaua, danneggiando
gravemente il Manin; siccome gli
aerei britannici hanno certamente notato che i cacciatorpediniere italiani
stanno preparandosi a partire, ed il fattore sorpresa è dunque sfumato, mentre
la loro forza numerica è ridotta dalla messa fuori combattimento del Manin, l’ammiraglio Bonetti decide di
sospendere l’uscita.
9 gennaio 1941
Il capitano di
vascello Andrea Gasparini assume il comando del Pantera, sostituendo il capitano di fregata Aloisi, sbarcato per motivi
di salute (“infermità contratta durante la permanenza in Africa”, probabilmente
causata da qualche malattia tropicale). Gasparini assume anche gli incarichi di
comandante della V Squadriglia Cacciatorpediniere e comandante superiore navale
in Eritrea.
Nella relazione
scritta anni dopo, al rientro dall’internamento, Gasparini descriverà in questi
termini lo stato delle navi e degli equipaggi ai suoi ordini: «Le condizioni fisiche degli equipaggi e
degli stati maggiori lasciavano molto a desiderare per la forte percentuale di
esauriti, stanchi, ulcerati e quindi bisognevoli di cure e principalmente di
lunghi periodi di riposo in zone di altopiano. Tutto ciò lo si doveva, senza
alcun dubbio, al clima di Massaua, specie quello del periodo estivo ed
autunnale; alla vita condotta sulle siluranti, senza condizionamento e con
frigoriferi fermi per deficienza di corrente e mancanza di gas; all’eccessivo
sforzo fisico richiesto dalle missioni di guerra con tutte le caldaie accese,
durante le quali si verificavano parecchi colpi di calore, specialmente sui
tipi Sauro; alla mancanza di tende in porto, per consentire l’impiego delle
armi a.a. durante i ripetuti e prolungati allarmi ed attacchi aerei; e infine
al fatto che per gran parte degli equipaggi e degli stati maggiori era la
seconda o terza estate massauina. Tale situazione spiega chiaramente come nelle
uscite vi fosse la necessità di rimpiazzare all’ultimo momento comandanti e
parte degli equipaggi, con conseguente riduzione del numero delle unità
partecipanti alla missione. Il clima, oltre a logorare gli uomini, agiva in tal
senso anche sui macchinari ed aveva già ridotto in modo sensibile la loro
efficienza. Il rendimento delle officine era molto inferiore al normale, perché
gli operai erano fisicamente prostrati; il clima rendeva insopportabile il
lavoro in locali chiusi; i numerosi allarmi non consentivano un proficuo riposo
e riducevano enormemente le ore effettive di lavoro, dando a queste carattere
di discontinuità».
Una problematica
ulteriore, relativamente ai cacciatorpediniere della classe Leone, è
l’eccessiva quantità di fumo emessa dai loro ormai vecchi apparati motori, che
li rende più facilmente avvistabili anche di notte: la velocità massima che i Leone
possono raggiungere senza fare fumo è di 22 nodi, mentre al di sopra dei 27 l’emissione
di fumo diviene enorme, ragion per cui risulta consigliabile impiegarli
soltanto nelle notti senza luna, oppure relegarli a compiti di appoggio ai
cacciatorpediniere classe Sauro – che non hanno questo problema – all’alba del
giorno successivo all’azione notturna.
Il tenente di
vascello Ennio Giunchi, imbarcato sul Pantera
in qualità di comandante in seconda dal gennaio all’aprile 1941, traccia nelle
sue memorie il seguente quadro dell’attività dei cacciatorpediniere del Mar
Rosso: “A Massaua si visse il periodo
prebellico col ritmo e l’entusiasmo consentiti dal clima micidiale. Si faceva
qualche esercitazione, compilando i programmi sulla banchina, all’ombra di una
tettoia, presso un ventilatore; si cercava di stare a bordo il meno possibile,
perché le lamiere bruciavano ed i colpi di calore non erano infrequenti. In
navigazione il calore era intollerabile soprattutto nei locali di macchina e
caldaia, dove la temperatura saliva fino a 68 °C; tanto che a volte bisognava
sostituire il personale ogni dieci, quindici minuti, tirando su coi paranchi i
fuochisti svenuti prima del tempo e filando abbasso i rimpiazzi. (…) Tuttavia i comandanti seppero fare il
possibile per mettere le navi nelle migliori condizioni di efficienza e per
ottenere dagli equipaggi il più alto rendimento (…) tutti seppero andare fino in fondo, anche quando alle ingenue speranze
dei primi mesi seguirono le delusioni e poi la certezza della fine. A questa
disposizione di spirito (…) non fece
riscontro un’adeguata, necessaria organizzazione tecnica. (…) si trattò (…) di errore nel “sistema” che si appoggiava su una incosciente euforia
imperiale, sostenuta (…) sulla
persuasione che una rapida vittoria non avrebbe lasciato alle magagne il tempo
di venire a galla. Non furono mai eseguite esercitazioni aeronavali (…), non si provvide tempestivamente ad
accumulare una scorta sufficiente di armi e munizioni. Dopo qualche mese di
guerra le navi furono costrette a non intervenire nella difesa antiaerea di
Massaua, perché conveniva risparmiare la scarsa e non sostituibile dotazione di
munizionamento antiaereo per le uscite in mare; e, quel che è più grave, tanto
esigua era la scorta di siluri che, dopo due attacchi a convogli, ne rimasero
poche decine, appena sufficienti per un’altra azione; se la guerra nel Mar
Rosso avesse durato ancora un poco, le navi non avrebbero più potuto lanciare.
(…) nell’intervallo fra il primo giorno
di guerra e l’ultimo silenzioso addio, non vi fu che pane nero, karkadè, sidro
e nauseanti sigarette “Eritrea” le quali facevano rimpiangere le pestifere
“Milit”. Quel bombardamento [quello dell’11 giugno 1940] fu il primo di una serie che, in dieci mesi
di guerra, doveva tradursi nelle seguenti cifre: cinquecentocinquanta ore di
allarme, centoventi azioni. Per contrastare questa giostra ossessionante i
nostri piloti (…) affrontavano
quotidianamente la morte (…) dalle
navi, in collegamento radiotelefonico con la DICAT, si seguivano, parola per
parola, le azioni del cielo, e sembrava di vivere favolosi tornei di antichi
cavalieri. (…) Si pensi poi che,
mentre le navi nemiche potevano entrare e uscire liberamente dal Mar Rosso ed
usufruire così di basi numerose e perfettamente attrezzate, nonché
all’occorrenza essere sostituite o ricevere rinforzi, le nostre erano blocca e
a Massaua ed il loro numero e la loro efficienza non potevano che diminuire
progressivamente (…) l’inverno, nel
quale si sperava per avere un sollievo dall’afosa temperatura estiva, portò una
epidemia di dengue, una noiosa febbre tropicale che abbatte un individuo con
una lunghissima convalescenza. I corpi stanchi dalle veglie, sfiniti dal caldo,
indeboliti dalle tensioni nervose e da lunghe permanenze nel Mar Rosso, erano
facile preda del morbo: su ogni nave i malati si contavano a decine ed ogni
giorno numerosi convalescenti partivano per un soggiorno di riposo ad
Embatkalla. Le navi pronte integravano gli equipaggi prendendo uomini a
prestito dalle altre (…)”.
Il Pantera entra a Massaua con la V
Squadriglia Cacciatorpediniere a fine anni Trenta (USMM)
24 gennaio 1941
Il Pantera (capitano di vascello Andrea
Gasparini), il Tigre (capitano di
fregata Gaetano Tortora) ed il Sauro
(capitano di corvetta Enrico Moretti degli Adimari) escono da Massaua per
eseguire una ricerca notturna di un convoglio britannico.
Secondo una fonte si
sarebbe trattato del convoglio britannico BN. 13, partito da Aden il 17 gennaio
e diretto a Suez (dove arriverà lo stesso 24 gennaio), è composto da 24
mercantili britannici (Akbar, Araybank, Birchbank, British Science,
British Sovereign, City of Norwich, Clan Skene, Cortona, Daisy Moller, Daronia, Diomed, Goldmouth, Hopecrown, Jalakrishna, Katie Moller, Khosrou, Ozarda, Protector, Stagpool, Tamaha, Taumate, Tuna, Turbo e Vacport), otto norvegesi
(Ada, Alcides, Anna Odland, Brattdal, Ima, Katy, Lynghaugh e Temeraire),
quattro greci (Kyriaki, Nicolaos G. Kulukundis, Spyros e Mount Olympus), tre
olandesi (Arundo, Macuba e Sitoebondo), uno francese (Cap
St. Jacques), uno egiziano (Star of
Mex) ed uno panamense (El Segundo),
scortati in momenti diversi dall’incrociatore leggero Caledon, dal cacciatorpediniere Kimberley
e dagli sloops Clive, Cricket, Shoreham, Indus, Flamingo e Parramatta.
25 gennaio 1941
Pantera, Tigre e Sauro rientrano a Massaua in mattinata,
senza aver avvistato niente.
2 febbraio 1941
Pantera, Tigre e Sauro salpano in serata da Massaua per
una ricerca notturna a rastrello del convoglio britannico «BN 14», partito da
Aden il 1° febbraio e diretto verso nord (secondo altra fonte sarebbe partito
da Suez il 2 febbraio e diretto verso sud, ma ciò sembra avere origine da una
certa confusione con il contemporaneo convoglio «BS 14»), che dovranno eseguire
separatamente.
Il convoglio è
composto da 39 navi mercantili (le britanniche Akbar, Alavi, Anglo Canadian, City of Cardiff, City of
Leicester, Comliebank, Cranfield, Esperance, Goalpara, Havre, Jaladuta, Jalavihar, Jalayamuna, Nils Moller, Nurmahal, Observer, Queen Adelaide, Rosalie
Moller ed Uniwaleco, le greche Axios, Elpis, Julia, Konistra, Mina L. Cambanis, Nymphe, Petalli, Saronikos, Themoni e Zannis L. Cambanis, le norvegesi Arena, Fagersten, Kronviken, Norse Lady, Solheim e Woolgar, le panamensi Atlas e Captain A. F. Lucas, l’olandese Alcyone)
scortate dall’incrociatore leggero Caledon,
dal cacciatorpediniere Kingston e
dagli sloops Shoreham ed Indus, quest’ultimo indiano (per altra
fonte, gli sloops sarebbero stati l’Indus
ed il Flamingo, ma ciò sembra di
nuovo frutto di una confusione con il convoglio «BS 14»; secondo Vince O’Hara,
gli sloops sarebbero stati cinque).
Come al solito, il
convoglio è stato avvistato dapprima dalla stazione di vedetta di Raheita e
successivamente anche da aerei da ricognizione, che ne hanno stimato la
composizione in 31 navi mercantili, scortate da due incrociatori e quattro
cacciatorpediniere.
Lasciata Massaua, i
tre cacciatorpediniere imboccano il Canale Nord e ne escono alle 22, per poi mettere
la prua verso sud.
3 febbraio 1941
Durante la notte, per
la prima volta dall’azione del 20-21 ottobre 1940, il convoglio viene
effettivamente intercettato dai cacciatorpediniere, a dispetto della notte
illune: primo ad avvistarlo è il Sauro,
che lancia il segnale di scoperta e va all’attacco silurante, senza successo.
Il segnale lanciato
dal Sauro non viene captato né sul Pantera né sul Tigre, ma una decina di minuti dopo l’attacco del Sauro anche il Pantera avvista il convoglio per conto proprio, e va all’attacco a
sua volta, lanciando tre siluri, anch’esso senza successo (sebbene a bordo si
siano sentite delle esplosioni, che portano a ritenere di aver probabilmente
colpito due mercantili). Risulterebbe anzi che le navi britanniche non si siano
neanche accorte dell’attacco, come anche di quello precedente del Sauro. Il Tigre, invece, non avvista il convoglio.
Successivamente il Sauro, durante la navigazione di ritorno
verso il Canale Sud di Massaua, avvista due volte quella che ritiene essere una
sezione di cacciatorpediniere britannici (si tratta in realtà del solo Kingston); avendo esaurito i siluri,
cerca di allontanarsi alla massima velocità, e temendo che i britannici possano
aspettarlo all’alba presso l’isola di Shumma – come accaduto mesi prima al Nullo presso Harmil – informa Pantera e Tigre della propria situazione, e chiede l’intervento
dell’Aeronautica da Massaua all’alba. Pantera
e Tigre, ricevuto il messaggio, si
dirigono a tutta forza verso la posizione del Sauro per ricongiungersi a quest’ultimo, finché non è il Sauro stesso a rassicurarli riferendo di
essere giunto sotto la protezione delle batterie del Canale Sud di Massaua.
Tutte e tre le unità giungeranno indenni a Massaua. Ennio Giunchi descrive
così, nelle sue memorie di guerra, l’azione del 2-3 febbraio: «La stazione di vedetta di Raheita, presso
Perim, ha segnalato l’ingresso nel Mar Rosso del solito grande convoglio: una
trentina di piroscafi scortati da due incrociatori e quattro
cacciatorpediniere. Il pomeriggio del 2 febbraio usciamo, Pantera, Tigre e Sauro,
in modo da sbucare al tramonto dal canale di nord-est, presso l’isola di
Harmil. Alle 22 mettiamo in rotta per la ricerca notturna a rastrello. Verso
mezzanotte il Pantera naviga con la Croce del Sud un poco a dritta della prora.
La falce della luna è bassa, quasi coricata orizzontalmente. “Luna seduta
marinaro all’erta”, dicono i veneti navigatori, ma questa volta non è il
probabile mutar del tempo che ci preoccupa. La luna pende alle nostre spalle,
nella posizione più favorevole all’avvistamento da parte del nemico, ma fra
poco tramonterà. Occhi ben aperti: di notte, sul mare, chi prima offende vince:
tutta la vita è negli occhi. Il mare è calmo, scie fosforescenti si avventano
sullo scafo: sono pesci innocenti, paiono siluri. L’acqua spartita dalla prora
ricade scavando in mare crateri di luce azzurra. Vediamo noi per primi. Baldini
indica qualche cosa a sinistra della prora: “Là, comandante, il convoglio”. Una
macchia vaga, più scura della notte. Poi nei binocoli un’ombra si precisa, un
piroscafo lungo, basso, carico: e ombre, ombre, tutto il convoglio. Ogni
istante è prezioso (…) La nave
ubbidisce sollecita, silenziosa, ai brevi comandi; Di Sambuy s’è accovacciato
al quadro dei pulsanti che comandano i lanciasiluri: “Fuori!”, i siluri
partono, con rosse vampe sbuffanti. Un attimo dopo due identiche fiammate
lampeggiano al nostro traverso a sinistra; è la risposta di una silurante di
scorta. Accostiamo con tutta la barra; non vediamo le scie dei siluri nemici.
Poco dopo due detonazioni sorde, lontane, ci annunciano che le nostre armi
hanno raggiunto il segno [in realtà, come detto, fu un’impressione errata].
Il Pantera corre guardingo, soddisfatto. Frattanto
dalle intercettazioni radio apprendiamo che anche il Sauro ha avvistato e
attaccato il convoglio, ha lanciato sei siluri e contato cinque esplosioni. Due
cacciatorpediniere di scorta ci inseguono invano. All’alba siamo nei pressi
dell’isola di El Shuma, all’imbocco del canale Sud. (…) A giorno fatto entriamo in porto, salutati
alla voce dagli equipaggi delle navi alla banchina».
L’attività dei
cacciatorpediniere di Massaua, a causa della crescente penuria di carburante e
pezzi di ricambio, declina sempre più. Dopo questa missione, scrive Ennio
Giunchi, “la nostra guerra si ridusse a
subire i bombardamenti e a preparare le navi per l’ultima missione, quella
senza ritorno”.
13 febbraio 1941
Quattordici
aerosiluranti britannici Fairey Albacore, decollati dalla portaerei Formidable, attaccano il porto di
Massaua, lanciando bombe e siluri contro il naviglio all’ancora in rada ed i
cacciatorpediniere ormeggiati nel porto principale. Soltanto una nave, il
piroscafo Moncalieri, viene colpita
da alcune bombe, senza tuttavia affondare; le difese contraeree della base
abbattono uno degli Albacore e ne danneggiano un altro, che sarà costretto ad
ammarare a venti miglia da Massaua.
21 febbraio 1941
La Formidable lancia un nuovo attacco aereo
contro Massaua, portato stavolta da otto Albacore decollati alle 4.20. Due
degli Albacore attaccano i cacciatorpediniere all’ormeggio nel porto
meridionale, altri quattro i cacciatorpediniere ormeggiati nel porto
principale, mentre uno sgancia le sue bombe contro un sommergibile ormeggiato
nel porto settentrionale. Contrariamente all’apprezzamento dei piloti
britannici, nessuna nave italiana subisce danni. Neanche tra gli Albacore ci
sono perdite; tutti appontano sulla Formidable
tre ore dopo il decollo.
1° marzo 1941
Nuovo attacco aereo
da parte di cinque Albacore della Formidable,
che sganciano poco dopo il tramonto contro un bacino galleggiante nel porto
settentrionale. Nessun danno.
Un’immagine del Pantera al traverso (g.c. Dante Flore via www.naviearmatori.net) |
Epilogo in Mar Rosso
È questo il titolo di
un libro di memorie scritto dall’allora tenente di vascello Ennio Giunchi, che
prestò servizio sul Pantera come
comandante in seconda dal gennaio 1941 alla sua perdita due mesi più tardi.
Imbarcato, all’inizio
del conflitto, sul cacciatorpediniere Libeccio,
Giunchi vi aveva prestato servizio per sei mesi, partecipando alla guerra in
Mediterraneo, finché nel dicembre 1940 lo aveva inaspettatamente raggiunto un
telegramma di Maripers (la Direzione del Personale della Marina) che ne
disponeva il trasferimento sulla torpediniera Partenope, nel ruolo di comandante in seconda. Convocato a Roma, al
Ministero della Marina, nel gennaio 1941, Giunchi aveva scoperto che sul
telegramma c’era un errore relativo al nome della nave cui era stato assegnato:
non la Partenope ma, appunto, il Pantera, che avrebbe raggiunto a Massaua
con un volo apposito insieme ad altri ufficiali destinati in Africa Orientale.
Il capitano di vascello Stanislao Esposito, in quel periodo in servizio al
Ministero, nel congedarsi da Giunchi, si era espresso in tono ben poco
incoraggiante sulla situazione in Africa Orientale: "Forse ci rivedremo presto… Se non trovo un capitano di vascello che
voglia andare a comandare il gruppo del Mar Rosso, dovrò venirci io. Ma può
darsi che non ne abbia il tempo… Scommetto che tu a Massaua troverai già gli
inglesi!" (e Giunchi stesso commenta a riguardo: «Oh allora, avrei voluto chiedergli, perché mi ci manda? Ma il fare
precisamente l’opposto di quello che la ragione avrebbe dettato era già la
regola dell’Italia 1941 in guerra; non c’era da farci caso. Andiamo dunque a
Massaua a trovare gli inglesi»).
Le pessimistiche
previsioni del comandante Esposito, del resto, erano tutt’altro che campate per
aria. L’Africa Orientale Italiana, circondata com’era da colonie britanniche e
da mari controllati dalla Royal Navy, non aveva alcuna possibilità di essere
rifornita dall’Italia, e la sua sorte in caso di una guerra prolungata contro
il Commonwealth britannico era segnata. Dopo alcuni iniziali successi
nell’estate del 1940 (conquista della Somalia britannica, avanzata in Kenya e
Sudan), si era passati ad una situazione di stallo mentre i britannici si
preparavano al contrattacco: il principio del 1941 vide l’inizio della
controffensiva del Commonwealth britannico, le cui forze invasero l’Africa
Orientale Italiana attaccando contemporaneamente a sud, in Somalia, ed a nord,
in Eritrea. Le truppe italiane, a corto di tutto ed impossibilitate a ricevere
rifornimenti, dovettero progressivamente arretrare: il crollo in Somalia fu
piuttosto rapido, mentre sulle montagne dell’Eritrea, che meglio si prestavano
alla difesa, si combatté aspramente per mesi.
Verso la fine del
gennaio 1941 la battaglia di Agordat, nell’Eritrea settentrionale, si risolse
sfavorevolmente per le truppe italiane, che dopo giorni di duri combattimenti
dovettero ripiegare verso Cheren. Fu a questo punto che si iniziò a tenere
seriamente in conto l’eventualità che Massaua potesse essere attaccata nel
prossimo futuro.
Già da tempo il
contrammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in A.O.I.
(Marisupao, che proprio a Massaua aveva il suo quartier generale), stava
studiando le misure da adottare per rinforzare le difese di Massaua nel caso di
un’offensiva nemica, nonché la sorte che avrebbero dovuto seguire le navi ivi
presenti quando la base fosse caduta. I suoi proposito a riguardo, Bonetti li
espresse per la prima volta in una lettera a Supermarina del 14 gennaio 1941;
dopo aver fatto presente che le difese di Massaua erano adatte a contrastare
azioni aeronavali nemiche, ma non certo un attacco di terra in grande stile,
l’ammiraglio esponeva i provvedimenti intrapresi per sopperire il più possibile
a tale carenza e poi le sue proposte relative al destino del naviglio
mercantile e militare. Queste prevedevano, tra l’altro, che i sommergibili
tentassero di raggiungere il Giappone (quelli oceanici) o l’Iran (il Perla, di piccola crociera), e che il
naviglio mercantile ed ausiliario venisse autoaffondato in modo tale da
sottrarlo alla cattura ed al contempo ostruire con i relitti il porto di
Massaua e renderlo inutilizzabile. Per il Pantera
e gli altri cacciatorpediniere, il piano di Bonetti prevedeva la seguente
sorte: «Uscire da Massaua passando tra le
isole di Vusta e Tanan; dirigere su Porto Sudan, eseguire azioni offensive
contro le sistemazioni fisse di tale porto, piroscafi, navi alla fonda;
dirigere successivamente su Gedda o altro punto della costa saudiana o yemenita
al limite delle acque territoriali ed affondare, previa inutilizzazione, le
unità; gli equipaggi riparare in territorio neutrale». Non esisteva, del
resto, alcuna alternativa: i cacciatorpediniere non avevano autonomia
sufficiente per raggiungere un porto benevolmente neutrale, meno che mai amico,
dunque alla caduta dell’Eritrea sarebbero stati perduti in ogni caso.
Attaccando Port Sudan, avrebbero almeno avuto la possibilità di arrecare al
nemico quanto più danno possibile prima di autoaffondarsi: così ragionò
l’ammiraglio Bonetti, e la sua decisione venne approvata sia da Supermarina che
dal vicerè d’Etiopia, Amedeo di Savoia-Aosta, comandante in capo delle forze
armate italiane in Africa Orientale.
All’azione finale
contro Port Sudan avrebbero dovuto partecipare, secondo l’intendimento
originario dell’ammiraglio, anche la vecchia torpediniera Vincenzo Giordano Orsini, la nave coloniale Eritrea e gli incrociatori
ausiliari RAMB I e RAMB II, che sarebbero dovuti salpare da
Massaua «possibilmente prima dei
cacciatorpediniere oppure insieme» e che al termine dell’azione contro Port
Sudan, se possibile, si sarebbero dovuti autoaffondare all’imboccatura di quel
porto per ostruire il passaggio. Questa parte del piano, tuttavia, venne
successivamente modificata; l’Eritrea
e le due RAMB, dotate di autonomia sufficiente per una traversata oceanica,
vennero destinate alla partenza per il Giappone, mentre per l’Orsini si decise che sarebbe rimasta a
Massaua per concorrere alla difesa della piazzaforte, per poi autoaffondarvisi.
L’efficienza dei
cacciatorpediniere della III e V Squadriglia era andata migliorando nel corso
del febbraio 1941, grazie anche alla sempre minore attività cui erano ormai
relegati a causa dalle sempre più esigue riserve di carburante: risultò così
possibile concedere agli sfiniti equipaggi il riposo e le cure di cui
necessitavano per ritemprare le proprie energie, mentre dall’Italia venivano
fatti affluire per via aerea nuovi ufficiali per completare gli stati maggiori.
Tra gli ufficiali
arrivati dall’Italia per via aerea era anche Ennio Giunchi, il cui aereo – un
Savoia Marchetti S.M. 79 “regolarmente
sprovvisto di armi e di paracadute” – era decollato dall’aeroporto romano
del Littorio il 19 gennaio 1941, alle nove del mattino. I passeggeri erano una
decina, perlopiù ufficiali: tra di essi il capitano di fregata Araldo Fadin,
diretto anch’egli a Massaua per assumere il comando della III Squadriglia
Cacciatorpediniere, ed un allegro pilota da caccia della Regia Aeronautica, che
rassicurò i suoi compagni di viaggio annunciando di avere la sua mitragliatrice
personale in valigia per il caso che fossero stati attaccati durante il volo.
Poco ci mancò che l’arma non dovesse essere usata sul serio: durante il volo
sul Mar Ionio, lo “Sparviero” s’imbatté in un bimotore britannico che volava
tra le nuvole a quota un po’ più bassa, e che il pilota da caccia identificò
come un Bristol Blenheim; il focoso aviatore estrasse la mitragliatrice dalla
valigia ed invitò i compagni di viaggio a rompere un finestrino quando fossero
giunti a distanza di tiro, ma per fortuna il Blenheim non si avvide della
presenza dell’aereo italiano, che sarebbe stato facile preda in quelle
circostanze. Lo “Sparviero” atterrò a Bengasi in serata, si rifornì di
carburante e ripartì dopo mezz’ora alla volta dell’Eritrea, atterrando
all’Asmara poco dopo l’alba del 20 gennaio, pochi minuti dopo la fine di
un’incursione britannica su quell’aeroporto. L’accoglienza non fu delle più
incoraggianti: "Il campo era
deserto, solo dopo qualche minuto sbucarono di non so dove alcuni uomini che
correvano guardando attorno e in alto, come chi cerchi di sbrigare presto una
faccenda in cui è bene non farsi sorprendere (…) “In fretta, ragazzi!” “Avete avuto fortuna – ci spiegò uno – pochi
minuti fa vi sareste trovati in pieno bombardamento” (…) I duri sobbalzi con cui ci aveva accolto la
terra erano stati causati da buche scavate da bombe inglesi allora allora. “In
quella buca – ce n’indicarono una – ne sono morti quattro” (…) Ma, ci dissero, in quella bella città
[l’Asmara] c’erano più spie che
cittadini. (…) Lo stato d’animo che
dominava nella colonia era press’a poco quello che dovevamo conoscere due anni
più tardi in Italia, quello di tutti i tempi e tutti i Paesi quando si sente
vicina la sconfitta. Ansia, timore, speranza agitavano gli animi (…) secondo le opinioni politiche e il genere
degli affari. Frattanto bisognava scampare alle bombe, che piovevano sempre più
fitte e perentorie dal cielo azzurro e che, indelicate, ammazzavano i traditori
non meno che i buoni cittadini". Uscendo dall’albergo in cui era
alloggiato per la notte, Giunchi si sentì chiamare da un’automobile, fermatasi
accanto a lui, e ne vide scendere il capitano di corvetta Mario Pouchain e l’ammiraglio
Bonetti, cui fu presentato dallo stesso Pouchain. I due ufficiali lo guardarono
“un po’ divertiti e, ora lo comprendevo,
un po’ compassionevoli: come chi s’è già rassegnato ad un destino inevitabile
ma generosamente non comprende perché altri, senza necessità, debbano compiere
lo stesso sacrificio”.
Dopo una notte di
riposo all’Asmara, il mattino del 21 gennaio Giunchi ed i compagni lasciarono
la capitale eritrea e raggiunsero Massaua in treno. Scrive Giunchi: "Quando, dopo una curva della ferrovia, ci
apparve improvviso il mare, cercai ansiosamente le navi. Vidi subito il Pantera.
Non lo conoscevo, ma il nuovo “secondo” non poteva ingannarsi sull’identità
della sua nave (…) Ma era scritto che
io non avrei fatto il mio periodo di “secondo” alla maniera tradizionale.
Quella nave che vedevo per la prima volta e che pareva così sicura e tranquilla
con la sua sagoma grigia armoniosa sul bianco disordine di Massaua, aveva i
giorni contati. Invece di curare amorevolmente i dettagli della sua toeletta, avrei
dovuto prepararla ad affondare nel migliore dei modi". Giunto in città
e raggiunta l’officina siluri di Abd el Kader, Giunchi s’imbatté nel tenente
CREM Borgognoni, in precedenza imbarcato sul Libeccio, alle sue dipendenze,
come capo silurista: echeggiando i precedenti scambi con Esposito, Bonetti e
Pouchain, questi non poté trattenersi dall’esclamargli, prima ancora di
salutarlo, “Ma che cosa è venuto a fare
quaggiù? Siamo già tanti, messi a perdere in Africa; perché mandarne degli
altri?”.
Lo stato maggiore
“finale” del cacciatorpediniere comprendeva il capitano di vascello Andrea
Gasparini, comandante; il tenente di vascello Ennio Giunchi, comandante in
seconda; il capitano del Genio Navale Oreste Pasino, direttore di macchina; il sottotenente
di vascello Aldo Baldini, ufficiale di rotta; il tenente di vascello Sergio Sabatini,
direttore del tiro; il tenente commissario Alfonso Castellano, commissario di
bordo; il sottotenente di vascello Ernesto Balbo Bertone Di Sambuy; il tenente
di vascello Mario Magnolfi; il sottotenente di vascello Stupari; i sottotenenti
del Genio Navale Antonio Ferrandino e Vittorio Montaretto Marullo, sottordini
di macchina.
Con gli equipaggi
nuovamente al completo – per la prima volta, dopo mesi durante i quali
l’elevato numero di ufficiali e marinai debilitati dal caldo e dalle malattie
tropicali aveva spesso costretto a far uscire soltanto alcune navi, trasferendo
su di esse gli uomini abili di quelle che restavano in porto per completare
equipaggi altrimenti insufficienti – i sei cacciatorpediniere rimasti furono
nuovamente in grado di uscire in mare tutti insieme; inoltre, sempre per via
aerea giunsero dall’Italia i pezzi di ricambio ed i materiali necessari a
rimettere le unità in efficienza (almeno per quanto possibile con i mezzi
disponibili in Eritrea), come le piastrine per polverizzatori dei
cacciatorpediniere della V Squadriglia, che resero finalmente possibile un
miglioramento della combustione nelle caldaie, eliminando il problema
dell’emissione di fumo e scintille a velocità superiori ai 22 nodi. «Purtroppo», osserva la storia ufficiale
dell’USMM, «tale miglioramento servì
soltanto alla preparazione di una missione che aveva tutti i caratteri di un
gesto disperato e che si sarebbe conclusa con la fine delle unità. Alla
preparazione di tale missione peraltro comandanti, ufficiali ed equipaggi
attendevano con serenità ed entusiasmo».
Ennio Giunchi (Cesena, 1911-2004), ultimo comandante in seconda del Pantera ed autore del libro di memorie “Epilogo in Mar Rosso”, qui in una foto del 1938 (da www.levitedeicesenati.it). Iscrittosi all’Accademia Navale nel 1927, nel periodo 1939-1940 prestò servizio per 21 mesi a bordo del cacciatorpediniere Libeccio, prima di essere trasferito in Mar Rosso come comandante in seconda del Pantera a inizio 1941, seguendone la sorte nell’affondamento e nel successivo internamento. Rimpatriato dall’Arabia e promosso capitano di corvetta, ebbe il comando della torpediniera Generale Carlo Montanari, autoaffondatasi in seguito all’armistizio di Cassibile; nel dopoguerra lasciò la Marina col grado di capitano di fregata e si dedicò alla professione notarile. Scrisse vari libri, di argomento navale e non solo, e fu fondatore di una rivista per ragazzi, “Orizzonti del mondo”. |
In attesa
dell’inevitabile, a bordo dei cacciatorpediniere condannati la vita continuava
come sempre. Le ridotte scorte di carburante, munizioni e siluri precludevano
ormai ulteriori attacchi contro i convogli, restando soltanto lo stretto
necessario per la prevista missione finale; nella forzata inattività, gli
equipaggi ammazzavano il tempo come potevano. Si trovava anche di che divertirsi,
tra un attacco aereo e l’altro: Ennio Giunchi racconta nel suo “Epilogo in Mar
Rosso” degli scherzi goliardici organizzati tra gli ufficiali del Pantera, soprattutto ai danni del
tenente commissario Castellano (come quello in cui una capra venne rinchiusa
nella cabina del malcapitato, affinché gli si avventasse addosso al momento
dell’apertura della porta); o degli esperimenti ipnotici dell’ufficiale di
rotta Baldini, aventi come cavie il direttore di macchina Pasino ed il
direttore del tiro Sabatini. “Del resto,
che fare per ammazzare il tempo e dimenticare la lunga agonia imposta
dall’assurdità di ogni speranza?”
In febbraio venne
disposta l’evacuazione della popolazione civile di Massaua, che divenne così
una città morta, abitata quasi esclusivamente dai militari: “solo lo spettacolo di vie silenziose, case
serrate, rovine di bombe”. I civili se ne andarono nelle città
dell’altopiano, Asmara, Ghinda, Embatkalla; i pochi esercizi commerciali, come
il CIAO ed il Caffè Torino, avevano chiuso già dopo i primi bombardamenti («…Mariuccia la cassiera, Italia Morena la
“celebre cantante italo-napoletana” e una povera ragazza ungherese che si
contorceva in esercizi acrobatici nell’afa che faceva sudare anche a star
fermi, se n’erano salite all’Asmara…»), con l’eccezione del bordello, la
“casa verde” («…le abitanti della “casa
verde” furono le sole donne che in ogni occasione si prodigassero, anche nel
pericolo, per soccorrere le vittime dei bombardamenti; e dovevano di lì a poco,
dalla banchina, porgere l’ultimo saluto bagnato di lacrime sincere alle navi
che partivano senza ritorno. Dopo, diversamente da tante donne “oneste”,
rifiutarono per molto tempo di allietare gli occupanti, e rimasero accanto ai
prigionieri nella calura del Bassopiano…»). Ufficiali e marinai, mancando
le distrazioni a terra, passavano la maggior parte del tempo a bordo delle
navi; tutt’al più si scendeva a terra per fare visita alla “casa verde” o per
recarsi al Comando Marina per chiacchierare del più e del meno, o per avere
notizie fresche su come andava la guerra, o su questioni più frivole. Di sera,
in quadrato, gli ufficiali giocavano a “Filippa”.
Occupazione meno
allegra, ma necessaria in vista della prossima perdita delle unità, erano le
esercitazioni di abbandono nave, ripetute con assiduità; i nocchieri si
dedicavano alla manutenzione delle imbarcazioni, alla realizzazione di zattere,
nonché a rivestire in tela dei fiaschi che sarebbero serviti per preservare
l’acqua necessaria a raggiungere la città più vicina, marciando attraverso il
deserto dell’Arabia, dopo l’autoaffondamento. Il sottotenente di vascello
Stupari, ufficiale di complemento che aveva conoscenze tra gli equipaggi delle
navi mercantili, riuscì ad incrementare il numero delle zattere in dotazione al
Pantera prelevandole da quei
bastimenti, che ormai – essendo destinati all’autoaffondamento in porto – non
ne avrebbero più avuto bisogno.
Quella vita monotona
era ritmata dalle incursioni aeree, più d’una ogni giorno: gli equipaggi della
RAF si mostravano piuttosto abitudinari, attaccando quasi sempre alle stesse
ore, provenendo sempre dalle stesse direzioni. Il personale non di turno a
bordo andava a rifugiarsi in alcune gallerie scavate dagli equipaggi stessi nel
terreno della "Società Coloniale Italiana fondata nel 1889". Nei
momenti in cui non cadevano bombe, gli uomini s’intrattenevano fuori dal
rifugio, leggendo, giocando a carte, lanciando frutti di palma dum contro una
bottiglia usata a mo’ di bersaglio.
L’avvicinarsi della
fine si poteva percepire attraverso il rito quotidiano del segnale orario,
quando tutti sia assiepavano attorno alla radio, a sera, per ascoltare gli
aggiornamenti sull’andamento delle operazioni a terra: con Cheren prossima alla
caduta, era evidente che Asmara e Massaua sarebbero stati gli obiettivi
successivi. “I bollettini riservati del
generale Frusci parlavano ormai “del” carro armato, uno e solo: colpito e
raccomodato alla bell’e meglio, ogni tanto tornava in linea. Quanto ai nostri
aeroplani erano ormai poco più che un ricordo. Quanto tempo ancora…? Così ci si
avvicinava alla fine; dopo la trasmissione radio interrogavamo in silenzio la
carta del Mar Rosso appesa in quadrato. Un color rosa distingueva il Regno
Arabo saudiano: (…) nessuno di noi
conosceva l’Arabia altro che per quella carta, o per vaghe reminescenze
scolastiche o romanzesche; ma negli ultimi tempi accadeva spesso di ragionarne.
Interrogavamo la carta muta, quasi ad antivedere un futuro pieno di incognite
paurose, celate chi sa dove in quel breve tratto di pallido azzurro che figurava
il Mar Rosso: e sempre si finiva a parlar vagamente di naufragio, d’Arabia, di
deserto, di Gidda [Gedda]”. Quando le navi destinate alla salvezza
iniziarono a salpare per la
Francia e l’Estremo Oriente – l’Eritrea il 18 febbraio, la RAMB
I il 20 febbraio, la RAMB II il
22, l’Himalaya ed il Perla il 1° marzo, Archimede e Ferraris il 3
marzo, Guglielmotti il 4 – non è
difficile immaginare che gli equipaggi dei cacciatorpediniere le guardassero
con invidia: le loro navi, invece, “avrebbero
potuto scampar la cattura solo col suicidio”.
Nel marzo 1941 entrò
in scena un nuovo, inatteso attore: la Germania. Di truppe tedesche, in Africa
Orientale, non ce n’erano (salvo che per un piccolo reparto di circa 150
uomini, la "Compagnia Autocarrata Tedesca", formata da volontari
reclutati tra i cittadini tedeschi sorpresi dalla guerra in Africa Orientale e
tra gli equipaggi dei mercantili tedeschi bloccati a Massaua); però in quel
periodo la Luftwaffe aveva condotto voli di ricognizione sul porto di Suez,
sulla costa egiziana del Mar Rosso (all’imbocco meridionale dell’omonimo
canale), scattando numerose fotografie e rilevando la presenza di numeroso
naviglio mercantile britannico in quel porto. Servendosi come tramite della
Kriegsmarine, l’aeronautica tedesca fece pervenire ai comandi italiani di
Massaua una singolare proposta di azione combinata: un attacco aeronavale
contro Suez, che avrebbe visto la partecipazione di cacciatorpediniere italiani
– la componente navale – provenienti da sud, da Massaua, e di almeno una
squadriglia di bombardieri tedeschi Heinkel He 111 – la componente aerea –
provenienti da nord, dagli aeroporti di Rodi, dove appunto da qualche mese
erano stati dislocati reparti della Luftwaffe. A corredo della proposta, la
Kriegsmarine fornì alla Regia Marina abbondante e dettagliata documentazione
fotografica del porto di Suez e della concentrazione di navi mercantili ivi
riscontrata: a metà mese, ricognitori tedeschi avevano fotografato una trentina
di navi britanniche radunate nel Golfo di Suez, in attesa di poter attraversare
il Canale.
L’impresa si
presentava tutt’altro che facile: la distanza tra Massaua e Suez era di 960
miglia, e ciò escludeva a priori la partecipazione dei cacciatorpediniere
classe Sauro, la cui autonomia massima era di 586 miglia a 20 nodi, e di 700 a
16 nodi. I “Leone”, viceversa, avrebbero avuto qualche possibilità: se
procedendo a 20 nodi, e mantenendo una riserva di carburante sufficiente per 6
ore a tutta forza, la loro autonomia sarebbe risultata insufficiente (tra le
690 e le 750 miglia), tenendo una velocità economica di 16 nodi i grossi
cacciatorpediniere della V Squadriglia avrebbero potuto allungare la propria
autonomia a 1100 miglia, sufficiente dunque a raggiungere Suez. Ciò di cui si
poteva dubitare era che le navi potessero coprire quella distanza, che avrebbe
richiesto una cinquantina di ore di navigazione in acque controllate dal nemico,
senza essere scoperte dalla ricognizione aerea britannica. Un altro problema
era che le autonomie sopra descritte erano valide in condizioni di piena
efficienza, ben diverse dallo stato in cui versavano i logorati
cacciatorpediniere del Mar Rosso, e che in alcuni tratti della navigazione
sarebbe stato giocoforza tenere comunque accese tutte le caldaie. Nondimeno,
Supermarina decise di accogliere la proposta tedesca, modificando il piano
originario: la sola III Squadriglia Cacciatorpediniere, dotata di minore
autonomia, avrebbe attaccato Port Sudan, mentre la V Squadriglia avrebbe
compiuto una sortita contro Suez prima di autoaffondarsi. I due attacchi
sarebbero stati lanciati simultaneamente; i cacciatorpediniere avrebbero dovuto
cannoneggiare le strutture portuali ed i depositi di carburante ed attaccare
qualsiasi nave avessero incontrato.
Con le riserve di
carburante in Eritrea ormai agli sgoccioli, la nave cisterna Niobe trasportò da Assab a Massaua la
nafta necessaria a permettere ai sei cacciatorpediniere di compiere la loro
ultima missione. Era l’ultima rimasta.
Il 29 marzo 1941 il
Comando della V Squadriglia Cacciatorpediniere ricevette gli ordini per la
prevista missione contro Suez: salpare da Massaua dopo il tramonto del giorno
X; dirigere a tutta velocità, durante la notte, verso la costa dell’Hegiaz
(Arabia Saudita), in modo da sottrarsi all’avvistamento da parte della ricognizione
aerea britannica; navigare verso nord lungo la costa dell’Hegiaz nei giorni X+1
e X+2; indi imboccare lo stretto di Jubal e regolare la velocità in modo tale
da trovarsi davanti a Suez alle prime luci del giorno X+3.
L’attacco contro Suez
avrebbe dovuto essere portato a fondo con impiego sia dei cannoni che dei
siluri, contro il naviglio all’ancora, i depositi di nafta e la locale
raffineria; dopo di che, Pantera, Leone e Tigre avrebbero dovuto tentare di uscire dal Golfo di Suez per
andare ad autoaffondarsi vicino alla costa dell’Hegiaz. Al comandante Gasparini
fu lasciata facoltà di modificare gli ordini in base all’andamento della
navigazione; se avvistato da aerei nemici, Gasparini era autorizzato a
rinunciare all’attacco contro Suez ed a puntare invece su Port Sudan, da
attaccare insieme alla III Squadriglia, oppure contro i pozzi petroliferi di
Hurgada (Egitto).
Ma l’indomani, 30
marzo, quando tutto era pronto per la missione, proprio chi per primo aveva
proposto di attaccare Suez si tirò improvvisamente indietro: la Kriegsmarine
fece infatti sapere che per “impreviste nuove esigenze” la Luftwaffe non
avrebbe più potuto eseguire il bombardamento di Suez, mentre avrebbe egualmente
assicurato il previsto servizio di ricognizione aerea. Cionondimeno i Comandi
italiani, che sulle prime erano stati piuttosto scettici sull’opportunità di
questa operazione, avevano ormai preso la loro decisione: a Suez si trovavano
in quel momento ben 34 mercantili, compresi due di elevato tonnellaggio, e si
ritenne che un successo avrebbe potuto influire favorevolmente anche
sull’offensiva lanciata in Nordafrica dalle forze italo-tedesche (operazione
"Sonnemblume" per la riconquista della Cirenaica). Pertanto, si
decise che la V Squadriglia Cacciatorpediniere avrebbe attaccato Suez come
previsto, anche senza il concorso della Luftwaffe. Avrebbe partecipato
all’operazione, con compiti però di sola ricognizione, anche la Regia
Aeronautica, come richiesto da Supermarina a Superaereo.
La scelta della data
fu affidata all’ammiraglio Bonetti; la sera del 31 marzo Supermarina, forse
memore del gesto del comandante del Nullo
Costantino Borsini, affondato volontariamente con la propria nave – che aveva
voluto affondare con la sua nave nelle acque di Harmil –, inviò quest’ultimo messaggio:
«Ricordate a tutti i comandanti che
nell’assicurare a missione compiuta la distruzione della nave è fatto loro
sacro obbligo provvedere non solo salvezza equipaggi ma anche quella di loro
stessi».
Ancora da Ennio
Giunchi è possibile ricavare una vivida impressione della concitazione degli
ultimi giorni e dell’atmosfera che regnava a bordo del Pantera: “mancavano notizie
certe sull’avanzata inglese, si parlava di autocolonne poco a nord di Massaua;
nell’epoca dell’aviazione e della radio dovevamo contare solo su voci raccolte
e diffuse dagli indigeni. L’idea di sbarcare i pezzi di bordo e mandarli, con
gli armamenti di marinai, sul fronte terrestre era stata superata dal crollo di
Cheren e dal precipitare degli eventi (…) Dopo tanto tempo per rifletterci su, all’ultimo momento ci sembrava di
essere impreparati; si aveva ragione di temere che l’organizzatissimo
spionaggio ci mandasse a monte la sorpresa, l’unico fattore su cui potessimo
contare. Le ultime ore furono impiegate a dipingere scafo e fumaioli in modo
che a distanza, la rifrazione aiutando, ci si potesse prendere per
cacciatorpediniere inglesi di un tipo che sapevamo frequentare il Mar Rosso.
Infatti le macchie di colore, nei mari caldi dove la rifrazione è forte,
traggono facilmente in inganno anche l’occhio più esperto; ma nel caso nostro
lo stratagemma sapeva più di reminescenza letteraria che di mezzo cui affidarsi
con qualche speranza, poiché la ristrettezza del Mar Rosso e il perfetto
servizio di informazioni nemico non avrebbero permesso agli inglesi di cadere
nell’inganno. Comunque, l’imminenza della prova suprema ci aveva rianimati;
tanto può sugli uomini lo spirito d’avventura, da far loro accettare con
desiderio i rischi più gravi. E non è retorico affermare che, insieme allo spirito
d’avventura, agiva in noi il naturale desiderio di mostrare all’avversario, che
da dieci mesi poteva giocare con noi come il gatto col topo, di cosa fossero
capaci i marinai italiani”.
I comandi britannici
in Medio Oriente, da parte loro, si aspettavano che prima dell’imminente caduta
di Massaua i cacciatorpediniere italiani avrebbero tentato un’ultima sortita
contro i loro porti in Mar Rosso, ed avevano preso appropriate contromisure.
Due squadriglie di aerosiluranti Fairey Swordfish erano state temporaneamente
dislocate nelle basi aeree di Port Sudan (come si vedrà meglio in seguito),
mentre le difese di Port Suez erano state rinforzate con il trasferimento da
Alessandria dei cacciatorpediniere Janus
e Jaguar e della cannoniera Aphis. Altri due cacciatorpediniere, il Griffin ed il Greyhound, furono mandati a pattugliare lo stretto di Jubal,
all’imbocco del Golfo di Suez, insieme alle cannoniere Gnat e Ladybird. (Secondo
altra fonte, i comandi britannici dislocarono a Suez l’incrociatore leggero Caledon ed il cacciatorpediniere Kimberley, ed a Port Sudan
l’incrociatore leggero Capetown ed il
cacciatorpediniere Kingston.
Comunque, tutte queste unità sarebbero state poi richiamate ad Alessandria il 4
aprile, dopo che la minaccia rappresentata dai cacciatorpediniere italiani ebbe
definitivamente cessato di esistere).
Con le truppe del
Commonwealth ormai alle porte di Massaua, l’ammiraglio Bonetti decise di dare
il via all’operazione lo stesso 31 marzo. Dopo aver lasciato passare l’ultima
ricognizione aerea britannica su Massaua (che avrebbe così riferito al proprio
comando che tutte le navi italiane erano in porto: ormai il sorvolo del porto
da parte dei ricognitori britannici era un appuntamento abituale della
giornata), la sera del 31 marzo 1941 Pantera
(capitano di vascello Andrea Gasparini, caposquadriglia), Tigre (capitano di fregata Gaetano Tortora) e Leone (capitano di fregata Uguccione Scroffa) lasciarono il porto
eritreo alla volta di Suez. La III Squadriglia Cacciatorpediniere, il cui
viaggio verso Porto Sudan sarebbe stato molto più breve, sarebbe invece partita
il giorno seguente, in modo che i due attacchi avessero luogo
contemporaneamente.
L’ammiraglio Bonetti
e gli ufficiali del Comando Marina di Massaua, radunati sull’estremità del
molo, assistettero silenziosamente alla partenza; sulle navi, gli equipaggi
erano schierati in riga sui castelli di prua, con in testa i nostromi, che
fischiarono l’attenti. Sulle banchine e sul lungomare non si vedeva nessuno,
avendo la maggior parte dei civili lasciato da tempo la città; “soltanto le abitanti della “casa verde”
agitavano dalle finestre i loro fazzoletti”.
Tra gli ufficiali che
assistettero alla partenza dei cacciatorpediniere per la loro ultima missione
era forse anche il capitano di fregata Paolo Aloisi, che aveva comandato il Pantera prima di Gasparini, dallo
scoppio della guerra al gennaio 1941. Alla caduta dell’Eritrea, Aloisi,
rifiutando la resa, si sarebbe dato alla macchia e, come altri militari
italiani in Africa Orientale, avrebbe dato inizio ad una guerriglia contro le
truppe del Commonwealth, radunando attorno a sé un gruppo di uomini coi quali
compì atti di sabotaggio e di spionaggio ai danni dei britannici. Questa
guerriglia sarebbe cessata soltanto con la proclamazione dell’armistizio di Cassibile,
nel settembre 1943: per essa, Aloisi avrebbe ricevuto una Medaglia d’Argento al
Valor Militare («Dopo la caduta
dell’A.O.I., benché invalido di guerra per infermità contratta in Africa,
organizzava attività clandestina, riunendo attorno a sé coloro che
volontariamente decidevano di contrastare l’attività del vincitore occupante
con azioni di sabotaggio e di contribuire a fornire notizie alle autorità
metropolitane. Nella sua azione manteneva salda la compagine dei gregari ed
affrontava deliberatamente rischi di ogni specie. Dopo l’armistizio rivelava
lealmente all’avversario l’attività svolta ai suoi danni e rinunciava alla
libertà concessagli per seguire in campo di prigionia la sorte dei suoi gregari»).
Almeno un altro
membro dell’equipaggio del Pantera
rimase apparentemente a terra, per cause qui non note: il secondo capo furiere
Livio Puglia, 33 anni, da La Spezia, che sarebbe stato catturato dai britannici
– presumibilmente alla caduta di Massaua – e sarebbe morto in prigionia in
Eritrea l’8 ottobre 1941.
Alle sei di sera i
tre cacciatorpediniere erano già fuori dal porto, ed imboccarono a 18 nodi le
rotte di sicurezza che avrebbero dovuto portarli fuori dall’arcipelago delle
Dahlak attraverso il Canale di Nord-Est. Una volta superata l’isola di Dohul,
avrebbero dovuto assumere rotta verso nord.
Acque pericolose,
quelle, disseminate com’erano di secche, isolotti, scogli affioranti non sempre
segnati sulle carte nautiche, a dispetto delle campagne idrografiche condotte
nei decenni precedenti: Ennio Giunchi commenta in proposito che “l’unica “sicurezza” che offriva quella rotta
era che soltanto la fortuna poteva evitarci di dare in secco”. E le “Belve”
le avrebbero dovute attraversare di notte.
Il pericolo era
accresciuto dallo stato pietoso in cui ormai versavano le strumentazioni per la
navigazione dei cacciatorpediniere italiani (girobussole, bussole magnetiche,
scandagli ultrasonori, solcometri «Spalazzi»). Dei tre cacciatorpediniere della
V Squadriglia, il Pantera era quello
in condizioni peggiori sotto questo aspetto: la girobussola era fuori uso e non
riparabile, la bussola magnetica era stata messa fuori causa da un fulmine
caduto a bordo, e parimenti fuori uso era il solcometro. Il Tigre era messo un po’ meglio, ma dei
tre soltanto il Leone aveva tutti gli
strumenti di navigazione perfettamente funzionanti: di conseguenza,
contrariamente alla consuetudine che poneva in testa alla linea di fila l’unità
caposquadriglia, ad aprire la formazione era il Leone, seguito dal Tigre
e con il Pantera in coda, in ordine
decrescente di funzionamento degli strumenti nautici.
A bordo, intanto,
l’unico argomento di conversazione “consisteva
nel passare in rassegna le varie ipotesi secondo le quali avrebbe potuto
svolgersi l’azione contro Suez, e poi le varie, anzi poche, possibilità che ci
si potevano presentare di sfuggire alla prigionia dopo l’azione; tutti
evitavano di parlare dell’intervallo fra i due momenti, cioè di quel breve
tempo in cui avrebbe fatto molto caldo e in cui molti di noi sarebbero stati sottratti
alla prigionia in modo radicale e violento”. Il comandante Gasparini ordinò
al tenente commissario Castellano di distribuire all’equipaggio tutte le
rimanenze di cambusa: “tanto di lì a poco
non avremmo più dovuto render conto di nulla, e tutta quella roba sarebbe in un
modo o nell’altro finita ai pesci. Il poter scialare coi “generi” del Governo
ignorando razioni, circolari e rendiconti era di grande soddisfazione per tutti
noi e quasi ci pareva adeguato compenso alla brutta faccenda in cui ci stavamo
cacciando”.
Verso le dieci di
sera del 31 marzo i tre cacciatorpediniere si lasciarono al traverso
a dritta le isole di Tanam, Wusta ed Isratu (nell’estremità settentrionale
dell’arcipelago delle Dahlak), e intorno a mezzanotte si lasciarono al traverso
anche l’isolotto di Awali Hutub. A questo punto la zona più pericolosa per la
navigazione era stata superata; la V Squadriglia era entrata in acque più
profonde e meno insidiose, dove poté iniziare ad incrementare gradualmente la
propria velocità, fino a portarla a 24 nodi, così da potersi avvicinare a Suez
con il favore della notte.
La zona più
pericolosa era stata superata, tutto sembrava procedere tranquillamente, ma
alle 00.30 del 1° aprile, all’improvviso, il Leone urtò violentemente uno scoglio madreporico isolato, non
segnato sulle carte, circa tredici miglia a nord di Awali Hutub ed a 45 miglia
da Massaua.
Così Ennio Giunchi
descrive l'incaglio del Leone: "...dalla plancia del Pantera vedemmo
d’un tratto il Leone, che procedeva in testa alla linea di fila,
ingrandire rapidamente: gli correvamo addosso; facemmo appena in tempo ad
accostare e sfilammo lungo il suo bordo di dritta. Ci segnalò che aveva dato in
secco".
Pantera e Tigre, per evitare
di andare addosso al Leone data la
loro elevata velocità, gli passarono di lato, uno sulla dritta e l’altro sulla
sinistra: nonostante fossero passati a ridottissima distanza dal Leone, i loro scandagli ultrasonori
segnalarono concordemente profondità ben maggiori del limite di sicurezza.
Evidentemente la roccia in cui era incappato il Leone, che giungeva fino a pochi metri dalla superficie, doveva
essere una punta isolata in un tratto di acque altrimenti profonde.
Sulle prime, il Leone comunicò di ritenere di potersi
accodare alla formazione per il proseguimento della missione: ma il comandante
Scroffa aveva sottovalutato l’entità dei danni; esami più approfonditi
mostrarono infiltrazioni d’acqua in un deposito nafta e nelle caldaie, la
distorsione dell’asse dell’elica di sinistra ed anche un principio d’incendio
in caldaia. Ancora Ennio Giunchi: "Parve
in un primo momento che l’avaria non fosse grave. Ma alte fiamme si levarono al
centro della nave, dagli osteriggi di macchina e dai fumaioli, lambendo le
teste dei siluri e le riservette delle munizioni. Si decise di abbandonare la
nave".
Dopo aver ricevuto
questo preoccupante aggiornamento, il comandante Gasparini ordinò al Leone di dare fondo sul posto, mentre
con Pantera e Tigre si ancorò nei pressi per prestare assistenza al gemello
danneggiato. Per oltre tre ore l’equipaggio del Leone lottò contro gli incendi e gli allagamenti, ma non ci fu
niente da fare: gli uni e gli altri divennero alla fine incontrollabili, ed a
Gasparini e Scroffa non rimase che dare ordine di abbandonare ed autoaffondare
la nave. Pantera e Tigre inviarono anche le loro
imbarcazioni per accelerare l’evacuazione dell’equipaggio del Leone, che abbandonò la nave in buon
ordine, trasbordando sugli altri due cacciatorpediniere. A dirigere il
traghettamento dei naufraghi tra Leone,
Pantera e Tigre fu il tenente di vascello Mario Magnolfi, che già una volta
aveva dovuto assolvere un simile triste compito: prima di essere trasferito in
Africa Orientale, infatti, era stato comandante in seconda della torpediniera Alcione, e nella tragica notte del 12
ottobre 1940 aveva diretto il trasbordo dell'equipaggio della gemella Airone, mortalmente danneggiata dal tiro
dell'incrociatore leggero britannico Ajax.
Prima di abbandonare
la nave, gli uomini del Leone avevano
aperto tutte le prese a mare per provvedere all’autoaffondamento; ma alle prime
luci dell’alba il cacciatorpediniere sinistrato era ancora a galla, pertanto
Gasparini decise di accelerarne l’affondamento con alcune cannonate sparate dal
Pantera. Colpito dalle salve del
gemello, il Leone sbandò sulla dritta
ed affondò verso le cinque del mattino.
Di nuovo dalle
memorie di Ennio Giunchi: "Due ore
dopo il Leone non era più che un relitto fiammeggiante, il suo
equipaggio era in salvo sulle altre navi; il comandante Scroffa aveva preso
imbarco sul Pantera, portando con sé, del suo bagaglio, solo la sciabola.
Ci recammo pian piano ad ancorarci in luogo più sicuro, in attesa del giorno;
non si poteva proseguire senza prima cancellare le tracce del nostro passaggio,
né si poteva manovrare di notte fra gli scogli per affondare il Leone.
Dopo una notte di veglia spuntò un’alba livida, fasciata di nebbia. Tornammo
indietro scandagliando finché avvistammo il Leone. L’incendio si era
spento, la nave vuota pareva attenderci piena di speranza, attendere i suoi uomini.
Dovevamo finirla a cannonate, e ci sentivamo come chi, sperduto nel deserto
senza risorse, uccide per pietà il compagno incapace di proseguire. Il Pantera aprì
il fuoco, tiro teso, da poco più di mille metri. Con una specie di rabbia sorda
Sabbatini metteva a segno tutti i suoi colpi: vedevamo larghi squarci aprirsi
nei fianchi del Leone che, rotta la catena dell’ancora, cominciò a
derivare e parve d’un tratto volersi difendere. Infatti con stupore, quasi con
sgomento, vedemmo d’un tratto un tracciante di mitragliera partire dalla sua
ala di plancia; il puntino luminoso fischiò sui nostri fumaioli. Forse una
scheggia aveva colpito la leva di sparo dell’arma. Ma quella risposta della
nave ferita ci parve un rimprovero della sua anima, alla quale noi marinai
crediamo. Sospendemmo il tiro e ci allontanammo; d’un tratto il Leone parve
cambiar colore, si capovolse e continuò a galleggiare con la chiglia in alto.
Quando guardai di nuovo non lo vidi più".
L’incidente capitato
al Leone aveva avuto anche un altro
effetto deleterio, quello di far perdere diverse ore a Pantera e Tigre: il
ritardo che avevano accumulato era anzi tale da non rendere più possibile il
raggiungimento del previsto punto a nord di Port Sudan, necessario per non
essere avvistati, con le luci del giorno, da navi od aerei britannici. Non si
poteva neanche escludere che i bagliori dell’incendio del Leone fossero stati notati dai britannici. Il comandante Gasparini
decise perciò di rinunciare all’attacco contro Suez e di tornare a Massaua, con
l’intenzione di ripartirne successivamente insieme alla III Squadriglia per
lanciare tutti insieme un attacco congiunto contro Port Sudan. Attraverso
queste circostanze fortuite, così, si era di fatto tornati al piano
originariamente messo a punto dall’ammiraglio Bonetti nel gennaio precedente.
Giunti a Massaua
nella tarda mattinata del 1° aprile, Pantera
e Tigre vi sbarcarono gli uomini del Leone, che andarono a rinforzare le
difese di terra della piazzaforte che si preparavano a fronteggiare il prevedibile
assalto britannico; il comandante Scroffa, tuttavia, chiese ed ottenne di poter
restare sul Pantera, per poter
partecipare egualmente alla missione finale contro Port Sudan.
Al ritorno in porto,
gli equipaggi dei cacciatorpediniere appresero che l’Asmara era stata occupata
dalle truppe britanniche.
La perdita del Leone ed il rientro a Massaua di Pantera e Tigre non erano passati inosservati: la ricognizione aerea
britannica, infatti, avvistò il relitto del cacciatorpediniere, affondato in
acque poco profonde, ed avvistò anche uno dei due cacciatorpediniere in rotta
di rientro a Massaua.
I comandanti italiani
decisero di partire da Massaua nel primo pomeriggio dell’indomani, in modo da
compiere la maggior parte della navigazione nelle ore notturne – a tale scopo,
durante la notte le navi avrebbero navigato alla massima velocità possibile – e
giungere davanti a Port Sudan poco dopo l’alba, minimizzando la probabilità di
essere avvistati. Qui, avrebbero cannoneggiato le strutture portuali e
qualsiasi nave avessero trovato.
In un Mar Rosso in
cui il predominio aeronavale britannico si faceva sempre più incontrastato, i
cacciatorpediniere non avrebbero goduto di alcuna copertura aerea: le forze
aeree dell’A.O.I. erano ormai ridotte al lumicino, l’ultimo gruppo di aerei
giunti in rinforzo il 20 febbraio era stato attaccato e distrutto dalla RAF
subito dopo essere atterrato.
La sosta a Massaua
non durò che un giorno. All’una del pomeriggio del 2 aprile 1941 Pantera e Tigre lasciarono di nuovo la base eritrea, stavolta per sempre,
alla volta di Port Sudan; un’ora più tardi uscirono in mare con analoga
destinazione anche Sauro (capitano di
corvetta Enrico Moretti degli Adimari), Battisti
(capitano di corvetta Riccardo Papino) e Manin
(capitano di fregata Araldo Fadin, caposquadriglia della III Squadriglia
Cacciatorpediniere). Il comandante Gasparini del Pantera, ufficiale più alto in grado, comandava l’intera
formazione.
Stavolta non ci
sarebbe stato ritorno, con o senza imprevisti: il carburante rimasto era
infatti sufficiente soltanto per il viaggio di andata. Del resto, anche
tornando a Massaua i cacciatorpediniere non avrebbero potuto far altro che
autoaffondarvisi, la caduta di quella piazzaforte era ormai questione di giorni
(Cheren, dopo quasi due mesi di resistenza, era caduta proprio il 1° aprile: la
strada per Massaua, per i britannici, si presentava adesso spianata). Sia in
caso d’insuccesso che di insuccesso, i cacciatorpediniere del Mar Rosso
avrebbero concluso quella missione sul fondo del mare.
Una volta al largo, i
cacciatorpediniere assunsero rotta nordest, verso la costa sudanese. La
sorpresa sfumò poco dopo la partenza: velivoli della Royal Air Force (per altra
fonte, della Fleet Air Arm) decollati da Aden, infatti, avvistarono le navi non
appena queste furono in franchia di Massaua (per altra fonte, a nord del porto
eritreo, due ore dopo la partenza) e le bombardarono, danneggiando lievemente
il Manin. Ma stavolta non si poteva
più tornare indietro.
I cacciatorpediniere
imboccarono il canale di Nord-Est, in modo da giungere al tramonto presso
Harmil, da dove avrebbero poi fatto rotta verso Port Sudan. Scrive Ennio
Giunchi: “Eravamo ormai certi che il
nemico ci avrebbe aspettati al varco, predisponendo le condizioni per lui
migliori. Ma ci sono dei momenti in cui si dice “o la va o la spacca”; ormai
eravamo impazienti di trovarci nei guai promessi dal nuovo giorno, pur di fare
qualche cosa e poi cominciare a veder chiaro nel nostro destino”.
Ci si mise anche il
mare mosso da sudest, che rese difficile governare adeguatamente; anche sulla
base del punto astronomico fatto in serata, a mezzanotte la rotta dovette
essere modificata.
Secondo fonti
britanniche, ad avvistare per primo le navi italiane fu un Bristol Blenheim del
203rd Squadron RAF, decollato da Aden, che alle 16.30 comunicò alla
base di aver avvistato, due ore prima, tre grossi cacciatorpediniere usciti da
Massaua, uno con rotta 0° e due con rotta 90°, aventi tutti una velocità di 20
nodi. L’orario a cui era giunto il messaggio del Blenheim rendeva impossibile
tentare un attacco aereo prima che calasse il buio, pertanto il comandante
degli Swordfish della Eagle trasferiti a Port Sudan, capitano di corvetta
Charles Lindsay Keighly-Peach, decise di attaccare l’indomani mattina,
all’alba. Al fine di individuare i cacciatorpediniere italiani il prima
possibile, Keighly-Peach decise che sei Swordfish avrebbero provveduto a
“rastrellare” il tratto di mare in cui presumibilmente le unità italiane si
trovavano.
Durante la notte il Battisti iniziò a risentire di forti
perdite d’acqua delle caldaie, che ne erosero significativamente l’autonomia:
alle 3.15, di conseguenza, questo cacciatorpediniere fu autorizzato a lasciare
la formazione e fare direttamente rotta verso l’Arabia Saudita, dove si sarebbe
autoaffondato. Il numero degli attaccanti era così sceso a quattro. Pantera, Tigre, Sauro e Manin, suddivisi in due gruppi (ciò che
restava, rispettivamente, della V e della III Squadriglia Cacciatorpediniere), proseguirono
per tutta la notte verso nord, verso Port Sudan, correndo incontro al loro
destino alla massima velocità ottenibile in quelle condizioni.
Secondo la storia
ufficiale della Marina australiana (“Royal Australian Navy, 1939-1942”, Vol. I,
Cap. 6) durante la notte tra il 2 ed il 3 aprile lo sloop australiano Parramatta, in pattugliamento al largo
di Massaua, sarebbe passato a poca distanza dai cacciatorpediniere italiani,
senza che nessuna delle due parti si accorgesse della presenza dell’altra (ma
non si comprende, in tal caso, come sarebbe possibile sapere che questo
“incontro” sia avvenuto).
All’alba del 3 aprile
la nebbia aleggiava sul mare calmo e grigio, ma ciò non impedì alla
ricognizione aerea di avvistare le navi italiane: le prime luci del giorno
mostrarono che i cacciatorpediniere erano pedinati da due ricognitori
britannici, che non li lasciarono, da quel momento in poi, neanche per un
istante. Volando a bassa quota, gli aerei britannici si tenevano al di fuori
del raggio delle artiglierie contraeree delle unità italiane. Secondo Ennio Giunchi,
queste avevano alzato al picco “la
bandiera della flotta di sua maestà britannica, ma non nutrivamo nessuna
fiducia in quello stratagemma (…) e
neppure nelle pennellate che avrebbero dovuto camuffarci da caccia inglesi.
Sicchè alzammo senz’altro la nostra bandiera e cominciammo a sparare al
ricognitore”, proseguendo lungo la rotta di atterraggio e “puntando ansiosamente i binocoli là dove
avrebbe dovuto comparire il traliccio del faro di Porto Sudan”.
Ormai non mancavano
che 30 miglia, delle 265 che separavano Massaua da Port Sudan.
Gli Swordfish erano
decollati da Port Sudan alle prime luci dell’alba, alle 5.30 di quel mattino;
li guidava personalmente il capitano di corvetta Keighly-Peach, che con il suo
aereo aveva iniziato a setacciare le rotte di avvicinamento a Port Sudan. I
velivoli erano sei, ciascuno dei quali armato con sei bombe da 250 libbre (113
kg), parte esplosive (con innesco regolato per scoppiare un secondo dopo
l’impatto) e parte semiperforanti (con innesco regolato per scoppiare dopo 4-5
secondi). I piloti avevano l’ordine di intercettare ed attaccare le navi
italiane non appena avessero ricevuto un segnale di scoperta; vennero informati
di aspettarsi una reazione contraerea debole.
Le condizioni
meteorologiche non erano le migliori per la ricerca delle navi italiane: cielo
coperto per 8-9 decimi, con margine inferiore della copertura nuvolosa ad
un’altezza compresa tra i 240 ed i 460 metri; visibilità variabile tra le due e
le otto miglia; vento di nordest con velocità di 5-10 nodi.
Il primo degli
Swordfish ad avvistare i cacciatorpediniere fu quello pilotato dal sottotenente
di vascello James Leslie Cullen, che alle 6.10 comunicò di aver avvistato due
cacciatorpediniere con rotta 170°; ma il messaggio non venne ricevuto dalla
stazione radio a terra. Cullen continuò comunque a pedinare le navi italiane,
ed alle 6.25 trasmise un secondo messaggio, comunicando che i due
cacciatorpediniere avevano adesso assunto rotta 230° e velocità 24 nodi.
Soltanto alle 6.40, però, questa informazione raggiunse gli altri Swordfish che
si trovavano ancora a terra; non appena ebbero ricevuto la notizia, i comandi
della base aerea radunarono gli equipaggi ed il personale di terra ed
approntarono al decollo i restanti Swordfish, rifornendoli di carburante e di
bombe da 250 libbre (sempre in numero di sei ciascuno).
E proprio alle 6.40
anche un secondo Swordfish, pilotato dal tenente di vascello Welham, avvistò quattro
cacciatorpediniere italiani, che procedevano con rotta nord.
Intorno alle 6.30,
infatti, la V Squadriglia e la III Squadriglia si erano riunite; la sezione Sauro-Manin aveva preso posizione tre miglia a poppavia della sezione Pantera-Tigre, e le quattro unità avevano proseguito insieme verso il loro
obiettivo. Alle 6.55, quando ormai restavano solo 19 miglia prima di
raggiungere Port Sudan, si verificò il primo attacco aereo della giornata, che
costrinse i cacciatorpediniere ad intraprendere manovre evasive, cambiando
rotta a più riprese. Queste manovre erano esse stesse rischiose, perché le condizioni
atmosferiche avevano impedito di fare il punto in modo ragionevolmente
accurato, ed ormai le quattro navi italiane erano vicine ad un tratto di mare
idrograficamente pericoloso (con bassifondali rocciosi) ad est di Port Sudan.
C’era il rischio di fare la fine del Leone.
Da parte britannica
risulta che il primo attacco ebbe luogo alle 6.45 e fu condotto dallo Swordfish
del tenente di vascello Welham, che attaccò i cacciatorpediniere provenendo
dalla direzione del sole che sorgeva. Il cacciatorpediniere bersaglio delle
bombe (quello che chiudeva la formazione), tuttavia, riuscì ad evitare tutti
gli ordigni grazie ad una pronta accostata; il grappolo di bombe cadde in mare,
a meno di trenta metri dal lato di dritta della nave.
Alle 7.05, mancando
ai comandi britannici informazioni complete e precise sulla situazione in mare,
decollò da Port Sudan un altro Swordfish con compiti di ricognizione, diretto
verso gli approcci a quella base.
Alle 7.18, quando
mancava una decina di miglia per arrivare a Port Sudan, il Pantera avvistò una massa grigiastra, avvolta dalla foschia che
frequentemente compariva al largo di quelle coste nelle prime ore del mattino,
a 30 gradi a proravia sinistra: fu il tenente di vascello Magnolfi a compiere
per primo l’avvistamento. Manovrando immediatamente per riconoscere il nuovo
arrivato, Gasparini credette di riconoscere la sagoma di un incrociatore, e
fece il segnale di «nemico in vista», dapprima con le bandierine di
segnalazione e poi anche per radio, aggiungendo il rilevamento delle presunte
unità avversarie. Questo avvistamento fu seguito da quello di altre due navi
nemiche, di poppa alla prima.
Gasparini fece il
punto della situazione: «Inesatta
conoscenza della posizione in zona idrograficamente pericolosa, specie verso
sud. Azione aerea nemica già iniziata, con prevedibile ulteriore e maggiore
sviluppo. Presenza di forze navali nemiche indubbiamente superiori per velocità
ed armamento. Mancanza assoluta della sorpresa, dovuta all’esplorazione aerea
nemica del pomeriggio precedente e confermata dalla presenza di aerei nemici
sulle unità dalle primissime luci dell’alba. Assoluta non conoscenza della
situazione delle forze navali nemiche in mare per la completa mancanza di
nostra esplorazione aerea. Posizione di luce favorevole che era possibile
conservare solo mantenendosi a levante delle forze nemiche avvistate».
Sulla base di tutto ciò, il comandante della V Squadriglia Cacciatorpediniere
decise di interrompere il riconoscimento della costa e di non tentare più
l’attacco contro Port Sudan, ma di impegnare invece in combattimento le navi
nemiche da poco avvistate, manovrando in modo da mantenere la posizione
favorevole di luce e di imporre una rotta che permettesse ai suoi
cacciatorpediniere di restare in posizione prodiera rispetto all’avversario,
onde poter sfruttare appieno tutte le possibilità di impiego di artiglierie e
siluri, usando tempestivamente le cortine nebbiogene.
Il comandante della
III Squadriglia, capitano di fregata Araldo Fadin imbarcato sul Manin, descrisse così questi momenti
nella relazione redatta al rientro dalla prigionia: «Il Pantera ed il Tigre sono a qualche miglio da noi, precisi
all’appuntamento, ma con loro nella prima luce dell’alba nascente, si
distinguono nettamente alti, sopra le due formazioni navali, due aerei
ricognitori, e lotnano sull’orizzonte, si intravede bassa sul mare, Port Sudan.
(…) Manovro per accoddarmi a tre
miglia di distanza dal Tigre (…) quando
improvvisamente il Pantera ed il Tigre invertono la rotta e rapidi dirigono su
di noi. Ben chiare al vento della corsa, distinguo le bandiere segnalanti
“attacco aereo” e “nemico in vista”. (…) Dall’alto l’attacco degli aerei, di fronte i cannoni delle batterie
costiere, su di un fianco, pare, le unità navali inglesi, e dall’altro i bassifondi
rocciosi. La situazione richiede pronte decisioni per sottrarsi alle numerose
minacce che si addensano, e la manovra del Pantera ha certo lo scopo di non
rimanere nella trappola, tanto facilmente tesa».
Alle 7.30, pertanto, Pantera, Tigre, Sauro e Manin assunsero rotta 40°, accostando
per nord-nord-est e portando la velocità a 27 nodi. L’aviazione britannica,
intanto, aveva scatenato un crescendo di attacchi aerei contro i
cacciatorpediniere italiani: secondo la versione italiana, circa settanta aerei,
tra bombardieri, aerosiluranti (armati però con bombe) e caccia, attaccavano le
quattro navi in formazioni serrate di 4-5 aerei per volta; dopo aver sganciato
il loro carico, i velivoli britannici potevano agevolmente raggiungere i vicini
aeroporti di Porto Sudan, rifornirsi di carburante, caricare altre bombe e
tornare all’attacco nel volgere di poco tempo. Tra gli attaccanti erano
numerosi biplani, che il comandante Gasparini identificò come aerosiluranti
tipo Vickers Vincent.
Secondo fonti
britanniche, la formazione attaccante comprendeva sia aerosiluranti biplani
Fairey Swordfish della Fleet Air Arm (che portavano tuttavia bombe anziché
siluri), sia bombardieri bimotori Bristol Blenheim del 14th Squadron
della Royal Air Force e monomotori Vickers Wellesley del 223rd
Squadron RAF. Questi ultimi avevano base in Africa Orientale fin dall’inizio
della guerra, mentre gli Swordfish, due squadriglie (813th e 824th
Squadrons della Fleet Air Arm), facevano normalmente parte del gruppo di volo
della portaerei Eagle; erano stati temporaneamente dislocati a Porto Sudan
pochi giorni prima, il 25 marzo, trasferendosi in volo da Alessandria d’Egitto,
appositamente per contrastare la prevedibile puntata offensiva italiana contro
quella base (nell’ambito dell’operazione «Atmosphere»). La Eagle stessa, nelle
intenzioni dei comandi britannici, avrebbe dovuto trasferirsi a Port Sudan per
contribuire alla sua difesa, ma era trattenuta in Mediterraneo dal lancio di
mine, da parte di aerei tedeschi, nel Canale di Suez, il che aveva obbligato a
sospendervi ogni traffico fino al completamento delle operazioni di dragaggio. La
storia ufficiale britannica (I. S. O. Playfair, “History of the Second World
War: The Mediterranean and Middle East”, vol. I, cap. XVIII) afferma che gli
attacchi contro i cacciatorpediniere italiani furono portati dai 17 Swordfish
dell’813th e 824th Squadron F.A.A., rinforzati da cinque
Blenheim del 14th Squadron RAF. Gli Swordfish erano guidati dal
capitano di corvetta Keighly-Peach, che per l’azione sarebbe stato insignito
dell’Order of British Empire.
Lo Swordfish
decollato da Port Sudan alle 7.05 comunicò alle 7.20 (con una certa discrepanza
di orario rispetto alle fonti italiane) che i cacciatorpediniere avevano
assunto rotta 40°, verso il mare aperto, ed aumentato la velocità.
Sottoposte ad una
pioggia di bombe da 110 e 224 kg (gli Swordfish erano armati con bombe “general
purpose” da 250 libbre e con un ridotto numero di bombe semiperforanti), le
navi italiane si difesero zigzagando ed aprendo un fuoco indiavolato con
cannoni e mitragliere, costringendo gli aerei nemici a mantenersi a quota
elevata per sganciare le loro bombe; e infatti, finché questa barriera di fuoco
contraereo durò, non si ebbero danni di rilievo sui cacciatorpediniere.
Alle 7.35 lo
Swordfish del tenente di vascello Sedgwick sganciò le sue bombe contro il Tigre, ma nessuno degli ordigni andò a
segno; cinque minuti dopo un altro Swordfish attaccò a sua volta la medesima
unità, di nuovo senza successo. I piloti britannici giudicarono il tiro
contraereo italiano “intenso ma poco accurato”, e notarono che la sua intensità
andava scemando dopo ogni attacco.
Sotto l’intenso ritmo
di fuoco, infatti, le vecchie e logorate armi delle unità italiane iniziarono a
subire un crescendo di avarie, mentre anche le scorte di munizioni andavano
rapidamente diminuendo; via via che l’intensità del tiro contraereo diminuiva,
i piloti britannici si facevano più audaci, scendendo sempre più di quota nel
condurre i loro attacchi, che si accanivano soprattutto sull’unità in coda alla
formazione, il Sauro.
Alle 7.40 decollò da
Port Sudan il secondo gruppo di sei Swordfish: portatisi ad una quota di 1370
metri, i biplani assunsero rotta 85°, ma ben presto le nuvole basse e la scarsa
visibilità li costrinsero a scendere di quota, abbassandosi fino a 460 metri. Uno
degli aerei ebbe noie al motore, che lo costrinsero al rientro.
Verso le otto del
mattino gli aerei misero a segno la loro prima bomba: ad essere colpito fu il Manin, con danni e vittime fra
l’equipaggio. Riuscì tuttavia a proseguire.
Alle 8.09 decollò uno
Swordfish ricognitore, pilotato dal tenente di vascello Welham, incaricato di
dare il cambio al sottotenente di vascello Cullen nel pedinamento delle navi
italiane. Welham aveva l’ordine di trasmettere ogni venti minuti un
aggiornamento sulla posizione, rotta e velocità dei cacciatorpediniere; per
prolungare la sua autonomia (doveva restare in volo fino alle 9), il suo
Swordfish non aveva caricato alcuna bomba, assolvendo esclusivamente un compito
di ricognizione. Il suo decollo avvenne ad un orario particolarmente azzeccato
per i britannici, in quanto a partire dalle 8.15, a causa di un problema nelle
comunicazioni radio, i comandi a terra non ricevettero più alcun aggiornamento
circa la posizione degli italiani dal velivolo di Cullen.
Uno degli Swordfish
del primo gruppo, pilotato dal sottotenente di vascello Sydney Hal Suthers, non
riuscì a trovare i cacciatorpediniere, e finì anzi con lo smarrirsi; dovette
tornare indietro fino alla costa sudanese per stabilire la propria posizione,
dopo di che si mise in cerca del suo nemico volando controvento, il che ridusse
la velocità dello Swordfish a soli 45 nodi.
Alle 8.15 uno
Swordfish, uscito dalle nuvole alla quota di soli 150 metri, attaccò il
cacciatorpediniere di coda, ma la salva di bombe cadde in mare una novantina di
metri a poppavia del bersaglio. Cinque minuti più tardi, l’aereo del
sottotenente di vascello Suthers avvistò gli Swordfish del secondo gruppo in
avvicinamento, e fece loro dei segnali con la lampada Aldis, senza tuttavia
avere risposta; a questo punto le navi italiane erano già a 50 miglia da Port
Sudan, dirette a nordest in ordine sparso, ad alta velocità. I velivoli del
secondo gruppo si portarono a 1500 metri di altezza, sfiorando il bordo
inferiore della nuvolaglia, sul lato del sole.
Alle 8.58 lo
Swordfish del sottotenente di vascello Cullen sganciò le sue bombe contro il
cacciatorpediniere di coda; subito dopo, anche gli aerei del secondo gruppo
passarono all’attacco. Primo a sganciare le sue bombe fu lo Swordfish del
tenente di vascello Litam, che attaccò il Sauro;
dopo di lui, alle 9.15, fu il turno del sottotenente di vascello Eric Sergeant
dell’813th Squadron F.A.A., che attaccò la stessa nave.
E fu proprio Sergeant
a mietere la prima vittima di quella funesta giornata: centrato in pieno dalla
sua salva di bombe, il Sauro
s’inabissò in meno di mezzo minuto, con la perdita di 78 dei 173 uomini
dell’equipaggio.
Scrive Ennio Giunchi:
“Alle 9, proprio mentre tenevo il Sauro
nel campo visivo del mio binocolo, lo vidi letteralmente esplodere al centro.
«Hanno colpito il Sauro», dissi al comandante Gasparini, e già la nave appariva
coricata sul fianco destro, la prua impennata; un grappolo d’uomini brulicava
sul castello aggrappandosi alla murata, ogni tanto qualcuno ne scivolava in
mare. La nave si capovolse, scomparve. C’è una dura legge di guerra che nega
alle navi valide di soccorrere quelle colpite, quando il tentativo di portar
soccorso si risolverebbe certamente in nuovo maggior danno. La battaglia si
spostava verso levante, il tratto di mare sul quale vedevamo col cuore i
naufraghi del Sauro scomparve di poppa”.
Sia il comandante
Gasparini che il comandante della III Squadriglia (ormai ridotta al solo Manin), capitano di fregata Fadin,
decisero di proseguire senza fermarsi a prestare soccorso: nell’imminenza di
uno scontro con navi nemiche, fermarsi a raccogliere i naufraghi del Sauro sarebbe probabilmente servito
soltanto a perdere altre unità, mentre la vicinanza di Porto Sudan rendeva
probabile un loro salvataggio da parte dei britannici stessi (come infatti
avvenne nel tardo pomeriggio).
Gli attacchi aerei
continuarono, concentrandosi adesso soprattutto sul Manin; un aereo britannico fu visto precipitare in mare, un altro
allontanarsi perdendo pezzi d’ala, lasciando dietro di sé una scia di fumo
nero. Il secondo cacciatorpediniere della formazione (presumibilmente il Tigre) venne attaccato alle 8.58 dallo
Swordfish del tenente di vascello Murray ed alle 9.15 da quello del sottotenente
di vascello Camage; entrambi sganciarono le loro bombe da circa 300 metri di
altezza, ed entrambi mancarono il bersaglio. Il biplano del sottotenente di
vascello Tarney attaccò anch’esso la stessa nave, ma non riuscì a sganciare le
bombe; alle 8.25, allora, attaccò il cacciatorpediniere di coda (che adesso era
il Manin). Stavolta le bombe caddero,
ma non colpirono nulla. La reazione contraerea delle navi, nel mentre, era
diventata debolissima, quasi inconsistente: ormai quasi tutte le mitragliere
erano fuori uso.
Venne poi il turno
dell’aereo pilotato dal guardiamarina Lawrence: questi aveva un carico bellico
insolito per quella circostanza, sei bombe di profondità da 250 libbre. Scelto
come bersaglio il cacciatorpediniere di testa (cioè, verosimilmente, il Pantera), Lawrence scese in picchiata da
1500 metri di quota a soli 300 metri, provenendo dalla direzione del sole, e
sganciò tutte le bombe a cavallo dell’asse della nave, all’altezza della prua;
ma anche questa volta nessuno degli ordigni andò a segno. E senza risultato fu
anche l’attacco successivo, portato dallo Swordfish del sottotenente di
vascello Timbes, che sganciò anch’esso le sue bombe dopo essere sceso da 1500
metri a 300 metri.
Alle 9.25 tutti gli
Swordfish del primo e secondo gruppo avevano completato i loro attacchi:
sganciate tutte le bombe, rientrarono alla base volando singolarmente.
Atterrarono tutti tra le 10 e le 10.45.
Alle 9.51, intanto,
era decollato da Port Sudan il terzo gruppo di Swordfish, composto da cinque
aerei: a questo punto le navi di Gasparini si trovavano a 55 miglia da Port
Sudan. Stante la scarsa visibilità, i cinque Swordfish mantennero una
formazione a “V” allungata, in modo da “coprire” un “fronte” di circa otto
miglia, volando a 270 metri di quota alla velocità di 87 nodi. Alle 10.56 gli
Swordfish avvistarono due cacciatorpediniere su rilevamento 20°, ad otto miglia
di distanza; a questo punto si trovavano circa cento miglia a nordest di Port
Sudan, con rotta 38°. Mentre gli aerei britannici si avvicinavano per attaccare,
il cacciatorpediniere di testa virò per 340°, mentre quello che prima lo
seguiva proseguì per la sua rotta originaria; il terzo cacciatorpediniere non
era visibile.
Alle undici del
mattino le bombe britanniche mieterono la loro seconda vittima. Stavolta fu il Manin ad essere centrato ed
immobilizzato, dalle bombe sganciate dall’aereo del sottotenente di vascello
Suthers. Il comandante Fadin diede ordine di abbandonare ed autoaffondare la
nave, cosa che avvenne a mezzogiorno. Ancora Ennio Giunchi: “Dal Pantera la vedemmo annaspare con la
prora, scadere di formazione, fermarsi… finché divenne un punto indistinto
all’orizzonte e scomparve. Restavano ormai solo Pantera e Tigre impegnati nel
duello mortale. Le vecchie navi davano tutto nella corsa disperata, certo
volevano deludere il nemico e poi morire di propria volontà, orgogliosamente”.
La III Squadriglia
Cacciatorpediniere aveva cessato di esistere.
Restavano Pantera e Tigre, sui quali continuavano gli attacchi aerei. Alle 11.10 due
Swordfish, pilotati dal tenente di vascello Cheeseman e dal guardiamarina
Hughes, attaccarono il Tigre, che
evitò le bombe con pronte manovre evasive. Alle 11.15 fu il turno dello
Swordfish del tenente di vascello Sedgwick, che attaccò anch’esso il Tigre provenendo dalla direzione del
sole: scese da 1220 a 300 metri per sganciare le bombe, ma il
cacciatorpediniere virò bruscamente, di 30°, nella sua direzione, inducendo il
pilota ad interrompere l’attacco. Sedgwick tornò poi alla carica dal lato
sinistro, sganciando una salva di sei bombe contro il Tigre; ma neanche questa volta le bombe andarono a segno.
Ancora una volta,
Gasparini fece il punto della situazione. Con due soli cacciatorpediniere,
ritenne impossibile «qualsiasi ricerca di
azione diurna»; il carburante nei serbatoi non sarebbe bastato per tornare
a Massaua, e neanche per raggiungere il porto egiziano di Kosseir (Quseir),
designato quale obiettivo secondario nel caso dell’inattuabilità di un attacco
contro Port Sudan. Inoltre, ritenne impossibile tentare alcuna manovra che non
fosse «immediatamente percepita dal
nemico e quindi frustrata»; il gran numero di biplani nemici lo indusse
erroneamente a ritenere che quasi certamente vi dovesse essere una portaerei
nelle vicinanze.
Di conseguenza, il
comandante del Pantera cambiò ancora
una volta i propri piani. Pantera e Tigre avrebbero raggiunto la costa
neutrale dell’Arabia Saudita, ma non per autoaffondarvisi; quanto meno, non
tutti e due. Se si fosse travasata sul Pantera
anche la nafta che restava al Tigre,
infatti, almeno uno dei due avrebbe avuto l’autonomia sufficiente per
raggiungere Kosseir: quindi Gasparini intendeva raggiungere le acque
dell’Arabia, trasbordare sul Pantera
tutta la nafta rimasta al Tigre,
autoaffondare fuori dalle acque territoriali quest’ultimo (il cui equipaggio
avrebbe raggiunto la costa saudita per farvisi internare) e poi, approfittando
dell’oscurità, tentare nottetempo di eludere la sorveglianza britannica per
attaccare col solo Pantera un
obiettivo che risultasse raggiungibile con la nafta rimasta – Kosseir, Hurgada
oppure Aqaba (Giordania).
A mezzogiorno del 3
aprile Pantera e Tigre accostarono verso est per dare attuazione al nuovo piano. Con
l’allontanamento da Porto Sudan, ed il conseguente incremento della distanza
che i bombardieri dovevano percorrere nel fare la spola tra le basi ed i loro
bersagli, la frequenza e l’intensità degli attacchi aerei iniziò a calare. Un
gruppo di aerei attaccò il Pantera su
più lati simultaneamente, ma il fitto e rabbioso tiro contraereo eseguito sia con
le mitragliere che con i cannoni da 120 mm , diretto dal tenente di vascello Sabatini,
scompaginò la formazione attaccante, inducendo i piloti a tenersi a distanze
più igieniche. Ciononostante, “una salva
di bombe fu evitata proprio di misura, e cadde esattamente dove ci saremmo
trovati se il comandante non avesse accostato al momento giusto”.
Aerosiluranti lanciarono contro il Tigre,
che evitò i siluri con la manovra.
Infine, anche gli
Swordfish del terzo gruppo, avendo esaurito la loro scorta di bombe, fecero
ritorno a Port Sudan: atterrarono tutti tra le 12.30 e le 12.45, ad eccezione
dell’aereo di Sedgwick, che continuò a tallonare i due cacciatorpediniere
superstiti. Prima di rientrare a sua volta alla base, Sedgwick comunicò
l’ultima posizione di Pantera e Tigre, nonché la loro rotta (70°) e
velocità (che stimò in 34 nodi, con una certa esagerazione).
Poco più tardi, “preannunciata da un improvviso mutamento di
colore delle acque e poi da una collana di frangenti”, apparve alla vista
la costa dell’Arabia: “una striscia di
terra bassa, gialla, proprio una riga dritta da nord a sud, dietro una lieve
collana di spuma”. Alle 13.50 Pantera
e Tigre diedero fondo davanti a
Someina, villaggio sulla costa saudita una quindicina di miglia a sud di Gedda
(per altre fonti, dodici o quattordici miglia a sud di quella città). Calate le
ancore a considerevole distanza dalla riva, i due cacciatorpediniere fecero i
preparativi per il travaso del carburante e lo sbarco del personale in eccesso.
Ma la RAF interferì,
ancora una volta, con i piani italiani.
Dopo il rientro del
terzo gruppo di Swordfish, i comandi britannici di Port Sudan si resero conto
che sarebbe stato inutile inviare un ulteriore gruppo di questi aerei, perché
ormai i due cacciatorpediniere italiani erano al di fuori del loro raggio
operativo: sarebbe stato invece necessario inviare dei bombardieri dotati di
maggiore autonomia, vale a dire dei Bristol Blenheim del 14th
Squadron RAF e dei Vickers Wellesley del 223rd Squadron RAF.
Prevedendo che le navi italiane avrebbero cercato di raggiungere Gedda, nelle
acque della neutrale Arabia Saudita, i britannici si attivarono attraverso i
canali diplomatici per ottenere il permesso di poter attaccare i
cacciatorpediniere anche in acque arabe; permesso che dovevano ottenere prima
di far decollare i bombardieri.
Un primo gruppo di Wellesley
del 223rd Squadron – cui era stato aggregato come osservatore il
tenente di vascello Webb, del gruppo di volo della Eagle, per assistere nella
navigazione in mare aperto – era decollato già alle 7.15, cercando i
cacciatorpediniere italiani sulla base delle informazioni risalenti alle 6.25
(ossia che le navi italiane avevano rotta 230° e velocità 24 nodi), ma era
rientrato senza essere riusciti a trovarli, dopo un’ora di infruttuose ricerche
trascorsa senza ricevere alcun aggiornamento. Alle 8.40 un altro gruppo di
Wellesley, dopo aver ricevuto informazioni più fresche su posizione (27 miglia
da Port Sudan), rotta (34°) e velocità (20 nodi) delle navi italiane, decollò
per intercettarle, ma dopo due ore di ricerche infruttuose il tenente di
vascello Webb si rese conto che gli strumenti di navigazione di quegli aerei,
pensati per operazioni “terrestri”, erano inadeguati per intercettare delle
navi in alto mare: l’errore nella navigazione stimata raggiungeva le 34 miglia.
Anche questo gruppo rientrò, ed alle 13.15 altri cinque bombardieri del 223rd
Squadron, dopo essersi riforniti di carburante, decollarono da Port Sudan per
un nuovo tentativo d’intercettazione.
Alle 14.20, mentre
sul Tigre erano in corso lo sbarco di
equipaggio e materiale ed i preparativi per il travaso sul Pantera della nafta, un gruppo di sette aerei che furono
identificati come Vickers Vincent del 47th Squadron RAF rintracciò i
due cacciatorpediniere e li attaccò ripetutamente, lanciando bombe e spezzoni e
mitragliandoli a più riprese.
Dopo che questi aerei
se ne furono andati, ne sopraggiunsero degli altri; e poi altri, ed altri
ancora, in una sequela di attacchi pressoché ininterrotta. Pantera e Tigre erano
fermi, alla fonda e circondati da secche: impossibile tentare manovre evasive,
tanto più che parte dell’equipaggio del Tigre
era già sbarcato, e meno che mai compiere il trasbordo della nafta. Il
comandante Gasparini dovette infine gettare la spugna. Non si sarebbe compiuto
nessun attacco: ormai non restava che sbarcare gli equipaggi sulla vicina costa
ed autoaffondare le navi. Alle 14.45, come scrisse nel suo rapporto, Gasparini
diede ordine a Pantera e Tigre «di effettuare rapidamente lo sbarco del personale e procedere
all’affondamento delle unità sul posto». Prima di abbandonare la nave
l’equipaggio del Pantera, così come
quello del Tigre, si radunò a poppa «per salutarla con rito militare».
Si ammainarono le
lance, già rifornite da tempo con scorte di provviste e barilotti d’acqua
dolce, caricandovi sopra tutto il materiale che sarebbe potuto tornare utile a
terra; vi furono imbarcati tra i primi gli uomini che non sapevano nuotare.
Purtroppo uno di essi, “l’attendente di
Magnolfi, un ragazzo piemontese timido e impacciato, al suo primo imbarco,
venne chiamato a bordo per una commissione, e nel frattempo le lance scostarono
senza che egli facesse a tempo a reimbarcarsi. Lo vidi che guardava il mare con
una strana rassegnazione negli occhi fanciulleschi, e lo ricordo ancora così
perché nessuno, a terra, doveva vederlo più”.
Si dovette infatti
lamentare un disperso, tra l’equipaggio del Pantera:
il marinaio Valentino De Paoli, di ventuno anni. Tuttavia, De Paoli non era
piemontese, come scritto da Ennio Giunchi, bensì lombardo, di Tignale in
provincia di Brescia. Non è neanche del tutto chiaro se il suo corpo sia mai
stato ritrovato: l’albo dei caduti e dispersi della Marina nella seconda guerra
mondiale lo indica come disperso, ma secondo la banca dati online di Onorcaduti
sarebbe invece sepolto presso il Sacrario dei Caduti Oltremare di Bari.
Secondo le fonti
britanniche, non furono sette Vincent del 47th Squadron, bensì i
cinque Wellesley del 223rd Squadron, decollati alle 13.15, a trovare
i cacciatorpediniere; questi bombardieri raggiunsero la costa saudita alle
14.28, cinque miglia a nordovest di Gedda, dopo di che virarono verso sud
iniziando a cercare le navi italiane. Ben presto avvistarono Pantera e Tigre al largo della località di Ras al-Aswad, a sei miglia dalla
costa; si avvicinarono volando ad una quota di 915 metri, ed il tenente di
vascello Webb non tardò ad identificare entrambi i cacciatorpediniere come
appartenenti alla classe Leone. Webb
riferì alla base anche che gli equipaggi stavano abbandonando le navi (in
realtà, in quel momento, soltanto l’equipaggio del Tigre lo stava facendo), che tuttavia non erano in affondamento;
per risposta ebbe l’ordine di bombardarle. Prima di attaccare, i Wellesley
girarono in cerchio sul cielo dei cacciatorpediniere per circa mezz’ora, dando
agli equipaggi il tempo di completare l’evacuazione prima di bombardare le navi
ormai deserte; uno dei bombardieri, tuttavia, fu colto da avarie ai motori che
lo costrinsero ad un atterraggio d’emergenza sulla costa saudita, con ancora le
bombe a bordo, quattro miglia più a sud. Gli altri quattro Wellesley
bombardarono Pantera e Tigre una volta che gli equipaggi li
ebbero abbandonati, ma nonostante l’immobilità dei bersagli e l’assenza di
reazione contraerea, non misero a segno neanche una bomba.
Ennio Giunchi
continua: “…i piloti inglesi dovevano
avere idee chiare sulle nostre possibili intenzioni, e finché avessero visto la
gente a bordo non sarebbero stati tranquilli. Stavamo tutti col naso in aria,
immobili, in attesa. Ed ecco una coppia di aerei si staccò dal gruppo, puntando
sulla costa, là dove erano scomparse le imbarcazioni; mentre gli altri
scivolando d’ala si allargavano a ventaglio iniziando la manovra di sgancio.
Una colonna d’acqua si levò a venti metri dalla prora a dritta del Pantera.
Contemporaneamente raffiche di mitraglia sollevarono graziose cortine di spuma
iridescente intorno al nostro scafo. Guardai il Tigre, e stranamente mi stupì
lo spettacolo della sua gente che si buttava a mare. Eppure anche a noi non
restava davvero altro da fare. Prese le disposizioni per l’autoaffondamento, il
comandante Gasparini ordinò di abbandonare la nave. Il Mar Rosso è (…) noto per
essere (…) infestato di pescicani. Su
tante varietà di squali, solo cinque o sei sono antropofaghe e quelle, nel Mar
Rosso, ci sono tutte. Ricordando di aver letto nei libri di Salgari che i
pescicani sono miopi e distinguono solo i colori chiari, mi ero vestito di blu
da capo a piedi; appesa con cura la giacca al barcarizzo, indossai la cintura
di salvataggio e mi filai in mare. Si buttarono con me Di Sambuy, con in testa
un casco immenso che voleva salvare, certo pensando al sole del deserto, e il
comandante Scroffa. Davanti a noi il mare brulicava di naufraghi, zattere,
tavole semisommerse. Ma la corrente ci disperdeva e ben presto mi trovai solo.
Le lance, mitragliate in costa, chi sa quando sarebbero potute venirci
incontro; frattanto bisognava risparmiare le forze e, dopo le prime svelte
bracciate per allontanarmi il più possibile dalla nave, me la presi con calma.
Gli Wellesley continuavano a spezzonare e mitragliare le navi, ormai deserte, e
il mare intorno ai naufraghi. Volevano essere sicuri del fatto loro. Con quegli
argomenti persuasivi affrettavano il nostro distacco dalle vecchie navi e ci imbrancavano
a riva. “Mettetevi una buona volta in testa – parevano dirci con gli scoppi
fitti petulanti e coi sibili insidiosi – che è finita e che le navi non si
devono più muovere di qui”. Vedevo gli spezzoni staccarsi, assumere l’elegante
traiettoria parabolica, e qualcuno mi parve venisse giù dritto proprio sulla
mia testa. Invece scoppiavano tutti lontano, ma non tanto da risparmiarmi dei
villani pugni allo stomaco. Qualche volta un velivolo s’abbassava, il rombo
diventava un ruggito, sfrecciando a pochi metri sul mare il pilota si sporgeva
e gesticolava in segno di saluto. Rispondevo d’istinto, salvo imprecare quando
una raffica di mitraglia mi fischiava troppo da presso alle orecchie; del resto
credo che non volessero colpirci; se avessero voluto, pochi di noi avrebbero
toccato terra. Non provavo risentimento per quei nemici. Ne erano caduti tanti
dal cielo di Massaia; stavolta era andata bene per loro. Provavo per tutto e
per tutti, me compreso, un blando interesse, quale possono destare le
vicende fittizie in un racconto cinematografico. Soltanto a momenti mi
assillava improvviso il timore che un sibilo, uno scoppio mettessero fine alla
mia avventura. In uno di quei momenti di pessimismo sfilai la cintura di
salvataggio e, quando un apparecchio mi pareva male intenzionato, mi tuffavo
sotto la cintura galleggiante. Mi prendeva allora l'oscuro sgomento dell'abisso
su cui ero sospeso e per qualche eterno istante ero certo che un pescecane
stesse per azzannarmi o che forze invisibili mi avrebbero tratto al fondo (...)
qualche cosa si torceva in me a furia, disponendomi alla lotta, ma
quando tornavo a rivedere il sole dimenticavo gli attimi d'angoscia e mi
risentivo tranquillo e distratto. Finalmente i giri degli aerei si fecero più
radi, ora ci sorvegliavano dall'alto e la pioggia degli spezzoni si era mutata
in stillicidio. "Rivedremo la nostra Romagna!" mi giunse una voce
lontana, e poi riconobbi capo Placucci, un mio conterraneo. Ero meno solo,
avevo raggiunto qualche nuotatore. Uno di essi, il capo cannoniere, si
lamentava quasi fosse all'estremo delle sue forze: "Non ne posso
più!" e, proprio quando pareva lì lì per andar sotto, partiva come una
freccia a gran bracciate da far invidia a un giovanotto. Alzando gli occhi sul
mare, da qualche tempo vedevo, ancor lontane, le nostre lance che raccoglievano
i naufraghi. Eravamo in acqua da molte ore e cominciavano i crampi. Finalmente,
verso il tramonto, una lancia giunse anche per me e mi raccolse”.
Dopo aver sganciato
le bombe, il capo formazione dei Wellesley, tenente Wilde (sul cui aereo si
trovava anche il tenente di vascello Webb), decise di atterrare vicino al
bombardiere che era stato costretto all’atterraggio d’emergenza, allo scopo di
recuperarne l’equipaggio. Alle 15.45, pertanto, Wilde atterrò vicino all’aereo sinistrato,
dopo di che ne prese a bordo l’equipaggio e tentò di decollare di nuovo; ma
durante la fase di decollo su quell’instabile terreno sabbioso, l’elica del
Wellesley toccò il suolo e si danneggiò irreparabilmente, impedendo all’aereo
di prendere il volo. Toccò quindi ad altri due Wellesley di atterrare a loro
volta nei pressi – un po’ più a sud, su terreno più solido, a sette miglia
dalla costa –, seguiti alle 16.45 anche dal terzo Wellesley superstite; cinque
minuti più tardi gli equipaggi dei due Wellesley danneggiati diedero fuoco ai
loro aerei e raggiunsero il punto in cui erano atterrati gli altri tre, che li
presero a bordo e fecero poi ritorno a Port Sudan.
Alle tre del
pomeriggio sopraggiunse ancora una volta una formazione di aerei britannici,
che sorvolarono Pantera e Tigre bombardando e mitragliando le
navi, ma anche le loro imbarcazioni ed i naufraghi. Secondo la storia ufficiale
dell’USMM, due velivoli che stavano intanto sorvolando la zona desertica che si
stendeva ad est delle navi precipitarono al suolo, con esplosione delle bombe e
della benzina contenuta nei serbatoi; in realtà si trattava del Wellesley
costretto ad un atterraggio d’emergenza per il guasto ai motori e di quello
danneggiatosi per andare in suo soccorso, cui si è accennato in precedenza.
L’esplosione di bombe e benzina fu dovuta non all’impatto contro il suolo, come
evidentemente credettero i naufraghi italiani che si trovavano ad alcune miglia
di distanza, ma agli equipaggi stessi che, come detto, avevano dato alle fiamme
i due velivoli incidentati prima di andarsene.
A dispetto
dell’apertura delle prese a mare, Pantera
e Tigre impiegarono parecchie ore per
affondare, e nel mentre continuarono ad essere un bersaglio per i velivoli
britannici, ignari del fatto che gli equipaggi li avevano ormai abbandonati.
Gli attacchi aerei si protrassero fino alle 18.40; alcuni dei velivoli, dopo
aver bombardato le navi ormai deserte, attaccarono isolatamente anche i
naufraghi giunti sulla spiaggia, fortunatamente senza causare vittime (è
probabile che, come dice Giunchi, stessero cercando soltanto di “dissuadere” i
naufraghi dal tornare a bordo delle navi, e non di farne strage).
Issato a bordo della
lancia, Ennio Giunchi si tolse i vestiti fradici e prese a strofinarsi con forza,
ma all'improvviso sentì alcuni compagni gridare: "Là! Guardate là! Una
nave!". Voltatosi, vide un cacciatorpediniere comparso da nord, da dietro
una punta della costa. Erano circa le sei di sera; il cacciatorpediniere fu
identificato dai naufraghi come “tipo Jervis”.
Si trattava del Kingston (capitano di corvetta Philip
Somerville), inviato in cerca dei cacciatorpediniere italiani che non erano
stati affondati dagli aerei.
Il 2 aprile, in
seguito alla notizia che i cacciatorpediniere di Massaua erano usciti in mare
con rotta verso nord, i comandi britannici avevano inviato il Kingston ed un incrociatore leggero, il Capetown, a rinforzare la scorta del
convoglio BN. 22, in navigazione da Bombay (da dov’era partito il 20 marzo) a
Suez (dove giunse il 7 aprile); le due navi da guerra avrebbero dovuto
raggiungere il convoglio all’altezza dell’isola di Harmil, e così avevano fatto
alle 23.10 di quello stesso giorno. Alle 5.40 del mattino seguente Kingston e Capetown avevano lasciato il convoglio, ma erano tornati insieme ad
esso dopo essere stati informati dell’avvistamento dei cacciatorpediniere
italiani nelle acque di Port Sudan; a mezzogiorno, infine, il Kingston aveva ricevuto ordine di
affondare un cacciatorpediniere italiano danneggiato, segnalato in posizione
21°02’ N e 38°42’ E. Lasciato nuovamente il convoglio, il cacciatorpediniere
britannico aveva raggiunto la posizione segnalata nel messaggio, ma non vi
aveva trovato nessun cacciatorpediniere italiano; il comandante Somerville
aveva allora deciso di cercare le navi avversarie verso Gedda, ed alle cinque
del pomeriggio era stato premiato dall’avvistamento di due cacciatorpediniere
italiani, immobili ed apparentemente intatti, lungo la costa saudita.
Giunto a circa
4000-5000 metri da Pantera e Tigre, ed ignaro che le navi italiane
fossero ormai deserte, il Kingston
aprì il fuoco contro di esse con le proprie artiglierie da 120 mm, proseguendo
per alcuni minuti; il suo tiro risultò però alquanto impreciso, e soltanto una
delle sue salve andò a segno, colpendo il Pantera
nell’opera morta. Poi, non avendo riscontrato alcuna reazione da parte delle
unità italiane, il cacciatorpediniere britannico sospese momentaneamente il
tiro per serrare maggiormente le distanze; alle 17.25 sopraggiunse un Blenheim
del 14th Squadron che bombardò il Tigre, che iniziò lentamente ad appopparsi. Intanto il Kingston si avvicinò ulteriormente alle
navi italiane, fino a sole due miglia, dopo di che tornò ad aprire il fuoco sul
Pantera, con scarsi risultati. Il
sottocapo (Leading Seaman) William
Davidson, del Kingston, avrebbe
commentato a decenni di distanza: “Facemmo un bel po’ di tiro al bersaglio” (“We had a lot of lot of target practice”).
Dopo aver aggirato i
cacciatorpediniere italiani, portandosi in una posizione a sudest rispetto ad
essi, il Kingston lanciò anche un
siluro che colpì il Pantera a prua,
spezzando anche la catena dell’ancora. Poi se ne andò in direzione di Gedda,
dove Somerville intendeva passare la notte. Di nuovo Ennio Giunchi: "...finalmente il caccia si decise e, giunto a
un tremila metri, (...) cominciò a
sparare sulle nostre navi. Già le navi erano perdute, ma faceva pena vederle
bersagliare così indifese. Non fu quella una bella figura come esercitazione di
tiro, a dir la verità; mi scusi l'ufficiale che lo dirigeva, ma Sabbatini se la
sarebbe sbrigata in poche salve, al posto suo. Disperando dei suoi cannoni, il
comandante inglese finì col lanciare un siluro e neppur quello fece centro: si
limitò a colpire la nave sul dritto di prora, disancorandola. Poi il
cacciatorpediniere girò al largo e scomparve dall'orizzonte. Chi sa che cosa
avrà scritto quel comandante sul suo giornale di chiesuola".
Alle 18.40 una bomba
d’aereo colpì il Pantera a centro
nave, scatenando un principio d’incendio in coperta (per altra fonte, il
principio d’incendio fu invece causato dal tiro del Kingston).
Non appena Giunchi
ebbe messo piede a terra, un aereo britannico si lanciò in picchiata sulla
spiaggia, mitragliando le imbarcazioni vuote ed inducendo tutti i presenti a
gettarsi a terra; poi se ne andò. Era l'ultimo.
In totale, circa 500
naufraghi erano sbarcati qua e là nell'arco di almeno un paio di miglia, chi
raggiungendo la riva a nuoto, chi sulle imbarcazioni; una volta a terra, i vari
gruppi convergevano verso il punto in cui erano approdate le lance. Gli
ufficiali tentarono di determinare dove si trovassero: probabilmente, a sud di
Gedda; tuttavia le continue manovre compiute nelle ore di combattimento contro
gli aerei impedivano di avere una certezza assoluta – forse le navi erano
andate fuori rotta in quelle ore –, e se Gedda fosse stata a sud invece che a
nord, i naufraghi avrebbero rischiato di marciare per decine o centinaia di
miglia, con pochissima acqua, prima di raggiungere un insediamento umano. Di
conseguenza, il comandante Gasparini decise di aspettare l'indomani mattina
prima di mettersi in marcia. Per la notte, i naufraghi si accamparono su una
duna a mezzo chilometro dalla spiaggia.
L’oscurità notturna
era rischiarata dai bagliori di un incendio che ardeva sul Pantera, provocando di quando in quando degli scoppi di munizioni,
e da quelli di un altro incendio che ardeva più lontano, sulla costa verso sud,
forse un aereo precipitato. Poi calò una fitta foschia, proveniente dal mare
aperto, e neanche i bagliori degli incendi risultarono più visibili.
Per sincerarsi che il
Pantera fosse affondato, il
comandante Gasparini tentò di raggiungerlo con una lancia a remi; ma nel buio
più completo non riuscì ad orientarsi, e dovette tornare indietro. A riva
Giunchi, per sicurezza, si era preparato ad accendere un falò per guidare
l'imbarcazione nel ritorno, se si fosse allontanata troppo. Non fu necessario,
e la successiva occupazione dell'ormai ex "secondo" del Pantera fu di setacciare la spiaggia,
insieme ad alcuni compagni, per cercare barilotti contenenti acqua. Sulla
battigia, sparso qua e là, c'era un po' di tutto: giubbotti salvagente,
vestiti bagnati, zaini svuotati, sacchi di gallette bagnati dall'acqua di mare;
ed anche un vecchio maresciallo del Tigre,
addormentatosi col corpo ancora per metà in acqua, che Giunchi e compagni
provvidero a "tirare in secco" per evitare che la marea lo portasse
al largo. In una piccola insenatura, Giunchi e gli altri trovarono un barilotto
d'acqua dolce, staccatosi da una zattera: sebbene maleodorante, l'acqua risultò
ancora bevibile, e venne travasata in alcuni fiaschi. Compiuta l'operazione, il
gruppetto cercò di tornare verso la duna su cui si trovavano gli altri
naufraghi, ma smarrì la strada nell'oscurità: dopo aver lungamente girato a
vuoto e gridato invano "Pantera!
Pantera!", i componenti del
gruppetto si dispersero, ognuno verso quella che credeva essere la direzione
giusta, e Giunchi si ritrovò da solo. Tornò sulla riva del mare, nel punto
esatto in cui era approdato qualche ora prima: dalla sabbia, l'aveva già visto,
affiorava uno scheletro umano, scomposto, con il cranio fracassato. Quello
spettrale compagno lo faceva paradossalmente sentire meno solo ("dov'è un morto è stato indubbiamente un vivo"),
e Giunchi, sfinito e stordito dagli eventi della giornata, si sdraiò con la
testa su un salvagente bagnato e si addormentò, verso le tre di notte del 4
aprile 1941.
Calato il buio, e
contrariamente alle decisioni iniziali, gli equipaggi dei cacciatorpediniere,
divisi in gruppi, iniziarono la marcia verso Gedda, centro abitato più vicino;
rimasero sulla spiaggia i comandanti Gasparini, Tortora e Scroffa ed un gruppo
di loro uomini, con l’intenzione di tornare a bordo delle navi per accelerarne
l’affondamento qualora l’indomani mattina si fossero trovate ancora a galla.
L’alba del 4 aprile,
tuttavia, mostrò che non sarebbe stato necessario: uno dei cacciatorpediniere
era del tutto scomparso, mentre la presenza dell’altro, affondato in acque
relativamente basse, era indicata dagli alberi e da una piccola parte del
fumaiolo di prua, che affioravano al di sopra della superficie. Quest’ultimo,
come si constatò successivamente, era il Pantera,
affondato in assetto di navigazione (salvo che per un leggero sbandamento sulla
sinistra); il Tigre si era invece
capovolto nell’affondare, ed era per questo che non ne affiorava nessuna parte.
Alle 6.30 del mattino
si ripresentò sul posto il Kingston,
che dopo aver constatato a sua volta l’affondamento di Pantera e Tigre mise a
mare un’imbarcazione che raggiunse la riva – Gasparini ritenne per prelevare
gli equipaggi dei due aerei precipitati il giorno precedente, ma in realtà
questi erano già stati recuperati dagli altri aerei, come visto più sopra – e
poi tornò sottobordo alla nave britannica, che la riprese a bordo e lasciò poi
definitivamente la zona. Prima di andarsene, tuttavia, il Kingston recuperò dal mare anche una lancia staccatasi da uno dei
due cacciatorpediniere italiani durante l’affondamento: sarebbe andata ad
ingrandire la dotazione di imbarcazioni della portaerei Eagle.
Alle 9.30 un bimotore
identificato come un Bristol Blenheim sorvolò ancora una volta la zona,
lanciando alcune bombe contro le imbarcazioni ormeggiate sulla spiaggia. Alle
dieci del mattino, dopo aver reso inutilizzabili le imbarcazioni, anche il
gruppo del comandante Gasparini si mise in marcia verso Gedda, che avrebbe
raggiunto dopo mezza giornata di marcia nel deserto.
Ennio Giunchi si
svegliò poco prima dell’alba, e con le prime luci si rese conto che la duna che
cercava era a poche centinaia di metri da dove si era addormentato: ma
l’equipaggio del Pantera non c’era
più, soltanto le tracce del suo passaggio. Salvagenti, zaini vuoti, fiaschi
rotti, vestiti, un libro ("Le ambizioni sbagliate" di Alberto
Moravia: “ecco un libro che ha fatto
della strada, ma che ora non mi invita alla lettura”). Ad un tratto Giunchi
sentì qualcuno gridare “Aiuto… Pantera!”:
rispose, corse verso la spiaggia, gridò ancora e cercò affannosamente in tutte
le direzioni, ma non riuscì a trovare nessuno, né ebbe altra risposta. Tornato
sulla spiaggia – tra le dune le orme andavano in tutte le direzioni, senza che
si potesse trarne alcuna indicazione sulla direzione presa dal gruppo – Giunchi
s’incamminò verso sud seguendo le impronte recenti, mentre la sete iniziava a
farsi sentire; dopo un po’ raggiunse finalmente un compagno, capo Placucci,
seduto placidamente a fumare su una valigia. I due proseguirono insieme nella
presunta direzione di Gedda, e dopo poco raggiunsero tre naufraghi del Tigre, uno dei quali debilitato e
febbricitante; si diressero verso una duna, sperando di vedere dall’alto il
gruppo principale, ma a quel punto apparvero dal nulla tre militari arabi, a
dorso di cammello ed armati di fucile, che in breve li raggiunsero e li circondarono.
“Quello che sembra il capo comincia a
parlare fitto fitto, guardando ora noi ora i suoi compagni. Finché ci rivolge
una parola, e questa ben chiara: “Italiani?” “Sì, italiani!” Subito gli arabi
abbassano le armi, ridono, gesticolano amichevolmente”. Poi, uno dei tre
fece cenno ai naufraghi di seguirlo, mentre gli altri due continuarono verso
sud, forse in cerca di altri naufraghi rimasti isolati. Interrogata, la “guida”
confermò che stavano andando a Gedda. Camminando, Giunchi ed i compagni videro
ad un tratto il resto dell’equipaggio materializzarsi dal nulla, in marcia in
lunga fila sul ciglio di una duna: di alcuni potevano anche riconoscere la
sagoma; ma così com’era apparsa, all’improvviso la visione scomparve: era stato
soltanto un miraggio. Il cammino proseguì, la poca acqua a disposizione
dell’arabo finì; il marinaio del Tigre
che aveva la febbre, esausto, crollò sulla sabbia. Il milite fece cenno ai
naufraghi di riparare la sua testa dal sole, poi smontò da cammello e
s’incamminò tra le dune, scomparendo: “Si
comporta come se il deserto fosse una città dalle case a noi invisibili, con
piazze, strade, recapiti di professionisti”. Dopo mezz’ora, infatti,
ricomparve portando con sé un vecchio che sosteneva di essere un guaritore:
questi cercò di prestare qualche cura al marinaio del Tigre, ma senza molto successo. Il militare, allora, fece apparire
dal nulla un ragazzo che conduceva un secondo cammello: su questo venne
caricato il malato, dopo di che la marcia riprese. Il gruppetto raggiunse un
acquitrino (“acqua, acqua, moia, la prima
parola araba che imparo”): acqua “fetida,
salmastra, brulicante d’insetti: ma la sete è più forte della nausea”.
Proseguendo nel cammino, i naufraghi incontrarono una famiglia del posto
accampata in una tenda di pelli di capra; dal capofamiglia ricevettero
dell’altra acqua (“dal sapore di cuoio e
di tabacco”), e ringraziarono offrendogli delle sigarette. Poi la marcia
riprese ancora una volta, e dopo un po’ anche la sete: ma finalmente apparve
all’orizzonte un gruppo di costruzioni, parte in legno e parte in muratura, che
si rivelò essere un presidio dell’esercito saudita. Soldati arabi, vestiti con
divise verdi all’europea, offrirono ai naufraghi acqua, tè, caffè, sigarette,
poi li introdussero in una baracca ove stesero stuoie e tappeti perché
potessero riposare. L’avvistamento, verso nord, di un aereo britannico che
volava lungo la costa destò una certa concitazione; invertì la rotta, sganciò
delle bombe, poi scomparve. Dopo un po’ giunse in automobile un europeo, che si
presentò come Silvio Miceli, della Legazione d’Italia in Arabia Saudita: a
Giunchi e compagni spiegò che i soldati che li avevano trovati avevano fatto
loro percorrere la strada più breve, attraverso il deserto, e che il gruppo
principale dei naufraghi si era messo in marcia durante la notte e stava ancora
camminando lungo la costa. Dopo aver parlato con i naufraghi, Miceli ripartì in
automobile per cercare eventuali altri marinai che fossero rimasti isolati nel
deserto, mentre Giunchi ed i compagni furono fatti salire su un malconcio
autocarro che partì in direzione di Gedda. Dopo non molto il mezzo si fermò per
la rottura di una balestra, ma ormai la città era in vista: era circondata da
un quadrilatero di mura, con le porte vigilate da sentinelle armate; Giunchi e
gli altri ottennero un passaggio da un’automobile frattanto sopraggiunta, che
li portò a Gedda, scaricandoli davanti ad un edificio dove già erano radunati
parecchi altri uomini di Pantera e Tigre. Gradita sorpresa, scoprirono che
erano stati cucinati per loro degli spaghetti al pomodoro, che mangiarono
avidamente. Un ufficiale saudita offrì ai naufraghi fette di anguria, mentre il
ministro d’Italia in Arabia si aggirava con aria più che altro seccata (“penserà alle “grane” che potrà procurargli
la nostra presenza in Saudia”).
Terminato il pranzo,
il gruppo dei naufraghi venne trasferito in una caserma incompleta – chiamata
“Chishla” – situata poco fuori dalle mura, sulla strada tra Gedda e Medina. Era
il 4 aprile 1941.
Iniziavano così due
anni di internamento: le autorità dell’Arabia Saudita, in quanto Paese
neutrale, erano infatti tenute ad internare gli italiani, in quanto militari di
un Paese belligerante, come stabilito dalle convenzioni internazionali.
La notizia della fine dei cacciatorpediniere del Mar Rosso giunse in Italia lo stesso 3 aprile 1941, per poi essere confermata il 5 aprile dalla Legazione d’Italia a Gedda con un telespresso al Ministero degli Affari Esteri (nel quale si comunicava l’arrivo a Gedda di 601 naufraghi italiani), che a sua volta confermò l’accaduto a Supermarina ed al Ministero dell’Aeronautica.
Con
l’autoaffondamento di Pantera e Tigre cessava definitivamente di
esistere la flottiglia cacciatorpediniere del Mar Rosso; partiti ormai da tempo
i sommergibili, le poche altre unità della Regia Marina ancora attive in Africa
Orientale (le uniche che avessero un qualche valore bellico erano la vecchia
torpediniera Vincenzo Giordano Orsini
ed alcuni MAS, uno dei quali riuscì, poche ore prima di autoaffondarsi, a silurare
l’incrociatore britannico Capetown)
si autoaffondarono l’8 aprile 1941, alla caduta di Massaua, per sottrarsi alla
cattura.
Il viceammiraglio
Ralph Leatham, comandante in capo della East
Indies Station (il Comando delle forze navali britanniche in Oceano
Indiano, dal quale dipendevano anche le unità attive in Mar Rosso), descrisse
nei seguenti termini, in un dispaccio inviato all’Ammiragliato il 16 luglio
1941, la fine delle forze navali italiane in Mar Rosso: «Il 1° aprile, ricevetti un rapporto proveniente dal reparto della Fleet
Air Arm sbarcato dalla H.M.S. Eagle a Port Sudan, secondo cui un
cacciatorpediniere italiano (il LEONE) era stato visto affondato circa 40
miglia a nordest di Massaua. La nave era stata precedentemente vista da aerei
mentre era in navigazione, ed è probabile che si sia autoaffondata o che si sia
incagliata. Il 3 aprile, lo stesso reparto della Fleet Air Arm avvistò quattro
cacciatorpediniere italiani al largo di Port Sudan. Due di essi (NAZARIO SAURO
e DANIELE MANIN) vennero colpiti da bombe ed autoaffondati. Gli altri due (PANTERA
e TIHRE) si autoaffondarono sulla costa dell’Arabia Saudita, circa 20 miglia a
sud di Gedda. Dei tre cacciatorpediniere o torpediniere di cui non si avevano
notizie, due [Acerbi ed Orsini] vennero trovati autoaffondati quando Massaua cadde l’8 aprile, e si
ritiene che il terzo [il Battisti]
si sia autoaffondato sulla costa
dell’Arabia Saudita. (…) Questa eliminazione delle forze navali italiane,
insieme alla quasi completa distruzione delle loro forze aeree, mi ha consentito
di porre fine al convogliamento di navi attraverso il Mar Rosso e pertanto di
accelerare l’invio di rifornimenti in Medio Oriente, e di trasferire alla
Mediterranean Fleet rinforzi di incrociatori, cacciatorpediniere, e sloops, di
cui vi era urgente bisogno». L’11 aprile 1941 il presidente degli Stati
Uniti, Franklin Delano Roosevelt, dichiarò il Mar Rosso aperto alla navigazione
per le navi statunitensi, non essendo più una zona di guerra, ai sensi della
legge sulla neutralità (Neutrality Acts)
promulgata nel novembre 1939 (che vietava alle navi mercantili statunitensi di
entrare in zone designate come teatro di guerra dalle autorità degli Stati
Uniti); i bastimenti americani furono così in grado di trasportare rifornimenti
per le forze britanniche fino a Suez.
Dopo
qualche giorno, il 7 aprile, gli equipaggi di Pantera e Tigre furono
raggiunti nella grande caserma da quello del Battisti, che si era anch’esso autoaffondato al largo della costa
araba ma a distanza molto maggiore da Gedda (il che aveva costretto i naufraghi
ad una marcia molto più lunga attraverso il deserto); cinque giorni più tardi,
il 12 aprile, giunsero anche 45 naufraghi del Manin, che avevano raggiunto l’Arabia dopo una settimana di
navigazione in una scialuppa, al comando del tenente di vascello Fabio Gnetti. L’arrivo
dei commilitoni del Manin,
ridotti in condizioni pietose dai giorni trascorsi in mare senza cibo e con
poca acqua, destò grande commozione tra gli equipaggi, che dopo un momento di
sconcertato silenzio corsero ad abbracciare i compagni redivivi.
Con il loro arrivo,
il numero degli occupanti della caserma raggiunse le 800 unità, rendendo
l’edificio piuttosto sovraffollato; di per sé, la caserma lasciava già a
desiderare per il suo stato di incompiutezza, con due ali su quattro del tutto
inabitabili e le altre due composte unicamente da stanze spoglie e vuote, senza
cucine né servizi igienici e tanto meno porte, finestre ed intonaco.
Solo pochi locali
risultavano abitabili, così gran parte dei marinai si adattò a vivere e dormire
nel lungo corridoio che attraversava l’edificio. Ben poco era rimasto delle
loro uniformi, ridotte, al momento dell’autoaffondamento, al minimo
indispensabile per non intralciare il nuoto, e poi ulteriormente ridotte
durante la marcia verso Gedda sotto il sole rovente; i più indossavano solo
pantaloncini e maglietta.
Gli internati
dovettero fare di necessità virtù ed arrangiarsi come poterono: uno dei locali
venne trasformato in cucina, destinandovi i cuochi delle varie unità; il cibo
era portato ogni giorno da fornitori arabi, che trattavano con gli ufficiali
commissari (la distribuzione di cibo ed acqua, da sola, prendeva i tre quarti
della giornata). Gli ufficiali dei corpi tecnici, capeggiati dal direttore di
macchina Pasino del Pantera e dal suo
collega del Battisti, capitano del
Genio Navale Lai, crearono col poco materiale a disposizione una piccola
“officina” dedita alla realizzazione di panche, tavoli ed altri oggetti
necessari per le esigenze di tutti i giorni. Per dormire, dopo i primi giorni
trascorsi sulla nuda terra, le autorità arabe distribuirono materassini e
stuoie. Problema principale restava la mancanza di servizi igienici: per la
doccia ci si arrangiò con una latta forata appesa ad un chiodo al centro del
cortile, ed una stuoia a mo’ di paravento (asciugamani e sapone furono forniti
dalla locale Legazione d’Italia); mentre per avere delle latrine si dovettero
scavare delle fosse in due stanze ancora prive di pavimentazione, mettendo dei
supporti in legno per impedire agli utilizzatori di caderci dentro. Usate
quotidianamente da ottocento uomini, che ne uscivano “semiasfissiati”, le fosse assunsero ben presto “l’aspetto della palude Stigia”,
nonostante si provvedesse più volte ogni giorno a svuotarle trasportandone il
contenuto fuori dalla caserma per mezzo di carriole.
Altro problema era la
carenza di medicinali: nei primi giorni non ci si pensò troppo, perché i malati
erano ancora pochi; ma un giorno un marinaio fu colto da febbre altissima, ed i
medici di bordo, Russo e Calmieri, dopo averlo visitato annunciarono al
comandante Gasparini – che, come ufficiale più alto in grado, aveva assunto il
comando delle ottocento anime stipate nella caserma – che aveva la malaria. Il
dottor Francesco Putzolu, medico italiano presso il governo saudita (nonché
maggiore medico della Regia Marina, in missione in Arabia), confermò che la
caserma era ubicata in una zona malarica: problema serissimo, data la scarsità
di chinino e le condizioni igienico-sanitarie tutt’altro che soddisfacenti
degli internati. Gli ufficiali richiesero pertanto alle autorità arabe il
trasferimento dei naufraghi in un’altra località: richiesta che incontrò il
favore del governo saudita, intenzionato a sgomberare la caserma per
completarla e poterla utilizzare. Fu deciso che gli italiani sarebbero stati
trasferiti ad Abu Saad, un isolotto situato otto miglia a sud di Gedda (a circa
un miglio e mezzo dalla costa), usato in passato come stazione di quarantena
per i pellegrini diretti alla Mecca, che distava un’ottantina di chilometri da
Gedda.
In preparazione del
trasferimento, una commissione composta da ufficiali italiani, tra cui il
comandante Gasparini ed Ennio Giunchi, fu condotta in visita ad Abu Saad dal
comandante della guardia costiera araba, chiamato “Nenè” dagli italiani. Funse
da interprete con quest’ultimo un bulucbasci (sergente) eritreo del Pantera, Ismail. L’isoletta, che
misurava circa 130 metri
in lunghezza ed 80 in
larghezza, si alzava appena di pochi metri al di sopra del livello del mare, tanto
che in vari tratti era presente un muretto contro l’alta marea; al centro
dell’isola si trovava una sorta di piazzale di terra e pietrame, circondato da
basse costruzioni con tetto a terrazza, in parte composte da un’unica stanza ed
in parte da piccole stanzette, sparpagliate qua e là. Esistevano alcuni
serbatoi per l’acqua distillata, malridotti dal lungo disuso. Scrive Ennio
Giunchi: “[Abu Saad] è grande appena come
un incrociatore, e potremmo crederci l’inutile equipaggio di una vecchia nave
per sempre incagliata (…) la prima
impressione di Abu Sa’ad è desolante”. Al termine della visita, gli
ufficiali conclusero che nell’isola si sarebbero potuti sistemare tutt’al più
metà degli internati, ed anche questo dopo aver almeno provveduto a creare dei
servizi igienici, che erano del tutto inesistenti: “Nené”, tuttavia,
apparentemente intenzionato a chiudere la questione il prima possibile, non
accolse bene queste obiezioni. Tra lui e Gasparini, tramite il bulucbasci
Ismail, si accese un vero e proprio alterco: “Nenè: «Ho ordine di trasferirvi tutti qui, in giornata, subito».
Gasparini: «Impossibile: non c’è posto». Nenè: «Manderemo delle tende».
Gasparini: «Niente affatto: io sono responsabile della salute dei miei uomini».
Nenè, esasperato: «Ma qui ci sono stati fino a tremila pellegrini!» Gasparini,
indisponente: «Per i pellegrini è meritorio fare penitenza!» Nenè, minaccioso:
«Vi metteremo tutti in un campo di tende nel deserto!»”. Poi la discussione
proseguì, in un crescendo, finché l’ufficiale saudita concluse che la questione
avrebbe dovuto essere discussa tra il governo arabo e la legazione d’Italia.
Conclusa la visita,
gli ufficiali tornarono alla caserma, dove Gasparini poté conferire con il
ministro d’Italia, cui dal giorno seguente a quello dell’arrivo era stato
impedito di avere rapporti diretti con gli internati. Durante il colloquio
sopraggiunsero anche il governatore di Gedda ed un altro funzionario locale,
venuti a verificare di persona quali fossero le condizioni degli internati; al
termine dell’incontro, il governatore concordò che la situazione nella caserma
era insostenibile, e spiegò che la fretta con cui si era deciso di trasferire
gli italiani ad Abu Saad era stata causata dal desiderio del loro bene, pur non
apparendo molto convinto che le condizioni nell’isola non sarebbero state molto
migliori che nella caserma di Gedda. Ad ogni modo, spiegò, era stato raggiunto
un compromesso: gli italiani non sarebbero stati tutti alloggiati ad Abu Saad,
bensì in parte in quell’isola ed in parte ad El Wasta, altra isoletta di quel
minuscolo arcipelago (ed anch’essa adibita in passato a lazzaretto per i
pellegrini: aveva dimensioni maggiori rispetto ad Abu Saad ma minori strutture
“ricettive”; in compenso aveva qualche traccia di vegetazione ed una bella
spiaggia), e soltanto dopo aver migliorato le condizioni di abitabilità su di
esse.
Non c’era tempo da
perdere: la malaria si stava già diffondendo ad un ritmo preoccupante tra gli
internati, che avevano sempre meno chinino (e medicinali in generale). L’unico
modo di farne arrivare dell’altro dall’Europa era attraverso il neutrale Iraq,
un viaggio di due mesi che le vicissitudini della guerra rendevano sempre più
difficile. Anche le piaghe tropicali erano in aumento, e la situazione igienica
delle fosse-latrine era sempre peggiore: “dalle
fosse, ormai trasformate in fanghiglia ripugnante, eserciti di grossi vermi
bianchicci cominciano ad invadere i corridoi e le camere; le esalazioni, a
seconda del vento, ammorbano l’una o l’altra zona della caserma”. Ancora
Ennio Giunchi: “ogni giorno trascorso si
dissolve in un confuso ricordo quasi fantomatico, ogni giorno che sorge reca la
speranza di un mutamento nel nostro stato”. I lavori di miglioramento nelle
isole procedevano con lentezza, il che Indusse
più di qualcuno a pensare che sarebbe stato meglio trasferirvisi quanto prima
ed aiutare a completarli al più presto. “Infine,
non bisogna dimenticare che siamo piovuti qua, ospiti non richiesti ed a nostro
esclusivo vantaggio; non possiamo pretendere di distogliere d’un tratto questa
brava gente dal suo vivere pacifico e noncurante”.
Il vitto non era
certo quel che si sarebbe definito vario: riso e caprone (anzi, “riso al sugo di caprone”) ogni giorno, a
pranzo e cena. I pasti venivano consumati in piedi od appoggiati ai davanzali
delle finestre, usando pochi piatti di smalto usati a rotazione; ciascun
internato disponeva di un cucchiaio ed un bicchiere d’alluminio. Solo a Pasqua,
grazie all’intervento della legazione d’Italia, si poté gustare un pasto
variegato ed abbondante: pollo, tagliatelle, dolci, uova sode tricolori,
sciroppo d’arancio, il tutto fornito dalle autorità consolari italiane. A far
passare il tempo contribuì qualche spettacolo della “Compagnia d’arte varia
Bastingaggio”, una piccola compagnia teatrale dilettantesca formata dai marinai
del Pantera quando ancora erano
Massaua, dove gli spettacoli avvenivano nelle pause tra un allarme aereo e
l’altro, nelle notti prive di luna, in una baracca della Società Coloniale. Tra
i componenti della compagnia erano il sottotenente di vascello Baldini; il
secondo capo cannoniere Luigi Caso, trentaquattrenne, barese, capo compagnia;
il marinaio fuochista Nicola Vernamonte, 23 anni, di Pescara, che suonava una
fisarmonica che era riuscito a portare in salvo dalla sua nave; il marinaio
barbiere Antonio Olivieri, ventunenne, tenore. Nella caserma, venne eletto a
palcoscenico un terrapieno racchiuso da stuoie, con tre coperte cucite insieme
a fungere da sipario. Anche i militari arabi di guardia assistettero allo spettacolo,
dapprima con diffidenza, poi con curiosità, infine con approvazione: “così gli Arabi conoscono le canzoni
napoletane, i frizzi della Lanterna, le spacconate di Trastevere, a 20° di
latitudine nord, Tropico del Cancro, a due passi dalla Città Santa”.
La pioggia, a Gedda,
era rara; molto meno rare le sciroccate, in cui la città era investita per uno
o due giorni da un vento forte e caldo, carico di sabbia del deserto, che
s’infilava dappertutto. Ma la maggior parte dei giorni, il cielo era sereno, senza
pioggia né vento.
Verso la fine di
aprile giunse nella caserma di Gedda un nuovo gruppetto di italiani, tutti
della Marina: tre ufficiali, un sottufficiale e tre marinai. Gli ufficiali
erano il capitano di fregata Carlo Felice Albini, già comandante della III
Squadriglia Cacciatorpediniere prima di Fadin; il capitano di corvetta Glauco
Tabacco, comandante della Squadriglia MAS di Massaua; ed il tenente di vascello
Lupi. Poco prima della caduta di Massaua l’ammiraglio Bonetti aveva dato loro
facoltà di sottrarsi alla cattura, offrendo loro il suo motoscafo personale
affinché potessero tentare di raggiungere l’Arabia Saudita; li aveva anche
forniti di denaro e lettere di credito per le legazioni italiane dei vari Paesi
del Medio Oriente, in modo che potessero raggiungere l’Italia. Con il motoscafo
il gruppetto aveva attraversato il Mar Rosso e raggiunto Cunfida (Al
Qunfudhah), sulla costa araba, dove i fuggiaschi speravano di poter organizzare
una carovana per proseguire verso l’Italia; ma, presentatisi al locale emiro,
erano stati da questi trattenuti a forza come “ospiti di riguardo” nel suo
palazzo, una prigionia dorata che si era protratta per una decina di giorni e
si era conclusa con la riunione di questo gruppetto con gli equipaggi dei
cacciatorpediniere internati a Gedda.
Abu Saad
(Jazirat Abu Sa’d, sopra) ed El Wasta (Jazirat al Wusta, sotto) come appaiono
oggi nelle immagini satellitari di Google Maps. Sono visibili i resti delle
costruzioni nelle quali alloggiarono gli internati italiani nel 1941-1943.
Alla fine di aprile
le sistemazioni ad Abu Saad ed El Wasta erano pronte a ricevere i nuovi
“ospiti”, ed i quasi ottocento italiani vennero trasferiti nelle isole da una
flottiglia di sambuchi. Gli equipaggi di Pantera
e Battisti, che comprendevano in
tutto circa cinquecento uomini, furono sistemati ad Abu Saad (quest’isola, pur
essendo leggermente più piccola di El Wasta, aveva un maggior numero di
capannoni in muratura con pavimentazione regolare, ed era dunque meglio in
grado di ospitare un maggior numero di uomini), mentre quello del Tigre ed il gruppo del Manin, poco meno di trecento uomini,
vennero alloggiati ad El Wasta.
La maggior parte
degli internati poterono trovare posto negli edifici in muratura già esistenti
sulle due isole; i restanti vennero alloggiati in tende.
Fu il capitano di
vascello Gasparini ad assumere il comando degli internati di Abu Saad, mentre
ad El Wasta questo incarico venne assegnato al capitano di fregata Albini. I
due ufficiali vollero che nelle due isole venisse mantenuta la disciplina e la
routine giornaliera che sarebbe stata in vigore a bordo di una nave da guerra:
lavaggio e ginnastica mattutina, rapporto, destinazione di squadre di marinai
ai vari lavori, lettura dei castighi, lista di punizione, gamellino, preghiera
serale e corpo di guardia, comandato da un ufficiale provvisto anche di
regolamentare sciarpa azzurra.
Non a tutti questi
provvedimenti piacquero, naturalmente; ma servirono a mantenere l’ordine e ad
evitare che gli internati sprofondassero nell’apatia e nell’abbruttimento,
oltre che a spronare gli internati a lavorare per migliorare la propria
situazione, costruendo una carpenteria, una sartoria, un’officina ed una
distilleria.
La sveglia avveniva
la mattina presto, quando ancora l’aria era ancora un po’ fresca; di giorno
picchiava il sole, ma la calura era mitigata da un forte vento che prendeva a
soffiare dal largo dalle dieci di mattina. Durante l’estate il clima era sempre
lo stesso: vento da nordovest di mattina, caldo soffocante nel pomeriggio,
calma totale di vento ed elevatissima umidità di sera; di tanto in tanto forti
raffiche di vento del deserto, rovente e sabbioso, che spazzavano via tutto
quello che non era saldamente ancorato. Talvolta il vento portava con sé vere e
proprie nubi di libellule, che andavano a sbattere ovunque, volando alla cieca.
Non erano, gli
italiani, gli unici abitanti di Abu Saad: c’era anche un presidio di qualche
decina di militari sauditi, incaricati di far loro la guardia, ed un
consegnatario civile, tale Nasib, custode di un magazzino dal quale di quando
in quando i marinai sottraevano furtivamente qualche oggetto che poteva tornare
utile, scatenandone le ire (prontamente placate dal rimborso pagato dal
commissario Castellano). Una delle figure che più spiccavano, tra i militari
arabi, era il sottufficiale Abu Alì, del corpo della guardia costiera saudita:
originario di Riad, era estremamente religioso, ma non disdegnava la compagnia
degli internati, cui volentieri insegnava la lingua araba e forniva notizie, e
per conto dei quali compiva commissioni a Gedda.
Comandante del
presidio saudita era il sottotenente Mohammed Jamal, che pur essendo nativo
della Mecca era molto più “cittadino” ed occidentalizzato (era stato anche a
Roma, per frequentare un corso di pilotaggio), ed assai meno devoto di Abu Alì.
Successivamente, nel maggio 1942, venne nominato comandante dell’accresciuta
guarnigione un capitano che fu ribattezzato dagli internati “la morte in
vacanza”, “perché, esile e curvo, pareva
tirare il fiato a fatica, ed aveva appena un barlume di vita negli occhi
infossati e spenti”; ufficiale più inflessibile del suo predecessore,
applicò rigorosamente tutte le regole e divieti su cui Jamal aveva preferito
lasciar correre, come quella che prevedeva che i marinai, facendo il bagno, non
si allontanassero da riva di più di dieci metri. Dopo non molto tempo ci fu un
nuovo avvicendamento, e “la morte in vacanza” lasciò il posto al capitano Feed
Ahmed, cui i marinai appiopparono il soprannome di “D’Artagnan” per via del suo
aspetto, che ricordava quello dell’eroe di Dumas. Dopo aver assistito ad una
rappresentazione teatrale che sembrava essere stata di suo gradimento, il
capitano Ahmed bandì ogni ulteriore spettacolo in quanto contrario alla legge
coranica; ma il divieto fu ben presto abolito su spinta degli altri arabi,
soldati del presidio e fornitori civili, che apprezzavano parecchio queste
rappresentazioni (venivano ad assistervi da Gedda i fornitori, i loro parenti
ed anche gli amici). Ahmed fu l’ultimo comandante del corpo di guardia di Abu
Saad; al momento di congedarsi, si sarebbe lui stesso esibito, insieme ai suoi
soldati, in una sorta di danza guerresca, “forse
per farsi perdonare lo sgarbo”.
I militari del
presidio vivevano in tende, piantate accanto a quelle in cui erano alloggiati
gli ascari di Marina giunti insieme agli italiani; erano generalmente
amichevoli ed anche loro avrebbero volentieri fraternizzato con i marinai
italiani, ma gli ufficiali preferirono scoraggiare contratti troppo stretti,
arrivando a scrivere nelle Norme di
massima che «I rapporti dei nostri
militari col personale arabo devono essere improntati a cortesia, senza
tuttavia dar luogo ad alcun eccesso di intimità. Per ragioni igieniche è
rigorosamente proibito al personale nazionale di entrare negli alloggi degli
Arabi».
Gli internati si
misero subito d’impegno per migliorare la propria sistemazione con mezzi di
fortuna: vennero realizzate baracche per ufficiali e marinai, mensa, cucina,
forno, persino una palestra ed un teatrino. Il capitano del Genio Navale
Pasino, coadiuvato dai sottordini Ferrandino e Montaretto, riuscì a realizzare
con i modesti mezzi a disposizione un’officina ed un tornio azionato da un
motore ad energia eolica (che “conferisce
all’isola tropicale un’aria strana di paesaggio olandese”), che furono
usati dapprima per fabbricare utensili (ricavati dalle parti più disparate: una
lima venne ottenuta da una balestra di automobile, pezzi di imbarcazioni furono
usati come chiodi), poi pentole e stoviglie, e successivamente anche oggetti
per lo svago, come delle bocce; il suo collega Lai, assistito dal suo
sottordine Pisani, sovrintendeva ai servizi idrici (che consistevano nello
scaricare fusti d’acqua dai sambuchi, versarne il contenuto nei serbatoi e
distribuirlo tra gli internati).
Fabbri, muratori e
carpentieri ripararono i malconci soffitti, pavimenti ed infissi delle
costruzioni dell’isola (o li crearono dal nulla, là dove non esistevano) e
fabbricarono mobili ed oggetti.
Venne anche creata
una piccola scuola, con corsi sia di scuola elementare che corsi professionali:
gli insegnanti erano ufficiali e sottufficiali, e tra le materie si
annoveravano l’italiano, la matematica, la storia, la geografia, la scienza,
alcune lingue straniere e materie professionali legate alle varie specialità
della Regia Marina. In questo modo, molti internati, soprattutto tra quelli di estrazione
sociale più umile, poterono sfruttare almeno in parte quel tempo “morto” per
migliorare la propria istruzione. Per passare il tempo furono inoltre
organizzati giochi ed attività sportive di vario genere per passare il tempo:
tornei di scacchi, concorsi di enigmistica, gare di salto e di lancio, corse ed
altro ancora, comprese naturalmente le rappresentazioni della compagnia
teatrale “Bastingaggio”. Altri internati coltivavano piccole aiuole, tentando
di trasformare la sabbia dell’isola in terra fertile con letame ottenuto da
rifiuti di ogni tipo (si tentò anche di coltivare meloni); altri facevano il
bagno nelle acque attorno all’isola, o si dedicavano alla ricerca di spugne,
coralli e conchiglie nei fondali circostanti; altri ancora costruivano scatole
o cornici di carta intrecciata, velieri in bottiglia, altri manufatti
d’artigianato. Un gruppo organizzava giochi di “giro d’Italia” coi dadi o corse
con palline di cera su una pista in miniatura, battezzata “circuito di Monza”.
Si allevarono anche
polli e piccioni ed una varietà di animali da compagnia: un gran numero di
gatti, che tornarono molto utili nella lotta contro i ratti che giungevano ad
Abu Saad con le barche dei fornitori; una cagnetta, Pilla, nata a Massaua e
giunta ad Abu Saad seguendo i naufraghi in tutte le loro vicissitudini, dalla
missione finale all’affondamento; un cucciolo di cane, Ciciornia, anch’esso
arrivato con i naufraghi da Massaua (faceva parte di una cucciolata di cinque
cagnolini dati alla luce da Lola, cagna della Società Coloniale); una cagna del
posto, battezzata Peppinella, selvatica e sciancata, presenza alquanto
ectoplasmica (“di giorno era raro
vederla, la si sentiva ululare di notte come uno sciacallo”); alcune cavie,
regalate ad Ennio Giunchi da un ufficiale arabo, Hassan Kurdi, che erano tenute
in un recinto; una giovanissima gazzella acquistata dal sottotenente di
vascello Baldini, di sesso maschile, battezzata “Zahr el Sahara”, fiore del
deserto. Quest’ultima, elegante, acrobatica e giocherellona, riscosse subito
notevole popolarità tra gli internati, tanto da destare la gelosia della
cagnetta Pilla, già gelosa anche delle cavie.
Crescendo, purtroppo,
Zahr iniziò a sviluppare delle abitudini scomode: ingoiava qualsiasi oggetto
gli capitasse sulla strada, biancheria compresa, e specialmente la carta
stampata, della quale vi era grande scarsità; la popolarità della povera
gazzella andò così diminuendo, finché mano ignota le ruppe una spalla con una
sassata. Lo sfortunato quadrupede venne abbattuto e declassato dal ruolo di
animale da compagnia a quello di bistecca.
Altro animale le cui
fortune andarono declinando fu il cane Ciciornia, che aveva preso dimora stabile
nei pressi delle cucine e si era abituato a mangiare così tanto da diventare
obeso, oltre a mostrare scarsa socievolezza ed intelligenza: gli internati si
divisero in due gruppi, chi voleva tenerlo e chi voleva cacciarlo dall’isola;
alla fine prevalse l’opinione dei secondi, e Ciciornia venne esiliato a Gedda.
Anche Nasib, il
consegnatario civile di Abu Saad, aveva un vecchio cane, di nome Tub:
nonostante l’età avanzata, corteggiava con insistenza Pilla, finché una notte
venne ucciso da ignoti.
Il 10 giugno 1941, in
occasione della festa della Marina, gli internati ad Abu Saad invitarono sulla
loro isola il personale della Legazione italiana e le relative famiglie,
indicendo in loro onore uno spettacolo della compagnia “Bastingaggio”.
A inizio settembre
1941 la popolazione di Abu Saad si arricchì di nuovi elementi: un gruppetto di
cinque militari fuggiti dall’Eritrea, occupata dai britannici, attraversando il
Mar Rosso su una motolancia. L’arrivo di una motolancia che batteva bandiera
italiana destò grande concitazione tra gli internati, che si assieparono sul
molo in attesa del suo approdo. Scrive Ennio Giunchi: “Tutta l’isola fu a rumore: corremmo al pontile d’approdo, in tanta
folla che mi parve che Abu Sa’ad, così piccolina e per noi così “nave”, dovesse
sbandar di lato e scodellarci in mare. Come nelle folle trovan credito le
dicerie più avventate, chi gridava per certo esser finita la guerra, chi
giurava sul nostro immediato rimpatrio; ma tutti in realtà sapevamo che si
trattava soltanto dell’arrivo dei profughi. Scesero dalla lancia cinque uomini
sporchi, stracciati, chiome e barbe incolte. Furono applauditi, attorniati,
stretti: cinque Italiani che venivano di laggiù”. Comandante del gruppetto
era il sottotenente di vascello Bruno Cipriani, già comandante di batteria
contraerea a Massaua: già una prima volta aveva tentato di fuggire dall’Eritrea
con una zattera, ma aveva fatto naufragio nelle acque delle Isole Dahlak ed a
stento era riuscito a tornare a Massaua. Qui era riuscito ad impadronirsi si
una lancia, con la quale aveva attraversato il Mar Rosso insieme a quattro
compagni, raggiungendo l’Arabia Saudita. Uno dei compagni, Bigontina, era un
ufficiale dei bersaglieri: era stato sull’Amba Alagi insieme al duca d’Aosta;
catturato alla resa di quella fortezza, nel maggio 1941, era riuscito a
fuggire. Dai nuovi arrivati gli internati seppero degli ultimi giorni della
difesa di Massaua, della battaglia dell’Amba Alagi, e dei naufraghi di Sauro e Manin recuperati dai britannici e mandati in prigionia in India.
Dopo questo primo
gruppetto, piovvero nelle isole a più riprese altri italiani in fuga dall’ormai
ex A.O.I., diretti a Gedda nella malriposta speranza che da lì si potesse
proseguire per l’Italia: civili e militari di tutte le armi e di ogni grado, in
piccoli gruppetti, attraversando il Mar Rosso su malconce imbarcazioni o su
zattere. Alcuni dei militari si erano dati alla macchia alla caduta
dell’Eritrea ed avevano aspettato il momento buono per fuggire, altri erano
evasi dai campi di prigionia. La fuga era tutt’altro che semplice: bisognava
trovare un’imbarcazione che tenesse il mare e delle provviste, nascondere il
tutto alla sorveglianza della sospettosa polizia britannica, indi salpare dal
porto di Massaua fingendosi pescatori: nel passare davanti alle vedette
britanniche di guardia al faro, alcuni dei fuggiaschi si fingevano indaffarati
con reti e nasse, mentre gli altri restavano nascosti sul fondo della barca. Se
tutto andava bene, una volta giunti in mare aperto restava la difficoltà di una
traversata compiuta da persone che per la maggior parte erano sprovviste di
esperienza nautica, su fragili gusci di noce che facevano acqua dallo scafo,
esposti al sole ed alle onde. I venti e le correnti facevano sì che quasi tutti
i gruppi toccassero terra presso Cunfida, dove l’emiro locale – come già aveva
fatto per il gruppo del comandante Albini – li colmava di onori e di premure,
impedendo però loro di andarsene, per poi consegnarli alle autorità saudite,
che li caricavano su camion e li spedivano a Gedda, da dove venivano poi
trasferiti nelle isole. Tra i profughi civili, il personaggio più interessante
era probabilmente l’esploratore e avventuriero Tullio Pastori, che
dall’Etiopia, insieme all’agronomo Naborre Ferrari (entrambi avevano quasi sessant’anni),
aveva viaggiato a piedi fino in Ciad nel tentativo di raggiungere l’Italia,
prima di essere costretto a fare dietrofront – venendo anche arrestato come
sospetta spia dalle autorità sudanesi, ma riuscendo a fuggire – ed a tornare in
Eritrea, da dove aveva attraversato il Mar Rosso e raggiunto Gedda su una
malridotta lancia, insieme a Ferrari e ad altri dodici uomini tra cui anche il
sottotenente Laner dei meharisti. Fu assegnato all’isola di El Wasta.
Complessivamente
arrivarono a Gedda sei gruppi, per un totale di circa un centinaio di profughi.
C’erano ufficiali, soldati, avieri, marinai, civili; oltre alle figure già
citate, altri personaggi che figuravano in questo variegato campione di umanità
erano Calistri, imprenditore fiorentino; il tenente colonnello Trisolini, della
Regia Aeronautica; il tenente di cavalleria Orlando; Plazi, un impiegato civile
che non vedeva la sua famiglia da sette anni; il console della M.V.S.N.
Ferrari, ex comandante della Milizia Forestale in A.O.I.; il già citato sottotenente
Laner dei meharisti.
Ad El Wasta, il
comandante Albini giunse a “militarizzare” anche questi i profughi civili,
assegnando a ciascuno di essi un grado militare temporaneo stabilito sulla base
della loro età e delle loro capacità, e sottoponendoli alla stessa disciplina
che valeva per i militari.
Foto di gruppo di ufficiali italiani durante l’internamento in Arabia: tra di essi il capitano di fregata Carlo Felice Albini (da “Ultima missione in Mar Rosso”, di Fabio Gnetti) |
A poco a poco, gli
internati si dovettero abituare a quella nuova “quotidianità”.
Ogni giorno
giungevano da Gedda i sambuchi dei fornitori, carichi di provviste, acqua,
legna da ardere, materiali da costruzione; a trattare con loro era il tenente
commissario Castellano, assistito dal sergente meccanico Fulvio Dominici.
Castellano, da una stanzetta buia, piena di crepe ed infestata da topi e
scarafaggi che aveva letto a “locale d’amministrazione”, dirigeva anche il
lavoro di cuochi, pastai, macellai, nonché l’attività dello spaccio. Inoltre,
l’ex commissario del Pantera era
responsabile della tenuta della cassa e della distribuzione delle paghe. Tutte
queste sue prerogative lo portavano non di rado in conflitto con il tenente di
vascello Magnolfi, ufficiale al dettaglio e responsabile dei vari servizi.
Il pasto era sempre
lo stesso: riso e caprone, con poche e sporadiche variazioni. Se un giorno, a
causa del maltempo, i sambuchi dei fornitori non riuscivano ad arrivare, gli
internati dovevano digiunare. Alcuni degli internati integravano la dieta con
un po’ di pesce bollito, che pescavano oppure acquistavano dai pescatori in
cambio di sigarette; ma i pesci del Mar Rosso, per quanto abbondanti nel
numero, risultavano sempre stopposi ed insipidi.
Il collegamento
postale tra gli internati e l’Italia era scadente e sporadico (le prime lettere
giunsero nelle isole 7-8 mesi dopo l’inizio dell’internamento), pertanto,
violando un divieto imposto dalle autorità saudite, gli internati riuscirono
anche – per tramite della Legazione italiana in Arabia Saudita – a procurarsi
una radio, con la quale si rimisero in contatto col mondo esterno: in settimana
ascoltavano i bollettini di guerra, mentre di sabato trasmettevano e ricevevano
notizie dalle famiglie rimaste in Italia. Quello della radio era un rito
quotidiano, per il quale tutti si radunavano la sera, richiamati da una
campana, attorno all’altoparlante situato nel piazzale interno. Qualche volta i
parenti, senza saperlo, domandavano notizie di chi non c’era più, come la
moglie del comandante in seconda del Manin,
che chiedeva insistentemente notizie del marito che non sapeva essere affondato
con la sua nave, senza che nessuno avesse il coraggio di dirle la verità.
I bollettini di
guerra, parchi di notizie, scatenavano vivaci discussioni; gli internati
cercavano di capire l’evolversi del conflitto con il poco che si poteva
comprendere da quei telegrafici annunci.
Chi faceva il bagno
si esponeva al pericolo degli squali, ma furono questi ultimi a finire col
diventare le prede: diversi grossi pescicani (compresi degli squali tigre
lunghi anche cinque metri), non molto intelligenti, si lasciarono prendere
all’amo, venendo prontamente trascinati a terra, arpionati ed uccisi. Nello
stomaco di uno di questi squali, aperto dopo la cattura, vennero trovati il
mantello di una capra ed un pezzo di cuoio capelluto umano, con ancora
attaccato un ciuffo di capelli.
Ogni piccolo evento
che capitasse nelle acque attorno a Gedda calamitava l’interesse degli
internati, tagliati fuori com’erano dal resto del mondo: la comparsa in rara di
una nave da guerra britannica, che se ne andò dopo poche ore; notizie sulla
partenza per l’Egitto del principe reale saudita Mansur, su un piroscafo britannico;
il ritrovamento, un mattino, di una gran quantità di pezzi di sughero e di un
libro statunitense – The Story of Canada
– sulla costa di Abu Saad; il saltuario rumore di scoppi di bombe o colpi di
cannone in lontananza; l’avvistamento grossi aerei che periodicamente
sorvolavano le isole, provenienti dall’Africa e diretti verso Gedda; voci,
portate dal comandante di uno dei sambuchi incaricati dei rifornimenti, su uno
sbarco notturno di truppe indiane.
Occasionalmente ad
alcuni internati era concesso di recarsi a terra a Gedda, per fare compere al
mercato locale o per fare visita a qualcuno, come Ennio Giunchi, che fu
invitato da Hassan Kurdi a casa propria, per conoscere la sua famiglia.
Successivamente, in seguito all’intercessione della legazione d’Italia, fu
concesso agli internati di recarsi periodicamente a terra, per visitare Gedda,
il suo porto ed i suoi mercati (suk),
in piccoli gruppi (20-30 uomini) scortati da militari sauditi armati. Per gli
acquisti venivano forniti agli internati otto riyal sauditi al mese
(equivalenti a 48 lire italiane dell’epoca): bastavano per comprare sapone,
dentifricio e poco altro.
La Gedda del 1941 era
una piccola cittadina da mille e una notte, con circa 50.000 abitanti: un porto
affollato di uri e di sambuchi mercantili e militari (questi ultimi, dipinti di
bianco con arabeschi verdi, ricordavano le antiche galee del Mediterraneo),
dove scaricatori e funzionari si smuovevano soltanto nella rara occasione
rappresentata dall’arrivo di un piroscafo; case a terrazza edificate
grossolanamente in mattoni cotti e d’aspetto alquanto male in arnese (circa un
terzo apparivano più o meno lesionate, molte sembravano sbilenche); piccole
botteghe consistenti in un singolo vano ricavato nel muro di un edificio,
davanti a cui era sparsa in disordine la merce; e suk divisi per tipologia di merci ed affollati da arabi, yemeniti,
egiziani, turchi, siriani, etiopi, eritrei, sudanesi (c’erano anche alcuni
greci ed ebrei, che gestivano i pochi negozi di foggia occidentale):
commercianti, pastori, scaricatori e mendicanti, per non parlare dei pellegrini
che da tutto il mondo passavano per Gedda diretti alla Mecca. Poche le donne
visibili per le strade, e tutte rigorosamente velate. Principali esportazioni
della regione erano all’epoca capre, cammelli, frutta ed henné; buoi, capre,
cani e dromedari giravano per le strade, frammisti alle persone, a qualche
carro trainato da vacche o da asini, ed a rari automezzi. Le strade asfaltate
assommavano in tutto a duecento metri. Una città ben diversa dalla Gedda di
oggi, moderna metropoli di quattro milioni di abitanti.
Le “gite” a terra
degli internati finivano quasi sempre alla sede della Legazione d’Italia: “Acqua ghiacciata, poltrone comode,
ventilatori. E aria d’Italia. (…) Veramente
qui ci sentiamo in Italia: come se le finestre della Legazione non si
affacciassero sulle vie di Gidda [Gedda] e sul deserto e sul Mar Rosso, ma su strade, campagne e marine
d’Italia. «Figuratevi – ci dice il dottor Mochi – che la vostra presenza qui
disturba, almeno per certi effetti, l’intera economia del Higgiàz [Hegiaz],
se non di tutto il Regno. Per esempio, la
fornitura di legna da ardere alle isole richiede un grande impegno di ciuchini,
che debbono andare a cercar legna sempre più lontano, perché i pochi arbusti dei
dintorni sono presto finiti. E con l’aumentare delle distanze aumenta in
proporzione il numero dei ciuchini, con grave pregiudizio dei traffici locali;
presto il governo dovrà rivolgersi allo Yemen e trasportar legna di laggiù coi
sambuchi»”.
Natale e Capodanno
del 1941 furono festeggiati con spettacoli teatrali, banchetti a base di
montone cucinato nei modi più fantasiosi, vino (poco) ricavato dall’uva fornita
agli internati insieme alla frutta.
Non mancarono i
tentativi di fuga, nonostante gli ammonimenti del Comando italiano dell’isola,
che temeva che siffatti tentativi avrebbero potuto mandare a monte le
trattative per un rimpatrio organizzato e collettivo. La fuga via terra, da
Gedda, era fuori discussione: pressoché impossibile percorrere senza mezzi
adeguati centinaia di chilometri nel deserto, senza contare che in un Paese,
com’era l’Arabia Saudita di allora, dove gli europei erano in tutto qualche
decina, i fuggiaschi non avrebbero potuto passare inosservati. Ci fu invece chi
progettò fughe via mare, con l’idea di risalire il Mar Rosso e raggiungere un
tratto di costa da dove fosse possibile proseguire verso l’Italia o almeno la
Libia.
Una fuga che
determinò una sorta di piccolo incidente diplomatica fu quella, a inizio
gennaio 1942, di un cannoniere del Battisti
(che si scoprì in seguito essere mentalmente instabile), che rubò di notte
l’uri (piccola imbarcazione a remi locale) di un ufficiale arabo di stanza ad
Abu Saad e raggiunse a remi un piroscafo anglo-indiano, alla fonda davanti a
Gedda, a bordo del quale si nascose. Scoperto poco dopo, il marinaio fu
consegnato alle autorità subite, che lo rinchiusero in carcere per diversi mesi
(al termine dei quali venne rimandato ad Abu Saad) e che destituirono e
trasferirono altrove l’ufficiale cui aveva rubato la barca. In seguito a questo
episodio, le relazioni tra il Comando italiano ed il governo arabo furono
piuttosto tese per qualche tempo.
Un tentativo di fuga
più ardito ed organizzato ebbe luogo nel giugno 1942: un gruppetto di civili,
dopo essere riuscito a procurarsi una radio trasmittente, fabbricò una zattera
con tubi di ferro e lasciò Abu Saad con l’intenzione di abbordare un sambuco
arabo ormeggiato poco lontano, col quale avrebbero raggiunto l’Eritrea per poi
raccogliere e trasmettere clandestinamente in Italia informazioni sulla
situazione delle truppe britanniche. Il tentativo non andò a buon fine, perché
una sentinella araba avvistò la zattera quando questa era ancora a metà strada
tra l’isola ed il sambuco, ed iniziò a sparare: perduta la sorpresa, i
fuggitivi gettarono in mare la radio e se ne tornarono indietro. Dopo qualche
giorno in cella a Gedda, furono rimandati nell’isola.
Anche Ennio Giunchi,
insieme ad alcuni compagni, progettò un tentativo del genere, procurandosi
carte e portolani del Mar Rosso, del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano,
studiando i regimi monsonici e prendendo contatti a Gedda per ottenere un
sambuco e dei viveri (per questi ultimi, offrì il proprio contributo anche il
tenente commissario Castellano); ma alla fine il piano non poté avere
attuazione.
In definitiva,
l’unico concreto risultato di questi tentativi di fuga fu di indurre le
autorità saudite ad aumentare la composizione numerica del corpo di guardia
delle isole, che crebbe da una decina di soldati ad un centinaio; ma i rapporti
tra questi e gli internati che dovevano sorvegliare rimasero comunque piuttosto
rilassati.
Nel febbraio 1942 gli
internati di Gedda rimasero privi della protezione diplomatica: dietro
pressioni britanniche, infatti, le autorità saudite imposero alla Legazione
italiana di lasciare il Paese. La partenza del personale italiano avvenne l’8
febbraio; prima di andarsene il meccanico della Legazione, stabilitosi da molti
anni in Medio Oriente, regalò agli internati la sua piccola biblioteca
personale: ne facevano parte tra l’altro libri di Édouard Schuré, Johann
Nordmann, Eduard von Keyserling, Armand Carrel ed altri.
Una conseguenza della
soppressione della Legazione italiana fu che agli internati nelle isole venne
revocata la facoltà di recarsi a terra, salvo casi eccezionali. La tutela degli
internati venne delegata, da quel momento, all’incaricato d’affari della
Turchia, che però non destò una grande impressione: vendette loro
clandestinamente del prosciutto, che risultò poi essere avariato.
Successivamente giunse a Gedda un ministro di Turchia, con la moglie ed il suo
gattino (che fu affidato ai medici italiani per una delicata operazione). Da
ripetuti incontri tra i funzionari turchi ed il comandante Gasparini iniziò
gradatamente a prender vita un progetto per il rimpatrio degli internati, o
quanto meno di quelli più anziani e dei malati, mediante trattative in cui la
neutrale Turchia avrebbe potuto fungere da mediatrice; si discusse inoltre la
situazione dei civili, che a differenza dei militari, in base alle convenzioni
internazionali, avrebbero avuto il diritto di riprendere il mare, a proprio
rischio e pericolo.
Il 21 marzo 1942
giunse in visita nelle isole un delegato svizzero della Croce Rossa
Internazionale, che dopo aver mangiato delle patate dolci fritte in olio di
semi, disse che in Europa non se ne trovavano più da tempo: Ennio Giunchi,
però, osserva che “dal suo florido
aspetto non si sarebbe detto che in Europa si vivesse peggio che ad Abu Saad”.
A fine giugno 1942
giunse la notizia che erano iniziate trattative per il rimpatrio di tutti gli
internati, una sorta di scambio a tre (anzi, a quattro): la Turchia aveva
contattato i governi italiano e britannico, proponendo che il primo rilasciasse
un numero di militari britannici prigionieri in Italia equivalente a quello
degli italiani internati in Arabia, e che in cambio il secondo, che controllava
tutte le terre ed i mari circostanti, permettesse a questi ultimi di rientrare
in Italia. Era stato soprattutto il governo dell’Arabia Saudita a fare
ripetutamente pressione su quello britannico affinché si trovasse un’intesa per
il rimpatrio degli italiani: quegli ottocento uomini che dovevano essere
alloggiati, vigilati e rifocillati, infatti, rappresentavano un peso non
trascurabile per le magre risorse del Paese arabo. Le autorità britanniche, dal
canto loro, avrebbero voluto evitare che quelle centinaia di ufficiali e
marinai in buone condizioni di salute tornassero in forza alla Regia Marina, e
quindi a combattere contro di loro; ma al contempo erano anche preoccupate
dalla presenza di un numero tanto elevato di militari nemici, ancorché
internati e disarmati, vicino alle linee di comunicazione britanniche tra
l’Egitto e l’India. Fu proprio la proposta turca di una controparte al rimpatrio
degli italiani, costituita dal rilascio di un eguale numero di prigionieri
britannici, a convincere le autorità di sua maestà, che accettarono
immediatamente.
In luglio il governo
saudita accordò ai profughi civili il permesso di riprendere il mare, con i
propri mezzi ed a proprio rischio e pericolo: le trattative da poco avviate
avrebbero potuto portare ad un rimpatrio ben più sicuro anche per loro, ma
ciononostante parecchi civili non vollero attendere, e preferirono tentare la
sorte. Per la partenza, tutti i profughi si radunarono ad Abu Saad, dove erano
state concentrate e riparate le imbarcazioni che avrebbero dovuto utilizzare: i
partenti erano suddivisi in vari gruppi, ognuno con un proprio segreto piano da
seguire. Alcuni, come si venne a sapere in seguito, contavano di risalire il
Mar Rosso fino in Sinai, sbarcarvi, attraversare quella penisola fino a
raggiungere la costa mediterranea e qui impossessarsi di un’imbarcazione con
cui avrebbero tentato di raggiungere il possedimento italiano del Dodecaneso.
Altri avevano piani ben più fantasiosi: dirigersi verso sud, entrare in Oceano
Indiano e procedere a vela fino in Malesia, dove si trovavano le truppe
giapponesi; oppure raggiungere il Mediterraneo circumnavigando tutto il
continente africano. Scrive Ennio Giunchi: “Sogni
inattuabili, tanto più che agli inglesi non era certamente ignota la loro
partenza; ma sogni nobili e generosi. Le imbarcazioni, alcune delle quali
tenevano appena il mare, lasciarono Abu Sa’ad ad una aduna. I partenti cantavano…
Eravamo tutti sul pontile. C’era anche Abu Alì: agitava un suo straccio bianco
in segno di saluto ed era commosso fino a piangere. Si rivolgeva ai quattro
punti cardinali e pronosticava che, dovunque fossero andati, i poveretti
sarebbero stati catturati dagli inglesi. “Meschin, meschin…” diceva, crollando
il capo e agitando le mani in segno di deprecazione”.
Tra i partenti era
anche Bruno Cipriani, benché egli non fosse, in realtà, un civile: il suo
gruppo andò incontro ad una vera odissea, durata sei mesi. Dapprima riuscì ad
eludere la sorveglianza da parte di un’unità britannica, che sembrava essere in
attesa appena fuori Gedda; poi seguì la costa verso sud fino a giungere in
Yemen, sbarcando ad Hodeida; poi, non avendo trovato appoggio, ripartì diretto
a Gibuti, nella Somalia francese, territorio che dopo la resa della Francia nel
giugno 1940 si era posto agli ordini del governo collaborazionista di Vichy, ed
era stato per questo sottoposto dai britannici a blocco navale. L’imbarcazione
di Cipriani riuscì ad attraversare il Mar Rosso, eludere il blocco britannico e
raggiungere Gibuti, ma qui i componenti della piccola spedizione non furono
autorizzati ad incontrare i rappresentanti italiani (a Gibuti era stata creata
una commissione italiana per la vigilanza del rispetto delle norme
dell’armistizio con la Francia) e dopo qualche giorno furono obbligati dalle
autorità francesi a ripartire. A questo punto, avevano fatto ritorno a Gedda.
Altre due barche si
erano dirette verso nord, insieme: a bordo erano in tutto quindici uomini,
sette su una (Laner, Bagnini, Bozzo, Manfredi, Sengal, Del Carlo e Bargellini)
ed otto sull’altra (Rastrelli, Carlucci, Gavazzi, Forcheri, Lelli, Gazzeri,
Gennaro e Bonfiglio); avevano con sé una radio ricevente, nel gruppo di Laner.
Siccome era in corso in quei giorni la prima battaglia di El Alamein, e si
credeva che le truppe italo-tedesche avrebbero sfondato in Egitto, questi due
gruppi pianificavano di seguire alla radio l’andamento della campagna
nordafricana e, in base alla situazione, di sbarcare in un determinato punto
della costa egiziana, da dove poi avrebbero cercato di passare la linea del
fronte. Se lo sfondamento fosse davvero avvenuto, si sperava, si sarebbe potuto
aspettare a ridosso di qualche isolotto deserto per poi sbarcare direttamente
in territorio occupato dalle truppe dell’Asse. Questa spedizione era ben
equipaggiata: oltre alla radio, disponeva di abbondanti scorte di cibo, di ami
da pesca ed anche di un rudimentale distillatore, il che avrebbe permesso loro
di resistere in mare per lungo tempo.
La loro avventura
durò diciassette giorni: incontrarono burrasche, subirono avarie, scoppiò un
incendio nella barca di Rastrelli, ebbero difficoltà ad approdare sulle coste
rocciose che incontravano; infiltrazioni d’acqua negli scafi costrinsero gli
occupanti a sgottare senza sosta; quel che è peggio, la radio si guastò quasi
subito. Dopo diciassette giorni, nondimeno, le imbarcazioni riuscirono a
raggiungere la baia di Sher el Mahar; ma mentre gli uomini erano a terra per
ripulirsi e rifocillarsi, Sengal, di guardia su un sambuco arabo ormeggiato un
po’ più in fuori, avvistò il panfilo armato HMS Sagitta diretto verso la baia. I quindici uomini racimolarono
frettolosamente un po’ di provviste e bagagli, poi tentarono di fuggire verso
l’interno, correndo verso una lontana macchia di cespugli; ma il Sagitta inviò a terra delle motolancie
con marinai armati di fucili e di mitra, che in breve raggiunsero e catturarono
tutti – o quasi. Il sottotenente Laner, che era fuggito in una direzione
diversa, riuscì a trovare un nascondiglio ed a sottrarsi così alla cattura.
Fece ritorno a Gedda, venendo rimandato nelle isole. Gli altri furono condotti
prigionieri a Porto Sudan.
Anche altri
fuggiaschi, dopo aver invano girato per il Mar Rosso nel tentativo di
raggiungere l’Italia, finirono col tornare a Gedda a fine 1942. Ai più andò
meno bene: quasi tutti i gruppi, infatti, fecero ben poca strada prima di
essere intercettati e catturati dai britannici al largo di Gedda, sulla rotta per
l’Eritrea, finendo prigionieri in Sudan. Alcuni, come il capitano Rosellini,
non ne tornarono vivi.
L’estate del 1942 fu
estremamente calda: soltanto nelle poche ore in cui tirava il maestrale era
possibile svolgere qualche attività; il resto del giorno, il caldo torrido (55
°C all’ombra) unito ad un’umidità impressionante abbatteva corpi ed animi. “Le vesti sono bagnate come di pioggia. I
teli delle tende gocciolano su chi tenta di dormire; dolgono i muscoli e le
ossa”. In serata, invece, soffiava vento di libeccio.
Lungo le pareti
esterne degli edifici i marinai avevano costruito numerose capanne in legno e
stuoia, nelle quali alloggiavano più comodamente; fiorivano gli spacci, si
giocava a bocce (erano state realizzate due nuove piste per questo gioco), di
sera si ballava. Ennio Giunchi descrive l’atmosfera che regnava quell’estate ad
Abu Saad: “Il pensiero delle trattative
per il rimpatrio ossessionava tutti, ma si preferiva non parlarne. Così pure si
preferiva non parlare di guerra e di donne; ma guerra e donne esasperavano i
ricordi e le speranze. Sui muri delle stanze e dei camerini si allineavano
immagini di donne e di navi, di donne e di simboli marinari, di donne e di
carte geografiche dei teatri della guerra. Gambe celebri di ballerine, gambe parlanti,
gambe malvagie e gambette buone, tutte ritagliate dai giornali americani che si
acquistavano a peso allo spaccio arabo. Ma la stampa che ebbe più fortuna ad
Abu Sa’ad raffigurava una ragazzina in veste povera e linda, seduta in una
stanza modesta, gli occhi sereni e le mani raccolte in grembo. La domenica,
dopo la partita di palla a volo, un colpo di fischio ci riuniva tutti a capo
scoperto. Figari, il guardiamarina più giovane, leggeva la preghiera del
marinaio. Il sole tramontava (…) il
mare rombava sugli scogli lontani e pareva chiamarci. Per un attimo ci
credevamo a bordo, raccolti sulla poppa di uno scafo rollante; il fischio del
nostromo evocava la bandiera lentamente ammainata, palpitante come cosa viva
nel vento aspro e salso. Poi si rompevano le righe; i cani, che durante la
cerimonia stavano muti e fermi, prorompevano a ruzzare latrando; dalle cucine
si levava l’acciottolio delle gamelle, i lampionai posavano i lumi presso ogni
porta, le sentinelle arabe cominciavano a gridare l’allerta; un altro giorno
moriva”.
La situazione
sanitaria rimaneva molto precaria: quasi un terzo degli internati erano affetti
da malaria, e molti altri avevano disturbi di altro genere, da coliche
intestinali a svenimenti improvvisi, da reumatismi a problemi nevralgici, a
piaghe tropicali (estremamente diffuse), a malattie della pelle come la scabbia
ed il lichen pruriginoso, chiamato “cane rosso” e diffusissimo. E per finire,
alcuni malati presentavano sintomi che facevano pensare alla tubercolosi. Per
più di un anno, l’unico medico disponibile per i quasi ottocento uomini di Abu
Saad ed El Wasta fu il sottotenente medico Filippo Palmieri, che doveva
lavorare nella quasi completa assenza di strumenti e medici e medicinali: tutto
ciò che poté ottenere furono un po’ di alcol, cotone, chinino, atebrina e
plasmochina, acquistati nel suk di
Gedda.
A questi problemi
fisici la nostalgia di casa, la lontananza dagli affetti e la condizione di
internati, confinati in poche centinaia di metri quadrati, aggiungevano anche
disturbi nervosi: c’erano casi di nevrosi, isterismo, abulia e depressione,
problema quest’ultimo che colpiva anche il medico stesso, stremato dal troppo
lavoro e dall’insufficienza dei mezzi.
Uno dei casi più
gravi era un cannoniere del Pantera,
il quale iniziò a subire frequenti crisi isteriche, durante le quali “acquistava una forza prodigiosa ed era
difficile tenerlo fermo per impedirgli di fare del male a sé e agli altri. Gli
pareva che stormi di velivoli picchiassero su di lui sganciando bombe e bombe.
Le crisi erano seguite da periodi di profonda depressione e di mania di
persecuzione, durante i quali non bisognava perderlo di vista notte e giorno;
spesso i compagni riuscirono appena in tempo a trarlo dall’acqua od a
strappargli una lama con la qual voleva tagliarsi le carni. Le sue grida
inumane risuonavano alte nelle notti dell’isola”.
Tra i più colpiti
dall’abulia erano gli ascari, che avevano lasciato le loro case per partecipare
a quell’ultima missione e si ritrovavano ora bloccati lontani dalla loro terra,
sulla riva sbagliata del Mar Rosso: rinchiusi dapprima fra le quattro mura
della caserma di Gedda e poi nel poco spazio delle isolette, sprofondarono in
uno stato di generalizzato torpore, passando tutta la giornata seduti nelle
loro tende o nel piccolo recinto che avevano designato a moschea. La situazione
giunse ad un punto di rottura quando uno di essi, punito dal tenente di
vascello Coco con la “cella” in seguito ad un’infrazione, si rifiutò di
trasferirvisi: quando i marinai di guardia tentarono di portarvelo a forza,
vennero assaliti dagli altri ascari, scatenando così una furibonda
colluttazione. In seguito a questo incidente, gli ascari vennero allontanati
dalle isole e consegnati alle autorità saudite, che provvidero al loro
rimpatrio in Eritrea.
Qualche episodio di
“indisciplina” si verificò anche tra gli italiani; un giorno mano ignota
tracciò un’esortazione a non obbedire agli ufficiali sul muro di una latrina,
ma questo invito non ebbe molto seguito.
Nel luglio 1942 un
gruppetto di malati e convalescenti, al comando del tenente di vascello Emilio
Scialdone, venne trasferito nella cittadina montana di Ta’if, a 1879 metri sul
livello del mare (e cinque ore di automezzo da Gedda), nella speranza che il
clima montano potesse avere un effetto benefico sulla loro salute. Tra questi
malati c’era anche un impiegato civile profugo da Massaua, Plazi, arrivato
nelle isole nel dicembre 1941. Poco dopo l’arrivo ad Abu Saad, Plazi aveva
iniziato a sentire forti dolori alla schiena, e gradualmente era rimasto
paralizzato nelle gambe; era uno dei casi più gravi.
Il soggiorno a Ta’if
non rispose alle aspettative, anzi si trasformò quasi in un incubo: durante il
viaggio uno degli automezzi si rovesciò, e ci furono dei feriti; poi, durante
il soggiorno, i rapporti con le autorità locali divennero tesi quando le
guardie si accorsero che alcune ragazze del posto, passando sotto le finestre
da cui guardavano gli internati, “esibivano
in mille modi non solo il viso, ma anche più di quanto sogliano mostrare in
pubblico le donne d’occidente”; un tedesco (vi erano anche alcuni tedeschi
internati a Gedda, oltre agli italiani), malato di tubercolosi, si uccise
tagliandosi le vene; un sergente del Battisti,
anch’esso tubercolotico, tentò ripetutamente di buttarsi da una finestra. In
ottobre, infine, il gruppo di Ta’if fece ritorno nelle isole.
E come c’erano dei
malati, così ci furono anche dei decessi, durante la lunga permanenza in Arabia
Saudita. Il primo morto, tra la popolazione di Abu Saad, fu un ascaro, di nome
Makonnen: “un ragazzo alto e secco che,
nel lungo camicione di foggia araba, pareva un candido spaventapasseri,
illuminato dal costante sorriso degli occhi vivissimi”. Morì
improvvisamente, poco dopo il trasferimento nell’isola; il suo corpo, avvolto
nel tricolore, venne sepolto nel cimitero di Gedda riservato ai non musulmani,
perché Makonnen era di religione cristiana copta.
Il secondo fu lo
sfortunato Plazi, l’impiegato civile gravemente malato mandato a Ta’if nel
luglio 1942. Dopo un iniziale, ingannevole miglioramento, le sue condizioni si
erano ulteriormente aggravate; morì ad inizio settembre. La sua salma, chiusa
in una cassa di assi sconnesse su cui i marinai avevano inchiodato tre bande di
stoffa – una verde, una bianca, una rossa – ed una rozza corona di sterpi
recante un nastro con la scritta «In
memoria. I tuoi camerati», venne rimandata a Gedda su un autocarro
sgangherata e sepolta anch’essa nel cimitero dei non musulmani, il 3 settembre
1942.
Soltanto un ristretto
gruppo di internati ebbe l’autorizzazione per recarsi a terra per la cerimonia
funebre; tra di essi Ennio Giunchi, che scrive: “[il cimitero] è un quadrato di terra cinto da un rozzo
muro alto più di due metri, ornato da una fila di punte merlettate. (…) Dentro, un centinaio di tumuli rettangolari,
spogliati delle lapidi marmoree che li ricoprivano. Qualche tomba è tuttavia
intatta. Ecco un capitano marittimo De Senibus, comandante il piroscafo
Narenta, morto nelle acque di Gidda nel 1888, dopo trentotto anni di
navigazione su tutti i mari; un medico sardo, morto di peste nel 1910; la
moglie di un agente del Lloyd Triestino. Poi un greco; alcuni inglesi; un
americano; un francese; «Huber, morto per la scienza»; due ebrei, dalle
epigrafi in caratteri latini ed ebraici. Su una croce recente, senza nome, è
posato un distintivo degollista. In un angolo, le croci dell’ascari Makonnen e
di un marinaio morto a El Uasta. Gli affossatori ne avranno ancora per due ore;
sotto la sabbia c’è duro corallo. Poveretto, diceva: «Lascerò qua le mie ossa…
non voglio morire qua». (…) mostrava
la fotografia di una bimbetta di dodici anni: «Sette anni che non la vedo…»
Eccolo qui, un certo giorno di settembre: aveva ragione lui. Fra molto tempo,
tramite le autorità consolari, giungerà forse a Gidda un ricordo marmoreo della
famiglia; null’altro; chi potrebbe affrontare un viaggio così lungo per un
morto? I suoi parenti guarderanno qualche volta sull’atlante il circoletto di
Gidda, e non sapranno neppure immaginare come ci riposi il poveretto. La fossa
è pronta. I marinai calano la bara; il comandante getta la prima palata di
terra, e ci raccogliamo nell’ultimo saluto”.
La terza vittima fu
il sergente Giuseppe Bianchi del Battisti,
ammalatosi di tubercolosi nell’estate 1942: isolato in una stanzetta per
evitare il contagio, sembrò sulle prime avere buone speranze, ma nel dicembre
di quell’anno subì un grave peggioramento. Trasferito all’ospedale di Gedda, vi
morì poco dopo.
Le
trattative, intanto, continuavano; il comandante Gasparini si mostrava
fiducioso, ma non lasciava trapelare molto. Giravano le voci disparate; tra gli
internati c’era chi credeva che presto si sarebbe tornati in Italia, al punto
di preparare già i bagagli, e chi invece pensava che le trattative non
sarebbero approdate a niente: tra questi ultimi il direttore del tiro del Pantera, Sabatini, che a inizio 1943
iniziò a costruire una nuova capanna per la prossima estate, che prevedeva di
passare ancora ad Abu Saad. La notte di capodanno del 1943 il direttore di
macchina del Pantera, Pasino, ed il
comandante del Battisti, Papino,
fecero una scommessa, avente come posta una cena: il primo sosteneva che il
Capodanno del 1944 l’avrebbero passato in Italia, il secondo che sarebbero
stati ancora ad Abu Saad.
Ennio
Giunchi scrive di un curioso episodio: una notte, molti internati sognarono di
ricevere grandi quantità di posta; l’indomani ebbero notizia che i governi
italiano e britannico avevano accettato di condurre lo scambio, anche se
restavano ancora da concordare i tempi ed i modi. Passarono poi altre settimane
senza nessun aggiornamento; scrive Ennio Giunchi che “le disgrazie, che negli ultimi tempi si facevano più frequenti,
alimentavano il nostro pessimismo di pensieri sconsolatamente lugubri. Qualche
volta, scavando, avevamo dissotterrato un teschio, un mucchio di vecchie ossa:
quegli scheletri senza nome ora ci ossessionavano, ci parevano i nostri. Chi sa
quanti anni ancora, fallite le trattative, saremmo stati internati; e a poco a
poco saremmo soggiaciuti alle più crudeli malattie”. Non contribuiva a
rasserenare gli animi l’insorgere a Gedda, in quel periodo, di un focolaio di
colera, che si temeva si sarebbe potuto diffondere anche nelle isole. “Vedevamo con l’immaginazione sempre nuove
croci erigersi in quel triste cimitero. Molti di noi non avrebbero riportato in
patria le proprie ossa. Qualche pellegrino, scavando ozioso la terra di Abu
Sa’ad, le avrebbe dissepolte un giorno…”. Nell’isola di El Wasta, i
profughi civili avevano organizzato una sorta di servizio informazioni
raccogliendo dai fornitori arabi tutte le notizie che circolavano in merito
all’andamento delle trattative.
Questa
situazione d’incertezza si protrasse fino al marzo 1943, quando all’improvviso
gli internati ricevettero la notizia che una nave britannica era già in
navigazione verso Gedda per imbarcarli e trasportarli in Turchia, dove sarebbe
avvenuto lo scambio.
I
governi dell’Italia e del Regno Unito avevano infatti raggiunto un accordo: in
cambio del rimpatrio degli internati in Arabia, che erano in tutto 788
(compreso un gruppetto di tedeschi, tra cui anche 25 marinai rilasciati dalle
autorità britanniche in aggiunta a quelli internati in Arabia), l’Italia
avrebbe rilasciato 838 prigionieri di guerra britannici, australiani e
sudafricani, detenuti in massima parte in campi di prigionia situati sul
territorio italiano (partecipò allo scambio anche la Germania, che fornì un
gruppetto di 26 prigionieri britannici da scambiare con i 25 tedeschi). Tra i
prigionieri che l’Italia avrebbe rilasciato era anche il settantunenne
ammiraglio britannico Walter Cowan, catturato in Nordafrica da carristi
italiani della Divisione "Ariete" il 27 maggio 1942: si trattava
dell’unico ammiraglio della Royal Navy in mani italiane, nonché di uno dei più
anziani ufficiali britannici in servizio attivo.
In
cambio del rilascio di quel gruppo di prigionieri, il Regno Unito non solo
avrebbe permesso il rimpatrio degli italiani attraverso i mari da esso
controllati, ma avrebbe provveduto esso stesso a trasportarli dall’Arabia fino
in Mediterraneo: a questo scopo sarebbe stato destinato il grosso piroscafo Talma della British India Steam
Navigation Company, requisito come trasporto truppe. Da parte italiana, i
prigionieri da scambiare sarebbero stati trasportati dalla nave ospedale Gradisca. Il Regno Unito aveva dato il
suo assenso all’accordo, proposto dalla Turchia, già l’11 ottobre 1942, pochi
giorni dopo aver ricevuto la proposta; l’Italia aveva fatto lo stesso il 22
gennaio 1943.
Luogo
designato per lo scambio era il porto turco di Mersina, territorio neutrale, nel
quale Talma e Gradisca si sarebbero date appuntamento: data fissata, il 20 e 21
marzo 1943.
Ad
Abu Saad, la notizia del prossimo rimpatrio scatenò l’euforia: “Fu un gridare, un correre senza meta, uno
scambiarsi parole concitate, un esaltarsi e calmarsi a vicenda, un affrettarsi
in preparativi ancora increduli… Gli amici si cercavano e passeggiavano insieme
senza saper che dire, i nemici si sorridevano; tutti si scambiavano gesti
d’intesa con le mani e col capo, come a dire: «Finalmente! Ci siamo!»”. Nei
giorni seguenti, gruppi di marinai montarono di guardia sui tetti degli
edifici, sperando di avvistare qualcosa all’orizzonte; ci furono alcuni falsi
allarmi, per abbaglio o per scherzo di chi indicava un punto all’orizzonte,
provocando un accorrere di gente sulla spiaggia, gente che dopo un po’, non
essendo visibile alcuna nave, se ne andava delusa.
Trascorsa
l’euforia dei primi momenti, intanto, si iniziò a riflettere: all’istintiva
felicità per l’imminente rimpatrio iniziarono a subentrare i dubbi su ciò che
gli “esuli” avrebbero trovato in Italia. Dell’andamento della guerra sapevano
solo quello che avevano sentito dai bollettini radio italiani; “…fino ad allora, per due lunghi anni, non
avevamo mai osato dirci: "La gurra è perduta". Non per stupido
conformismo, ma perché avevamo bisogno di credere in qualche cosa come si ha
bisogno dell’aria per respirare. Ma ecco che d’un tatto i bollettini degli
ultimi mesi ci si affollavano alla memoria con un suono diverso; e ci pareva di
aver sempre saputo che essi nascondevano una tragica realtà che l’esilio ci
aveva a lungo risparmiata ma che fra poco non avremmo più potuto ignorare”.
Ciononostante, il desiderio di lasciare l’Arabia al più presto rimaneva; il
pensiero dominante era “Almeno rivedremo i nostri cari, l’Italia; poi
speriamo…”.
Il
13 marzo 1943 il Talma giunse a
Gedda. Ad Abu Saad, gli internati si radunarono nel piazzale centrale, ciascuno
con i pochi bagagli; a pranzo si mangiarono panini fatti distribuire dal
commissario Castellano, mentre il comandante Gasparini discuteva al telefono
con le autorità locali per prendere accordi circa l’imbarco. Fu deciso che gli
internati di Abu Saad sarebbero saliti immediatamente sul Talma, mentre quelli di El Wasta avrebbero dovuto attendere fino
all’indomani mattina. Pilla fu affidata a Nasib: gli internati non avevano
ottenuto il permesso di portarla con sé sul Talma,
e già da qualche giorno, mentre fervevano i preparativi per la partenza, la
cagnetta era apparsa angustiata e depressa, come se avesse capito. Giunsero al
pontile i sambuchi destinati a trasbordare gli internati; i nostromi
fischiarono l’ultima assemblea, ed ebbe inizio l’imbarco. “Abu Sa’ad cominciò ad allontanarsi, finché si sarebbe fermata, fuori del tempo e dello spazio, per galleggiare
immobile sui flutti del ricordo”.
Ennio
Giunchi, salito sulla prima motolancia, fu tra i primi a giungere a bordo del Talma. Una volta a bordo, Giunchi e
compagni furono accolti da alcuni ufficiali, con reciproco scambio di
imbarazzati saluti tra nemici soggetti a quella transitoria e particolarissima
tregua; un ufficiale britannico, che parlava italiano, invitò i nuovi arrivati
a seguirlo a prua, dove un giovanissimo capitano britannico provvide a
perquisirli, non prima di essersi scusato per quella sgradevole incombenza.
Terminata la perquisizione, gli italiani furono sistemati in una stiva; quando
alcuni accesero delle sigarette, un ufficiale britannico li informò,
ossequiosamente, che in quel locale era vietato fumare.
L’imbarco
degli internati di Abu Saad venne completato in serata; il mattino del 14 marzo
salirono sul Talma anche il gruppo di
El Wasta e quello degli internati tedeschi. Poco prima che il piroscafo
salpasse le ancore salirono a bordo alcuni ufficiali arabi, accompagnati dal
sottufficiale Abu Alì, per salutare i partenti; scrive Ennio Giunchi: “…ci parvero d’un tratto assai lontani da noi.
Avevamo appena lasciato le isole e, col pensiero rivolto all’Italia, già ci
pareva di esserne mille miglia lontani; già vedevamo negli Arabi la “gente di
colore”, che ci tardava dimenticare, quasi essi non ci avessero soccorsi nella
disgrazia e non ci avessero ospitati per due lunghi anni. Fosse per queste
sensazioni, fosse per deplorevole rispetto umano nei confronti degli inglesi,
Abu Alì e i suoi compagni furono salutati con molta freddezza: lo confesso a
vergogna di parecchi dei miei compagni. Credo che qualcuno di noi fingesse di
non vedere la mano che Abu Alì gli tendeva, dopo averla portata alle labbra e
al cuore, con quel suo fare sorridente e accattivante; così che il brav’uomo si
precipitò addirittura su di me, che gli stringevo le mani e lo pregavo di
salutarmi anche Hassan, il “grande Curdo”. C’è ancora nella mia memoria la
bianca figura di Abu Alì che, tenendosi in disparte, cercava di farsi notare da
quelli che si erano chiamati suoi amici e ora gli passavano accanto fingendosi
distratti. Egli continuava tuttavia a sorridere, con un occhio strizzato in un
gesto che gli era abituale; finché, solo e dimenticato, pur sorridente
raggiunse la scala, si rivolse ancora in un vago gesto di saluto e disparve”.
Verso
mezzogiorno il Talma mollò gli
ormeggi ed iniziò la navigazione verso Suez. “Quando mi sporsi a guardar verso poppa, le isole, Gidda, la costa,
tutto era già scomparso di là dall’orizzonte; si scorgevano appena, violetti, i
monti della Mecca”.
La
navigazione attraverso il Mar Rosso fu senza storia; poco prima di entrare nel
Golfo di Suez gli ormai ex internati poterono assistere ad un attacco simulato
di aerosiluranti contro un incrociatore. Prima che il Talma imboccasse il Canale di Suez, vennero tesi sui ponti delle
cortine, in modo da impedire agli italiani di vedere il Canale; unico scorcio,
intravisto attraverso uno spiraglio tra due cortine, fu la vista presso
Ismailia di un gruppo di ragazze che cantavano e salutavano la nave dal
terrazzo di una villa.
Il
vitto per i passeggeri italiani consisté inizialmente in patate bollite, ma
dopo alcuni giorni, saputo che gli ufficiali britannici prigionieri ricevevano,
sulla Gradisca, trattamento di prima
classe, gli ufficiali italiani sul Talma
furono trasferiti in cabine di prima classe ed il loro menù migliorò di molto,
con uova al bacon, porridge, prosciutto ed altro.
Durante
la traversata gli ufficiali italiani ebbero modo di conoscere meglio i loro
colleghi britannici a bordo del Talma,
stringendo con alcuni rapporti anche cordiali, nonostante lo stato di guerra
dei rispettivi Paesi; uno di essi, il capitano scozzese Mac Leod, aveva madre
italiana, ed aveva avventurosamente lasciato Roma due giorni dopo l’inizio
della guerra. Un altro capitano britannico (soprannominato “il droghiere” dai
marinai per via del suo aspetto corpulento e della sua faccia colorita) aveva
vissuto a lungo in Italia, tanto da conoscere non solo l’italiano, ma anche
diversi dialetti; nelle sue conversazioni con gli ufficiali italiani,
prospettava loro che al rientro in Italia sarebbero rimasti molto delusi dalla
situazione che vi avrebbero trovato. Molti bollarono questi discorsi – che
comunque non degeneravano mai in litigio – come tentativi di guerra
psicologica, ma i fatti gli avrebbero dato ragione: anzi, ciò che li aspettava
in Italia si sarebbe rivelato ancor peggiore delle più tristi previsioni del
“droghiere”.
Dopo
tante peripezie, poco ci mancò che gli equipaggi del Mar Rosso non venissero
uccisi sulla porta di casa dai loro stessi compatrioti: il 19 marzo, al largo
di Alessandria d’Egitto, alcuni bombardieri italiani, provenienti da Rodi e non
al corrente dell’accordo (secondo altra versione, invece, non avevano visto i
segni di riconoscimento verniciati sulle murate del Talma: qualcuno degli ufficiali italiani, prima di imbarcarvisi,
aveva infatti espresso il dubbio che i contrassegni non fossero ben visibili a
grande distanza), sganciarono una decina di bombe, che fortunatamente finirono
tutte in mare.
La notizia dell’attacco aereo contro la Talma sul giornale australiano “Argus” del 24 marzo 1943 |
Infine,
la sera del 20 marzo, il Talma
raggiunse il porto turco di Mersina, presso il quale avrebbe avuto luogo lo
scambio. La nave ospedale italiana Gradisca,
che aveva portato dall’Italia i prigionieri britannici da scambiare con gli
internati italiani, era già arrivata; brillava nell’oscurità con le sue luci
bianche, rosse e verdi. Scrive Ennio Giunchi: “Guardammo a lungo quella nave che era, finalmente, l’Italia. La notte
non potei prender sonno. Ascoltavo una canzone malinconica che alcuni ufficiali
inglesi cantavano in salone, accompagnati al pianoforte da Mac Leod. Anche
Pasino, sdraiato nella cuccetta sopra la mia, si agitava irrequieto; tacevamo,
non riuscendo ad esprimere i sentimenti che ci agitavano e turbati da un senso
di tristezza che, quasi come un doloroso presentimento, soverchiava la gioia
del ritorno”.
Il
mattino del 21 marzo ebbe inizio il trasbordo: c’era brutto tempo, il mare era
mosso, a tratti si verificavano scrosci di pioggia. Italiani e britannici, in
gruppi di eguale numero, venivano trasportati da una nave all’altra e viceversa
mediante grosse chiatte; all’operazione sovrintendeva, come controllore
neutrale, un capitano di corvetta della Marina turca. Ancora Giunchi: “Gli ex-prigionieri inglesi che salivano a
bordo parevano anch’essi incerti, smarriti. Essi e i nostri marinai si
accostavano, si offrivano sigarette, scambiavano gesti e monosillabi amichevoli”.
Ultimi a sbarcare dal Talma furono
Giunchi, Andolfi e Scialdone, rimasti a bordo per dirigere le operazioni di
scambi; salirono sull’ultima chiatta in partenza per la Gradisca, e Giunchi prese commiato dal capitano MacLeod, che gli
aveva lungamente parlato di Roma, dove viveva sua madre. “«Mi rivedrà in Italia o come vincitore o come prigioniero», disse Mac
Leod sorridendo. «Oppure – suggerii poco convinto – semplicemente come civile,
dopo una guerra perduta dall’Inghilterra…» «Non è possibile» mormorò serio Mac
Leod, e in quel momento era sincero, non pensava alla “guerra psicologica””.
Non si sarebbero mai più rivisti: MacLeod sarebbe morto a Napoli per
un’infezione alcuni mesi più tardi, senza mai avere modo di rivedere Roma e la
madre.
Come
pronosticato dal “droghiere”, la realtà colpì con violenza i reduci del Mar
Rosso, non appena essi ebbero messo piede sulla Gradisca. L’Italia era molto cambiata in quei tre anni in cui ne
erano stati assenti: la guerra era ormai persa, regnavano la sfiducia, l’apatia,
la rassegnazione, l’arte di arrangiarsi, anche a discapito del prossimo.
Sfibrato dalle recenti gravissime sconfitte in Africa e Russia, fiaccato dalle
crescenti privazioni e dai bombardamenti sempre più pesanti, il Paese era allo
sfascio morale e materiale, sfascio che si sarebbe manifestato in tutta la sua
funesta evidenza di lì a pochi mesi.
Giunchi
incontrò un ufficiale suo conoscente (nel gennaio 1941, quando Giunchi era
partito per l’Africa Orientale, questi ricopriva il ruolo di ufficiale di
collegamento della Marina presso lo Stato Maggiore Generale a Roma), che
ricopriva in quel periodo la carica di addetto navale in Turchia e che si era
recato a Mersina per assistere allo scambio: “Lo ricordavo a Roma (…) quando
ero partito per l’avventura africana con mille dubbi e presentimenti; lo
rivedevo ora al ritorno, l’avventura era finita e i dubbi erano diventati la
triste realtà. Poco disse, ma il suo fare depresso confermò che poco di buono
ci sarebbe stato da dire. I migliori ci parlavano tutti così, con reticenza,
quasi temessero di farci male; altri invece pareva provassero un triste piacere
nel disincantarci nella forma più brutale (…) quante volte ci chiedemmo sbigottiti, nel corso di una conversazione:
“Ma è un connazionale, un combattente, costui che mi parla, o non è piuttosto
la voce stessa di Londra?” Alcune di quelle notizie, pescate pari pari dalla
propaganda inglese e rilanciate quasi con acre soddisfazione, forse erano vere,
in tutto o in parte; ma vivaddio, ne aveva contate tante di frottole radio
Londra, come ben sa chi è andato per mare in quegli anni (…); ed ora che stavamo con l’acqua alla gola,
non c’era proprio di meglio da fare che aiutare i nemici nella loro “guerra
psicologica”? (Oh, eravamo ingenui (…) ma
se ingenuità voleva dire (…) carità
di patria e fierezza nazionale, spero che molti di quei mie compagni d’internamento
non ne siano guariti). Gli stessi sentimenti agitavano i nostri marinai; essi
si lamentavano di mille cose, c’era nei loro occhi come un muto rimprovero, lo
sgomento della delusione (…)”. Sulla Gradisca,
alcuni camerieri offrirono ai marinai rimpatrianti piatti di pastasciutta a
mercato nero, tra lo stupore generale su come una simile attività potesse
essere tollerata a bordo; vecchi ufficiali richiamati litigavano per i posti a
tavola in base a prerogative legate all’anzianità di grado.
Dopo
un viaggio di sei giorni, il 27 marzo la Gradisca
giunse a Bari. Ad attendere quegli ottocento uomini che rivedevano l’Italia per
la prima volta da anni, sul molo, c’erano delle rappresentanze delle forze
armate; quasi nessun civile, salvo un gruppetto di sette od otto operai che
assistevano in silenzio dal tetto di un magazzino. “I nostri marinai ingenuamente cantavano”, ricorda Ennio Giunchi.
C’era anche Maria José, moglie dell’erede al trono, principe Umberto: passò in
rassegna i marinai schierati, fermandosi di quando in quando a chiedere a
questo e quello di dove fosse e come si chiamasse. Un ammiraglio rivolse ai
rimpatriati un breve discorso di benvenuto: “sulla fine del discorso non seppe frenare un moto di pianto;
onestamente non aveva voluto ingannarci”. Quando quella sera Giunchi e
compagni, ancora vestiti alla meglio con gli indumenti che avevano indossato
per tre anni in Arabia Saudita – un misto di vestiti e copricapi di varie fogge
e colori dell’Esercito e della Marina, quello che avevano potuto trovare –,
girarono per le vie di Bari, una ragazza chiese loro scherzando se i pazzi
fossero scappati dal manicomio. I civili, perlopiù, erano indifferenti. “Ci sentivamo stranieri a quell’Italia; per
due anni il mondo, per noi, era rimasto fermo (…) non potevamo, ora, capire quei sentimenti che negli altri erano
maturati col volger del tempo e alla dura lezione dei fatti”.
I
rimpatriati furono trattenuti a Bari per una settimana, mentre sulla Gradisca l’ammiraglio Amaldi conduceva,
come da prassi, un’inchiesta sulle circostanze del naufragio e dell’internamento.
Poi si divisero; a tutti fu concesso un periodo di licenza, dopo di che
ciascuno partì verso nuovi imbarchi o destinazioni, ognuno verso il proprio
destino. Lo scambio tra Italia e Regno Unito era infatti avvenuto per
iniziativa indipendente dei singoli Stati coinvolti, senza coinvolgimento della
Croce Rossa Internazionale ed al di fuori delle regole stabilite dalla
convenzione di Ginevra del 1929 (articolo 74: i prigionieri scambiati non
possono più essere impiegati in servizi militari attivi), dal momento che gli
italiani non erano prigionieri di guerra, ma militari internati in uno Stato
neutrale, ed i prigionieri britannici non erano feriti o malati. Pertanto, a
differenza che per i prigionieri liberati nell’ambito di scambi organizzati in
conformità con tali convenzioni, sia gli ex internati italiani che gli ex
prigionieri britannici tornarono a combattere, ciascuno dalla propria parte
della barricata. Non tutti avrebbero visto la fine di quella guerra.
Di
quando in quando capitava di imbattersi, per caso, in quei compagni di
avventura: “incontrandoci, ci pareva di
ritrovarci in un nostro mondo particolare, lungo centotrenta metri e largo
ottanta: di là delle parole comuni, ci sentivamo legati dal ricordo di quei due
anni vissuti insieme come in un limbo”. Quando Ennio Giunchi ottenne il
comando dell’anziana torpediniera Generale
Carlo Montanari, diversi marinai che erano stati con lui in Arabia chiesero
ed ottennero di imbarcare sulla sua stessa nave: confusi e smarriti in
quell’Italia tanto diversa da quella che avevano lasciato, avevano in lui
almeno un punto di riferimento, qualcosa in comune. “Qualche volta, quando salivo in coperta di notte, li trovavo raccolti
in gruppo silenzioso nell’ombra, che mi guardavano interroganti; sentivamo che
in noi si agitavano gli stessi pensieri e se avessimo parlato avremmo
pronunciato le stesse parole. Poi Maserati, il tenore della compagnia
“Bastingaggio”, intonava una delle canzoni che aveva cantato sul teatrino di
Abu Sa’ad. Ci separammo il 9 settembre, lasciando alle nostre spalle ancora una
nave che affondava volontariamente”. Fu questa, infatti, anche la fine
della Montanari, autoaffondata
all’indomani dell’armistizio per non farla cadere in mano tedesca.
L’Albo
dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale
registra i nomi di due uomini del Pantera
che sarebbero deceduti in Italia nel 1944: il sottocapo torpediniere Alfio
Sagliani, di 24 anni, da Terracina, deceduto il 19 settembre 1944 e sepolto nel
paese natio; ed il marinaio Luigi Alvi, di 27 anni, da Gragnano, deceduto il 24
dicembre 1944 e sepolto a Pompei. Non è stato possibile rintracciare alcuna
informazione sulle circostanze della loro morte; essendo trascorsi anni
dall’affondamento del Pantera e più
di un anno dal loro rimpatrio, se l’Albo li ha considerati come caduti del Pantera si può ipotizzare che siano
morti per le conseguenze di malattie contratte durante l’internamento in
Arabia, ma si rimane nel campo delle congetture.
Le
sorti dei reduci del Pantera si
divisero. Il comandante Gasparini, dopo l’8 settembre 1943, rimase fedele al
governo regio, restando con la Regia Marina ora cobelligerante con gli Alleati;
dal settembre 1944 al maggio 1945 fu comandante della nave scuola Vespucci. Per la sua condotta
nell’ultima missione della V Squadriglia Cacciatorpediniere, venne decorato con
la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Comandante di Gruppo di siluranti, nel
disperato tentativo di attacco a base avversaria, sottoposta ad incessanti
attacchi che causavano la perdita di due unità dipendenti, venuta meno ogni
possibilità di portare a compimento l'azione, dirigeva le navi superstiti
presso coste neutrali dove, ancora ed insistentemente attaccate dall'aria, ne
assicurava l'autoaffondamento ed il salvataggio degli equipaggi. Già distintosi
nel collaborare alla difesa della base di Massaua col fuoco delle armi di bordo
durante ripetuti e violenti bombardamenti aerei. (Mar Rosso, giugno 1940-aprile
1941)".
Il
sottotenente di vascello Aldo Baldini, direttore del tiro del Pantera, era stato promosso tenente di
vascello nell’ottobre 1941, mentre si trovava internato in Arabia; nel maggio
1943, poche settimane dopo il rimpatrio, gli fu affidato il comando della XII
Squadriglia MAS, di base nell’isola di Lero, nel Dodecaneso. Al comando di
questa squadriglia, dopo l’8 settembre, Baldini partecipò alla battaglia per la
difesa di Lero contro gli attacchi tedeschi, conclusasi il 16 novembre 1943 con
la resa del presidio italo-britannico; il giovane ufficiale fu poi prigioniero
in Germania fino alla fine del conflitto. Tornato in Italia nell’agosto 1945,
Baldini avrebbe proseguito la sua carriera in Marina, fino a raggiungere negli
anni Settanta il grado di ammiraglio di squadra e le cariche di sottocapo di
Stato Maggiore della Marina Militare, comandante in capo della Squadra Navale e
comandante delle forze navali NATO nell’Europa meridionale.
Aldo Baldini (Gaeta 1915-Roma 1999), ufficiale di rotta del Pantera durante la seconda guerra mondiale, qui in una foto degli anni Settanta (USMM) |
Il tenente di vascello Magnolfi, dopo l’armistizio, si unì alla Resistenza attiva nella sua natia Liguria, svolgendo pericolosa attività informativa che gli sarebbe valsa la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Al
direttore di macchina Pasino capitò la singolare sorte di ritrovarsi nuovamente
internato in terra neutrale in seguito all’affondamento dell’unità su cui era
imbarcato, a soli sei mesi dal suo ritorno dalla precedente avventura in
Arabia: era stato infatti destinato, in qualità di direttore di macchina, su
una delle siluranti che raggiunsero le Baleari in seguito all’armistizio, per
poi autoaffondarvisi. Con gli altri naufraghi, Pasino si ritrovò così internato
in Spagna, nel villaggio pirenaico di Caldes de Malavella fino al luglio 1944,
quando anche questi internati poterono essere rimpatriati in seguito ad accordi
con le autorità spagnole. Molte delle idee che s’inventarono i comandanti
italiani a Caldes per organizzare e tenere occupati gli internari ricordano i
provvedimenti adottati in precedenza ad Abu Saad: forse il capitano Pasino poté
in questa circostanza mettere a frutto quella sua precedente “esperienza”…
Caduti in guerra tra l’equipaggio del Pantera:
Luigi Alvi, marinaio, da Gragnano, 27 anni,
deceduto in Italia il 24.12.1944
Mario Cavallo, marinaio cannoniere, da Cuneo,
18 anni, deceduto in Eritrea il 1° agosto 1940
Valentino De Paoli, marinaio, da Tignale, 21
anni, disperso in Mar Rosso il 4.4.1941
Livio Puglia, secondo capo furiere, da La
Spezia, 33 anni, deceduto in prigionia in Eritrea l’8.10.1941
Alfio Sagliani, sottocapo torpediniere, da
Terracina, 24 anni, deceduto in Italia il 19.9.1944
Nonostante
la scarsa profondità a cui sono affondati (circa venti metri), non sembrano
esistere informazioni sullo stato dei relitti di Pantera e Tigre. Secondo
un sito di subacquea, nella zona in cui i due cacciatorpediniere si
autoaffondarono vigerebbe un divieto sia d’immersione che di navigazione,
imposto dalle autorità saudite.