Piroscafo passeggeri
da 3952 tsl e 2328 tsn, lungo 110 metri, largo 11,6 (o 13,6) e pescante 7,5,
con una velocità di 13,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione
Tirrenia, avente sede a Napoli, ed iscritto con matricola 396 al Compartimento
Marittimo di Napoli.
Breve e parziale cronologia.
31 agosto 1912
Varato nei cantieri
di Riva Trigoso della Società Esercizio Bacini come Roma (numero di cantiere 48).
Altra fonte indica la data del varo come l'8 agosto 1912.
Settembre 1912
Completato come Roma per la Società Nazionale di Servizi
Marittimi, avente sede a Roma. Ha tre gemelli: Milano, Torino e Firenze (gli ultimi due verranno affondati
durante la prima guerra mondiale da U-Boote tedeschi).
Dispone di 29 cabine di prima classe, 14 cabine di seconda classe e 146 tra cabine di terza classe e dormitori, per una capienza massima di 1250 passeggeri; sala da pranzo di prima e seconda classe, sala musica e sala soggiorno di 150 posti.
1913
Ceduto alla neocostituita
Marittima Italiana, a seguito della liquidazione della Società Nazionale di
Servizi Marittimi.
19 luglio 1918
Il Roma salpa da Napoli per trasportare in
Cima il nucleo comando del Corpo di Spedizione Italiano in Estremo Oriente (un
tenente colonnello, un maggiore, due capitani, cinque tenenti, tre
sottotenenti, 11 caporali maggiori, 22 caporali e 15 soldati del 1° Reggimento
Bersaglieri, nonché una sezione di artiglieria da montagna con due tenenti, 166
uomini, due cavalli e 12 muli ed una sezione di carabinieri con un tenente e 52
carabinieri, oltre ad un capitano medico), là inviato per combattere contro le
forze comuniste nella guerra civile che divampa in Russia. A Massaua vengono
inoltre imbarcati circa 400 uomini del 16° e dell'85° Reggimento Fanteria. La
nave attraversa poi l’Oceano Indiano ed il Mar Giallo.
30 agosto 1918
Dopo aver percorso
9136 miglia, il Roma giunge a
Chin-kwan-Tao (Cina, vicino a Tientsin) con a bordo in tutto 672 militari (un
plotone di carabinieri, una sezione di artiglieria da montagna, una compagnia
mitraglieri Fiat e mezzo battaglione di fanteria), dove trova ad attenderlo la
cannoniera Sebastiano Caboto. Giungono
sul Roma anche materiale bellico
inviato dal Ministero della Guerra, nuove divise grigioverdi destinate ai "volontari irredenti" arruolati in Russia (ex prigionieri dell'esercito
austroungarico, di etnia italiana – trentini, istriani e giuliani –, liberati
dai campi di prigionia russi della Siberia ed arruolati nel Corpo di Spedizione
Italiano per combattere contro le truppe comuniste) ed il nuovo comandante del
Corpo di Spedizione, tenente colonnello Edoardo Fassini-Camossi.
10 settembre 1918
Il Roma lascia Tientsin per tornare in
Italia, trasportando 727 ex prigionieri “redenti” più anziani e non idonei a
prendere parte ad operazioni di guerra.
22 ottobre 1918
Il Roma arriva a Napoli.
Fine 1918
Il Roma compie un altro viaggio, questa
volta a Vladivostok; nel viaggio di ritorno rimpatria una decina di ex
prigionieri.
1923
Venduto alla Società
Anonima Italia.
1924
Venduto alla
Compagnia Italiana Transatlantica (CITRA).
|
Il Roma in navigazione con i colori della Società Nazionale di Servizi
Marittimi (dal libro “Riva Trigoso, il cantiere e la sua storia centenaria” di
Edoardo Bo, 1991, via Franco Lena e www.naviearmatori.net)
|
24 giugno 1925
Il Roma imbarca a Mogadiscio il corpo di spedizione incaricato di prendere possesso dell'Oltregiuba, da poco ceduto dal Regno Unito all'Italia in seguito a protocollo italo-britannico del 15 luglio 1924, a titolo di parziale indennizzo per la mancata partecipazione dell'Italia alla spartizione delle colonie tedesche dopo la fine della prima guerra mondiale.
29 giugno 1925
Sbarca il corpo di spedizione a Chisimaio, dove l'alto commissario Corrado Zoli prende ufficialmente possesso del nuovo territorio.
1925
Probabilmente per
evitare omonimie con il nuovo, grande transatlantico Roma, in costruzione per la Navigazione Generale Italiana, il
piroscafo viene ribattezzato Firenze,
assumendo il nome del gemello silurato dieci anni prima.
Nello stesso periodo il Firenze è adibito al servizio postale con la Somalia.
14 novembre 1925
Salpa da Napoli con a
bordo i componenti e le attrezzature della «Missione astronomica italiana
nell'Oltregiuba». La spedizione, voluta dall'astronomo triestino Guido Horn d'Arturo (professore di astronomia all'Università di Bologna e direttore dell'osservatorio astronomico di tale università) al fine di osservare un'eclissi totale sulla linea dell'Equatore ed il fenomeno delle "ombre volanti" che la accompagnano, fasce di ombra che percorrono il suolo nelle fasi iniziali e finali dell'eclissi. Per il 14 gennaio 1926 è infatti prevista un'eclissi totale che proietterà il suo cono d'ombra sull'Oltregiuba.
Oltre a Horn d'Arturo, la spedizione è composta dall'astronomo catanese Luigi Taffara, direttore dell'osservatorio di Collurania, dal fisico Guglielmo Mengarini, senatore e docente di elettrotecnica a Roma, e dal professor Luigi Palazzo, direttore del Regio Ufficio Centrale di Meteorologia e Geofisica di Roma. Li accompagna una trentina di soldati indigeni, messi a disposizione dall'alto commissario dell'Oltregiuba Corrado Zoli per la protezione dei membri della spedizione.
17 dicembre 1925
Dopo aver fatto scalo
a Catania ed in porti del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, giunge a Chisimaio. Qui il Firenze sbarca i componenti della spedizione e le 130 casse con i relativi materiali, che per raggiungere la località di Punta Sherwood (circa 120 km a sudovest di Chisimaio), che secondo i calcoli di Horn d'Arturo costituirà il miglior punto d'osservazione per l'eclissi, dovranno proseguire sul piccolo rimorchiatore Tuna e su quattro sambuchi, noleggiati per l'occasione: il Firenze, infatti, ha un pescaggio troppo elevato per poter raggiungere Punta Sherwood navigando sottocosta.
Dicembre 1925
Sbarca ad Hafun tre compagnie del II Battaglione Eritreo (maggiore Mario Fattori), dirette a Hordio per contrastare la pressione dei ribelli somali su quella località, durante la "campagna dei sultanati" lanciata dal governatore Cesare De Vecchi per il completo e definitivo assoggettamento dei sultanati di Obbia e Migiurtinia.
Il comandante del Firenze partecipa anche al consiglio tenuto sull'incrociatore corazzato San Giorgio, cui partecipano il maggiore Fattori, l'ammiraglio Angelo Conz, il commissario italiano presso il sultanato dei migiurtini Ettore Coronaro ed il comandante dell'incrociatore coloniale Campania, per decidere le mosse successive.
Secondo una fonte il Firenze sarebbe stato impiegato anche come nave armata in appoggio alle operazioni contro i ribelli somali alla fine degli anni Venti.
1932
Con la fusione della
Florio con la Compagnia Italiana Transatlantica (CITRA) nella Tirrenia Flotte
Riunite Florio-CITRA, la flotta Florio, Firenze
compreso, passa alla nuova compagnia.
Dalla Tirrenia il Firenze viene posto in servizio sulla linea Genova-Palma di Maiorca-Malaga-Ceuta-Tangeri-Cadice-Siviglia.
1933-1934
Lavori di rimodernamento a Napoli: vengono rinnovate le sistemazioni dei passeggeri, e l'alimentazione delle caldaie viene convertita dal carbone alla nafta.
1936
La compagnia
armatrice assume il nome di Tirrenia Società Anonima di Navigazione, avente sede a Napoli.
27 settembre 1936
Durante un viaggio
nel Mediterraneo, il Firenze rimane
immobilizzato nel porto della Valletta (Malta) a causa di un cavo attorcigliato
nell'elica sinistra. Tra i passeggeri a bordo vi è anche Luigi Ferraro,
fortissimo nuotatore (durante la guerra diverrà un sabotatore solitario della X
Flottiglia MAS, operante ad Alessandretta e Marsina), che si tuffa in mare e,
con ripetute immersioni – ferendosi contro i denti di cane che ricoprono la
carena – riesce da solo a liberare l'elica.
5 maggio 1940
Salpa da Siracusa con
a bordo 303 profughi ebrei, diretti a Bengasi.
7 maggio 1940
Raggiunge Bengasi.
18 ottobre 1940
Requisito a Napoli
dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario
dello Stato.
28 ottobre 1940
Il Firenze ed i piroscafi Argentina e Premuda salpano da Bari alle 17 diretti a Valona, dove devono
trasportare 1871 militari, 150 quadrupedi, 27 veicoli e 184 tonnellate di
materiali; la scorta è data dalle torpediniere Solferino e Generale Marcello
Prestinari e dal piccolo incrociatore ausiliario Lago Zuai.
29 ottobre 1940
Il convoglio giunge a
Valona alle 6.30.
5 novembre 1940
Firenze ed Argentina lasciano
Valona vuoti alle 00.00, giungendo a Bari alle 13.15 con la scorta del
cacciatorpediniere Carlo Mirabello e
della torpediniera Nicola Fabrizi.
8 novembre 1940
Il Firenze, l'Argentina, il piroscafo Italia
e la motonave Città di Marsala,
aventi a bordo in tutto 3219 uomini e 287 tonnellate di materiali, partono da
Bari alle 23.30 con la scorta delle torpediniere Curtatone, Generale Antonio Cantore e Giacomo Medici e
dell’incrociatore ausiliario Capitano A.
Cecchi.
9 novembre 1940
Il convoglio giunge a
Durazzo alle dieci del mattino.
10 novembre 1940
Firenze, Argentina, Italia e Città di Marsala, scarichi, ripartono da Durazzo alle 16, scortati
da Cantore e Medici.
11 novembre 1940
Il convoglio arriva a
Bari alle 8.10.
13 novembre 1940
Firenze, Italia, Città di Marsala ed un altro piroscafo,
il Galilea, salpano da Bari alle due
di notte trasportando 1662 militari e 48 quadrupedi. Il convoglio, scortato
dalle torpediniere Antares e Monzambano e dall'incrociatore
ausiliario Egeo, arriva a Valona alle
16.20.
Per altra fonte (non
è chiaro), Firenze ed Italia partono da Brindisi alle sei del
mattino con 1105 militari (il primo scaglione della Divisione Alpina
«Tridentina»), 9 automezzi e 90,5 tonnellate di materiali, scortati dalle
torpediniere Antares, Aretusa e Monzambano e dal Lago Zuai,
e giungono a Durazzo alle 16.
15 novembre 1940
Italia e Firenze lasciano
scarichi Durazzo alle cinque, scortati da Aretusa
e Monzambano, e giungono a Bari alle
17.
16 novembre 1940
Italia e Firenze ripartono da
Bari alle 23.40, scortati dall’Aretusa.
17 novembre 1940
Le tre navi giungono
a Brindisi alle sette del mattino.
22 novembre 1940
Il Firenze e la motonave da carico Barbarigo salpano da Brindisi alle 5.40,
trasportando 781 uomini, 38 quadrupedi e 59 tonnellate di materiali, e giungono
a Durazzo alle 11.45, scortati dal piccolo incrociatore ausiliario Lago Tana e dalla torpediniera Calatafimi.
25 novembre 1940
Il Firenze, scarico, si aggrega ad un
convoglio di motonavi postali (Piero
Foscari e Filippo Grimani,
scortate dal vecchio cacciatorpediniere Augusto
Riboty) in navigazione da Durazzo a Brindisi, e giunge in quest’ultimo
porto alle 19.
29 novembre 1940
Il Firenze, il piroscafo Milano e la Città di Marsala, con a bordo complessivamente 2683 militari, 107
quadrupedi e 120 tonnellate di materiali, salpano da Bari alle 00.30, scortate
dalla torpediniera Andromeda e
dall'incrociatore ausiliario Francesco
Morosini. Il convoglio giunge a Durazzo alle 15.40.
1° dicembre 1940
Firenze, Milano e Città di Marsala, vuoti e scortati dall'Andromeda, lasciano Durazzo alle 20.30.
2 dicembre 1940
Il convoglio giunge a
Bari alle 14.45.
5 dicembre 1940
Firenze, Milano e Città di Marsala, scortati dalla
torpediniera Bassini e dal Morosini, trasportano 2674 uomini e
301,5 tonnellate di materiali da Bari a Durazzo.
9 dicembre 1940
Firenze, Milano e Città di Marsala, scarichi e scortati
dalla Bassini, ripartono da Durazzo
all'1.10 ed arrivano a Bari alle 17.30.
14 dicembre 1940
Firenze, Milano ed il
piroscafo Aventino, dopo aver
imbarcato 3660 militari (costituenti il primo scaglione della Divisione Alpina
«Cuneense»), 138 quadrupedi e 205 tonnellate di materiali, partono da Bari alle
22.
15 dicembre 1940
Scortati dall’Andromeda e dall'Egeo, i tre piroscafi giungono a Durazzo alle 10.
16 dicembre 1940
Firenze, Aventino e Milano, scarichi e scortati dall'Andromeda, lasciano Durazzo alle 3.40 e
giungono a Bari alle 16.35.
|
Il Firenze nel porto di Civitavecchia, anni Trenta. Sul lato opposto del molo è ormeggiata la motonave Attilio Deffenu, poi divenuta in guerra incrociatore ausiliario ed affondata sulle stesse rotte sulle quali si perse il Firenze (g.c. Nedo B. Gonzales via www.naviearmatori.net) |
Siluri alla Vigilia di Natale
Il 21 dicembre 1940
il Firenze, ormeggiato nel porto di
Bari, iniziò l’imbarco di un nuovo gruppo di militari da trasportare in
Albania: questa volta si trattava di alpini, appartenenti al 2° Reggimento
della Divisione Alpina «Cuneense». Dopo aver imbarcato le salmerie (muli e
conducenti) di tre battaglioni del 2° Reggimento (Battaglioni «Borgo San
Dalmazzo», «Saluzzo» e «Dronero»), iniziò l’imbarco degli uomini del 22°
Reparto Salmerie del medesimo reggimento, giunti su alcuni autocarri. Dato che
la nave era già quasi a pieno carico, solo 157 uomini di quest’ultimo reparto
vennero fatti salire, mentre gli altri furono lasciati a terra e s’imbarcarono
per l’Albania alcuni giorni dopo, con altre navi. Una distinzione fortuita, che
per alcuni di essi significò la differenza tra la vita e la morte.
I giorni 22 e 23
dicembre furono passati in porto; il mare era agitato ed il Firenze, anche se ormeggiato, rollava e
beccheggiava, con effetti devastanti sugli alpini, per nulla avvezzi al mare. I
più non mangiavano, per evitare di vomitare; il caporale maggiore Giulio
Parizia, del 22° Reparto Salmerie, ricordò poi che scese nella stiva per
dormire, ma vi trovò un tale confuso affollamento, ed una tale rivoltante
puzza, che tornò subito in coperta e si sistemò per la notte sul ponte, sotto
un telo non impermeabile, vicino a dei finestroni che illuminavano il locale
caldaie (che emanava un po’ di calore).
All’una di notte del
24 dicembre 1940 il Firenze salpò infine
da Bari insieme al piroscafo Italia,
per raggiungere Valona con un convoglio di trasporti truppe.
Inizialmente Firenze ed Italia viaggiarono insieme ad altri mercantili diretti a Brindisi (i
piroscafi Zeno e Monrosa e la motonave Barbarigo),
scortati dall’incrociatore ausiliario Barletta
e dalla torpediniera Andromeda;
giunti nel punto di riunione prestabilito davanti a Brindisi, mentre le altre
navi raggiungevano tale destinazione, Firenze
ed Italia formarono il convoglio con
altri due trasporti truppe, il piroscafo Argentina
e la motonave Narenta. La scorta era costituita
ancora da Barletta ed Andromeda.
I quattro trasporti
avevano a bordo 3070 tra ufficiali e soldati diretti in Albania, 711
quadrupedi, 334 tonnellate di viveri e 1095 tonnellate di altri materiali. Sul Firenze c’erano in tutto 996 uomini, tra
membri dell’equipaggio e militari diretti a Valona (in massima parte alpini);
comandava la nave il capitano di lungo corso Antonino Cacace, di Meta.
Dopo la riunione, il
convoglio mise in moto alle 7.30, ad una velocità di dodici nodi; l’arrivo a
Valona era previsto per le 14.30 dello stesso 24 dicembre. I piroscafi
procedevano a zig zag in linea di fila; il Firenze
era penultimo, seguito dall’Italia (che aveva a bordo gli artiglieri della
«Cuneense»).
Ma l’attività dei
sommergibili Alleati non si fermava neppure alla vigilia di Natale. Alle 12.25
del 24 dicembre, in posizione 40°42' N e 18°57' E (una ventina di miglia a
nordovest di Saseno), il Barletta
evitò un siluro lanciato da un sommergibile; il convoglio proseguì nella
navigazione ma, alle 13.20, il Firenze
venne silurato dal sommergibile greco Papanikolis
(capitano di corvetta Miltiadis Iatridis) e s’immobilizzò, lanciando il segnale
di soccorso, nel punto 40°34' N e 19°02' E (una dozzina di miglia ad ovest-nord-ovest
di Saseno). Il Papanikolis aveva
lanciato quattro siluri; aveva appreso che un convoglio italiano era in arrivo
dall'interrogatorio dei sei membri dell'equipaggio del motoveliero Antonietta, catturato ed affondato dal
sommergibile ellenico due giorni prima.
L'alpino Carlo
Cavallotto, del Battaglione «Borgo San Dalmazzo», era stato di guardia ai muli,
nelle stive, fino a poco prima del siluramento: era da poco salito in coperta
per prendere un po’ d’aria, avendo avuto il cambio da un commilitone e
compaesano, quando il siluro colpì proprio dove lui era stato fino a poco
prima. Cavallotto cadde in mare e trascorse la notte aggrappato ad una tavola
di legno, finché all’alba venne raccolto dal Barletta. Il compagno che l'aveva sostituito morì nel siluramento.
Non era la prima volta che Cavallotto scampava di stretta misura alla morte:
già pochi mesi prima, durante l’offensiva contro la Francia, era sopravvissuto
ad una valanga che aveva sepolto il suo plotone, grazie ad una nicchia prodotta
da una roccia. In quella occasione era stato erroneamente dato per disperso;
anche dopo l'affondamento del Firenze
(ad inizio gennaio 1941) la sua famiglia ricevette un’altra lettera che ne
comunicava la scomparsa, ma anche questa volta Cavallotto poté scrivere dopo
pochi giorni, facendo sapere di essere vivo e di stare bene. Cavallotto sarebbe
sopravvissuto anche alla disastrosa ritirata in Russia, smentendo una terza
lettera alla famiglia che lo dichiarava di nuovo disperso; dopo essere stato
dato per disperso in guerra per tre volte, ed essere invece sempre tornato
vivo, Cavallotto, tornato alla vita civile dopo l’armistizio (era contadino),
sarebbe stato trucidato nel suo paese natio da soldati tedeschi, nel 1944, in
rappresaglia per un'azione partigiana.
Il caporalmaggiore
Giulio Parizia affermò in seguito che il siluro colpì la sala macchine, e che
la scossa dell’esplosione fu tale da far cadere gli alberi sul ponte. Mentre Barletta ed Andromeda si fermarono ad assistere la nave danneggiata, l'Italia superò il Firenze e proseguì, insieme ad Argentina
e Narenta, verso la meta ormai
vicina. Il cielo era nuvoloso, e la costa non si vedeva.
Il comandante Cacace,
preso atto che i danni subiti dalla sua nave erano troppo gravi, ordinò
l'abbandono della nave.
Giulio Parizia,
sentito l’ordine del comandante di buttarsi in mare, e trovandosi già vicino ad
una scialuppa, vi saltò a bordo insieme ad altri alpini, ma un marinaio li fece
scendere e disse loro che l’imbarcazione avrebbe dovuto essere calata vuota,
dopo di che gli uomini si sarebbero dovuti buttare in acqua e salire sulla
lancia. L'ammaino della lancia fu più difficoltoso del previsto; una volta
calata gli alpini risalirono ed il marinaio la sganciò da un lato, ma poi
dovettero tornare di nuovo a bordo della nave. Parizia guardò quello che stava
succedendo altrove, e vide una scena caotica: alcune scialuppe si erano
capovolte, rovesciando in mare i loro occupanti, e dei marinai gettavano in
mare delle zattere, che però colpivano gli alpini che si trovavano in acqua.
Piuttosto che morire in mare, pensò di restare a bordo ed affondare con la
nave.
Cipriano Tarditi,
compaesano e commilitone di Giulio Parizia (anch'egli era alpino nel 22°
Reparto Salmerie), fu invece tra quanti si tuffavano in mare; come moltissimi
alpini, non sapeva nuotare, ma riuscì ad aggrapparsi ad una zattera con altri
due uomini. I marinai gridavano “Alpini, allontanatevi! Se la nave affonda vi
porta tutti sotto con sé”. Le onde allontanarono la zattera dalla nave, finché
questa non scomparve alla vista.
Il Firenze si era appoppato notevolmente,
tanto che gli uomini a bordo faticavano a restare in piedi; alcuni piangevano,
altri bestemmiavano ed altri ancora pregavano, dei fratelli si abbracciavano e
chiamavano la madre. Il cielo si era scurito, grandinava e tuonava; le onde
parevano altissime agli alpini, tra i quali più di qualcuno non aveva mai visto
il mare.
In questa drammatica
situazione, il comandante Cacace poté dare una buona notizia: erano state
chiuse le porte stagne (secondo Giulio Parizia, ciò comportò però che una
cinquantina di alpini rimasero intrappolati) e la nave per il momento
resisteva; ordinò pertanto di restare a bordo, e che chi si trovava in acqua
risalisse lungo le scalette di corda.
Prima nave a prestare
soccorso fu il Barletta; Maritrafalba
(il Comando Superiore Traffico Albania, responsabile dei convogli in
navigazione tra l'Italia e l'Albania) inviò subito in soccorso l'incrociatore
ausiliario Brindisi, e da Valona
furono fatti partire il rimorchiatore Ursus
e tre motovelieri. Più tardi il Brindisi venne fatto rientrare, mentre da
Valona vennero inviati altri tre motovelieri, un altro rimorchiatore e la
torpediniera Generale Antonio Cantore.
Con rischiosa manovra
– le eliche del Barletta
risucchiarono ed uccisero alcuni dei naufraghi in mare, e l'incrociatore
ausiliario riportò danni a nove ordinate durante l’opera di soccorso – il Barletta
si affiancò al Firenze; le due navi
furono assicurate con corde, e gli alpini vennero progressivamente trasbordati
sul Barletta.
L'Andromeda, intanto, cercava senza risultato il sommergibile
attaccante; il Papanikolis, sceso a
30 metri di profondità, evitò le bombe di profondità, regolate per scoppiare ad
una quota maggiore. Una delle bombe cadde proprio sul ponte del sommergibile e
vi rimase per qualche tempo, ma non esplose; il battello di Iatridis evase
indenne dalla caccia e diresse verso Salamina, dove l'attendeva un'accoglienza
trionfale.
Abbandonata
l’infruttuosa caccia, l'Andromeda prese
parte anch’essa al salvataggio dai naufraghi. Dopo quasi quattro ore alla
deriva, intorno alle 17, l'Andromeda
avvistò la zattera alla quale erano aggrappati Cipriano Tarditi ed altri due
naufraghi, e li trasse in salvo. Tarditi, privo di sensi, si riprese soldato in
tarda serata.
In tutto la
torpediniera recuperò dal mare 29 superstiti ancora in vita e 13 salme; il
capitano di corvetta Villani, comandante dell’Andromeda, si rivolse poi ai naufraghi salvati: “Alpini, non
dimenticate mai che a salvarvi la vita è stato l'Andromeda. Ricordatelo sempre. Se avrete una figlia mettetele quel
nome, vi ricorderà per la vita questa avventura”. Cipriano Tarditi fece in
seguito del suo meglio: non avendo avuto una figlia femmina, diede Andromeda come secondo nome ad una sua
nipote.
In tutto, ben 874
uomini furono trasbordati dal Firenze
sul Barletta, o recuperati dal mare
dall'incrociatore ausiliario. Giulio Parizia fu uno degli ultimi uomini a
trasbordare sul Barletta; a bordo della
nave soccorritrice, si sedette in un angolo del bancone del bar. Avendo una
piccola torcia, di quando in quando gli veniva chiesto di accenderla per
illuminare il passaggio di altri naufraghi, ma qualcuno gridava di spegnere:
“Vuoi un altro siluro?”.
Alla fine, sul Firenze non rimase più nessuno; il
comandante Cacace, naturalmente, fu l’ultimo ad abbandonare la nave.
Completato il
trasbordo, il Barletta si fermò più
volte a raccogliere naufraghi e cadaveri in mare, poi giunse a Valona durante
la notte. Qui, il mattino di Natale, i naufraghi furono trasbordati dapprima su
un piccolo rimorchiatore e poi sul piroscafo Sardegna; poterono scendere a terra solo il 28 dicembre.
I naufraghi
recuperati dall'Andromeda, invece,
erano già stati trasbordati alle 10 del 25 dicembre sulla nave ospedale Gradisca, che giunse a Taranto il 29. Da
qui Tarditi fu portato all'Ospedale Santa Maria Nuova di Careggi, a Firenze, da dove fu dimesso il 4 marzo
1941. Avrebbe partecipato anche alla tragica campagna di Russia, ma sarebbe
sopravvissuto anche a quella disavventura. Un suo commilitone del 22° Reparto
Salmerie, Alfredo Miretti, ebbe invece, in seguito al naufragio, problemi di
salute che si rivelarono – col senno di poi – provvidenziali, in quanto gli evitarono
la partenza per la Russia.
Ultimato il recupero
dei naufraghi, le navi rientrarono in porto, mentre il relitto ancora
galleggiante del Firenze – che non si
nutriva alcuna speranza di poter salvare – venne abbandonato alla deriva. Gli
alpini superstiti persero elmetti, berretti e tutto il loro corredo, eccetto
quello che indossavano al momento dell'affondamento; annegarono anche 37 muli
della Compagnia Comando del 2° Reggimento, rimasti nelle stive. Dei 157 uomini
del 22° Reparto Salmerie, cui appartenevano Parizia e Tarditi, erano rimasti
illesi in 92; degli altri 65, alcuni erano morti e molti altri, feriti, vennero
rimpatriati sulla Gradisca.
Un capitano del
Battaglione «Borgo San Dalmazzo» avrebbe poi scritto una canzone, intitolata
«Il destino (24 dicembre 1940)», nella quale ricordava l’affondamento del Firenze e prometteva vendetta contro gli
“inglesi”.
All'alba del 25
dicembre Marina Valona fece salpare la torpediniera Solferino, per cercare eventuali altri sopravvissuti e per
individuare il relitto del Firenze,
nel caso non fosse ancora affondato; benché coadiuvata nella sua ricerca da
aerei, la Solferino non trovò nulla.
Il Firenze era affondato durante la
notte di Natale.
Grazie all'opera dei
soccorritori fu possibile salvare i nove decimi degli uomini imbarcati sul Firenze: 903, dei quali una ventina
erano feriti. Le vittime furono 93, tre membri dell'equipaggio (un verbale di scomparizione redatto all'epoca parla però di sei dispersi tra l'equipaggio) e 90 alpini (un
ufficiale, un sottufficiale e 88 tra graduati e soldati; furono tutti dichiarati
dispersi, tranne 15 graduati e soldati le cui salme furono recuperate).
62 naufraghi del Firenze (tutti appartenenti all'equipaggio), tra cui il suo ormai ex comandante
Antonino Cacace, ripartirono per tornare in Italia già il 29 dicembre, a bordo
del grosso piroscafo Sardegna.
Durante tale viaggio di ritorno, però, anche il Sardegna cadde vittima di un sommergibile greco, il Proteus, che lo silurò e affondò (venendo
subito dopo affondato a sua volta dalla torpediniera di scorta, l'Antares). Il comandante Cacace si
distinse di nuovo in questa tragica circostanza, prodigandosi nel salvataggio
degli altri uomini imbarcati, ma questa volta il suo coraggio gli costò la vita:
fu tra le vittime dell'affondamento, ed alla sua memoria fu conferita la
Medaglia d'Argento al Valor Militare. Insieme a lui, morirono sul Sardegna altri tre sopravvissuti del Firenze: il direttore di macchina Antonino Sabbia, l'allievo di coperta Ernesto Celano ed il maestro di casa Antonio D'Arrico.
Il relitto del Firenze è stato ritrovato ed
identificato il 27 settembre 2012, dal subacqueo albanese Igli Pustina della
società Blusub di Tirana. La nave giace a poco più di 30 metri di profondità in
posizione 40.567° N e 19.033° E (poco a nord di Valona), a circa 25 miglia dal
punto in cui era stata vista per l'ultima volta, ormai derelitta, il 24
dicembre 1940. L'identificazione è stata permessa, oltre che dal confronto
delle caratteristiche generali, dal ritrovamento delle due campane di bordo,
che, a distanza di settant’anni, recavano ancora chiaramente leggibile sia il
nome di Firenze che (su quella di
prua) tracce del precedente nome di Roma.
La motivazione della
Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di
lungo corso Antonino Cacace:
"Al comando di
piroscafo carico di truppe facendo parte del convoglio scortato da unità da
guerra, organizzava con alto spirito di abnegazione e con serena perizia
marinaresca l’opera di salvataggio delle truppe stesse quando il bastimento,
colpito da siluro, era in procinto di affondare. Lasciato per ultimo la nave e
raggiunto il porto di destinazione a bordo di una unità da guerra, si
reimbarcava subito su altro piroscafo per rimpatriare. Durante la navigazione
di ritorno, colpito da offesa nemica anche questo bastimento, si prodigava con
alto sentimento del dovere al salvataggio del personale imbarcato e scompariva
con l’affondamento della nave.
(Mare Adriatico, 24 dicembre 1940 – Piroscafo Firenze)"
In
precedenza gli era stata conferita una Medaglia di Bronzo al Valor Militare:
"Comandante
di un piroscafo carico di truppe affondato in seguito a siluramento, dirigeva
con calma, ardimento, e perizia la difficile opera di salvataggio del personale
e si prodigava in seguito con alto spirito di abnegazione, nell'opera di
soccorso ai feriti naufraghi.
(Basso
Adriatico, 24 dicembre 1940)"
Intervista (del 1997)
a Cipriano Tarditi, di Piasco, nato nel 1915, naufrago del Firenze (si ringrazia Gianpiero Ferrigno, autore dell'intervista):
«Nel 1940 ero
militare a Dronero con il 22° Reparto Salmerie. Il 13 dicembre di quell'anno
lasciamo la caserma con destinazione Albania. Carichiamo i muli sui carri
bestiame e nella notte si parte. Dopo tre giorni di treno arriviamo ad Ancona.
Scarichiamo i muli e ci rechiamo al porto e imbarchiamo gli animali sul
piroscafo Monrosa. Noi
rimaniamo ad Ancona in una caserma fredda e sporca fino alla sera del 20 quando
finalmente arriva il treno che ci porta a Bari. Il pomeriggio del 21 dicembre
arriviamo alla stazione di Santo Spirito che dista una decina di chilometri da
Bari e ci incamminiamo, zaino in spalla, verso la città. Giunti al porto ci
fanno immediatamente salire sul piroscafo Firenze
che è già stracolmo di alpini dei Battaglioni Borgo San Dalmazzo, Saluzzo e
Dronero. Rimaniamo in porto da 21 al 24 dicembre. Il mare è molto agitato
e noi alpini soffriamo il mal di mare. Nella notte tra il 23 e il 24 dicembre,
dopo la mezzanotte, il Firenze
prende il largo. All'alba arriviamo al porto di Brindisi dove si forma il
convoglio: tre navi davanti al Firenze,
poi il piroscafo Italia,
l'incrociatore Barletta e il
cacciatorpediniere Andromeda a farci
da scorta. Poco dopo le ore 13, quando mancavano un paio di ore all'arrivo a
Valona, il Firenze viene colpito. Il
piroscafo si inclina paurosamente tanto che il comandante grida: «Buttatevi a
mare». Il mare era in tempesta, c'erano onde altissime. Faceva molto freddo,
grandinava e io non sapevo neppure nuotare! Mi sono tuffato e, tra mille
difficoltà e scene di disperazione, sono riuscito ad aggrapparmi ad una
zattera. I marinai, che erano molto più esperti di noi ci gridavano: «Alpini,
allontanatevi! Se la nave affonda vi porta tutti sotto con sé». Aggrappati alla
stessa zattera eravamo in tre, ci siamo affidati alle onde del mare e non
abbiamo più visto nulla. Né l'affondamento dei Firenze né le altre navi. Verso le 17, quattro ore dopo il
naufragio, il cacciatorpediniere Andromeda
ci ha avvistati e tratti in salvo. Ero privo di sensi e mi sono ripreso
solamente a tarda sera. Il comandante dei cacciatorpediniere ha detto: «Alpini,
non dimenticate mai che a salvarvi la vita è stato l'Andromeda. Ricordatelo sempre. Se avrete una figlia mettetele quel
nome, vi ricorderà per la vita questa avventura. Io non ho avuto figlie, ma mia
nipote di secondo nome si chiama Andromeda! Siamo rimasti sul
cacciatorpediniere fino alle ore 10 del 25 dicembre, il giorno di Natale, poi
siamo stati trasbordati dalla nave ospedaliera Gradisca sulla quale siamo rimasti quattro giorni. Il 29 dicembre
siamo giunti a Taranto e successivamente siamo stati portati all'Ospedale Santa
Maria Nuova di Careggi a Firenze. Il
4 marzo sono stato dimesso ed ho fatto ritorno a casa dove sono rimasto 60 giorni
in licenza. Poi sono ritornato in caserma a Dronero. Il 30 luglio del 1942 sono
partito per la Russia. Ho sempre pensato che a colpire il Firenze fosse stato un siluro inglese, invece Enzo Biagi nel libro
"Storia della seconda Guerra Mondiale" attribuisce l'affondamento del
piroscafo ad una mina vagante [e invece, come visto sopra, Tarditi aveva
ragione: era stato proprio un siluro, anche se greco e non inglese]».
L'affondamento del Firenze nel ricordo del
radiotelegrafista Antonio Cotrone, allora imbarcato sull’Andromeda (dal suo libro “Racconti navali”):
"(…) L’andatura era
molto lenta ma, in fondo, non potevano che dividerci poche ore dalla rada.
Improvvisamente il silenzio venne squarciato da un cupo boato. Dall’oblò della
radio scorgemmo una colonna di fumo a poppavia del piroscafo Firenze. Nello stesso momento era
battuto il posto di combattimento. Le navi che procedevano in doppia fila,
misero in azione i fumogeni e cominciarono a spingere il più possibile, il che
aumentava l'uscita del fumo mentre il Firenze
si era appoppato e inclinato sulla dritta. Sembrava dovesse affondare da un
momento all’altro. L'Andromeda, con i
giri al massimo, faceva quanto era nelle sue possibilità, affinché il resto del
convoglio potesse raggiungere Valona in sicurezza. Intanto, in aiuto del Firenze, si era accostata la nave
ausiliaria Barletta. Tornati in zona
vedemmo che sul Firenze era il caos.
Le scialuppe di salvataggio venivano prese d'assalto dagli alpini. Erano
stracariche, fino all'inverosimile, e questo faceva rompere i cavi prima che le
scialuppe stesse potessero essere ammainate. Da gente non avvezza al mare non
ci si poteva aspettare di meglio. Moltissimi si buttavano in acqua con i loro
pesanti scarponi senza aver indossato bene i salvagente. Una tragedia resa
ancora più pesante dall’inesperienza. Il sommergibile si era certamente
adagiato sul fondo per rendere più difficile, se non impossibile, la
localizzazione con gli idrofoni. Attorno alla nave pullulavano centinaia di
naufraghi e la loro presenza ci impediva il lancio delle bombe di profondità
che, per loro, sarebbe stato letale. Né potevamo fermarci in soccorso dei
naufraghi senza mettere in serio pericolo la nave. Era davvero cosa ardua
prendere decisioni. Passarono interminabili alcuni minuti, poi il Comandante
decise per il salvataggio degli alpini e, dopo aver accostato a lenta velocità,
iniziammo il recupero degli alpini ormai sparsi per una larga zona. Ammainammo
la lancia e il battellino e lanciammo in mare salvagente e sagole con
galleggianti vari. Il mare era molto mosso e gli alpini, in preda al panico,
imploravano aiuto. Si trattava di soldati fuori dal loro ambiente e la loro
impreparazione ne rendeva oltremodo difficile il recupero. Tutto l’equipaggio
partecipò con ogni mezzo al soccorso di quei poveri ragazzi, ma nulla si poté
contro il destino crudele di chi non era più. Recuperammo ventinove naufraghi
e, purtroppo, tredici corpi inanimati che furono allineati sotto-castello,
coperti da lenzuola. Un ragazzo alto, con accento veneto, ci chiese cosa
avrebbe potuto fare per avere notizie di suo fratello, alpino come lui e
imbarcato sul Firenze. Lo portammo
sotto-castello e iniziò a scoprire i compagni morti, soffermandosi su ognuno di
quei visi cerulei. Li fissava sui volti quando, a un tratto, si fermò. Volle
guardare ancora meglio. Coprì, poi scoprì ancora. Per un attimo riuscì a
dominare la sua profonda emozione. Poi gridò il nome del fratello: “Giulio!” e
scoppio a piangere. Aleggiava in tutti un’aria d’infinita tristezza, di rabbia,
di dolore e commozione. Le parole non potranno mai descrivere il mio stato
d’animo di quei momenti. Continuammo per un’ora la caccia antisommergibile, poi
volgemmo la prua a Valona."