Piroscafo da carico
di 5480 tsl, 3357 tsn e 8170 tpl, lungo 120 metri, largo 15,80 e pescante 8,41,
con velocità di dieci nodi. Di proprietà della Società Anonima di Navigazione
Odero, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 847 al Compartimento
Marittimo di Genova. Trascorse la maggior parte della sua vita sulle rotte tra
l’Italia ed il Nordamerica.
Talvolta menzionato
erroneamente come Marina Odero. Aveva
una gemella, l’Ida Z. O.
Breve e parziale cronologia.
Giugno 1918
Completato dai
cantieri Nicolò Odero fu Alessandro & Co. di Sestri Ponente, società che ne
è anche proprietaria (numero di costruzione 279). Secondo una fonte,
probabilmente erronea, si sarebbe inizialmente chiamato Marine O., nome mutato in Marina
O. durante la costruzione.
24 luglio 1919
Due membri
dell’equipaggio del Marina O.,
identificati dai giornali statunitensi come Albert Louise e Felix Roalaon,
vengono arrestati a New Orleans, dove la nave si trova a fare scalo, con
l’accusa di contrabbando di brandy prelevato dalla nave, essendo stati trovati
in possesso di cinque bottiglie del liquore.
1924
È comandante del Marina O. il capitano A. De Gregori.
1933
È comandante del Marina O. il capitano Solari.
Novembre 1935
Il Marina O. viene sorpreso a Houston da
uno sciopero generale di tutti i lavori portuali della Costa del Golfo degli
Stati Uniti, decretato dalla International Longshoremen’s Association. Riesce
comunque a completare il carico e salpare grazie all’aiuto di portuali
“indipendenti”.
Lo sciopero,
protrattosi per dieci settimane (da inizio ottobre a metà dicembre), coinvolge
i porti di Corpus Christi, Galveston, Houston, Port Arthur, Beaumont, Lake
Charles, New Orleans, Mobile e Pensacola ed è caratterizzato da violenti
scontri tra scioperanti, polizia e guardie armate, con 14 vittime.
14 maggio 1936
Il Marina O., appena partito da New Orleans
diretto a Genova, con scalo intermedio a Pensacola, s’incaglia all’imboccatura
del South Pass del Mississippi, costringendo l’ingegnere distrettuale del primo
distretto di New Orleans, maggiore Henry Hutchings, ad ordinare la chiusura di
tale passaggio al traffico marittimo, dirottando tutte le navi nel Southwest
Pass. Verrà disincagliato con l’aiuto del rimorchiatore Adler.
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La nave a
Veracruz a fine anni ’40, sotto bandiera messicana e con il nuovo nome di Tabasco (Instituto Nacional de
Antropología e Historia de México) |
Da Tampico a Tabasco
Anche il Marina O. condivise la sorte dei molti
mercantili italiani – più di duecento – che la dichiarazione di guerra del 10
giugno 1940 sorprese ben lontani dall’Italia e dal Mediterraneo. In
quell’infausta data il piroscafo, al comando del capitano Alessio Lorenzo, si
trovava dall’altra parte dell’Oceano Atlantico: nelle acque del Messico. Non
potendo rientrare in Italia, per evitare l’intercettazione e la cattura da
parte delle Marine Alleate si rifugiò nel porto di Tampico e qui si fece
internare, come nave di Paese belligerante in porto neutrale.
A Tampico il Marina O. era in numerosa compagnia: ben
otto petroliere italiane furono sorprese dalla dichiarazione di guerra in
questo importante terminale petrolifero, o vi si rifugiarono nei giorni
successivi al 10 giugno. Si trattava della Fede,
della Stelvio, dell’Atlas, dell’Americano, della Genoano,
della Tuscania, della Vigor e della Lucifero; una nona petroliera, la Giorgio Fassio, si trovava sempre in
Messico ma a Veracruz. Il Marina O.
era l’unica nave da carico tra i bastimenti italiani sorpresi dalla guerra in
acque messicane.
Già internati a
Tampico da mesi, dal settembre 1939, erano quattro mercantili tedeschi, l’Orinoco, il Phrygia, il Rhein e
l’Idarwald. Nella notte del 16
novembre 1940, queste quattro navi tentarono di salpare da Tampico per
raggiungere la Germania, violando il blocco britannico; la partenza avrebbe
dovuto essere furtiva, ma in realtà migliaia di abitanti del posto, e
probabilmente anche qualche membro del locale consolato britannico, vi assisterono.
D’altra parte mantenere il segreto era ben difficile, le navi avevano già
ottenuto i documenti per la partenza (la destinazione dichiarata erano “porti della Spagna”) e due cannoniere
della Marina messicana avevano l’ordine di accompagnarle fino ai limiti delle
acque territoriali messicane. Già nel pomeriggio precedente i bastimenti
tedeschi avevano acceso le caldaie, ed era ben presto circolata voce che si
sarebbero recati al largo per rifornire di provviste e di carburante gli
U-Boote e le “navi corsare” tedesche operanti in Atlantico.
Questo tentativo finì
male: non appena giunse al largo, il Phrygia s’imbatté
in un cacciatorpediniere statunitense della “pattuglia di neutralità” che lo
illuminò con i proiettori; scambiandolo per una nave britannica, l’equipaggio
del Phrygia incendiò la sua
nave ed aprì le prese a mare per evitare la cattura. Le altre tre navi fecero
dietrofront e tornarono precipitosamente in porto.
Una decina di giorni
più tardi, le navi italiane e tedesche internate a Tampico rinnovarono i
preparativi per un’apparente prossima partenza, mentre tre cacciatorpediniere
statunitensi della “pattuglia di neutralità” incrociavano nelle acque
antistanti il porto messicano. Le navi si rifornirono di carburante ed accesero
le caldaie poco dopo la mezzanotte del 25 novembre, ma prima dell’alba le
caldaie vennero spente – come indicato dal fumo che aveva smesso di uscire dai
fumaioli – ed i rimorchiatori che prima erano in attesa accanto ai bastimenti
dell’Asse come se fosse stato richiesto il loro intervento per la partenza se
ne andarono, anche se le navi italiane e tedesche avevano tenuto tutte le luci
accese. I giornalisti dell’“Associated Press” aggiunsero che negli uffici della
capitaneria di porto era stato riferito che le navi dell’Asse avevano già
preparato i documenti per l’autorizzazione a partire, ma che non era possibile
fornire informazioni su quando dovessero salpare. Inoltre, circolava notizia
che personale dei consolati italiano e tedesco a Città del Messico fosse al
lavoro già alle due di notte, apparentemente in contatto con Tampico. Entrambi
i consolati, interpellati, risposero che erano stati fatti dei preparativi a
bordo delle navi, ma che non avevano informazioni su quando sarebbero partite.
Il secondo tentativo
di fuga da parte delle navi tedesche ebbe infine luogo il 3 dicembre, quando
il Rhein e l’Idarwald (l’Orinoco rimase in porto) tentarono nuovamente la sorte; ma
finì ancor peggio della prima volta. Entrambi i bastimenti tedeschi furono
pedinati da cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di neutralità”,
che non li attaccarono né ne ostacolarono attivamente la navigazione, ma che
segnalarono in chiaro la loro posizione alla radio, così permettendone
l’intercettazione da parte di navi da guerra Alleate. L’8 dicembre l’Idarwald, intercettato dall’incrociatore
britannico Diomede, fu
autoaffondato dal proprio equipaggio; tre giorni dopo toccò la stessa sorte
al Rhein, intercettato dalla
cannoniera olandese Van Kinsbergen.
Questo secondo fiasco
pose fine ad ogni altra velleità di fuga dal Messico.
Gli equipaggi delle
navi internate a Tampico vivevano confinati a bordo dei loro bastimenti:
potevano scendere a terra e visitare la popolazione locale solo dietro
autorizzazione del comandante, e solo in gruppi. Nonostante questo e la
vigilanza delle “Oficinas de Población”, in meno di un anno non pochi marittimi
italiani riuscirono a metter su famiglia con donne del posto.
Questa situazione
perdurò fino al 30 marzo 1941, quando una notizia inaspettata si abbatté come un
colpo di fulmine sulla placida esistenza degli internati di Tampico: in quella
data gli Stati Uniti, a dispetto della loro neutralità, procedettero alla
confisca di tutti i bastimenti mercantili dell’Asse presenti nei propri porti.
Diversi altri paesi dell’America latina, spesso su pressione angloamericana,
decisero di imitare tale mossa, e gli equipaggi di numerosi mercantili italiani
internati in questi stati, su ordine delle autorità italiane, sabotarono od
autoaffondarono le loro navi prima che potessero essere catturate.
Il Messico colse
l’occasione, ordinando a sua volta la confisca delle dodici navi dell’Asse
presenti a Tampico e Veracruz, per incrementare la propria modesta flotta
petroliera: con la cattura delle navi cisterna italiane che si trovavano nei
suoi porti, infatti, il tonnellaggio complessivo delle navi cisterna sotto
bandiera messicana sarebbe quadruplicato, passando da 29.445 tsl a 117.591 tsl.
Il Messico aveva nazionalizzato le proprie riserve petrolifere pochi anni prima
(18 marzo 1938), espropriandole alle compagnie straniere e creando una propria
compagnia petrolifera controllata dallo Stato, la Petróleos Mexicanos S. A.
(Pemex), ma risentiva di una carenza di navi cisterna adeguate a trasportare il
petrolio per poter adeguatamente sviluppare tale industria (carenza che lo
scoppio della guerra mondiale aveva reso molto difficile da eliminare, sia con
l’acquisto di navi esistenti che con nuove costruzioni: tutto era assorbito
dalle esigenze del conflitto), che venne così “risolta”.
Di conseguenza, su
disposizione delle autorità messicane, il contrammiraglio Luis Hurtado de
Mendoza fu inviato dal Ministro della Guerra Lázaro Cárdenas del Rio a
confiscare le navi dell’Asse presenti nei porti del Messico, in nome della
Segreteria della Marina (Secretaría de Marina), alla testa di reparti del 31°
Battaglione Fanteria (31° Batallón de Infantería).
Il 1° aprile 1941,
pertanto (altra fonte parla del 2 aprile, ma si tratta probabilmente di un
errore), un drappello della Marina messicana abbordò e catturò il Marina O. e le altre navi italiane
presenti nel porto di Tampico, con l’eccezione dell’Atlas, che venne autoaffondata dal suo equipaggio.
L’autoaffondamento dell’Atlas fu
anzi citato da parte messicana – come già fatto negli Stati Uniti, dove quasi
tutte le navi italiane erano state sabotate dai loro equipaggi – come ragione
del provvedimento di sequestro delle navi: si disse che la decisione era stata
presa dal governo messicano per ragioni di sicurezza nazionale, dopo aver
appreso la notizia di quanto accaduto sull’Atlas.
Su ciascuna nave fu posto un distaccamento di fanteria di Marina con compiti di
vigilanza. Il generale messicano Francisco Luis Urquizo, che all’epoca aveva il
suo comando a Tampico, avrebbe ricordato nelle sue memorie come il
contrammiraglio Hurtado de Mendoza “…ottimo
conversatore, portava invariabilmente il discorso sul modo rapido ed energico
con cui aveva effettuato il simultaneo sequestro di tutte le navi con truppe
del 31° Battaglione, che più tardi furono rilevate dalla Fanteria di Marina”.
Fu questo uno dei
primi atti di guerra compiuti da parte del Governo messicano nel secondo
conflitto mondiale.
Questa mossa fu
giustificata ed ufficializzata dal presidente messicano Manuel Ávila Camacho
con un decreto di requisizione firmato pochi giorni più tardi, l’8 aprile 1941
(e pubblicato il 10 aprile sul Diario Oficial de la Federación, l’equivalente
messicano della Gazzetta Ufficiale), facendo richiamo al “diritto d’angheria”,
in base al quale una nazione in guerra (ma il Messico era neutrale) poteva
requisire forzosamente per le proprie necessità naviglio mercantile
appartenente a nazioni straniere che si trovasse nelle proprie acque
territoriali, a patto di indennizzarne adeguatamente i proprietari.
Il decreto di requisizione
era formato da quattro articoli: «Art. 1
La Segreteria delle Relazioni Estere notificherà ai rappresentanti diplomatici
degli Stati belligeranti, la cui bandiera inalberano le navi che sono
immobilizzate nei porti nazionali, che il Governo degli Stati Uniti del Messico
sequestra quelle navi per usarle nello scambio commerciale e marittimo d’altura
e di cabotaggio; Art. 2 La Segreteria della Marina procederà ad immatricolare e
munire della bandiera nazionale le navi sequestrate, e ovviamente formulerà un
dettagliato inventario delle stesse; Art. 3 La Segreteria di Governo emetterà
la documentazione necessaria affinché gli ufficiali e gli equipaggi delle navi
sequestrate permangano nel Paese per la durata del presente stato di emergenza
o troverà un mezzo sicuro per riportarli nei loro Paesi di origine. Gli
ufficiali e gli equipaggi sbarcati riceveranno l’attenzione che si conviene;
Art. 4 La Segreteria della Finanza e del Credito Pubblico determinerà
l’indennizzo corrispondente per ciascuno dei bastimenti sequestrati, dando ai
loro proprietari l’intervento appropriato secondo le nostre leggi. Gli
indennizzi verranno pagati alla fine della guerra, con un interesse aggiuntivo
per il tempo che sarà intercorso tra la data del decreto e quella del pagamento».
Come motivi per
l’applicazione del diritto d’angheria pur essendo il Messico neutrale, Ávila
Camacho indicò i gravi disturbi causati dalla guerra al commercio marittimo del
Messico, il modo in cui era condotto il conflitto, ignorando i diritti delle
nazioni neutrali, ed il quasi completo annientamento del commercio marittimo
messicano per mancanza di mezzi di trasporto: secondo il presidente messicano,
l’applicazione, da parte di uno Stato neutrale, del diritto d’angheria
rappresentava solo una piccola compensazione per il trattamento che in quella
guerra aveva subito lo stato stesso di neutralità. Un’altra giustificazione che
fu addotta era che le autorità messicane volessero evitare che si verificassero
anche in Messico atti di sabotaggio come quelli compiuti nei giorni precedenti
dagli equipaggi dei bastimenti dell’Asse che si trovavano immobilizzati nelle
acque di altri Paesi americani. L’ambasciatore messicano presso gli Stati
Uniti, Francisco Castillo Nájera, affermò in una lettera scritta il 4 aprile al
segretario di Stato statunitense Cordell Hull che le navi erano state
sequestrate perché i loro equipaggi stavano “pianificando attività di sabotaggio contro i porti messicani”;
nello stesso testo del decreto dell’8 aprile si indicava tra le motivazioni “i numerosi atti di sabotaggio effettuati nei
primi mesi dell’anno in corso in vari Paesi del continente americano, da parte
di equipaggi di navi belligeranti”. Anche il libro "Historia General de la
Secretaría de la Marina-Armada de México" afferma che il sequestro fu
compiuto “per prevenire atti di
sabotaggio che avrebbero potuto danneggiare sia i porti nazionali che le navi
stesse”. Il generale Francisco Luis Urquizo, all’epoca comandante dell’8a Zona
Militare con quartier generale proprio a Tampico, scrisse nel suo libro di
memorie "Tres de Diana" che “…una
tale misura [la confisca delle navi] era giusta, perché solo a Tampico c’erano undici navi italiane e
tedesche con un totale di novecento uomini di equipaggio tra tutte. Questo
costituiva un pericolo, e sarebbe stata necessaria una rigida e costosa
vigilanza militare per le navi ed i loro equipaggi, vigilanza che non sarebbe
stata ricompensata dalla nostra stessa neutralità”. Qualche fonte messicana
accenna anche a sabotaggi o danneggiamenti che sarebbero stati compiuti dagli
equipaggi su alcune navi, senza però aggiungere niente di specifico (salvo che
per l’Atlas).
Altra motivazione
addotta era che le navi italiane e tedesche fossero in una “situazione
illegale” essendo rimaste in porti messicani per un periodo maggiore rispetto a
quello concesso dal diritto internazionale.
Sempre allo scopo di
legittimare la confisca delle navi, qualche giorno prima di emettere il decreto
di sequestro la Segreteria per le Relazioni Estere (equivalente al Ministero
degli Esteri) del Messico aveva inviato un avvertimento ai Ministeri degli
Esteri di Italia e Germania, informandoli che le autorità di quel Paese
avrebbero sequestrato le navi straniere immobilizzate nei loro porti per
impiegarle nel commercio e nel traffico marittimo d’altura e di cabotaggio, ed
intimando loro, se intendevano evitarlo, di far lasciare alle loro navi le
acque messicane. Se vi fossero rimaste, una volta decorso il tempo stabilito
queste sarebbero state confiscate; tale disposizione non era attuabile, visto
che se le navi dell’Asse avessero lasciato il Messico sarebbero state
certamente intercettate e catturate od affondate da navi Alleate. Decorso
dunque il limite di tempo concesso senza che le navi fossero partite, fu emesso
il decreto sequestro; il presidente Ávila Camacho ordinò al generale Heriberto
Jara, segretario della Marina, di prendere possesso delle navi italiane e
tedesche.
Il sequestro delle
navi rappresentò anche un gesto di avvicinamento del governo messicano a quello
statunitense: già il 31 marzo, dando la notizia della confisca delle navi
italiane e tedesche negli Stati Uniti ed in altri Paesi americani, alcuni
giornali statunitensi avevano riferito che il Messico pianificava di prendere
in custodia le navi italiane e tedesche presenti nei suoi porti, in un atto “di difesa continentale e di solidarietà con
gli Stati Uniti”. L’azione, da parte di distaccamenti armati della Marina
messicana, era correttamente annunciata per la notte successiva.
Il governo messicano
si impegnò ad utilizzare le navi sequestrate in base ai diritti ad esso
conferito dalle leggi internazionali come Paese neutrale, ed a corrispondere
agli armatori italiani, a guerra finita, un congruo indennizzo per l’utilizzo
delle loro navi da parte del Messico; gli armatori protestarono ugualmente per
la confisca e presentarono una richiesta di protezione, che venne sospesa dal
Dipartimento Legale del Ministero della Marina messicana.
Alcune fonti
messicane contengono due errori relativamente al Marina O.: scrivono infatti che la nave sarebbe stata tedesca
(mentre era italiana), e che al momento della cattura si sarebbe trovata a
Veracruz (mentre era a Tampico). Ciò è probabilmente frutto di equivoci e
confusione derivanti dal fatto che tutte le altre navi italiane catturate in
Messico erano petroliere, mentre il Marina
O. era una nave da carico, al pari dei bastimenti tedeschi; e che le
petroliere si trovavano a Tampico mentre la maggior parte delle navi da carico era
a Veracruz.
Il numero dei
marittimi italiani (in maggioranza) e tedeschi a bordo delle navi confiscate in
Messico è variamente indicato da fonti differenti in 306 (i soli italiani), o
352, o 555 (italiani e tedeschi), oppure poco meno di 600 tra italiani e
tedeschi (quasi 500 sulle navi sequestrate a Tampico, quasi cento su quelle
sequestrate a Veracruz), oppure “oltre novecento” tra italiani e tedeschi nella
sola Tampico (ma questa è probabilmente un’esagerazione).
Sbarcati dalle navi,
rimasero inizialmente in libertà a Tampico, considerati dalla legge messicana
“migranti temporanei” e sottoposti alla vigilanza e responsabilità dei
rispettivi consolati, che avevano trattato con le autorità locali affinché i
marittimi rimanessero in libertà e che provvidero ad alloggiarli in alberghi
del luogo; nell’ottobre 1941 le autorità messicane emisero un decreto con
istruzioni per la permanenza in Messico degli equipaggi delle navi confiscate.
Tra le altre cose si affermava che, essendo gli equipaggi composti da marittimi
civili, dovessero essere soggetti alla legislazione messicana sul lavoro; con
il cambio di nazionalità delle loro navi, il contratto di lavoro dei componenti
degli equipaggi aveva legalmente termine, e la nazione ricevente (cioè il
Messico) aveva l’obbligo di rimpatriarli presso il porto di registrazione di
ciascuna nave e di pagare loro un indennizzo di importo equivalente a tre mesi
di salario. La Segretaria del Governo (equivalente messicano del Ministero
dell’Interno) emise i documenti necessari affinché gli ufficiali e gli
equipaggi delle navi italiane e tedesche rimanessero in Messico in stato di
libertà fino alla fine della guerra, o finché non fosse stato possibile
reperire un mezzo sicuro per il loro rimpatrio.
I marittimi italiani
rimasero a Tampico per quasi un anno, dopo di che il governo messicano decise
di trasferirli via treno nella capitale ed in altre città dell’interno. Furono
inviati a Guadalajara, dove continuarono a godere di libertà di movimento
all’interno della città, e ad essere mantenuti dalle rispettive ambasciate. Il
già citato genrale Francisco Luis Urquizo così rievoca quei tempi nel suo libro
"Tres de Diana": “I novecento
marinai italiani e tedeschi sbarcarono [dopo la confisca delle
navi], sciamando per le vie del
porto senza alcuna occupazione; la maggior parte erano giovani e forti, si
mescolavano con i nostri connazionali. E con abilità suscitarono grande
simpatia nella popolazione. Erano in numero maggiore rispetto ai soldati che
sorvegliavano la piazza: un pericolo nascente su cui bisognava vigilare. Dopo
lunghe negoziazioni, ottenemmo che gli equipaggi delle navi italiane e tedesche
confiscate si trasferissero a Guadalajara. Dar loro l’addio alla stazione
ferroviaria rappresentò un momento commovente. Erano riusciti a fare amicizia
con molta gente. Si sentivano lontani dalle loro navi, dai loro nuovi amici,
forse dai loro amori. Vedevano la guerra avvicinarsi e presagivano, forse, una
lunga prigionia”.
Secondo una fonte, il
trasferimento da Tampico a Guadalajara venne deciso in risposta ai timori
dell’ambasciata italiana, preoccupata dalla possibilità che i marittimi
italiani, se fossero rimasti a Tampico (zona all’epoca paludosa), avrebbero
potuto essere contagiati dalla malaria, che vi era endemica. A Guadalajara gli
internati furono alloggiati in una scuola provvisoriamente adattata per
riceverli, situata all’incrocio tra le vie Mexicaltzingo e Niños Héroes;
dall’ambasciata italiana ricevevano giornalmente 5 pesos e 60 centavos (centesimi) al giorno –
una somma notevole, per il Messico dell’epoca – per provvedere al proprio
sostentamento.
Su proposta del
presidente di una squadra locale, il Club Deportivo Atlas de Guadalajara,
i marinai italiani formarono anche una squadra di calcio; i suoi componenti divennero
soci del Club Atlas, dal cui presidente ricevevano due-tre pesos al mese, e
conobbero Eduardo “Che” Valdatti, uno dei più famosi calciatori messicani
dell’epoca.
Anche la permanenza
degli internati a Guadalajara giunse però al termine: con il rafforzamento
delle relazioni tra Messico e Stati Uniti ed il peggioramento di quelle tra
Messico ed Asse, ed in vista delle celebrazioni del quarto centenario della
fondazione di Guadalajara (che avrebbero visto affluire in città una massa di
visitatori che avrebbe reso più difficile tenere sotto controllo i marittimi
stranieri), si decise di trasferire gli equipaggi delle navi in un luogo dove
potessero essere meglio sorvegliati. Come pretesto per il trasferimento, fu
addotto il cattivo comportamento di alcuni dei marittimi; un rapporto del
Departamento de Investigación Política y Social (DIPS), un’agenzia di
polizia/sicurezza e di intelligence, lamentava che i marittimi italiani e
tedeschi fossero “pericolosi”, che passassero il loro tempo nelle osterie e nei
biliardi e che nessuno desiderasse lavorare, dato che non mancavano loro i
soldi (“…fu loro proposto un piano per il
trasferimento in una zona di Jalisco, affinché lavorassero la terra (…) dissero che non potevano accettare la
proposta perché le compagnie proprietarie delle navi continuavano a coprire i
loro salari”). Altre preoccupazioni riguardavano la sicurezza politica e
l’ordine sociale; gli ispettori federali Francisco Martinez e Francisco Urrutia
avevano riferito al Segretario dell’Interno Miguel Alemán Valdés che
scoppiavano spesso risse fra i marinai, e che questi contribuivano alla
“trasgressione della morale pubblica” frequentando le prostitute e stringendo
relazioni con le cameriere delle osterie e le ragazze dei quartieri poveri.
Martinez ed Urrutia segnalavano il fastidio delle autorità locali per la quasi
totale mancanza di vigilanza sui marittimi stranieri; le misure di controllo
consistevano esclusivamente in un controllo giornaliero, del tutto
insufficiente secondo Julio Serrano Castro, capo del Servizio d’Ispezione della
Segreteria del Lavoro, dato che ciò non era servito ad evitare fughe. Serrano
Castro aggiungeva che la permissività dei funzionari del servizio immigrazione
aveva permesso il nascere di una serie di attività illecite, più precisamente
di spionaggio e di propaganda; era noto, diceva il funzionario messicano in un
rapporto, che gli ufficiali riferivano quotidianamente ai loro consolati le
informazioni che raccoglievano. Questi ultimi erano tenuti in grande
considerazione presso tutti i cittadini italiani, tedeschi e giapponesi
residenti in città. In generale si rilevò un crescendo, nelle segnalazioni
degli ispettori e dei servizi di informazione, nei toni allarmistici; il fatto,
ad esempio, che i marittimi tedeschi leggessero un giornale tedesco stampato in
Messico fu ritenuto prova sufficiente del loro coinvolgimento in “attività di
propaganda”. Le segnalazioni sulla “pericolosità” dei marittimi si alternavano
alle lamentele sul loro disinteresse nei confronti del lavoro. Alla fine si
concluse che la permanenza dei marittimi dell’Asse a Guadalajara od in una
qualsiasi altra grande città del Messico rappresentasse un problema per la
pubblica sicurezza, e che fosse desiderabile evitare il contatto tra i
marittimi e la popolazione messicana.
Nel febbraio del 1942
venne pertanto presa la decisione di internare i marittimi italiani e tedeschi
nell’ex fortezza San Carlos di Perote, nello stato di Veracruz, dov’era stata
allestita una “stazione migratoria” – ossia una sorta di centro accoglienza per
immigrati, anche se ovviamente gli equipaggi delle navi confiscate non erano
propriamente “immigrati” – in quanto la loro “situazione migratoria” risultava
incerta (erano stati considerati dapprima “migranti temporanei” e poi
“immigrati condizionali”). In sostanza, quello di Perote era un campo
d’internamento (anche se la legge messicana faceva una netta distinzione tra i
campi d’internamento, considerati luoghi di reclusione forzata, e le “stazioni
migratorie”, considerati luoghi di “residenza temporanea” per stranieri che
dovevano essere espulsi perché sprovvisti dei requisiti legali per la
permanenza in Messico); i marittimi dell’Asse passarono sotto la responsabilità
del DIPS. Il trasferimento da Guadalajara alla fortezza San Carlos avvenne
nella notte dell’8 febbraio 1942, sotto la scorta di forze federali e di agenti
della DIPS; giunsero così a Perote 520 internati, di cui 277 erano italiani e
243 erano tedeschi, tutti appartenenti agli equipaggi delle navi. L’età media
dei marittimi italiani qui internati era di 35 anni; il più giovane ne aveva
16, il più anziano 60.
Il primo articolo del
regolamento interno di Perote affermava che “si destina il forte di San Carlos nella città di Perote, Veracruz, come
luogo di residenza degli stranieri che per causa di forza maggiore non possono
essere espulsi in base all’articolo 185 della Legge Generale di Popolazione in
vigore”. La fortezza era considerata ufficialmente come un luogo di
detenzione temporanea per i marittimi, in attesa di poterli rimpatriare. Le
negoziazioni per il rimpatrio avevano dato scarsi risultati, ed era ormai
previsto che “temporanea” avrebbe significato “fino alla fine della guerra”.
Per ospitare gli internati (era prevista una “capienza” di 200 famiglie), la
fortezza di San Carlos aveva subito lavori di miglioramento dei pavimenti,
degli impianti elettrici e dei servizi igienici, anche se queste modifiche si
rivelarono poi comunque insufficienti. Le autorità messicane fornivano agli
internati il necessario per vivere; ciascuno riceveva una paga giornaliera di
1,50 pesos, ed un rapporto della Croce Rossa del 16 agosto 1942, in seguito ad
un’ispezione della fortezza, riferiva che “il
cibo è eccellente. Gli acquisti vengono fatti nel mercato locale da un
internato e [il cibo] viene
cucinato dagli internati stessi. I pasti sono serviti in grandi mense”.
Le autorità messicane
decisero anche che gli internati avrebbero lavorato durante il periodo di
internamento nella fortezza: le attività inizialmente proposte erano la
carpenteria, la produzione di salsicce, di pasta e di conserve di frutta e di
legumi, e la fabbricazione di cordami. Nell’individuare tali attività si era
tenuto conto delle capacità dei marittimi internati; avrebbero provveduto alla
produzione di cibo i membri del personale di cucina delle navi, mentre marinai
e macchinisti avrebbero potuto dedicarsi ai cordami ed alla carpenteria.
Qualcuno dei marinai, d’altronde, aveva già messo in piedi per suo conto
qualche piccola attività del genere. Il progetto proposto dalle autorità
messicane, tuttavia, fu respinto dagli internati all’unanimità: in parte perché
non era stato specificato quanto sarebbero stati pagati per tale lavoro, anzi,
non era nemmeno stato precisato se sarebbero stati pagati; in parte perché,
come riferirono i rappresentanti dei marinai, i marittimi non erano disposti a
lavorare fino a quando non fossero stati rimessi in libertà. Essendo internati
civili e non prigionieri di guerra, potevano rifiutarsi di lavorare: la
Convenzione di Ginevra, infatti, prevedeva che soltanto i prigionieri di guerra
potessero essere obbligati a lavorare, mentre era responsabilità dello Stato
ospite il mantenimento degli internati civili. Naufragò così il progetto per
l’impiego dei marittimi internati in attività produttive. I marittimi si
diedero autonomamente una loro organizzazione interna, al di là delle direttive
governative; potevano lasciare Perote per motivi personali (matrimoni) o per
ricoveri ospedalieri (a seconda della gravità, erano inviati nell’ospedale di
Jalapas, capitale dello stato di Veracruz, oppure direttamente a Città del
Messico), previo rilascio di un permesso speciale. I marittimi che sposavano
donne messicane o che avevano figli da loro potevano fare richiesta per essere
rimessi in libertà e per avviare le pratiche per la naturalizzazione.
Con la dichiarazione
di guerra del Messico ai Paesi dell’Asse, il 22 maggio 1942 (decisa proprio in
seguito al siluramento di alcune petroliere ex italiane, ed ora messicane, da
parte degli U-Boote tedeschi), i marittimi italiani e tedeschi divennero, da
cittadini di Paesi belligeranti in un Paese neutrale, cittadini di Paesi
nemici; nella sostanza, però, la loro situazione non cambiò di molto.
A partire dal giugno
1942, ai marittimi delle navi confiscate andò ad aggiungersi, nel forte di
Perote, una nuova categoria di internati: cittadini di Paesi dell’Asse – in
maggioranza tedeschi – arrestati per reati di spionaggio, sabotaggio,
disobbedienza agli ordini di internamento ed altri reati “politici”; rimasero
comunque una minoranza (su 605 internati che in tutto furono “ospitati” nella
fortezza, solo 85 appartenevano a questa categoria).
La fortezza di San
Carlos era presidiata da una guarnigione estremamente ridotta: il perimetro
della fortezza era vigilato da un numero di soldati dell’Esercito che variava
tra i quindici ed i venticinque, mentre le entrate e le uscite erano
sorvegliate da quattro o più agenti della DIPS. Il giornalista messicano Jorge
Sandoval Piñó, che visitò Perote alla fine del 1942, rimase stupito da un corpo
di guardia tanto ridotto per una popolazione di internati tanto grande; scrisse
in un suo articolo: “…ciò che più sorprenderà
è che 586 internati sono sorvegliati da niente più che il colonnello Tello, due
aiutanti, tre ispettori del Governo ed un picchetto di truppe federali. C’è
qualcosa di ancor più sorprendente: il colonnello Tello non usa la pistola”.
In generale, la carenza della vigilanza rimase un problema costante della
“stazione migratoria” di Perote, mostrando il lassismo delle autorità verso la
presunta “pericolosità” degli internati. Un autoproclamato Comitato
Antifascista di Perote denunciò alle autorità che “…nella fortezza di San Carlos (…) si sta commettendo un gran numero di irregolarità, le anomalie che vi
si riscontrano sono queste: si gioca a carte su vasta scala, ci si ubriaca, di
notte i tedeschi e gli italiani escono con il permesso del comandante della
fortezza e tornano prima dell'alba in stato di ubriachezza”. Gli internati
riuscivano senza molti problemi ad entrare ed uscire a dispetto di quella che
sarebbe dovuta essere una ferrea vigilanza; il generalizzato lassismo delle
autorità responsabili della “stazione migratoria” di Perote andò poi
gradualmente calando a fronte delle proteste della stampa e dei “comitati
antifascisti” locali. Il contrabbando di alcol nella fortezza a quanto pare
costituì un problema non da poco per le autorità locali, che lo combatterono
con divieti e restrizioni sia verso gli internati che verso la popolazione del
luogo, nonché modificando i turni di guardia per fare in modo che ci fossero
sempre degli agenti del DIPS (ritenuti più affidabili dei soldati) tra coloro
che vigilavano sugli internati, ad ogni ora.
Il già citato
giornalista Jorge Sandoval Piñó, nella sua visita, osservò la vita quotidiana
degli internati a San Carlos: si pranzava a mezzogiorno; dopo pranzo, si giocava
a calcio; alle 16.30 o 17.30, a seconda del giorno, si faceva l’appello. Gli
italiani avevano mantenuto la numerazione degli equipaggi delle navi, mentre i
tedeschi avevano inventato una nuova numerazione per i loro uomini. La cena era
alle 18, dopo di che gli internati commentavano le notizie riportate su
giornali; era questo “il secondo evento più importante” della giornata. Alle 21
veniva suonato il silenzio e si andava a dormire. Le autorità avevano
autorizzato gli internati ad “autogestire” la loro vita e l’organizzazione
interna della stazione, scrisse Piñó, perché esse non disponevano delle risorse
e dell’organizzazione per provvedere alle esigenze di base degli internati,
quindi preferivano che fossero loro a provvedere da sé con il denaro che veniva
loro fornito per il sostentamento. Gli internati versavano il loro sussidio
giornaliero in un fondo comune, che veniva utilizzato per acquistare le
provviste, così dividendo le spese per il cibo; le provviste erano fornite da
don Darío, un ricco commerciante di Perote. Il sistema funzionava bene, i pasti
erano abbondanti; Sandoval Piñó scrisse in proposito che “i tedeschi mangiavano patate a tonnellate, e gli italiani non potevano
vivere senza gli spaghetti”. Gli internati bevevano caffè e fumavano,
“anche troppo”; a mezzogiorno il pranzo di ciascuno consisteva in “quattro o cinque costolette, una montagna di
patate al vapore ed un’altra di legumi cotti”. Per quanto riguardava la
sistemazione degli internati, la parte anteriore dell’edificio principale del
complesso fortificato era la più abbandonata, mancando persino di tetti e di
pavimenti in alcuni punti; gli alloggi degli internati occupavano gli altri tre
lati dell’edificio, mentre l’ufficio e l’appartamento del colonnello Tello
erano sistemati nella parte alta. L’ala sinistra era occupata dagli internati
italiani e giapponesi, quella destra dai tedeschi. Sandoval Piñó osservò anche
che “tra i marinai italiani c’erano
solidarietà e coesione – normalmente vivevano in gruppi di 2 o 3 – ma non tra i
tedeschi, una parte di essi erano stati isolati dal resto, erano gli
autoproclamati antifascisti”.
Nel marzo 1943 i
marittimi italiani vennero trasferiti dalla fortezza di Perote all’ex azienda
agricola (hacienda) San Antonio ad
Irapuato, nello stato di Guanajuato, lasciando a Perote i soli tedeschi (e così
dimezzando la popolazione complessiva della fortezza). Sulla vita degli
internati all’ex hacienda rimangono pochi documenti; uno di essi, un rapporto
della DIPS, menzionava che i marittimi si recavano spesso nel villaggio a
giocare a carte, scommettere ed ubriacarsi.
In seguito, le
autorità messicane assegnarono ai marittimi italiani dei posti di lavoro
affinché potessero guadagnare il denaro necessario a sostentarsi finché non
fosse stato possibile il loro rimpatrio; contemporaneamente, essendo in tal
modo i marittimi divenuti economicamente autosufficienti, le medesime autorità
interruppero l’erogazione dei sussidi loro concessi dalla data di confisca
delle navi. L’indennizzo per i marittimi fu calcolato dalla Segreteria del
Lavoro (equivalente messicano del Ministero del Lavoro) e pagato dalla
Tesoreria e Credito Pubblico alla fine della guerra, scontandone l’ammontare
già anticipato prima del pagamento e con l’aggiunta degli interessi.
Non tutti gli uomini
del Marina O. videro la fine della
guerra: il fuochista Leonardo De Cortes (o Degortes), da Olbia (o Terranova
Pausania), morì in prigionia in Messico il 22 settembre (o novembre) del 1944.
Dopo il sequestro il
possesso del Marina O., al pari di
quello delle altre navi, passò inizialmente alla Segreteria della Marina
messicana, che inviò a bordo dei bastimenti sequestrati, al posto degli
equipaggi italiani frattanto sbarcati, i propri uomini: per ordine del
contrammiraglio Hurtado de Mendoza, che aveva preso in consegna le navi per
ordine superiore, queste ultime vennero subito “presidiate” da uomini della
Fanteria di Marina e da ufficiali del "Cuerpo General" (cioè
ufficiali di vascello) e di macchina; inoltre, il Dipartimento delle Comunicazioni
Naval (Departamento de Comunicaciones
Navales) assegnò dei propri radiotelegrafisti alle stazioni radio di
ciascuna nave. Tali misure “erano state
rese necessarie dallo stato in cui alcune delle navi erano state trovate”.
Il Segretario agli
Affari Esteri (Ministro degli Esteri) del Messico, Ezequiel Padilla Peñaloza,
formò una commissione mista integrata da funzionari della Tesoreria, delle
Segreterie della Marina e delle Relazioni Estere e della società Petróleos
Mexicanos, con il compito di redigere l’“inventario” delle navi confiscate,
nonché di ricevere i reclami degli armatori che chiedevano un indennizzo per la
confisca della proprietà. Sul pagamento degli indennizzi, che sarebbe avvenuto
a fine guerra, fu stipulato un accordo l’11 giugno 1941, senza però
specificarne l’ammontare. Il 18 luglio, con un altro accordo con le Segreterie
delle Finanze e del Governo, fu deciso che le spese per il mantenimento in
Messico degli equipaggi fino a fine guerra sarebbero state dedotte
dall’indennizzo delle navi confiscate.
L’8 dicembre 1941, in
seguito all’entrata in guerra degli Stati Uniti, il Marina O. venne formalmente confiscato dal Governo messicano e noleggiato
alla neocostituita Compañía Mexicana de Navegación S. de R. L. y C. V., con
sede a Tampico, ricevendo il nuovo nome di Tabasco
(lo stesso avvenne ai piroscafi ex tedeschi, mentre le petroliere vennero
trasferite alla Pemex, la compagnia petrolifera di Stato del Messico).
Il comando delle navi
ex italiane fu affidato ad ufficiali della Marina messicana, ed i loro nuovi
equipaggi – interamente messicani – furono formati in parte da personale della
fanteria di Marina nonché da ufficiali di coperta, di macchina e
radiotelegrafisti appartenenti anch’essi alla Armada de México. In particolare,
per ordine della Segreteria della Marina i ruoli di comandante, primo e secondo
ufficiale di coperta, direttore di macchina, primo e secondo ufficiale di
macchina e radiotelegrafista furono ricoperti da ufficiali dell’Armada.
Il Tabasco a Veracruz a fine anni ’40 (Instituto
Nacional de Antropología e Historia de México) I trasporti marittimi
del Messico in tempo di pace facevano affidamento quasi del tutto sul naviglio
estero: la flotta mercantile messicana consisteva in poche piccole unità adatte
solo al traffico costiero, con un solo bastimento d’altura, l’Uxmal, di proprietà del governo federale
messicano. Come già avvenuto per la flotta petroliera, quadruplicata grazie
all’acquisizione delle navi cisterna italiane, anche la flotta da carico
messicana beneficiò considerevolmente dell’afflusso delle navi confiscate
all’Asse, pur essendo queste molto meno numerose delle petroliere: erano
infatti soltanto tre, il Marina O. ed
i due piroscafi tedeschi Hameln ed Orinoco, ribattezzati rispettivamente Oaxaca e Puebla. Tutte furono affidate alla Compañía Mexicana de Navegación,
creata appositamente per lo scopo (la presiedeva Gonzalo Abaunza, coadiuvato
dall’ingegner Alberto José Pawling, esperto di questioni marittime e
funzionario del Dipartimento della Marina nonché futuro sottosegretario alla
Marina), cui venne noleggiato anche l’Uxmal.
La Compañía Mexicana
de Navegación venne incaricata del trasporto di merci e passeggeri tra i porti
messicani e quelli stranieri del Golfo del Messico; il 30 aprile 1941 venne
firmato un contratto con 38 clausole, redatto dal Dipartimento Giuridico (Departamento Jurídico) della Segreteria
della Marina, tra quest’ultima e la Compañía Mexicana de Navegación, nel quale
si definivano le condizioni della gestione delle navi e le caratteristiche del
servizio di trasporto di merci e passeggeri che la compagnia avrebbe dovuto
svolgere tra i porti messicani della costa del Golfo e quelli esteri.
Uno dei primi compiti
della piccola flotta della Compañía Mexicana de Navegación consisté nel
rifornimento di mais della popolazione dello Yucatan, i cui raccolti erano
stati distrutti da un’invasione di locuste proprio nell’estate del 1941.
L’impiego dei piroscafi confiscati all’Asse non fu scevro di problemi: erano
infatti più grandi di qualsiasi altro bastimento che avesse fino a quel momento
navigato sotto bandiera messicana lungo le rotte costiere del Golfo del
Messico; inoltre, i danni causati dal sabotaggio attuato dagli equipaggi prima
della cattura si rivelarono più gravi di quanto inizialmente ritenuto e
costrinsero a lunghe e costose riparazioni negli Stati Uniti, al termine delle
quali per giunta il governo messicano noleggiò il Puebla – la più grande e moderna delle tre unità confiscate
all’Asse – ad armatori statunitensi, violando l’accordo stipulato con la
Compañía Mexicana de Navegación. Come se non bastasse, nel giugno 1942 l’Oaxaca venne affondato da un U-Boot
tedesco, così che la già striminzita flotta della compagnia si ridusse ai soli Tabasco ed Uxmal; il Tabasco, in
particolare, fu posto in servizio su una rotta circolare che da Tampico portava
a New Orleans con tappe intermedie a Veracruz ed all’Avana, ma la potente lobby
degli esportatori di henequen dello Yucatan (che pure, finché era stato
possibile, aveva preferito noleggiare navi norvegesi per i suoi commerci, e che
anzi aveva accolto con ostilità la nascita della Compañía Mexicana de Navegación,
colpevole di aver adibito l’Uxmal al
trasporto di zucchero da Cuba a New Orleans, così riducendo il potere negoziale
che gli esportatori di henequen detenevano nei confronti degli armatori
norvegesi, dai quali strappavano prezzi di favore con la minaccia di ricorrere
altrimenti all’Uxmal, che intanto era
sempre lasciato inattivo in porto) pretese che nell’itinerario venissero
inseriti anche degli scali in quella regione. La compagnia tentò di
accontentare queste richieste, ma l’eccessivo pescaggio del Tabasco obbligò a trasbordare il carico
su delle chiatte a Progreso, operazione che prolungò il viaggio a 48 giorni,
facendo deteriorare il mais contenuto nelle stive.
Dopo questa
disastrosa esperienza, lo scalo nello Yucatan venne abbandonato; gli strascichi
di questa vicenda avrebbero decretato la fine della Compañía Mexicana de
Navegación, in quanto le pressioni degli esportatori di henequen indussero il 4
maggio 1943 il governo messicano a rescindere il suo contratto con la
compagnia, trasferendo l’Uxmal al
governo statale dello Yucatan. Nel decreto con cui il contratto veniva
dichiarato decaduto, si affermava che la compagnia fosse venuta meno “con allarmante frequenza… all’adempimento
delle obbligazioni” derivanti dal contratto: aveva violato la prima
clausola, stabilendo nei mesi di febbraio e marzo 1943 un servizio di
navigazione esclusivamente tra porti stranieri (impiegando il Tabasco tra Cuba e New Orleans) senza
informare la Segreteria della Marina “ed
inoltre contro i suoi espressi ordini, con grave pregiudizio per il servizio di
comunicazione del Paese, interrompendo, nel mentre e senza causa giustificata,
il servizio pubblico di navigazione tra i porti messicani e stranieri”; la
seconda clausola, non avendo pagato pienamente le imposte all’erario nazionale
previste nel contratto; le clausole terza e settima, per non aver svolto i
lavori di manutenzione e riparazione necessari a mantenere le navi in perfette
condizioni di efficienza ed ordine; non aveva adeguatamente assicurato il Tabasco e l’Uxmal contro i rischi bellici (che erano da considerarsi tra i
rischi “di tutti i tipi” che avrebbero dovuto essere coperti da assicurazione
secondo quanto stabilito dal contratto), esponendoli al contempo (mentre erano
di proprietà dello Stato, e solo in gestione alla compagnia) a tali rischi (il Tabasco, in particolare, era rimasto
scoperto dal 14 al 21 marzo 1943, in quanto la Compagnia si era rifiutata di
pagare il premio assicurativo per tale periodo); non aveva stabilito un
itinerario preciso per assicurare un servizio regolare tra i porti messicani e
quelli stranieri del Golfo; aveva omesso il servizio postale, non rinnovando i
relativi contratti; infine, “risulta una
palese volazion a quanto espressamente pattuito in merito al divieto assoluto
per la compagnia di disporre delle concessioni, dei diritti in esse contenuti,
delle navi e dei loro servizi”, in particolare alienando in favore della
compagnia assicurativa “i diritti patrimoniali della nazione” derivanti
dall’assicurazione del Tabasco e dal
relativo risarcimento trasferendo l'importo in anticipo per coprire i costi di
pagamento dei premi per l'assicurazione dell’Oaxaca per il semestre dicembre 1942-giugno 1943, il che aveva
portato all’annullamento dell’assicurazione sul Tabasco, “con conseguente
interruzione sia dei contratti di assicurazione che del servizio di trasporto
pubblico, come si è detto, con la conseguente violazione delle disposizioni del
contratto”. Insieme al decadimento del contratto, la compagnia perse i
100.000 pesos versati come cauzione sull’eventuale inadempimento del contratto.
Per effetto del
decadimento del contratto, il Tabasco
e l’Uxmal tornarono sotto il diretto
controllo della Segreteria della Marina, che tornò ad esercitare pienamente i
suoi diritti di proprietà sui due bastimenti. Dell’Uxmal si è già detto; quanto al Tabasco,
troppo grande per i traffici costieri (mentre l’economia messicana, ancora
agricola ed orientata verso il consumo interno, non necessitava di grosse navi
per le sue modeste importazioni ed esportazioni), venne adibito al trasporto di
zucchero dall’Avana agli Stati Uniti.
Il Tabasco passò dunque la guerra a
trasportare merci tra i porti del Golfo del Messico. Viaggiò varie volte in
convoglio tra il 1942 ed il 1943: in particolare, l’11 settembre 1942 salpò da
Galveston Bar con il convoglio HK. 102 diretto a Key West, dove giunse il 15
settembre, proseguendo subito per Guantanamo insieme al convoglio KG. 602, col
quale giunse a destinazione il 19 settembre. Il 14 ottobre salpò da Key West
insieme al convoglio KP. 411, arrivando a Pilottown tre giorni dopo; il 7
novembre lasciò il South West Passage con il convoglio HK. 116, raggiungendo
Key West dopo tre giorni, per poi raggiungere L’Avana il 12 novembre insieme al
convoglio KC. 9, proseguendo subito per Key West. Il 29 novembre arrivò a Key
West con il convoglio CK. 313, proseguendo per L’Avana; il 1° dicembre 1942
salpò da Key West per Pilottown insieme al convoglio KP. 423, giungendo a
destinazione il 4 dicembre. Il 14 giugno 1943 salpò da Galveston Bar per Key
West con il convoglio HK. 194; giunto a Key West il 18 giugno, ne ripartì dieci
giorni dopo insieme al convoglio KG. 642, col quale arrivò a Guantanamo il 1°
luglio. Il 7 luglio 1943 lasciò Key West per Pilottown con il convoglio KH. 401,
giungendo a destinazione il 9 luglio.
Metà delle navi
italiane confiscate dal Messico furono affondate dagli U-Boote tedeschi durante
la seconda guerra mondiale; quelle che sopravvissero, tra cui il Tabasco, rimasero al Messico anche dopo
la fine della guerra, in base ad accordi presi tra il governo messicano e
quello italiano nel dopoguerra.
Il 29 dicembre 1948
la Camera dei Deputati del Messico votò all’unanimità (97 voti favorevoli,
nessun contrario) un decreto a firma di Abraham González Rivera e Fernando Cruz
Chávez che regolava le questioni relative al sequestro di beni appartenenti a
cittadini italiani verificatosi durante il conflitto, con la quale tra l’altro
si dichiaravano proprietà nazionale (del Messico) il Tabasco e le altre navi ex italiane sopravvissute alla guerra,
con tutti i diritti e le indennità relative al loro possesso, così come le
somme versate dalle assicurazioni per il risarcimento della perdita delle
petroliere ex italiane affondate durante la guerra. Il governo italiano, da parte
sua, aveva rinunciato ad ogni diritto in merito nel trattato di pace firmato a
Parigi nel 1947 (articolo 76, paragrafi primo e quinto). Nel terzo articolo del
decreto approvato dal parlamento messicano, si affermava che «in accordo con quanto deciso dall’Esecutivo
il 4 luglio 1945 attraverso la Commissione Intersecretariale sulle Proprietà ed
Attività del Nemico, sono proprietà della nazione le navi Poza Rica ex Fede;
Ebano ex Stelvio; Minatitlán ex Tuscania; Pánuco ex Giorgio Fassio; e Tabasco
ex Marina O., così come i diritti e le indennità inerenti al loro possesso».
L’accordo definitivo
col quale si regolarono tutte le questioni pendenti tra gli armatori italiani e
le autorità messicane fu stipulato a Città del Messico il 10 luglio 1952 tra il
Governo italiano – rappresentato dall’ambasciatore d’Italia in Messico Luigi
Petrucci, per conto sia del Governo stesso che degli armatori delle navi
sequestrate nel 1941 – e la Petroleos Mexicanos – rappresentata dal suo
direttore generale, senatore Antonio J. Bermudez –; esso stabiliva nella terza
clausola che «Il Governo italiano riconosce
al Messico la proprietà esclusiva delle seguenti cinque navi attualmente
naviganti che furono sequestrate dal Governo messicano in base al Decreto in
data 8 aprile 1941: "Poza Rica" (ex-Fede); "Ebano"
(ex-Stelvio); "Minatitlan" (ex-Tuscania); "Panuco"
(ex-Giorgio Fassio) e "Tabasco" (ex-Marina O.)» e che in cambio
(quarta clausola) «"Petroleos
Mexicanos" e' d'accordo nel dedurre dalla somma menzionata nella clausola
1ª del presente Accordo [somma che da parte italiana si doveva
corrispondere alla Petroleos Mexicanos per la perdita in guerra di Minatitlan e Panuco, due navi cisterna gemelle ordinate
dalla Pemex ai cantieri Ansaldo e poi confiscate ancora in costruzione
dall’Italia, e per la tardiva consegna di una terza gemella, la Poza Rica] l'importo di una equa indennità riconosciuta a favore degli
armatori italiani ex-proprietari delle 10 navi a cui si riferisce la
clausola 3ª. Tale indennità viene fissata nella somma specificata per ciascuna
delle navi che figurano nell'allegato n. 2, per un importo totale di
Doll. 6.458.187,00».
Nel luglio 1960 il Tabasco trasportò a Valparaiso materiali
da costruzione, viveri, vestiario ed una squadra di medici ed infermiere: aiuti
inviati dal Messico al Cile devastato dal terremoto di Valdivia, il più
violento evento sismico della storia (magnitudo 9,5). Insieme ad essi giunse
con il Tabasco persino una banda di
mariachi.
La carriera del
vecchio piroscafo ebbe fine nel 1962, quando fu demolito a Veracruz.
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Il Tabasco nel 1950 (Instituto Nacional de Estudios
Históricos de las Révoluciones de México) |