Il Lampo a Venezia (da La Voce del Marinaio) |
Cacciatorpediniere
della classe Folgore (dislocamento standard 1450 tonnellate, a pieno carico
2130 tonnellate).
Durante il conflitto
effettuò 137 missioni di guerra (62 di scorta convogli, 10 di caccia
antisommergibili, 10 di addestramento, tre di intercettazione di forze nemiche
e 52 di trasferimento o di altro tipo), percorrendo complessivamente 36.651
miglia nautiche, trascorrendo 3012 ore in mare e passando ben 502 giorni ai
lavori.
Breve e parziale cronologia.
30 gennaio 1930
Impostazione presso i
Bacini & Scali Napoletani di Napoli.
26 luglio 1931
Varo presso i Bacini
& Scali Napoletani di Napoli.
13 agosto 1932
Entrata in servizio. È
il terzo cacciatorpediniere della classe Folgore
ad essere completato, preceduto da Folgore
e Baleno e seguito dal Fulmine.
Negli anni seguenti
svolge intensa attività addestrativa con la squadra navale.
1934
Il Lampo (capitano di corvetta
Guglielmo Bolla) fa parte della II Squadriglia Cacciatorpediniere con i
gemelli Folgore, Fulmine e Baleno.
La II Squadriglia,
insieme alla I (Freccia, Dardo, Saetta, Strale)
forma la 1a Flottiglia Cacciatorpediniere (conduttore
l’esploratore Antonio Pigafetta),
inquadrata nella I Squadra Navale.
Il Lampo (quarto da sinistra) ormeggiato a Gaeta nel 1935: da sinistra a destra si distinguono inoltre Strale, Freccia, Fulmine, Folgore e Baleno; sulla destra, una piccola nave cisterna classe Adda; alla fonda sullo sfondo, i cacciatorpediniere Nembo, Ostro, Espero, Euro, Zeffiro, Borea, Turbine ed Aquilone, un cacciatorpediniere classe Navigatori, un cacciatorpediniere classe Leone e gli incrociatori pesanti Fiume, Gorizia e Zara (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Una fila di cacciatorpediniere ormeggiati a Napoli il 25 novembre 1936: da sinistra a destra, Saetta, Strale, Nembo, Ostro, Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno, Espero e Borea (foto Vittorio Vaccà, via coll. Alessandro Burla e www.associazione-venus.it) |
1936 ca.
È comandante in
seconda del Lampo il capitano di corvetta
Mario Mastrangelo, futura Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Il Lampo a La Spezia nel 1936 (sopra: Coll.
Luigi Accorsi via www.associazione-venus.it;
sotto: g.c. Stefano Cioglia via www.naviearmatori.net)
Autunno 1936
Partecipa alle
operazioni navali connesse alla guerra civile spagnola.
Il Lampo a Venezia nel 1937 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
Agosto-Settembre 1937
Durante la guerra
civile spagnola, il Lampo è
tra le unità impiegate nel blocco del Canale di Sicilia, organizzato per
impedire l’invio di rifornimenti dall’Unione Sovietica (Mar Nero) alle forze
repubblicane spagnole. Mussolini ha preso tale decisione a seguito di richieste
da parte dei comandi spagnoli nazionalisti, i quali sostengono, esagerando di
molto, che l’Unione Sovietica stia per rifornire le forze repubblicane spagnole
con oltre 2500 carri armati, 3000 “mitragliatrici motorizzate” e 300 aerei.
Il blocco navale
viene ordinato da Roma il 7 agosto ed ha inizio due giorni più tardi; oltre ai
sommergibili, invati sia al largo dei Dardanelli che lungo le coste della
Spagna, prendono in mare otto cacciatorpediniere ed altrettante torpediniere
che si posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le coste del Nordafrica
francese. Cacciatorpediniere e torpediniere operano in cooperazione con quattro
sommergibili ed un sistema di esplorazione aerea a maglie strette (idrovolanti
dell’83° Gruppo Ricognizione Marittima, di base ad Augusta) e sono alle
dipendenze dell’ammiraglio di divisione Riccardo Paladini, comandante militare
marittimo della Sicilia; successivamente verranno avvicendati da altre
siluranti e dalla IV Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando Diaz, Alberto Di Giussano, Luigi
Cadorna, Bartolomeo Colleoni).
Sono complessivamente ben 40 le navi mobilitate per il blocco: i quattro
incrociatori della IV Divisione, l’esploratore Aquila, dieci cacciatorpediniere tra cui il Lampo (gli altri sono Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea),
24 torpediniere (Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La Masa, Generale Carlo Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba, Generale Achille Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe Missori e Monfalcone) e la nave coloniale Eritrea. Altre due navi, gli
incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta, camuffati da spagnoli Lago e Rio, hanno l’incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati
dalle navi da guerra in crociera.
Il dispositivo di
blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all’Alto
Comano Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di
operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad
attenderle in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all’uscita dei
Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono
segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di
Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche
questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali)
troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della
Tunisia e dell’Algeria. Infine, come ultima barriera per i bastimenti che
riuscissero ad eludere anche tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato
lungo le coste della Spagna. Nei primi giorni del blocco sono molto attivi
proprio i cacciatorpediniere di base ad Augusta.
Il blocco navale così
organizzato (del tutto illegale, dato che l’Italia non è formalmente in guerra
con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo, portando in breve
tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica
alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera
britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche
navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona
col favore della notte. Il blocco italiano impartisce un durissimo colpo ai
repubblicani, ma scatenerà anche gravi tensioni internazionali (specie col
Regno Unito) e feroci proteste sulla stampa spagnola repubblicana ed
internazionale, con accuse di pirateria – essendo, come detto, un’operazione in
totale violazione di ogni legge internazionale – nei confronti della Marina
italiana, ripetute anche da Winston Churchill.
Venezia 1937 (da www.fotonavimilitari.blogspot.com) |
22 novembre 1938
A mezzanotte il Lampo (capitano di fregata Francesco
Ruta) salpa da Taranto, insieme al resto della sua squadriglia (della quale è
caposquadriglia) ed a buona parte della squadra navale, per compiere un’esercitazione
nel Golfo di Taranto.
Durante la mattinata
ed il pomeriggio la squadra italiana compie evoluzioni, manovre e combattimenti
simulati, in condizioni di mare molto mosso; ma nel pomeriggio, durante un
attacco silurante simulato da parte della squadriglia «Lampo» contro una fila
di incrociatori, tra cui gli incrociatori pesanti Fiume (incrociatore capofila, che viene “silurato” dai
cacciatorpediniere) e Pola (per altra
fonte, invece, la collisione sarebbe avvenuta durante il rientro alla base, al
termine dell’esercitazione), il timone del Lampo
– che procede in testa alla squadriglia mentre questa va all’“attacco” – si
guasta improvvisamente. Il cacciatorpediniere fuori controllo vira bruscamente
a dritta, taglia la rotta della fila di incrociatori, esegue una volta tonda e
passa davanti al Pola (capitano di
vascello Francesco Maugeri), che pur mettendo tutta la barra a sinistra non
riesce ad evitare la collisione. L’incrociatore sperona il cacciatorpediniere
con risultati catastrofici; l’intera prua del Lampo viene tranciata di netto ed affonda in pochi attimi. La corazzata
Giulio Cesare, che segue il Pola nella linea di fila, deve anch’essa
accostare bruscamente a sinistra, per non speronare a sua volta il Lampo.
Subito le altre navi
si attivano per portare i soccorsi; mentre il danneggiato Pola fa rotta su Taranto, dove riuscirà a rientrare con i propri
mezzi (non ha subito danni particolarmente gravi nella collisione), Fiume e Cesare “circondano” il Lampo,
per proteggerlo almeno in parte dalla violenza del mare, ed il Fiume mette in mare un’imbarcazione di
salvataggio per tentare di raggiungere il cacciatorpediniere mutilato. Non
appena tocca l’acqua, tuttavia, la lancia si capovolge, ed a fatica il Fiume riesce a riprendere a bordo i suoi
occupanti; il mare è troppo violento per permettere di inviare delle
imbarcazioni. Calato il buio, Fiume e
Cesare illuminano il Lampo coi proiettori, mentre si cerca di
predisporre il rimorchio del cacciatorpediniere: il Fiume lancia al Lampo una
cima ed un cavo d’acciaio, che in un momento favorevole in cui la poppa emerge
dalle onde – il cacciatorpediniere è continuamente sballottato dai marosi, che
lo investono ininterrottamente ed a tratti sembrano quasi sommergerlo
completamente – i marinai del cacciatorpediniere riescono a prendere ed
assicurare alle bitte. Per tentare di calmare un po’ il mare attorno al Lampo Fiume e Cesare,
ricorrendo ad un vecchio accorgimento marinaro, pompano abbondantemente nafta in
acqua; la corazzata si mantiene costantemente sopravvento, in modo da fare
scudo al cacciatorpediniere contro la violenza del vento. Verso mezzanotte, la
violenza del mare strappa le bitte cui è stato assicurato il cavo che unisce il
Lampo al Fiume: il cacciatorpediniere è di nuovo in balia del mare,
tentativi di lanciare al Lampo altre
cime per ristabilire il collegamento falliscono perché il mare continua a
spazzare la poppa del cacciatorpediniere.
23 novembre 1938
In mattinata,
placatasi almeno in parte la furia del mare, la Cesare riesce ad inviare sottobordo al Lampo una lancia con viveri per l’equipaggio del
cacciatorpediniere; spinta da dodici rematori (a causa del mare ancora mosso,
si preferisce non usare una motolancia perché l’elica potrebbe uscire
dall’acqua), l’imbarcazione attende il momento propizio e quando un’onda la
porta all’altezza della poppa del Lampo,
getta a bordo i sacchi di provviste. Successivamente sopraggiungono i
rimorchiatori d’altura Teseo e Salvatore Primo, che dopo lunghi sforzi
riescono finalmente ad agganciare il Lampo
con due cavi d’acciaio ed a rimorchiarlo di poppa a Taranto, dove arrivano
durante la notte successiva.
La prua dilaniata del Lampo in una foto scattata il 24 novembre 1938 durante il rimorchio da parte del Teseo (da www.navtechlife.com) |
Quattro uomini del Lampo hanno perso la vita nel grave
incidente: tre marinai che si trovavano nell’infermeria del cacciatorpediniere,
situata nella parte prodiera staccatasi ed affondata dopo la collisione (i loro
corpi non verranno mai ritrovati), ed il marinaio segnalatore Noseda, che era
stato trasferito dalla Cesare sul Lampo soltanto per l’esercitazione,
rimasto ucciso tra le lamiere contorte della prua (sarà necessario usare la fiamma
ossidrica per recuperare il suo corpo). Un altro marinaio è rimasto ferito. Sul
Pola non vi sono vittime, né feriti.
La tragedia è così
ricordata nelle memorie del marinaio elettricista Gaetano Pacchinari, imbarcato
sulla Cesare: "Taranto, 25 novembre 1938. La tragedia del “Lampo”
Al martedì del 22-11-38 assistetti nelle acque dello Ionio da bordo della mia
nave ad una tragedia. Ne fu protagonista sfortunato il cacciatorpediniere Lampo,
caposquadra di una flottiglia di caccia. Eravamo usciti dalla rada di Taranto
alla mezzanotte del lunedì col proposito di compiere esercitazioni di guerra in
squadra. Il mare era terribilmente mosso. Per tutta la mattinata le evoluzioni
e i posti di combattimento si erano succeduti e continuati al pomeriggio
quand’ecco all’improvviso la disgrazia. Si procedeva in fila indiana,
l’incrociatore Fiume, il Pola davanti a noi del Cesare, mentre la squadra dei
C.T. con alla testa il Lampo, procedendo in senso inverso, ci avrebbero fatto
un finto siluramento. Il Fiume era già “silurato” quando ecco che il Lampo,
giunto quasi all’altezza del Pola, vira paurosamente di bordo e sembra voler
tagliare il passo all’incrociatore. Sono sul castello del Cesare, in plancia
proiettori, ed assisto alla manovra col cuore in sospeso. È un attimo, incerto,
tremendo, istintivamente chiudo gli occhi, quando li riapro la prua del Lampo
sta distaccandosi da quella del Pola e si inabissa in mare. Il Pola accostando
tutto a sinistra ha fatto una divergenza ed ha lasciato campo libero al caccia.
Anche il Cesare ha accostato bruscamente per non speronare il Pola. Ora il Lampo
sembra che da un istante all’altro debba colare a picco ed ha la prora recisa
all’altezza della plancia comando, quasi un terzo di nave insomma! In certi
momenti è sommerso completamente, poi quando emerge l’acqua gli gronda a
cascate da tutte le parti. I poveretti che sono lassù devono stare ben male.
Probabilmente erano tutti a posto di combattimento e per questo il Lampo non
imbarca acqua, avendo tutti i portelli stagni chiusi dal centro prua alla prora
scomparsa, dove si trovavano i locali marinai, la cambusa e l’infermeria. Il Lampo
ballava, alle volte andava sott’acqua al centro e poi risaliva per piombare a
poppa. Si vedevano i marinai correre avanti e indietro. Il Cesare e il Fiume lo
coprivano e siccome era sopraggiunta la notte la illuminavano coi proiettori.
Subito dopo il disastro, dal Fiume veniva calata una imbarcazione di
salvataggio che appena toccata l’acqua si capovolgeva e si può ringraziare Dio
se a stento si riusciva a salvare l’equipaggio di essa. Poi dal Fiume veniva
lanciata una cima a cui era attraccato un cavo d’acciaio che dai marinai del Lampo,
in un momento propizio in cui la poppa emergeva, veniva fissato alle bitte. Il Fiume
ed il Cesare buttavano in mare tonnellate di nafta per calmare un po’ il mare
ed il Cesare si manteneva sempre sopravento in modo da prendere su di sé tutta
la violenza del vento. Poi i nostri proiettori nella nottata illuminavano il Lampo
per seguirne le peripezie. Verso la mezzanotte il mare tremendo si portava via
le bitte col cavo d’acciaio che il Fiume era costretto ad abbandonare ed il Lampo
era di nuovo in balia delle onde. Si tentava di lanciare altre cime, ma era una
pazzia prenderle a poppa del Lampo come era spazzata dalle onde. Dall’alto
della plancia proiettori dove ero di guardia assistevo muto al terribile
spettacolo reso ancor più tetro dal mare nero come la pece, dal fischio
lacerante del vento e dai lampi che ogni tanto illuminavano di una luce
sinistra lo scenario. Poi il tuono si univa alla musica del vento e delle onde
ed ogni tanto arrivavano a noi le grida dei marinai che lassù correvano da
poppa al centro e viceversa a seconda da dove arrivava la sferzata dell’acqua
per mettersi al riparo. Si vedevano a gruppi stretti uno accanto all’altro
fermi in un posto, per correre in un altro quand’era il momento propizio. Al
vederli così apparire e scomparire alla luce grigia del proiettore, che a
tratti perdeva di vista la nave, sembravano tanti fantasmi! Così passa la notte
ed al mattino, calmatosi un poco il mare, una imbarcazione del Cesare composta
da dodici vogatori s’azzardò ad avvicinarsi al caccia e dopo un paio di giri
nel momento in cui un’onda benigna li portava quasi all’altezza della poppa,
furono gettati sacchi di gallette, pane e scatole di carne, tanta manna per
quei marinai. Si è preferito usare l’imbarcazione coi vogatori che la motobarca
perché il mare era ancora un po’ mosso e l’elica delle volte correva rischio di
non prendere acqua. Poi finalmente arrivano due rimorchiatori d’alto mare che
con un po’ di tribolare riuscivano ad attraccare al caccia due cavi d’acciaio e
così rimorchiarlo fino a Taranto dove si arrivava in nottata. Veniva aperto il
ponte per entrare nel mar Piccolo ed ai lati del canale era assiepata tanta
gente che aspettava con impazienza per sapere notizie, che in parte erano state
date dai marinai del Pola che pure in avaria era rientrato il giorno stesso
dell’incidente. Si seppe che la causa dello scontro fu un’avaria al timone e
tre marinai in infermeria sono scomparsi in mare mentre un quarto era rimasto
ucciso fra le lamiere contorte e si era dovuto adoperare la fiamma ossidrica
per ricuperare il corpo dilaniato. Il resto dell’equipaggio si trovava a posto
di combattimento. Il quarto lo conosco bene perché faceva parte del nostro
equipaggio ed essendo segnalatore era dato in prestito per quelle esercitazioni
al caccia. Era di Como e si chiamava Noseda. Noi marinai leviamo un pensiero a
Dio a pro di questi compagni!".
La
notizia della collisione tra Lampo e Pola sulla “Stampa” (sopra) e sull’“Osservatore
Romano” (sotto) del 25 novembre 1938
Il 25 novembre
saranno celebrati a Taranto i solenni funerali delle vittime della collisione;
vi parteciperà tutta la popolazione della città, oltre alle autorità civili e
militari, tra cui gli ammiragli Arturo Riccardi (comandante della 1a
Squadra Navale) e Romeo Bernotti (in rappresentanza del Sottosegretario nonché
capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari). Mussolini,
che tra l’altro ricopre anche l’incarico di ministro della Marina, invia una
corona d’alloro, e lo stesso fa l’ammiraglio Cavagnari. Il corteo funebre
attraversa le vie Di Palma e D’Aquino, il ponte girevole e la Piazza Castello.
La messa è celebrata dal cappellano capo del Dipartimento Militare Marittimo di
Taranto; l’orazione funebre è pronunciata dall’ammiraglio Riccardi.
La notizia dei funerali su “La Stampa” del 27 novembre 1938 (Archivio La Stampa) |
L’inchiesta
sull’accaduto assolverà da ogni responsabilità i comandanti delle due navi
protagoniste della collisione, Ruta del Lampo
e Maugeri del Pola, mentre le
critiche del capo di Stato Maggiore della Marina (ammiraglio Domenico
Cavagnari) si indirizzeranno sull’ammiraglio Alberto Marenco di Moriondo,
comandante della I Divisione Navale (di cui fa parte il Pola), per non aver mantenuto in plancia, anche considerando le
avverse condizioni meteomarine, un ufficiale esperto (il capo di Stato Maggiore
della Divisione od almeno il tenente di vascello Lanfranchi, ufficiale di rotta
della Divisione), lasciando invece la guardia ad un aspirante guardiamarina che
non era stato in grado di reagire in modo adeguato all’improvvisa accostata del
Lampo.
Novembre 1938-22 maggio 1939
Lavori di
riparazione.
Lampo, Fulmine, Folgore e Baleno a Genova nel maggio 1938 (Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
1939-1940
Compie alcune
crociere addestrative per gli allievi delle scuole C.R.E.M. (Corpo Reali
Equipaggi Marittimi).
Luglio 1939
Il Lampo si reca a Mahon (Minorca)
facendo parte di una squadra navale (al comando dell’ammiraglio Oscar Di
Giamberardino) che comprende gli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi ed i cacciatorpediniere Dardo, Freccia, Strale, Folgore, Fulmine e Baleno.
Le quattro unità della classe Folgore ormeggiate a pacchetto a Genova a metà anni Trenta (Coll. Erminio Bagnasco, via www.associazione-venus.it) |
1939-1940
Lavori di modifica:
le due mitragliere singole Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm e le due mitragliere
binate Breda da 13,2/76 mm vengono sbarcate, mentre in loro sostituzione
vengono installate cinque o sei mitragliere singole Breda 1939/1940 da 20/65 mm
(per altra fonte ciò sarebbe avvenuto a inizio 1941).
Successivamente,
durante il conflitto, il Lampo verrà
anche dotato di due lanciabombe per bombe di profondità.
Il Lampo ed i suoi gemelli ormeggiati alle boe a Punta della Salute (Canale della Giudecca) a Venezia, fine anni Trenta (foto M. Baschetti – Venezia, via Coll. M. Brescia) |
1940
Presta servizio sul Lampo il sottocapo silurista Guido
Vincon, futura Medaglia d’Oro al Valor Militare.
10 giugno 1940
All’entrata
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Lampo forma la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere, insieme ai
gemelli Folgore, Fulmine e Baleno.
La VIII Squadriglia
ha base a Taranto ed è assegnata alla V Divisione Navale.
7 luglio 1940
Il Lampo salpa da Taranto alle 14.10
con i tre gemelli, la VII Squadriglia Cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta e Strale) e le corazzate Giulio
Cesare e Conte di Cavour
(la V Divisione Navale), nonché le Divisioni Navali IV (incrociatori
leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna, Armando Diaz) e VIII (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi; secondo una fonte la
VIII Squadriglia Cacciatorpediniere sarebbe uscita in mare insieme all’VIII
Divisione, anziché alle corazzate), e le Squadriglie Cacciatorpediniere XV (Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno, Antoniotto Usodimare),
per fornire sostegno a distanza ad un convoglio di quattro mercantili, salpati
da Napoli alle 19.45 del 6 e diretti a Bengasi. Si tratta della 1a
Squadra Navale al completo.
Il convoglio, formato
dai trasporti truppe Esperia e Calitea e dalle moderne motonavi da
carico Marco Foscarini, Vettor Pisani e Francesco Barbaro, trasporta
complessivamente 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari, 5720
tonnellate di carburante e 2190 uomini, ed ha la scorta diretta della II
Divisione Navale (incrociatori leggeri Giovanni
delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni), della X
Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
e di sei torpediniere (le moderne Orsa,
Procione, Orione e Pegaso della
IV Squadriglia e le vetuste Rosolino
Pilo e Giuseppe Cesare Abba),
e la scorta a distanza dell’incrociatore pesante Pola (da Augusta), delle Divisioni Navali I (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia, da
Messina), III (incrociatori pesanti Trento
e Bolzano, da Messina) e VII
(incrociatori leggeri Eugenio di Savoia,
Muzio Attendolo, Raimondo Montecuccoli ed Emanuele
Filiberto Duca d’Aosta, da Palermo) e delle Squadriglie Cacciatorpediniere
IX (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti e Giosuè
Carducci, da Messina), XI (Aviere,
Artigliere, Geniere e Camicia Nera,
da Messina), XII (Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere, da
Augusta) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino, da
Palermo), partite dalle basi della Sicilia: cioè l’intera 2a Squadra
Navale, al comando dell’ammiraglio di squadra Ricardo Paladini, imbarcato sul Pola.
Comandante superiore
in mare è l’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, con bandiera sulla Cesare.
Il Lampo nel 1940 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
8 luglio 1940
Il mattino dell’8
luglio il sommergibile britannico Phoenix (capitano
di corvetta Gilbert Hugh Nowell) lancia alcuni siluri contro Cesare e Cavour scortate dalle quattro unità della VII Squadriglia, in
posizione 35°36’ N e 18°28’ E (circa duecento miglia ad est di Malta). Le armi
mancano i loro bersagli e non vengono nemmeno avvistate.
L’operazione va a
buon fine (il convoglio raggiunge Bengasi tra le 18 e le 22 dell’8), ed alle
14.30 le navi delle due squadra navali iniziano la navigazione di rientro.
Ma alle 15.20, a
seguito dell’avvistamento di una formazione britannica – anche la Mediterranean
Fleet, infatti, è in mare a protezione di convogli – la 1a e la
2a Squadra Navale dirigono per intercettare le navi nemiche
(che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in
combattimento almeno un’ora prima del tramonto. La flotta britannica in mare,
al comando dell’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, consiste in tre corazzate
(Warspite, Malaya e Royal
Sovereign), una portaerei (la Eagle),
cinque incrociatori leggeri (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool, Gloucester) e 16 cacciatorpediniere (Nubian, Mohawk, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Stuart, Decoy, Hostile, Hyperion, Ilex, Dainty, Defender, Janus, Juno, Vampire e Voyager).
Alle 19.20, però, in
seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a
differenza dell’ammiraglio Campioni ha avuto modo di apprendere, tramite la
crittografia, la reale consistenza e finalità dei movimenti britannici) la
flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle basi, con l’ordine di non
impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi vengono attaccate da alcuni
velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. Le
bombe cadono vicine agli incrociatori, ma non causano danni.
9 luglio 1940
La navigazione
notturna di rientro si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due
fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione.
Già dalle 22 dell’8,
però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet
intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina
alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a
sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio.
Verso le 4.30, la XV
Squadriglia Cacciatorpediniere avvista delle grosse ombre verso est, il lato da
cui si prevede che possa essere il nemico, e lo comunica all’ammiraglio
Campioni. Si tratta degli incrociatori pesanti della III Divisione (Trento, Trieste e Bolzano)
che stanno passando ad est del gruppo «Cesare» a seguito di un ordine
dell’ammiraglio Paladini, ma Campioni, che Paladini – ritenendo che questi
avesse intercettato l’ordine, inviato a mezzo radiosegnalatore – non ha
informato dell’ordine alla III Divisione di proseguire verso nord (che
contrasta con quanto ordinato in precedenza da Campioni), ritiene che siano
navi nemiche e manda la XV Squadriglia ad attaccarle (questa lancia due siluri,
per fortuna senza colpire), e poco dopo impartisce analogo ordine anche alla
VIII Squadriglia. Quest’ultima riconosce però il profilo delle navi “nemiche”
come quello di incrociatori classe Trento,
e permette così di chiarire l’equivoco senza danni.
Verso le 13, dopo una
mattinata di infruttuosi voli di ricognizione, un velivolo italiano avvista la
Mediterranean Fleet 80 miglia a nordest della V Divisione, ossia molto più a
nord di quanto previsto, ed in posizione adatta ad interporsi tra la flotta
italiana e la base di Taranto: l’ammiraglio Campioni inverte allora la rotta,
ed ordina a Paladini, che si trova più a sud e sta dirigendo per
ovest-sud-ovest, di fare altrettanto, accostando ad un tempo per riunire più
rapidamente le due Squadre.
La VIII Squadriglia,
tuttavia, come altre squadriglie di cacciatorpediniere, viene autorizzata a
rifornirsi ad Augusta prima di riprendere il mare per il previsto punto di
riunione delle forze navali italiane (37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a
sudest di Punta Stilo, con incontro previsto per le 14 od al massimo, per i
cacciatorpediniere distaccati a rifornirsi, per le 16).
Le unità della VIII
Squadriglia non faranno però in tempo a ricongiungersi col grosso delle forze
navali prima che la battaglia cominci, e ne resteranno così escluse.
Terminata la
battaglia senza vincitori né vinti, la flotta italiana si avvia alle proprie
basi. La VIII Squadriglia, insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, IX,
XI, XIV, XV e XVI (36 unità in tutto), alla corazzata Conte di Cavour, agli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume e Gorizia ed agli incrociatori
leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi, entra ad Augusta nel
pomeriggio del 9 luglio. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito
dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che facevano
presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato
ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo
essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di
assegnazione. VIII, VII e IX Squadriglia salpano alle 00.55 del 10 luglio
scortando Cavour, Pola e I Divisione (Zara, Fiume, Gorizia),
raggiungendo poi Napoli.
31 agosto-2 settembre 1940
Il Lampo partecipa all’uscita in mare
della flotta a contrasto dell’operazione britannica «Hats», consistente in
varie sotto-operazioni tra cui il trasferimento da Gibilterra ad Alessandria,
per rinforzare la Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant, della portaerei Illustrious e degli
incrociatori Calcutta e Coventry, l’invio di un convoglio da
Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said, ed il bombardamenti su
basi italiane in Sardegna e nell’Egeo. Supermarina ha infatti saputo che sia la
Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite
in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con
le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e
sommergibili.
La VIII Squadriglia
cui il Lampo appartiene (con Folgore, Fulmine e Baleno)
parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio, nave di
bandiera dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione
(corazzate Duilio, Conte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi
solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori
pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia),
all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed ad alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino),
XV (Antonio Pigafetta, Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno, Antoniotto Usodimare).
Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e
Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III, VII e VIII Divisione e 39
cacciatorpediniere.
Le due Squadre Navali
italiane (la 1a Squadra è composta dalle Divisioni V, VII, VIII
e IX e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a Squadra
dal Pola, dalle Divisioni I e
III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII), riunite, dirigono per
lo Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono però uscite in mare
troppo tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro notturno ed hanno una
velocità troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di cambiare rotta e
raggiungere il centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in
contatto con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle forze
italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16 Supermarina ordina un
cambiamento di rotta, che impedisce alla 2a Squadra, che si
trova in posizione più avanzata della 1a, di proseguire verso le
forze nemiche (l’ammiraglio Iachino, comandante la 2a Squadra,
ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere contro le
forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120 miglia di
distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene annullata; comunque la 2a Squadra
non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie). Alle 17.27
la 2a Squadra riceve l’ordine d’invertire la rotta ed assumere
rotta 335° e velocità 20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle 22.30 la
formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le
forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante,
dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere
contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la
congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già
in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da
nordovest forza 9, che verso le 13 costringe la flotta italiana a tornare alle
basi, perché i cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare
compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in formazione
né usare l’armamento). Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità
italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati
danneggiati (specie alle sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso
degli uomini in mare. Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al
pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova occasione.
(dall’Albo d’Oro dei Caduti Ferraresi) |
10-11 novembre 1940
Il Lampo ed i tre gemelli della VIII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Folgore,
Fulmine e Baleno), insieme ai più moderni cacciatorpediniere della XIII
Squadriglia (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino)
scortano la corazzata Andrea Doria
durante un’uscita in mare per un’esercitazione di tiro, nel Golfo di Taranto.
Al termine dell’uscita, nel mattino dell’11 novembre, la Doria ed i cacciatorpediniere entrano a Taranto e vanno ad
ormeggiarsi alle boe del Mar Grande, nel seno della Tarantola, accanto alle
altre cinque corazzate della 1a Squadra: Littorio, Vittorio Veneto,
Duilio, Giulio Cesare e Conte di
Cavour.
Poche ore dopo, un
ricognitore britannico Short Sunderland del 228th Squadron, al
rientro da un’esercitazione, sorvola Taranto e riferisce ai suoi comandi della
presenza in porto di sei corazzate, notizia poi confermata anche da un
ricognitore Martin Maryland pilotato dal tenente Brook Walford.
In quelle ore la
Mediterranean Fleet si trova in mare con la portaerei Illustrious e le corazzate Barham,
Valiant, Warspite, Ramillies e Malaya, oltre a dieci incrociatori e 30
cacciatorpediniere, per un’operazione complessa – denominata "MB. 8"
– la cui componente principale (operazione "Judgment") prevede un
attacco aerosilurante contro la flotta italiana all’ancora a Taranto. Ricevuta
conferma dai ricognitori della presenza in porto di tutte e sei le corazzate italiane,
in seguito al rientro della Doria,
l’ammiraglio Cunningham commenterà: "Tutti
i fagiani sono nel nido". L’Illustrious,
separatasi dal nucleo principale della Mediterranean Fleet, dirige verso
Taranto scortata dagli incrociatori York,
Glasgow, Berwick e Gloucester e
dai cacciatorpediniere Hyperion, Hasty, Havelock ed Ilex.
Ad attaccare Taranto
saranno 24 biplani Fairey Swordfish degli Squadrons 813, 815, 819 e 824 della
Fleet Air Arm, metà dei quali dovranno attaccare coi siluri le corazzate
italiane presenti in Mar Grande, mentre gli altri saranno impiegati come
bombardieri (attaccando obiettivi secondari in Mar Piccolo come azione
diversiva) e bengalieri (illuminando i bersagli col lancio di bengala).
Al momento
dell’attacco il Lampo si trova ormeggiato
in Mar Grande vicino al Fulmine ed alla
corazzata Conte di Cavour; le
unità della VIII Squadriglia sono tutte ormeggiate nel lato sudorientale del
Mar Grande, all’interno della diga della Tarantola, e sono disposte quasi a
semicerchio ad ovest della Cavour:
in senso orario Fulmine, Lampo, Baleno e Folgore.
Durante l’attacco, alle
23.14, uno dei primi Swordfish ad attaccare – l’aereo L4A dell’815th
Squadron, pilotato dal capitano di corvetta Nicole W. Williamson e con il
tenente di vascello Norman Scarlet come osservatore –, dopo aver sorvolato
l’isolotto di San Pietro a 1220 metri ed aver attraversato la baia e lo
sbarramento di palloni frenati della Tarantola (la cui consistenza è stata
fortemente ridotta da una tempesta di vento), scende lentamente a motore spento
e lancia il suo siluro contro la Cavour:
l’arma passa proprio tra il Lampo ed
il Fulmine e va a colpire la
corazzata, che inizia subito ad imbarcare acqua. Subito dopo, lo Swordfish
siluratore viene abbattuto dal tiro contraereo – della stessa Cavour, della Cesare o del Fulmine, a
seconda delle fonti – ed i due uomini del suo equipaggio vengono recuperati e
fatti prigionieri dal Fulmine.
Subito dopo, altri due
Swordfish, il L4C pilotato dal sottotenente di vascello P. D. Sparkle (osservatore
sottotenente di vascello A. L. Neale) ed il L4R del sottotenente di vascello A.
Macaulay (osservatore sottotenente di vascello A. Wray), seguendo la stessa
rotta di avvicinamento dell’aereo di Williamson (che era il loro capo sezione),
sorvolano la diga della Tarantola, passano a bassa quota tra Lampo e Baleno e lanciano i loro siluri contro la Doria (ormeggiata poco più in là della Cavour; per altra fonte avrebbero attaccato anch’essi la Cavour), ma entrambi gli ordigni
sbattono contro il fondale ed esplodono. Fatti segno a intenso tiro contraereo,
i due velivoli virano poi di 180°, escono dal Mar Grande e si allontanano
indenni da Taranto.
In tutto, nel corso
dell’attacco cinque siluri vanno a segno: uno colpisce la Cavour, affondandola; tre colpiscono la Littorio ed uno la Duilio,
che devono entrambe essere portate all’incaglio per evitare l’affondamento.
L’incrociatore pesante Trento ed i
cacciatorpediniere Libeccio e Pessagno subiscono lievi danni per bombe
inesplose e concussioni di ordigni esplosi vicino. Due Swordfish vengono
abbattuti.
Nei giorni seguenti,
la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere è uno dei pochi reparti navali che
vengono mantenuti a Taranto, mentre quasi tutte le altre unità vengono evacuate
verso porti ritenuti più sicuri dall’offesa aerea. A seguito dell’incursione
diversiva effettuata da incrociatori britannici nel canale d’Otranto
contemporaneamente all’attacco su Taranto, che ha portato alla distruzione di
un convoglio di quattro mercantili, la VIII Squadriglia viene designata per tenersi
pronta a muovere insieme alla VIII Divisione (in alternanza con VII Divisione e
XV Squadriglia) per contrastare eventuali nuove puntate offensive britanniche
nel canale d’Otranto, che comunque non avranno luogo.
Inverno 1940-1941
Partecipa, con altre
unità (incrociatori leggeri Eugenio
di Savoia, Duca d’Aosta, Attendolo e Montecuccoli della VII Divisione,
incrociatori leggeri Duca degli
Abruzzi e Garibaldi dell’VIII
Divisione, cacciatorpediniere Freccia, Dardo, Saetta e Strale della
VII Squadriglia nonché i suoi compagni di squadriglia Folgore, Fulmine e Lampo), a crociere notturne (tra i
paralleli 39°45’ N e 40°18’ N, con l’impiego di due incrociatori ed una
squadriglia di cacciatorpediniere ogni volta) a protezione dei convogli che
trasportano in Albania i rifornimenti per le truppe italiane impegnate sul
fronte greco-albanese, nonché ad azioni di bombardamento navale a supporto
delle stesse operazioni.
2 febbraio 1941
Il marinaio
cannoniere Adrasto Marchi (20 anni, da Campegine), del Lampo, muore a terra in Italia.
5 marzo 1941
Lampo,
Folgore ed i cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta), Antonio Da Noli e Lanzerotto Malocello salpano da
Napoli alle 17 scortando un convoglio formato dai mercantili tedeschi Ankara, Reichenfels, Marburg e Kybfels («Sonnenblume 7»), diretti
a Tripoli.
(g.c. Carlo Di Nitto) |
8 marzo 1941
Il convoglio deve
temporaneamente sostare a Palermo, dove arriva alle 7, perché la Mediterranean
Fleet si trova per mare.
9 marzo 1941
Rientrato il
pericolo, il convoglio lascia Palermo alle 4 e prosegue per la Libia.
10 marzo 1941
Raggiunto dalle
torpediniere Centauro e Clio, inviategli incontro da Tripoli, il
convoglio giunge a destinazione a mezzogiorno.
12 marzo 1941
Il Lampo (caposcorta) ed il Fulmine lasciano Tripoli per Napoli alle
14, scortando i piroscafi tedeschi Arcturus
e Wachtfels che rientrano in Italia.
14 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Napoli alle 18.
27 marzo 1941
Lampo,
Dardo, Folgore (caposcorta, capitano di fregata Ernesto Giuriati)
e Strale partono da Napoli
alle 23.45 per scortare a Tripoli i mercantili tedeschi Galilea, Heraklea, Ruhr, Adana e Samos. Il convoglio procede ad una velocità di 9 nodi circa, ed
imbocca la rotta del Canale di Sicilia.
28 marzo 1941
Alle 9.45, al
traverso di Capo Bon, il convoglio assume rotta sud. Cala poi la notte, molto
buia, tanto da ridurre di molto la visibilità. Il mare è calmo.
Alle 21.58 il
sommergibile britannico Utmost (capitano
di corvetta Richard Douglas Cayley), dopo aver avvistato il convoglio – con
rotta 150° e velocità 12 nodi, a 8230 metri per 330° – nel punto 35°40’ N e
11°19’ E (al largo delle Kerkennah e 22 miglia a sudest di Kuriat), lancia
quattro siluri contro tre dei mercantili, per poi scendere più in profondità e
ritirarsi verso est. Ad essere colpite sono l’Heraklea (avente a bordo 212 soldati tedeschi e 100 automezzi)
e la Ruhr (che trasporta
585 soldati tedeschi e 160 veicoli), cioè le navi che procedono in testa alle
due colonne del convoglio (il Dardo sta
invece zigzagando sul fianco del convoglio, mentre lo Strale è sul fianco opposto ed il Folgore in testa). Mentre l’Heraklea affonda rapidamente, portando con sé 78 dei 212
uomini a bordo, i tre mercantili rimasti indenni accostano in direzioni
diverse: il Samos e l’Adana manovrano correttamente, in base
alle istruzioni precedentemente impartite, ma il Galilea si ferma per parecchio tempo a raccogliere i
naufraghi, nonostante l’ordine del caposcorta di rimettersi in rotta.
Il caposcorta
distacca il Dardo (capitano di
corvetta Bruno Salvatori) per prendere a rimorchio la danneggiata Ruhr, dopo di che riunisce Samos ed Adana senza molte difficoltà e prosegue con essi (e con Lampo e Strale) la navigazione verso Tripoli. Il Galilea, invece, continua ad ignorare gli ordini di proseguire
ripetuti dal Folgore e dallo Strale ed a trattenersi presso il luogo
in cui è affondato l’Heraklea,
pertanto il caposcorta finisce con l’inviare lo Strale ad assumere la scorta del piroscafo tedesco, essendo questo
rimasto isolato dal resto del convoglio. Il convoglio si scinde così in due
gruppi – Samos, Adana, Folgore e Lampo; Galilea e Strale – che si
riuniscono alle prime luci dell’alba.
Il Dardo, intanto, recupera i naufraghi
dell’Heraklea e prende a rimorchio la
Ruhr, che dopo una difficile
navigazione di 40 ore riuscirà a portare in salvo a Trapani.
30 marzo 1941
Lampo,
Folgore, Strale, Samos, Adana e Galilea raggiungono Tripoli alle otto del mattino.
1° aprile 1941
Alle 11 Lampo, Baleno ed i cacciatorpediniere Euro e Luca Tarigo (caposcorta,
capitano di fregata Pietro De Cristofaro) salpano da Napoli per Tripoli
scortando i trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria.
Da Tripoli escono successivamente le torpediniere Polluce e Partenope,
per rinforzare la scorta.
Il convoglio segue la
rotta di levante (che è quella solitamente seguita dai convogli veloci per
trasporto truppe): attraversa lo stretto di Messina, poi passa circa 150 miglia
ad est di Malta (in modo da restare al di fuori del raggio d’azione degli
aerosiluranti là basati) a 15-17 nodi di velocità. Di giorno, le navi fruiscono
di una scorta aerea assicurata da due-tre idrovolanti CANT Z. 501 per
protezione antisommergibili e due caccia FIAT CR. 42 per protezione da attacchi
aerei.
Durante il viaggio,
una sola volta viene segnalato un sommergibile in zona; la scorta reagisce al
possibile attacco zigzagando e lanciando bombe di profondità a scopo
intimidatorio.
2 aprile 1941
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 19.30.
7 aprile 1941
Lampo,
Baleno, Euro e Tarigo (caposcorta)
ripartono da Tripoli alle 17, scortando i trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria che tornano a Napoli. Il
convoglio segue ancora la rotta di levante.
8 aprile 1941
Alle 00.05 il
sommergibile britannico Upright (tenente
di vascello Edward Dudley Norman) avvista il convoglio in posizione 34°30’ N e
12°51’ E (un centinaio di miglia a nord-nord-ovest di Tripoli), su rilevamento
143° e con rotta 350°. Alle 00.21 il battello lancia due siluri contro i
mercantili di testa delle due colonne del convoglio (che si “sovrappongono”
nella visuale del periscopio, formando un unico bersaglio) e poi altri due al
mercantile di coda, il più grande. Nessun’arma va a segno, e probabilmente
l’attacco non viene nemmeno notato.
9 aprile 1941
Le navi giungono a
Napoli alle 7.30.
Convoglio Tarigo
Nel febbraio 1941, a
seguito della disfatta italiana in Nord Africa provocata dall’offensiva
britannica «Compass», Mussolini aveva deciso di accettare l’aiuto tedesco,
sotto forma di una grande unità il cui nome sarebbe presto divenuto famoso:
l’Afrika Korps del generale Erwin Rommel.
Il trasferimento in
Libia delle truppe tedesche e dei loro materiali aveva avuto inizio durante la
seconda settimana di febbraio, per mezzo di convoglio di navi mercantili
tedesche (in maggioranza) ed italiane, scortate da navi da guerra italiane. Per
due mesi il traffico dei convogli tra Italia e Libia procedé senza intoppi;
l’Afrika Korps giunse in Libia senza subire per mare alcuna perdita di rilievo,
e poté quindi organizzarsi rapidamente e poi passare all’offensiva
congiuntamente alle forze italiane già in loco, riconquistando in poche
settimane l’intera Cirenaica. Entro il 10 aprile, Bengasi e Derna erano state
riconquistate, e Tobruk circondata e posta sotto assedio.
Ma proprio a metà
aprile, mentre le truppe italo-tedesche passavano il confine tra Libia ed
Egitto, il traffico dei convogli dell’Afrika Korps doveva subire un duro colpo.
Alle 21.30 del 13
aprile 1941 il Lampo, al comando
del capitano di corvetta Enrico Marano, lasciò Napoli per scortare a Tripoli il
ventesimo dei convogli che trasferivano l’Afrika Korps in Africa Settentrionale (per
altra versione, il convoglio partì alle 23 del 13, salvo che per il Baleno, che uscì in mare all’una di
notte del 14).
Lo componevano i
piroscafi tedeschi Arta, Adana, Aegina ed Iserlohn,
carichi di truppe (10 ufficiali e 184 sottufficiali e soldati sull’Arta, 13 ufficiali e 326 sottufficiali e
soldati sull’Adana, 11 ufficiali e
206 tra sottufficiali e soldati sull’Aegina,
14 ufficiali e 278 sottufficiali e soldati sull’Iserlohn), automezzi (62 sull’Arta,
148 sull’Adana, 64 sull’Aegina e 118 sull’Iserlohn) e materiali (487 tonnellate
sull’Arta, 409 sull’Adana, 493 sull’Aegina e 608 sull’Iserlohn),
ed il piroscafo italiano Sabaudia,
carico di 1371 tonnellate di munizioni. Il personale, i veicoli ed i
rifornimenti trasportati dai mercantili facevano parte della 15.
Panzer-Division, e più precisamente del quartier generale divisionale, dello
Stato Maggiore e della compagnia comando del 33. Artillerie-Regiment (33° Reggimento Artiglieria), del 33. Nachrichten-Abteilung (33°
Battaglione Comunicazioni, che sarebbe poi stato discolto per le perdite subite
in questo convoglio), del quartier generale dello Schützen-Regiment 115 (115° Reggimento Fucilieri) e dell’11a
Compagnia cannoni di accompagnamento del medesimo reggimento, di una compagnia
medica e di due colonne motorizzate per rifornimenti.
Le altre due unità
della scorta erano il Baleno (capitano
di corvetta Giuseppe Arnaud) ed il più grande cacciatorpediniere Luca Tarigo (capitano di fregata
Pietro De Cristofaro), che ricopriva il ruolo di caposcorta; il convoglio era
infatti denominato «Tarigo» dalle fonti italiane (mentre i documenti tedeschi
lo indicano come 20. Seetransportstaffel).
Secondo la pianificazione
originaria, Lampo e Baleno non avrebbero dovuto far parte
della scorta di questo convoglio: era infatti previsto che insieme al Tarigo andassero i
cacciatorpediniere Euro e Strale. Un nuovo ordine, però, aveva
cambiato le assegnazioni, destinando Lampo e
Baleno al convoglio «Tarigo»: scambio
che doveva risultare fatale per questi ultimi.
Il convoglio avrebbe
dovuto seguire la rotta che passava al largo di Marettimo ed attraverso il
Canale di Sicilia (a ponente della Sicilia), raggiungendo la costa tunisina a
Capo Bon e seguendola poi attraverso la zona delle Isole Kerkennah, a 30-35
miglia da Sfax (il seguente combattimento è infatti noto ai britannici anche
come “azione al largo di Sfax”, ed ai francesi e tunisini come “battaglia delle
Kerkennah”), così da restare al di fuori del raggio d’azione degli
aerosiluranti di Malta.
Già nel pomeriggio
del 13 aprile (e più precisamente alle 17.25), ancor prima che le navi del
convoglio lasciassero il porto, il Comando Marina della Sicilia aveva informato
Supermarina, per via telefonica, che i ricognitori del X Corpo Aereo Tedesco (X
CAT) avevano avvistato a Malta quattro nuovi cacciatorpediniere, avvisando
inoltre che gli aerei della Luftwaffe avrebbero effettuato una nuova
ricognizione al tramonto e si sarebbero tenuti pronti per un eventuale
bombardamento notturno.
Visto che il carico
imbarcato sui mercantili del convoglio «Tarigo» era richiesto con urgenza dal
Comando tedesco, e che non si trattava della prima volta che unità sottili
britanniche sostavano a Malta (senza che questo determinasse ogni volta la
sospensione dei traffici con l’Africa Settentrionale), Supermarina non diede
molto peso alla notizia, tanto da non informarne neanche il caposcorta.
Ma si sbagliava,
perché le navi avvistate dai ricognitori a Malta erano quelle della 14th Destroyer
Flotilla britannica, al comando dell’esperto capitano di vascello Philip John
Mack: la formavano i moderni e potenti cacciatorpediniere Jervis (al comando dello stesso
Mack), Janus (capitano di
fregata John Anthony William Tothill), Nubian (capitano
di fregata Richard William Ravenhill) e Mohawk (capitano di fregata John William Musgrave Eaton). I
primi due appartenevano alla classe J, gli ultimi due alla classe Tribal (la
più grande e meglio armata classe di cacciatorpediniere della Royal Navy); tre
su quattro erano muniti di radar. Poco più di due settimane prima le navi di
Mack avevano partecipato alla battaglia di Capo Matapan, dove il Jervis ed il Nubian avevano finito, coi loro
siluri, gli incrociatori pesanti Zara e Pola (messi fuori uso,
rispettivamente, dal tiro delle corazzate della Mediterranean Fleet e da un
aerosilurante).
Il 10 aprile
l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham (comandante della Mediterranean Fleet),
dopo insistenti pressioni da Londra (ostacolare il traffico navale con la Libia
era divenuto di vitale importanza per i britannici, dato che il flusso
ininterrotto di uomini e materiali dei mesi precedenti aveva consentito la
travolgente offensiva di Rommel), aveva accondisceso a trasferire la flottiglia
di Mack da Suda a Malta, con il preciso incarico di insidiare i convogli
italiani. I quattro cacciatorpediniere erano già usciti in mare due volte, la
prima nella notte tra l’11 ed il 12 aprile e la seconda in quella tra il 12 ed
il 13, ma in tali occasioni, nonostante la cooperazione con i ricognitori, non
erano riuscite ad intercettare alcunché. Stavolta non sarebbe andata così.
La tabella di marcia
del convoglio era stata pensata affinché la parte più pericolosa della
navigazione (quella che si sarebbe dovuta svolgere alla minima distanza da
Malta) avvenisse di giorno, quando le navi avrebbero potuto anche essere
scortate da aerei italiani e tedeschi.
La navigazione del
convoglio, alla velocità di 10 nodi, si svolse senza intoppi fino a Marettimo.
Superata quest’isola, tuttavia, si levò un forte vento da scirocco ed il tempo
andò deteriorandosi, con mare agitato, foschia e piovaschi. A causa del
maltempo, che costrinse le navi a ridurre la velocità a meno di otto nodi, nel
corso della notte tra il 14 ed il 15 aprile il convoglio andò disperdendosi:
alle quattro del mattino del 15 l’Arta,
prima nave della colonna di sinistra, accostò improvvisamente a sinistra e
segnalò al Lampo "rotta vera
180°"; il comandante Marano del Lampo,
presumendo che la nave tedesca avesse ricevuto ordini diretti dal Tarigo, accostò a sua volta sulla rotta
indicata dall’Arta, seguito da tutta
la colonna di sinistra. Subito dopo l’accostata, però, Marano avvistò il faro
di Capo Bon, e più tardi si accorse che l’altra metà del convoglio, il Baleno ed i piroscafi della colonna di
dritta, non aveva accostato sulla nuova rotta. Resosi conto che doveva esservi
stato qualche errore, Marano comunicò per radiosegnalatore al Tarigo "La mia rotta è 180° – la mia velocità mg. 8"; intanto, siccome
la visibilità molto limitata sconsigliava di ordinare ai mercantili di tornare
sulla rotta precedente e cercare di riformare il convoglio durante la notte, il
Lampo ed i piroscafi della colonna di
sinistra proseguivano sulla nuova rotta.
Poco dopo, il
caposcorta De Cristofaro ordinò al Lampo
di accostare per 40° e di restare su tale rotta fino all’alba, quando avrebbero
cercato di riunire i due pezzi del convoglio. Il Lampo si avvicinò pertanto all’Adana,
piroscafo di coda della colonna di sinistra, e gli segnalò "Inverto la rotta – seguitemi", dopo
di che risalì la colonna, si portò alla sua testa, accostò e ridusse la
velocità. L’Arta, la causa prima di
tutta quella confusione, tirò invece dritto sulla rotta 180° che per qualche
motivo si era messo in testa di seguire; dopo un po’ accennò finalmente
un’accostata, ma proprio a quel punto si scatenò un piovasco, ed il mercantile
ribelle sparì alla vista degli uomini del Lampo.
Il cacciatorpediniere fermò allora le macchine ed accese il proiettorino per
segnalazioni; guardandosi attorno, però, l’equipaggio italiano si accorse di
essere rimasto solo: i piroscafi erano tutti spariti. A questo punto il
comandante Marano decise di rimettere in moto, invertire la rotta ed andare in
cerca delle… pecorelle smarrite, ma la foschia ed i continui piovaschi
ostacolarono questo compito: non essendo riuscito a ritrovare nessuna delle
navi della sua colonna, il Lampo finì
col decidere di tornare sulla rotta di Capo Bon-Marettimo per riunirsi al resto
del convoglio. Solo verso le 10 del 15 aprile fu possibile riunire tutti i
mercantili, ricomporre la formazione e riprendere la navigazione verso le
Kerkennah.
Tra tutto si erano
perse quattro ore, ritardo che andava a mutare radicalmente le previsioni della
tabella di marcia: ora, l’attraversamento del tratto più pericoloso sarebbe
avvenuto proprio di notte, quando non vi potevano essere ricognizione e scorta
aerea.
I piovaschi
continuarono per tutta la giornata, caratterizzata anche da vasti banchi di
nebbia, che impedirono agli aerei del X CAT di dare scorta aerea al convoglio
come invece previsto dai piani.
Il maltempo fermò gli
aerei della ricognizione marittima di Tripoli, che sospesero ogni attività, ma
non quelli di Malta: alle 13.45 (secondo i volumi dell’USMM; però le fonti
britanniche indicano già alle 11.57 un messaggio di un ricognitore, che
segnalava cinque navi mercantili, scortate da tre cacciatorpediniere, al largo
della costa tunisina nei pressi di Capo Bon, con rotta sud e velocità stimata 9
nodi) uno di questi, un Martin Maryland denominato OHSF e pilotato dal
comandante del 69th Squadron E. A. Whiteley, avvistò il
convoglio qualche miglio a sud di Kelibia. Apprezzandone correttamente rotta
(verso sud), posizione (36°12’ N e 11°16’ E, 160 miglia ad ovest di Malta),
composizione (cinque mercantili in linea di fronte, preceduti da due
cacciatorpediniere e con un terzo cacciatorpediniere al traverso a sinistra) e
velocità (8 nodi – anche se questa, a detta di Whiteley, era la velocità che
lui stimava sempre per i convogli che avvistava, sembrandogli una media
abbastanza plausibile: in questo caso, era esatta), il ricognitore riferì il
tutto a Malta. Whiteley ricordò poi che l’avvistamento del convoglio avvenne in
modo del tutto improvviso ed inaspettato: stava volando con il suo aereo tra la
nebbia e la pioggia, quando le navi italo-tedesche si erano materializzate
davanti a lui, tanto all’improvviso che, volando a bassa quota, per poco non si
era schiantato contro l’albero di una di esse.
(Secondo James
Sadkovich, il convoglio sarebbe stato individuato dai britannici grazie
all’intercettazione e decifrazione di messaggi radio italiani – sebbene non per
opera dell’organizzazione “ULTRA” –, come accaduto in seguito a parecchi altri
convogli diretti in Nordafrica, ma in questo caso ciò appare improbabile: in
questa fase della guerra, come evidenziato nel libro "Il vero traditore"
di Alberto Santoni, i decrittatori britannici non avevano ancora fatto molti
progressi nella guerra del Mediterraneo, e le fonti ufficiali britanniche
descrivono l’avvistamento del convoglio da parte del ricognitore come avvenuto
in modo casuale).
Al contempo il
ricognitore venne avvistato dal Baleno,
che segnalò al Tarigo di aver
avvistato un aereo sospetto con rotta sud; il Tarigo a sua volta ne informò il Lampo («Un aereo sospetto è
stato avvistato dal Baleno con rotta sud»). Ma non fu però possibile
abbattere l’aereo, che poté pedinare il convoglio per buona parte del
pomeriggio, inviando regolari rapporti a Malta. Alle 14.22 l’OHSF contattò
nuovamente Malta per aggiornare sulla posizione del convoglio; questa volta
Supermarina riuscì ad intercettare e decifrare il messaggio (o più
precisamente, due messaggi, a breve intervallo l’uno dall’altro: dapprima «OHSF a comando aviazione Malta – Ho
avvistato tre cacciatorpediniere e cinque piroscafi in posizione 36°40' N
11°03' E – Velocità dieci – 11.22 G.M.T. 15-4» e poi «OSHF a Malta – tre cacciatorpediniere e cinque piroscafi in 36°36' N
11°11' E – rotta 170° velocità nove nodi – 11.57 G.M.T. 15-4»). Ne diede
quindi notizia a Marina Messina ed a Superaereo, e sollecitò la prima a
richiedere l’intervento del X CAT (sia contro i ricognitori, che contro
eventuali attacchi al convoglio), ed il secondo ad intervenire esso stesso, con
aerei da caccia, per la protezione del convoglio, oltre che con ricognitori da
Malta verso le Kerkennah.
Alle 15.50, tuttavia,
Superaereo rispose telefonicamente che, fintanto che il maltempo persisteva,
l’Aeronautica della Sicilia non poteva fare nulla. Alle 16 Supermarina ordinò
per radio al convoglio «Tarigo» di modificare la rotta: una volta giunto alla
boa numero 4 delle secche di Kerkennah, avrebbe dovuto dirigere verso la boa n.
6, costeggiando le secche, per poi atterrare a Turgoeness. Questo dirottamento
doveva servire a vanificare il precedente avvistamento da parte dei ricognitori
di Malta; ma il convoglio, a causa del ritardo accumulato la notte precedente,
era ancora nelle acque delle Kerkennah, in zona dove la rotta era obbligata, e
dovette proseguire lungo quella rotta per tutta la notte. Alla boa 4 non ci
sarebbe mai arrivato: il suo viaggio sarebbe terminato per sempre tra le boe 2
e 3.
Alle 17.07
Supermarina contattò per telegrafo Marina Tripoli e dispose affinché quel
Comando inviasse già nelle prime ore del mattino dell’indomani velivoli per la scorta
aerea ed unità che andassero a rinforzare la scorta navale.
Alle 17.15 Superareo
riferì a Supermarina che, a seguito dell’avvistamento di un aereo, erano
decollati da Siracusa due aerosiluranti Savoia Marchetti S.M. 79, con il
compito d’intercettarlo ed al contempo di effettuare ricognizione e vigilanza
sul convoglio. In realtà, però, dei due S. 79 uno solo era effettivamente
decollato, ed anche questo dovette rientrare poco dopo a causa del maltempo
(venti di 80 km/h), senza aver visto niente (ciò fu riferito da Superaereo a
Supermarina alle 18.45).
Nel mentre, il
convoglio proseguiva nella navigazione. Alle ore 19 le navi avrebbero dovuto
trovarsi, secondo la stima della posizione, al traverso di Kuriat; ma la costa
non risultava visibile, e non venne avvistato il faro di Kuriat, né in quel
momento né più tardi. Il mare ed il vento erano caduti ed anche il barometro
seguitava a scendere, ma persisteva una foschia bassa e fitta all’orizzonte;
non fu possibile avvistare neanche il faro di Capo Africa. Sul Lampo, il comandante Marano ordinò di
rafforzare il servizio delle vedette, e dispose che il personale addetto alle
mitragliere rimanesse presso le armi per tutta la notte.
Frattanto, i
britannici non stavano con le mani in mano. Ricevute le ripetute e precise
comunicazioni dell’aereo OHSF, il comando di Malta fece partire alle 18 (o
18.30) i quattro cacciatorpediniere del capitano di vascello Mack (imbarcato
sullo Jervis), con il compito di
intercettare e distruggere il convoglio avvistato. Appena superate le
ostruzioni, era stato ordinato il "posto di combattimento" ed erano
state effettuate prove degli apparati di direzione del tiro e trasmissione
degli ordini. L’eccitazione sulle navi britanniche era palpabile; circolavano
voci sull’obiettivo della missione – poi confermate da alcuni degli ufficiali –
e si confidava di riscuotere un successo, grazie all’esperienza accumulata
combattendo in Mediterraneo, in Atlantico ed in Norvegia.
Imboccato il canale
dragato orientale, i cacciatorpediniere si misero in navigazione a 26 nodi in
linea di fila, con il Jervis in
testa, seguito dal Janus, poi
dal Nubian e per ultimo
dal Mohawk. Alle 19.15, usciti
dal canale, assunsero rotta 248°.
Alle 19.25 il comando
di Malta informò il Jervis che
un nuovo avvistamento aereo confermava la rotta e posizione che il convoglio
aveva alle 18.36 (per altra fonte, alle 17), e ne precisava la velocità in otto
nodi. Sui cacciatorpediniere britannici le vedette vennero raddoppiate, tutte
ricevettero un binocolo.
Mentre la 14th Destroyer
Flotilla assumeva una rotta verso Capo Mahdia, che – in base alle informazioni della ricognizione
aerea – l’avrebbe portata ad intercettare il convoglio «Tarigo» tra mezzanotte e le due, sia quest’ultimo che Supermarina
erano ignari di tuto: siccome che il maltempo impedì a tutti i ricognitori
italiani e tedeschi di decollare, i cacciatorpediniere britannici passarono del
tutto inosservati.
Jervis, Janus, Nubian e Mohawk giunsero così a 6 miglia dalla boa n. 4 delle
Kerkennah, nel previsto punto di passaggio del convoglio italiano, già alle
00.44 del 16 aprile (secondo i calcoli di Mack, questo avrebbe dovuto portare
le sue navi a trovarsi venti miglia a proravia del convoglio da attaccare,
entro l’una di notte). Le navi cambiarono rotta, passando su rotta 310°, e
ridussero la velocità a 20 nodi; dato però che il convoglio non era ancora
arrivato, Mack ordinò alle unità dipendenti di accostare per nord, ridurre la
velocità e cominciare un ampio zigzagamento, in modo da accrescere la zona di
ricerca.
La notte era chiara,
con vento forza 5 da nordovest; la luna era al primo quarto, e si trovava a
sudest rispetto ai cacciatorpediniere della 14th Flotilla.
All’una di notte le
navi britanniche assunsero rotta 333°, che Mack riteneva essere parallela ed
opposta a quella che il convoglio avrebbe probabilmente seguito, ed all’1.10
iniziarono a zigzagare. Successivamente la 14th Flotilla virò
verso ovest, poi verso sud; all’1.42, però, i cacciatorpediniere superarono il
punto in cui sarebbe dovuto essere il convoglio italo-tedesco se la sua
velocità fosse stata di 8 nodi, pertanto Mack ordinò di accelerare a 25 nodi
(secondo una fonte in questa fase, all’1.45, i cacciatorpediniere britannici
superarono inconsapevolmente il convoglio italiano, senza che nessuno dei due
gruppi si avvedesse dell’altro, passandogli tre miglia a sinistra). All’1.55,
se il convoglio avesse avuto una velocità di 7 nodi, si sarebbe dovuto trovare
solo tre miglia più avanti dei cacciatorpediniere britannici, ma ancora non si
vedeva niente. Mack dovette concludere che la rotta da lui stimata per il
convoglio avversario non era corretta, e ipotizzò che le navi italiane si
fossero tenute più vicine alla costa (l’alternativa era che il convoglio si
fosse accorto delle sue navi e che avesse diretto verso nord per sfuggire, nel
qual caso sarebbe stato molto difficile rintracciarlo); all’1.55, dunque,
ordinò di virare per 214°, tornando indietro, in modo da avvicinarsi alla boa
n. 1 delle Kerkennah. (Secondo una fonte, il convoglio aveva già oltrepassato
le navi di Mack, senza accorgersene e senza che queste se ne accorgessero, passando
ad una distanza di sei chilometri).
All’1.58, infine, le
navi di Mack avvistarono il convoglio italiano, che procedeva a sei miglia di
distanza, per 170°, su rilevamento di circa 140°. Non è del tutto chiaro se
l’avvistamento avvenne otticamente (come sembrerebbe dal rapporto del Jervis) oppure a mezzo radar (come è
scritto nel rapporto del Janus:
«Prendo contatto a mezzo radar ad una
distanza di 12.000 yds su rilevamento est»); inoltre nel suo rapporto
il Janus indicò l’orario
dell’avvistamento nell’1.40, quasi venti minuti prima di quello indicato
dallo Jervis (ma d’altra
parte, il Nubian riferì
anche di aver aperto il fuoco alle 2.10, dieci minuti prima degli altri cacciatorpediniere).
Il Mohawk, nel suo rapporto,
indicò addirittura nell’1.30 l’orario in cui avvistò i primi oggetti sospetti a
prora sinistra (avvistamento a seguito del quale accostò per avvicinarvisi ed
accelerò a 25 nodi), che riconobbe come cinque navi convogliate all’1.45 (e nel
suo rapporto scrisse che il Jervis aprì
il fuoco alle 2.05). Le differenze di orari indicati tra i rapporti delle
diverse navi furono in questo caso particolarmente vistose.
Comunque sia, le
unità della 14th Destroyer Flotilla, che procedevano in linea
di fila ed avevano accelerato fino a 25 nodi, identificarono correttamente il
convoglio come composto da cinque navi mercantili e tre cacciatorpediniere di
scorta, le cui sagome si stagliavano contro la luna crescente dal lato del mare
aperto; in quel momento le navi britanniche si trovavano 20° a prora sinistra
del convoglio. Alle due di notte il Jervis,
dopo aver comunicato l’avvistamento alle unità dipendenti, accostò per 140° e
accelerò a 27 nodi.
Il convoglio
procedeva in due gruppi: davanti, l’Aegina a
dritta e l’Arta a sinistra;
dietro, Iserlohn ed Adana seguivano
rispettivamente Aegina ed Arta, mentre il Sabaudia si trovava in mezzo al
secondo gruppo, tra l’Iserlohn e
l’Adana. Il Lampo proteggeva il fianco sinistro del convoglio, quello rivolto
verso il mare aperto, navigando sulla sinistra della colonna formata da Arta ed Adana, un po’ spostato verso poppavia, mentre il Baleno faceva lo stesso sul fianco
esterno, procedendo a dritta di Aegina ed Iserlohn (che formavano la colonna di
dritta); il Tarigo procedeva
invece in testa alla formazione, leggermente avanzato rispetto ad Arta ed Aegina. La velocità del convoglio, in quel momento, era di soli sei
nodi; le navi si trovavano nei pressi della boa numero 3 delle Kerkennah.
Approfittando del
fatto che le navi dell’Asse non si erano ancora accorte della loro presenza, i
cacciatorpediniere di Mack non attaccarono subito, ma invece manovrarono per
portarsi a nord (cioè a poppavia) del convoglio, tra questi e la costa, così
che il convoglio si venisse a trovare tra loro e la luna, e le sagome delle
navi italiane e tedesche risultassero ben visibili nella luce lunare, mentre da
parte loro non avrebbero potuto vedere, nel buio, le navi britanniche.
Mentre il convoglio «Tarigo»
proseguiva, ignaro di quanto stava per abbattersi su di esso, i
cacciatorpediniere di Mack eseguirono alla perfezione la manovra ordinata: si
portarono a nord del convoglio, si dispiegarono in modo da poter meglio
attaccare, acquisirono i bersagli, brandeggiarono i tubi lanciasiluri (alle
2.02 Mack ordinò di brandeggiarli verso dritta, ed alle 2.05 di brandeggiarli
verso sinistra), ridussero le distanze ed accostarono per 210° (alle 2.03; alle
2.11 il Jervis accostò di
nuovo, per 170°, alle 2.13 per 160°, alle 2.14 per 150°, alle 2.18 per 140°),
in modo che i piroscafi si stagliassero contro la luna, mentre loro restavano
nella parte oscura dell’orizzonte. Alle 2.20 il Jervis, con rotta sudest, si trovava a soli 2200 metri a poppavia
dritta del Baleno: fu a quel
punto, quanto tutto era pronto, che Mack diede ordine di aprire il fuoco contro
le navi in coda al convoglio.
Colta completamente
di sorpresa, la scorta italiana tentò di reagire, ma fu subito ridotta a mal
partito: i colpi giunsero a bordo prima ancora che si potesse aumentare la
velocità e mandare la guardia franca (la metà dell’equipaggio che era in turno
di riposo) ai posti di combattimento.
Lampo
e Baleno furono i primi ad essere
colpiti, con uguali risultati: nel giro di pochi minuti, prima di aver potuto
imbastire una reazione efficace, entrambi i cacciatorpediniere vennero ridotti
a relitti galleggianti che andarono ad arenarsi sulle vicine secche di
Kerkennah. Sembra invece esserci disaccordo su quale dei due sia stato colpito
per primo, e da chi: secondo lo storico Vincent O’Hara (autore del libro "Struggle
for the Middle Sea"), Jervis e Janus spararono dapprima contro il Baleno, che fu la prima unità ad essere
colpita, mentre a fare fuoco sul Lampo
(che secondo O’Hara fu “lento a reagire”) fu soprattutto il Nubian, che lo bersagliò dopo aver già
cannoneggiato ed incendiato alcuni dei mercantili, mettendone fuori uso il
complesso poppiero da 120 mm e gli organi di governo. La storia ufficiale della
Marina britannica ("The Royal Navy and the Mediterranean: November
1940-December 1941" di G. A. Titterton) presenta invece una diversa
disamina degli eventi: alle 2.20 Jervis,
Janus e Mohawk aprirono tutti il fuoco contemporaneamente sul Lampo, il cacciatorpediniere più vicino
– che sarebbe dunque stato il primo ad essere colpito – da una distanza di 2740
metri; sarebbe stata una bordata del Jervis
a distruggere il complesso poppiero da 120 mm del Lampo. Altre fonti affermano alternativamente che il Lampo fu messo fuori uso dalle prime
salve sparate dal Jervis o dal Janus, e sostengono che il
cacciatorpediniere attaccato dal Nubian
era invece il Baleno.
Dai rapporti
britannici risulta che il Jervis aprì
il fuoco alle 2.20, da 2200 (o 2000) metri, sparando contro un
cacciatorpediniere che aveva su rilevamento 100°, alternativamente identificato
come il Lampo od il Baleno. Alle 2.22 il cacciatorpediniere
italiano venne colpito sia da salve da 120 mm che dalle mitragliere pesanti
"pom-pom" da 40 mm, e rispose al fuoco con raffiche di mitragliera
Breda e altre salve da 120. Dopo tre minuti, il Jervis spostò il tiro su un mercantile; alle 2.27, quando
cessò il tiro, il cacciatorpediniere che aveva attaccato appariva in fase di
affondamento. In breve i cacciatorpediniere britannici furono in mezzo al
convoglio e si scatenò una mischia confusa, in cui le navi si scambiarono fuoco
di cannoni e mitragliere di ogni calibro da distanze che variavano da più di
1800 metri a meno di 50.
Il Janus aprì il fuoco alle 2.22, da 2200
metri (distanza misurata dal radar, che poco dopo divenne inutile perché i
bersagli divennero troppo numerosi e pertanto confusi), anch’esso contro “un piccolo cacciatorpediniere ad un fumaiolo”,
dunque il Lampo od il Baleno, centrandolo fino dalla prima
salva (il rapporto del comandante Tothill menziona che questa fu l’unica
occasione in cui la distanza battuta al radar poté essere utilizzata durante il
combattimento, poiché più tardi i bersagli divennero troppo numerosi e
confusi); dopo averlo colpito più volte, spostò il tiro sul mercantile di coda,
poi su un altro ancora, incendiandoli entrambi, dopo di che lanciò un siluro
contro il cacciatorpediniere di prima, mancandolo.
Quanto al Nubian, questi aprì il fuoco alle 2.10
sul mercantile di coda, incendiandolo, poi fece lo stesso col penultimo mercantile
della formazione e poi con “una piccola
nave che stava cercando di allontanarsi virando verso sinistra”. Interrotto
il tiro per permettere al fumo di diradarsi, si portò in testa al convoglio ed
alle 2.25 ingaggiò un breve combattimento contro un cacciatorpediniere classe
Navigatori, evidentemente il Tarigo,
ritenendo di averlo colpito ma venendo costretto a rompere il contatto quando
il Mohawk passò tra il Nubian e la nave italiana. Alle 2.30 il Nubian passò a proravia del mercantile
di testa del convoglio, ed alle 2.37 (quando già il Mohawk era stato silurato) avvistò un cacciatorpediniere ad un
fumaiolo (dunque il Lampo od il Baleno) a proravia sinistra ed aprì il
fuoco su di esso, sparando diverse salve, colpendolo ripetutamente ed
incendiandolo. Poi dedicò le sue attenzioni ad un mercantile che stava cercando
di scappare verso sudest, riducendolo a sua volta in fiamme. Il Mohawk, da quanto si può leggere nel suo
rapporto, sparò soltanto sui mercantili e sul Tarigo.
Secondo la relazione
ufficiale di Supermarina, il Lampo fu
il primo cacciatorpediniere ad essere investito dal tiro britannico. Quando le
navi di Mack iniziarono a sparare, il comandante Marano diede ordine di portare
le macchine alla massima forza e di aprire il fuoco; ma l’impianto poppiero da
120 mm poté sparare soltanto tre salve – secondo Vincent O’Hara il bersaglio
era il Nubian, l’unità nemica più
vicina – prima di essere distrutto da una salva del Nubian, mentre quello prodiero, trovandosi fuori campo, venne messo
fuori combattimento senza aver potuto sparare neanche un colpo.
Il marinaio
cannoniere Giobatta Rolla, da Lerici,
uno dei serventi del complesso prodiero da 120 mm, ricopriva anche l’incarico
di cameriere del comandante Marano: ciò perché nella vita civile, prima di
essere richiamato, aveva lavorato come cameriere su navi passeggeri per otto
anni. Neanche un’ora prima che il convoglio venisse attaccato, intorno all’1.40
di notte, il comandante aveva chiamato Rolla in plancia per farsi preparare due
panini; nel prepararli, questi ne aveva approfittato per mangiare e bere un po’
anche lui, decisione che si sarebbe rivelata provvidenziale. Dopo aver portato
i panini al comandante Marano, si era recato nel quadrato ufficiali e si era
steso sulla sua brandina per dormire, tenendo indosso giacca, elmetto e
giubbotto salvagente; ma poco dopo si era scatenato il pandemonio: “un colpo di cannone squarciò il quadrato,
una colata di metallo fuso mi colpi alla guancia sinistra. Piovevano granate da
tutte le parti”. Uscito dai rottami del quadrato ufficiali, Rolla aveva
visto la notte illuminata dai bagliori degli incendi e delle cannonate. Le
colonne d’acqua sollevate dai colpi di cannone si levavano dal mare, si
sentivano feriti che chiedevano aiuto. Rolla corse verso prua, verso il suo posto
di combattimento; nel passare accanto ai tubi lanciasiluri incontrò un marinaio
suo compaesano, che lo invitò a ripararsi con lui là dietro. Rolla non accettò,
continuando a correre verso prua, e dopo appena qualche secondo l’impianto
lanciasiluri venne colpito in pieno ed esplose, insieme al suo compaesano.
Prima di poter
raggiungere una buona velocità, il Lampo
fu colpito più volte, subendo gravi danni e perdite tra l’equipaggio; riuscì
nondimeno ad accostare per 240° ed a lanciare i siluri, che tuttavia non
colpirono nulla (secondo Bernard Ireland, i siluri del Lampo mancarono di poco il Jervis,
che alle 3.11 vide una scia di siluro passare proprio sotto la propria plancia;
altri storici – e lo stesso comandante del Jervis
– sembrano invece ritenere che i siluri che mancarono il Jervis fossero stati lanciati dal Tarigo). Dopo aver lanciato, il cacciatorpediniere del comandante
Marano rimase immobilizzato, devastato dai colpi nemici nelle caldaie ed in
altri punti, con l’armamento e gli organi di governo fuori uso e la maggior
parte dell’equipaggio ucciso o ferito.
Venne dato l’ordine
di abbandonare la nave: Giobatta Rolla liberò una zattera Carley dai suoi fermi
sulle draglie con un calcio, la gettò in mare e ci saltò sopra. Il mare
tutt’intorno era cosparso di rottami e chiazze di olio e di nafta, che
galleggiava sulle onde e bruciava; remando con le braccia, Rolla raggiunse
diversi compagni che annaspavano nell’acqua e li aiutò a salire a bordo. Alla
fine, si ritrovarono in una decina sulla zattera; dopo circa un’ora i rumori
della battaglia cessarono, calò il silenzio. Piovigginava. La corrente spinse
la zattera verso il mare aperto.
Ridotto ad un relitto
galleggiante in preda a violenti incendi, intanto, il Lampo fu sospinto dalla corrente sulle secche di Kerkennah,
ove si incagliò (per altra fonte sarebbe stato deliberatamente portato ad
arenarsi su quei bassifondali per evitarne il completo affondamento).
L’equipaggio superstite allagò i depositi munizioni, e verso le cinque del
mattino il cacciatorpediniere devastato si adagiò su un fondale di quattro
metri, a sei miglia e mezzo per 228° dalla boa numero 3 delle Kerkennah (Golfo
di Gabes). Data la scarsa profondità, la nave rimase interamente emergente
dalla linea di galleggiamento in su, anche se con un certo appoppamento.
Sul lato opposto del
convoglio, il Baleno non ebbe miglior
sorte del suo gemello. Tentò di manovrare per ingaggiare le unità avversarie ed
emettere fumo, ma fu subito centrato da una gragnuola di colpi che devastarono
la plancia, l’armamento, gli apparati di governo, i locali macchine e caldaie.
Immobilizzato e in fiamme, con il comandante ed un terzo dell’equipaggio
ucciso, il Baleno andò ad incagliarsi
anch’esso sulle secche di Kerkennah.
Quanto ai mercantili,
questi, armati solo con delle mitragliere, non erano che bersagli; il Sabaudia, che procedeva in coda al
convoglio, fu tra i primi ad essere centrati e prese fuoco, per poi esplodere
alle 2.50. Adana ed Aegina, anch’essi colpiti quasi subito,
vennero rapidamente avvolti dalle fiamme (le loro stive erano piene di veicoli
e benzina in fusti); l’Iserlohn riuscì
invece a mettere la poppa sul nemico, ma ciò servì soltanto a rimandare la sua
fine. L’Arta cercò di approfittare
della poca distanza di uno dei cacciatorpediniere britannici per speronarlo
(furono due le navi nemiche che riferirono di un episodio simile: il Jervis, che alle 2.27 evitò di stretta
misura un tentativo di speronamento da parte di un mercantile di 3000 tsl;
il Mohawk, che alle 2.30 evitò
un tentativo di speronamento da parte di un mercantile che appariva ancora
relativamente intatto), ma l’immediata contromanovra di quest’ultimo evitò la
collisione. Nella confusione generale, l’Arta rischiò
anche di speronare il Baleno,
evitandolo di stretta misura.
Le navi britanniche
sparavano con tale intensità che i bossoli dei proiettili, ammucchiandosi
accanto ai cannoni, intralciavano il loro utilizzo. In una mischia feroce e
confusa, le distanze tra le navi avversarie calarono in alcuni momenti a meno
di 50 metri, permettendo ai britannici di utilizzare anche le mitragliere; si
sparava con cannoni da 120, mitragliere “pom-pom”, mitragliere Breda e
Hotchkiss, mitragliere da 12,7 mm. I cacciatorpediniere di Mack accesero anche
i “fari di mischia”, ed a tratti dovettero interrompere il tiro per lasciar
diradare il fumo, perché non vedevano più niente.
Il Tarigo, trovandosi in testa al convoglio
(cioè dalla parte opposta a quella investita per prima dal fuoco nemico),
scampò alla mattanza iniziale, ed ebbe qualche minuto a disposizione per
organizzare una reazione. Andò valorosamente al contrattacco, ma ormai era solo
contro quattro cacciatorpediniere nemici: fu crivellato di colpi di cannone e
mitragliera, che ne misero fuori uso l’apparato motore e gran parte dell’armamento,
scatenarono incendi e allagamenti, e provocarono gravi perdite tra
l’equipaggio. Ormai in procinto di affondare, il Tarigo fece ancora in tempo a lanciare tre siluri: due di essi
colpirono il Mohawk, che si
rovesciò e affondò in pochi minuti. Poco dopo, alle 3.20, anche il relitto
devastato del Tarigo s’inabissò
per sempre, portando con sé 202 dei 236 uomini del suo equipaggio. Alle 3.26,
secondo il rapporto del Jervis, “la situazione era la seguente: 1
cacciatorpediniere affondato; 2 cacciatorpediniere e 4 navi mercantili in preda
a violenti incendi; il quinto mercantile (la nave portamunizioni) affondato; il
Mohawk affondato in circa tredici metri d’acqua, adagiato sul fianco, con circa
15 metri del suo castello di prua sopra la superficie”.
Dopo aver incendiato
ed affondato anche l’Iserlohn e
colpito pure l’Arta, che andò poi ad
incagliarsi sulle secche (così fece anche l’Adana,
che però affondò qualche ora dopo, mentre l’Aegina era
già colata a picco), Jervis e Nubian recuperarono i naufraghi
del Mohawk; alle 4.03 i tre
cacciatorpediniere britannici assunsero rotta 080° e velocità 20 nodi (poi 29
dalle 4.18) per il rientro a Malta, senza soffermarsi a finire le navi
incendiate ma ancora galleggianti od incagliate (erano quattro: Lampo, Baleno, Arta ed Adana), né a recuperarne i naufraghi.
Il Janus menziona nel suo rapporto che “c’erano due navi mercantili ancora a galla,
in preda a violenti incendi, ed un piccolo cacciatorpediniere con la sua
estremità prodiera completamente in fiamme”. È possibile che quest’ultimo
fosse il Lampo. Una di queste navi
esplose intorno alle 4.15.
Delle quattro navi
incagliatesi sulle secche, l’Adana
affondò nel pomeriggio del 16 aprile, mentre il Baleno resisté fino al tramonto del 17 prima di capovolgersi ed
affondare a sua volta. Sul Lampo,
invece, dopo lunghi sforzi gli uomini rimasti a bordo riuscirono finalmente a
domare gli incendi; a questo punto non rimase loro altro da fare che aspettare
i soccorsi mandati da Tripoli. Più infausta fu la sorte di coloro che avevano abbandonato
la nave.
Non appena Marilibia
ebbe notizia del disastro (secondo Antonino Trizzino, la notizia venne data da
un aereo tedesco che il mattino del 16 aprile avvistò per caso i relitti sulle
secche, giacché le stazioni radio di tutte le navi del convoglio erano state
messe fuori uso nei primi minuti dello scontro), venne ordinato l’invio sul
posto di idrovolanti ed aerei da trasporto, perché prestassero i primi
soccorsi; furono inoltre fatti partire, o dirottati in zona, i
cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (capitano
di vascello Giovanni Galati, cui fu assegnato il comando superiore delle
operazioni di soccorso), Antonio Da
Noli, Lanzerotto Malocello e Dardo, le torpediniere Giuseppe Sirtori, Perseo, Partenope, Centauro e Clio e la nave soccorso Giuseppe Orlando. Parteciparono al
salvataggio dei naufraghi anche i piroscafi Capacitas ed Antonietta
Lauro e la nave ospedale Arno,
che erano in navigazione al largo di Sfax, nonché i rimorchiatori Ciclope, Trieste, Montecristo, Pronta e Salvatore Primo.
Le navi del convoglio
erano state affondate vicino alla costa, ma il mare agitato ed il vento,
anziché avvicinare i naufraghi alla riva, li avevano allontanati, spingendoli
verso nordest, verso il mare aperto.
All’alba del 16
aprile la luce del sole rivelò agli uomini sulla zattera di Giobatta Rolla un
macabro spettacolo: nel mare tutt’intorno galleggiavano corpi senza vita, in
maggioranza di soldati tedeschi. La zattera non aveva alcuna dotazione di cibo
od acqua, né c’era modo di governarla; andava dove la portava la corrente.
Molti degli occupanti erano giovani poco avvezzi al mare, soffrivano il mal di
mare oltre alla fame ed alla sete; Rolla era tra i pochi a non avere problemi,
almeno per il momento, perché aveva mangiato e bevuto poco prima di dover abbandonare
la nave. Avvolto nel pesante cappotto, rimaneva immobile, con l’acqua alla
cintola, dormicchiando ed aspettando che accadesse qualcosa. Aveva ancora con
sé l’elmetto, ed anche questo si rivelò utile: quando durante la notte si mise
a piovere per qualche ora, poté usarlo come recipiente per raccogliere un po’
d’acqua piovana, che condivise con i suoi compagni di sventura. Dopo un po’ non
sentì più le gambe, gli sembravano paralizzate. Pensò ai parenti lontani, al
fratello anch’egli arruolato in Marina – era imbarcato sulla corazzata Vittorio Veneto –, al padre ed al nonno
entrambi morti in mare: quest’ultimo in Atlantico, su un piroscafo naufragato
in una burrasca durante un viaggio dall’Argentina all’Italia; il padre Augusto
appena una settimana dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 17 giugno 1940,
quando la nave cisterna Giulio Giordani
– sulla quale lavorava come cuoco – aveva urtato una mina al largo di Taranto.
Non gli restava che pregare la Madonna di Maralunga, patrona di Lerici; a tratti, addormentandosi,
sognava piatti di acciughe fritte che cucinavano dalle sue parti. Ogni tanto un
occupante della zattera moriva: i superstiti gli toglievano la piastrina e ne
facevano scivolare il corpo in mare. Così la zattera si alleggeriva. Un giovane
marinaio rimase parecchie ore col capo reclinato sulla spalla di Rolla; ad un
certo punto questi si accorse che era morto. Un altro marinaio impazzì per la
sete, si gettò in mare a bocca aperta, scomparve.
Arno
ed Orlando, partite rispettivamente
da Messina e da Tripoli, ricevettero l’ordine di esplorare le acque tra le boe
4 e 5 delle Kerkennah. L’Orlando,
essendo partita dalla ben più vicina Tripoli, giunse sul posto molto prima
dell’Arno (che doveva percorrere una
distanza maggiore ed era ostacolata dal mare grosso e dal forte vento in prora,
che impedivano di superare i 15 nodi); quando quest’ultima raggiunse a sua
volta il luogo del disastro, nel tardo pomeriggio del 17 aprile, l’Orlando aveva già a bordo centinaia di naufraghi
e si apprestava a dirigere su Tripoli per sbarcarli. I primi rottami vennero
avvistati dall’Arno alle sei di sera
del 17 aprile; dopo appena qualche minuto la nave ospedale avvistò anche
un’imbarcazione quasi interamente sommersa, con un naufrago a bordo. L’Arno fermò le macchine e mise a mare ben
sette imbarcazioni: una lancia si diresse verso l’imbarcazione semisommersa e
trasse in salvo il naufrago; una motobarca ed una lancia munita di radio,
seguite da altre quattro imbarcazioni a remi, vennero inviate verso sudest per
cercare altri superstiti. Un aereo tedesco contattò la nave ospedale,
invitandola a seguirlo, e la guidò fino ad un gruppo di naufraghi che aveva
avvistato, a circa tre miglia di distanza. Calato il buio, vennero utilizzati i
proiettori per setacciare la superficie del mare. I naufraghi segnalati
dall’aereo tedesco furono recuperati dalla motobarca dell’Arno; non seppero dare informazioni sulla posizione delle altre
zattere e imbarcazioni, che erano state disperse dal vento e dal mare fin dalla
prima notte. Raccontarono che molti loro compagni erano scomparsi in seguito al
capovolgimento delle zattere, e di non aver visto navi nemiche. Alle 21.15 due
dragamine raggiunsero l’Arno e
chiesero di trasbordare su di essa ottanta cadaveri di soldati tedeschi, che
avevano recuperato dal mare nelle ore precedenti: ma la priorità dell’Arno era di salvare i naufraghi ancora
in vita, pertanto si decise di non trasbordare i corpi ma di mandare sui
dragamine il cappellano di bordo, due ufficiali e due squadre di marinai ed
infermieri con l’incarico di procedere all’identificazione delle vittime,
recuperare gli effetti personali da restituire alle famiglie, e dare loro
sepoltura in mare. Supermarina venne interpellata e diede il suo assenso,
aggiungendo che una volta completata l’operazione i dragamine sarebbero dovuti
rimanere per contribuire alle ricerche, ma nel frattempo venne avvistato un
razzo bianco su rilevamento 150°; pertanto una motolancia ed i due dragamine si
diressero subito in quella direzione. Trovarono due zattere, alla deriva ad
otto miglia dall’Arno, con a bordo
nove marinai del Baleno ed un soldato
tedesco; presi a bordo i naufraghi, la motolancia li portò sulla nave ospedale,
che trascorse la notte all’ancora per via del rischio di incappare in secche o
campi minati navigando al buio in quelle acque. Le ricerche nelle ore notturne
furono invece proseguite dalle motolancie, con l’aiuto – fin dove la loro
portata lo consentiva – dei proiettori dell’Arno.
Dove questi non arrivavano, le motolancie continuavano le ricerche nel buio; il
vento le spingeva verso il mare aperto, e periodicamente le imbarcazioni
dovevano tornare verso l’Arno per
rifornirsi di carburante o sostituire l’armamento di voga. All’alba del 18
aprile si procedette finalmente all’identificazione e sepoltura in mare dei
morti imbarcati sui dragamine, con una breve cerimonia religiosa. Poi, l’Arno contattò Marilibia chiedendo
l’invio a mezzo idrovolanti di altro carburante per le motolancie: la dotazione
di bordo era quasi finita. Marilibia rispose dopo mezz’ora ordinando alla nave
ospedale di raggiungere la boa numero 4 delle Kerkennah e di esplorare verso le
boe 3 e 5. Così fu fatto; l’Arno si
spostò nel punto indicato e mandò i dragamine a cercare verso le boe 3 e 5.
Durante la mattinata del 18 aprile, altri naufraghi poterono così essere
trovati e tratti in salvo; erano ormai passati più di due giorni dal disastro.
Tra i naufraghi
soccorsi nella giornata del 18 aprile ci furono anche Giobatta Rolla ed i suoi
compagni di sventura: quel mattino la loro zattera venne avvistata da un aereo
tedesco, ed intorno alle dieci videro apparire l’Arno, che li raggiunse e li prese a bordo. Erano alla deriva da 56
ore e di una decina che erano, erano rimasti in tre: Rolla, un altro marinaio
ed un maresciallo radiotelegrafista, che morì sull’Arno poche ore dopo il salvataggio.
Una lunghissima
odissea fu anche quella di un altro sopravvissuto del Lampo, il marinaio ventunenne Giuseppe Fontana: rimase in acqua per
giorni – tre, secondo i ricordi dei nipoti – aiutando un compagno che non
sapeva nuotare.
Alle due del
pomeriggio un idrovolante della Croce Rossa consegnò all’Arno il carburante richiesto. Durante il pomeriggio un dragamine
trovò una zattera con altri naufraghi alla deriva da 50 ore; li prese a bordo,
ma due versavano in condizioni disperate. Supermarina ordinò all’Arno di portarsi a 75 miglia per 333° da
Tripoli, dove si trovavano altri naufraghi; un aereo tedesco comunicò a sua
volta la posizione di altre zattere, mentre Marilibia riferì che il piroscafo Antonietta Lauro, carico di naufraghi,
aspettava presso la boa numero 4 per trasbordare i superstiti sull’Arno. Supermarina ordinò poi di restare
in zona fino all’indomani mattina, se non fosse stato possibile localizzare
altri naufraghi durante la notte. L’Arno
trascorse la giornata del 19 aprile esplorando ancora le acque delle Kerkennah
con l’aiuto di motolancie e dragamine; questi ultimi riuscirono a recuperare
ancora altri naufraghi, mentre quando la nave ospedale raggiunse le zattere
segnalate dall’aereo tedesco scoprì che a bordo c’erano soltanto cadaveri. Come
già fatto in precedenza, ai dragamine fu delegato il compito di identificarli e
dar loro sepoltura in mare. L’Antonietta
Lauro trasbordò sull’Arno 240
naufraghi, quasi tutti soldati tedeschi, dopo di che la nave ospedale si
diresse verso il punto indicato da Supermarina, a 75 miglia da Tripoli,
raggiungendolo all’1.30 del 19 aprile. Setacciò la zona per tutta la notte, con
l’aiuto dei proiettori, ma non trovò altri superstiti. A mezzogiorno, per ordine
di Supermarina, mise infine la prua su Tripoli.
La Orlando recuperò 326 sopravvissuti
e due salme, il Vivaldi 258
naufraghi e quattro corpi, il Capacitas recuperò
148 superstiti (tra cui 15 feriti; due erano del Baleno, 25 del Tarigo,
10 del Sabaudia, due italiani
imbarcati sull’Aegina, un italiano
imbarcato sull’Iserlohn e 103
tedeschi dell’Adana, dell’Aegina e dell’Iserlohn) e due salme, li sbarcò a Susa e si mise in cerca di altri
naufraghi.
Le ricerche si
conclusero il 18 aprile, quando i naufraghi vennero sbarcati a Tripoli. In
tutto vennero tratti in salvo 1248 o 1271 sopravvissuti, mentre le vittime
furono circa 700. (Questo è ciò che risulta dai documenti rintracciati negli
archivi dallo storico e ricercatore Platon Alexiades: la storia ufficiale
dell’USMM, invece, parla di 1248 persone salvate su 3000 imbarcate sulle navi
affondate, il che porta varie fonti a parlare di 1800 vittime, ma sembra
probabile un errore. Parimenti errate sono le stime che parlano di circa 350
vittime, evidentemente considerando soltanto le perdite tedesche. Le perdite a
bordo delle navi italiane furono in totale di 442 uomini, di cui 202 sul Tarigo, 141 sul Lampo, 69 sul Baleno e 30
sul Sabaudia; un po’ più incerto è il
numero delle vittime a bordo dei piroscafi tedeschi, che avevano a bordo 1042
uomini, più gli equipaggi. Le fonti indicano variabilmente il numero dei
sopravvissuti delle navi tedesche come compreso tra 990 e 1013; secondo un
documento a bordo dei quattro bastimenti tedeschi, compresi gli equipaggi, sarebbero
stati imbarcati in tutti 1294 uomini, il che significherebbe che le vittime
tedesche furono tra 239 e 262, e che in tutto le vittime dell’Asse del
convoglio «Tarigo» furono tra 681 e 704. Il diario operativo del Comando della
sezione trasporti navali tedeschi in Nordafrica fornisce un dato ancora
differente, parlando della perdita di 21 tra ufficiali e funzionari civili e
363 tra sottufficiali e soldati tedeschi, più le vittime tra gli equipaggi
delle navi. Se tale dato risultasse esatto, le vittime italo-tedesche sarebbero
state oltre 800).
Nei giorni successivi
al disastro, il mare gettò sulle spiagge di Sfax decine di cadaveri nonché
rottami e merci di ogni tipo, provenienti dalle navi affondate: provviste,
pezzi di legno, alcol, fusti di benzina ed altro ancora. La popolazione locale
raccolse tutto ciò che poteva essere riutilizzato o venduto, e ben presto la
spiaggia si trasformò in un mercato a cielo aperto.
Giobata Rolla,
sbarcato a Napoli, venne ricoverato per alcuni giorni nell’ospedale di Fuorigrotta;
dopo un periodo di riposo sarebbe stato destinato alle batterie costiere nel
Golfo di La Spezia, e dal novembre 1942 imbarcato nuovamente su un
cacciatorpediniere, l’Antonio Pigafetta,
sulle rotte tra l’Italia e il Nordafrica.
Assurda fu la sorte di
un altro sopravvissuto del Lampo, il
sottocapo cannoniere Mario Fanelli, da Riccia. Ferito ma sopravvissuto al
combattimento nel quale aveva trovato la morte la maggior parte dei suoi
compagni, fu destinato a Corinto e qui perse la vita il 1° febbraio 1942,
ucciso da un colpo di fucile partito accidentalmente durante la pulizia
dell’arma.
Dei 205 uomini che
componevano l’equipaggio del Lampo, nonostante
la nave non fosse neanche affondata (data la scarsissima profondità della secca
su cui si era adagiata, era rimasta in massima parte emergente), soltanto in 64
erano sopravvissuti: un terzo dell’equipaggio. Ciò testimonia la ferocia del
combattimento, e probabilmente – considerando il racconto di Giobatta Rolla –
anche la tragica fine di molti degli uomini che abbandonarono la nave.
I 141 caduti e
dispersi del Lampo erano tutti
sottufficiali e marinai; contrariamente a quanto accaduto su Tarigo e Baleno, sui quali i comandanti e quasi tutti gli ufficiali caddero
nel combattimento, i nove ufficiali del Lampo
sopravvissero tutti. Il comandante Marano, che era rimasto ferito, fu così
l’unico superstite tra i comandanti dei tre cacciatorpediniere che formavano la
scorta del convoglio.
Le vittime tra l’equipaggio del Lampo:
Ermenegildo Stefano Aiardi, marinaio S.D.T.,
disperso
Luigi Alesi, sottocapo cannoniere, disperso
Elio Amici, marinaio cannoniere, disperso
Vincenzo Asaro, marinaio, deceduto
Onorato Basso, marinaio fuochista, disperso
Armando Bellemo, marinaio, disperso
Paolo Bellizzi, marinaio cannoniere, disperso
Piero Bernasconi, marinaio fuochista, disperso
Mario Bertelli, marinaio cannoniere, disperso
Ruggero Betti, marinaio fuochista, disperso
Bruno Bianchino, secondo capo cannoniere,
disperso
Placido Bianconcino, marinaio fuochista,
disperso
Battista Boccone, marinaio cannoniere,
disperso
Alessandro Boffelli, marinaio fuochista,
disperso
Mario Bonzi, marinaio fuochista, disperso
Costante Braga, sottocapo radiotelegrafista,
disperso
Vilbo Bragoni, marinaio fuochista, disperso
Roberto Buovolo, marinaio cannoniere, disperso
Angelo Busetto, marinaio, disperso
Concetto Calatioto, marinaio, deceduto
Rinaldo Canale, marinaio fuochista, disperso
Antonio Cappelluti, marinaio, disperso
Arturo Cardone, marinaio, deceduto
Oscar Carnevali, sergente S.D.T., disperso
Enrico Carota, marinaio, deceduto
Enzo Carraglia, marinaio cannoniere, disperso
Fulvio Caspani, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Cassano, marinaio fuochista, disperso
Mario Cinca, marinaio meccanico, disperso
Francesco Circosta, secondo capo cannoniere,
disperso
Angelo Cirrincione, marinaio, deceduto
Raimondo Cocco, marinaio meccanico, disperso
Leonardo Colaci Brizio, marinaio, disperso
Pellegrino Colangelo, marinaio fuochista,
disperso
Vittorio Comini, secondo capo meccanico,
disperso
Pietro Condemi, marinaio, disperso
Mario Contu, marinaio S.D.T., disperso
Mario Copetta, marinaio fuochista, disperso
Cosimo Corrado, sergente cannoniere, disperso
Salvatore Corso, marinaio cannoniere, disperso
Arcangelo Crestan, sottocapo S.D.T., disperso
Salvatore Cuttone, marinaio, disperso
Matteo D’Agostino, marinaio, deceduto
Basso D’Onofrio, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore De Caro, marinaio fuochista,
disperso
Antonio De Luca, marinaio silurista, disperso
Alberto Debello, sottocapo cannoniere,
disperso
Antonio Di Genova, marinaio, deceduto
Domenico Di Matteo, marinaio fuochista,
disperso
Nicola Diomede, sergente cannoniere, disperso
Antonio Donnarumma, marinaio cannoniere,
deceduto in Libia (per ferite?) il 26/4/1941
Nicola Dorno, sottocapo cannoniere, disperso
Damiano Edifizi, marinaio meccanico, disperso
Giuseppe Esposito Malara, sottocapo
cannoniere, disperso
Domenico Fabiano, marinaio fuochista, disperso
Angelo Fanciullo, marinaio cannoniere,
disperso
Luigi Faucitano, capo radiotelegrafista di
terza classe, deceduto
Quinto Fazzi, sottocapo radiotelegrafista,
disperso
Antonio Fezza, marinaio, deceduto
Ulisse Finotello, marinaio cannoniere,
disperso
Secondo Fresco, sottocapo cannoniere, disperso
Gaetano Ganci, marinaio cannoniere, disperso
Ferdinando Garbetta, marinaio cannoniere,
deceduto
Egidio Garofalo, sottocapo silurista, disperso
Ruggero Giorgi, secondo capo silurista,
disperso
Tito Giorgi, marinaio fuochista, disperso
Arturo Gorni, marinaio fuochista, disperso
Santo Gritta, marinaio cannoniere, deceduto
Carlo Guidotti, marinaio fuochista, disperso
Giacinto Incorvaia, marinaio fuochista,
disperso
Giacomo Izzo, sottocapo cannoniere, disperso
Vincenzo Lagasio, marinaio cannoniere,
disperso
Mattia Landolfi, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Lavelli, marinaio, disperso
Domenico Liuzzi, marinaio S.D.T., disperso
Giuseppe Lotti, marinaio, disperso
Tommaso Luvarà, sottocapo segnalatore,
disperso
Vincenzo Maione, marinaio cannoniere, deceduto
Antonio Mancini, marinaio fuochista, deceduto
Marco Mangone, marinaio, deceduto
Luigi Manzo, marinaio, disperso
Giuseppe Marchesi, marinaio S.D.T., deceduto
Alfredo Marciano, marinaio cuoco, disperso
Giovanni Martini, capo cannoniere di prima
classe, disperso
Tino Marzana, marinaio nocchiere, disperso
Mario Masala, marinaio, disperso
Calogero Mazza, marinaio, disperso
Emanuele Mazzucchelli, marinaio
radiotelegrafista, deceduto
Giovanni Minutoli, marinaio, deceduto
Donato Nitti, capo elettricista di terza
classe, disperso
Giovanni Offredi, sottocapo torpediniere,
deceduto
Antonio Ogliari, marinaio fuochista, disperso
Vittorio Pacilli, sergente meccanico, disperso
Vincenzo Paone, marinaio cuoco, disperso
Luigi Parisi, marinaio fuochista, deceduto
Beniamino Pastore, sergente meccanico,
disperso
Camillo Pastore, marinaio fuochista, disperso
Bruno Perin, marinaio elettricista, disperso
Walter Petroncini, marinaio elettricista,
disperso
Eugenio Pezza, sottocapo cannoniere, disperso
Giuseppe Pilato, sergente cannoniere, disperso
Natale Pitale, marinaio, disperso
Francesco Pulito, marinaio cannoniere,
disperso
Giovanni Radoslovich, marinaio fuochista,
disperso
Ernesto Raffo, marinaio cannoniere, disperso
Cosimo Renna, sottocapo elettricista, disperso
Bruno Repellini, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Repetto, marinaio cannoniere,
disperso
Remo Resemini, marinaio, disperso
Francesco Ricci, marinaio cannoniere, disperso
Pierino Ricci, sergente furiere, disperso
Nello Righi, marinaio fuochista, disperso
Gualtiero Rissone, marinaio fuochista,
disperso
Antonio Ritano, marinaio fuochista, disperso
Dino Romani, marinaio, disperso
Renato Romè, marinaio elettricista, disperso
Edoardo Rossi, marinaio S.D.T., disperso
Vittorio Rossi, marinaio cannoniere, disperso
Paolo Rubini, sottocapo cannoniere, disperso
Flaviano Sacco, marinaio radiotelegrafista,
deceduto
Giuseppe Salvemini, marinaio, disperso
Umberto Sammarco, marinaio torpediniere,
disperso
Giuseppe Schembri, marinaio radiotelegrafista,
deceduto
Gennaro Schettino, capo cannoniere di terza
classe, disperso
Natale Scordo, marinaio fuochista, deceduto
Mario Serpa, marinaio, disperso
Silvano Siccardi, marinaio, disperso
Guido Simion, sottocapo S.D.T., disperso
Silvio Simonelli, marinaio S.D.T., deceduto
Fernando Soccorsi, marinaio cannoniere,
deceduto
Eugenio Speranza, marinaio fuochista, disperso
Luigi Spinelli, sottocapo elettricista,
disperso
Tommasino Squillino, sottocapo cannoniere,
disperso
Virginio Taccani, secondo capo meccanico,
disperso
Ottavio Tosiani, sottocapo nocchiere, deceduto
Alfredo Valentini, marinaio fuochista,
deceduto
Mario Vescovi, marinaio, disperso
Luigi Villio, marinaio fuochista, deceduto
Fermo Vitali, marinaio fuochista, disperso
Attilio Zago, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Zito, marinaio, deceduto
A tutti i caduti fu
conferita la Croce di Guerra al Valor Militare con motivazione "Imbarcato su silurante in servizio di scorta
ad un importante convoglio, nel corso di un violentissimo attacco di
preponderanti forze navali nemiche partecipava con fermezza ed ardimento all’impari
lotta, cadendo da valoroso al suo posto di combattimento", mentre ai
sopravvissuti venne conferita analoga decorazione con motivazione "Imbarcato su silurante in servizio di scorta
ad un importante convoglio, in un violentissimo scontro con soverchianti forze
navali nemiche, partecipava con sereno coraggio e profondo spirito combattivo
all’aspra impari battaglia, prodigandosi ripetutamente ed efficacemente nelle
operazioni rivolte ad assicurare la stabilità della nave".
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del motorista
navale Angelo Cirrincione, nato a Palermo il 1° gennaio 1920:
"Imbarcato su
silurante in servizio di scorta ad un importante convoglio, in uno scontro con
soverchianti forze nemiche che attaccavano con estrema violenza, dava prova di
sereno coraggio e di assoluta dedizione al dovere. Sotto le raffiche del fuoco
nemico, rimaneva freddamente al suo posto di combattimento montando la guardia
ai macchinari di grande importanza situati in locale già invaso dal vapore, e
dopo aver dato il suo efficace contributo all'impari battaglia scompariva in
mare nell'adempimento del compito assegnatogli.
(Mediterraneo
Centrale, 16 aprile 1941)".
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al capitano di corvetta Enrico Marano,
nato a Cittaducale (Rieti) il 3 ottobre 1903:
"Comandante di
unità silurante in servizio di scorta ad un importante convoglio, in un
improvviso, accanito combattimento notturno contro forze nemiche soverchianti,
con ammirevole calma impartiva gli ordini necessari e accettava l'impari lotta
con sereno coraggio. Uccisi gran parte dei suoi marinai, ferito egli stesso,
rifiutava ogni soccorso e continuava incurante di sé ad animar la sua gente con
la parola e con l'esempio. Instancabile, manteneva il comando con fredda
energia e provvedeva ad impedire che la sua nave, ormai inutilizzata dal fuoco
nemico e gravemente incendiata, cadesse in mano avversaria. Dopo il
combattimento, vincendo stoicamente le proprie sofferenze, assisteva
personalmente e aiutava i propri dipendenti curando le loro ferite. Bellissimo
esempio di sereno sprezzo del pericolo, di virtù di comandante, di dedizione al
dovere.
(Mediterraneo
Centrale, 16 aprile 1941)."
Il combattimento del
16 aprile 1941 nelle memorie del marinaio cannoniere puntatore scelto Giobatta
Rolla, da Lerici, sopravvissuto del Lampo, scritte nel 1971 (si ringrazia il
genero Eraldo Burgay):
“Sono il s.c. cannoniere puntatore scelto Rolla Giobatta ,da Lerici ,
classe 1915, matricola 4050. Fui richiamato e imbarcato il 19 maggio 1939
sul C.T. Lampo. Dall'entrata in guerra numerose furono le missioni di scorta
convogli sulle rotte del Nord Africa e dell'Egeo. Alle 21,30 del 13 aprile 1941
uscimmo da Bagnoli insieme con i C.T. Baleno e Tarigo (caposquadriglia)
per scortare un convoglio di 5 piroscafi carichi di truppe (Adana, Arta, Aegina
, Iserlhon) e munizioni (Sabaudia), proveniente da Napoli e diretto a
Tripoli, con rotta canale di sicilia, Capo Bon ,Isole Kerkenah. Non mi soffermo
a dilungarmi sulle vicende , fin troppo note, che condussero alla distruzione
del convoglio. Vi racconto come ho trascorso quella tremenda notte del 16
aprile e i due giorni successivi nel Mediterraneo centrale. A bordo, oltre ad
espletare i miei compiti di cannoniere al 120 di prua, ero il Maestrino del
Comandante Enrico Marano, visti i miei trascorsi di cameriere sui piroscafi
passeggeri sin dal 1931. Quella tragica notte verso l'una e quaranta, il
Comandante mi chiamò sul Ponte di comando e mi ordinò di preparargli due
panini. Eseguii immediatamente l'ordine, e mentre preparavo i panini, ne
approfittai per mangiare e bere anch'io qualcosa, il che mi fu utile,
come vedremo nelle ore successive. Portai i panini al Comandante, scesi dal
ponte e andai a sdraiarmi sulla mia brandina, nel quadrato ufficiali, tutto
vestito con cappotto, elmetto e salvagente. Di lì a poco si scatenò l'inferno:
un colpo di cannone squarciò il quadrato, una colata di metallo fuso mi colpi
al la guancia sx.. Piovevano granate da tutte le parti. Uscii da quei rottami:
la notte era illuminata da bagliori, alte colonna d'acqua si alzavano dal mare.
I feriti imploravano aiuto. Corsi disperatamente verso la mia postazione a
prua. Passando accanto ai tubi lanciasiluri, un marinaio del mio paese mi
invitò a ripararmi colà.Tirai dritto e dopo alcuni secondi lo vidi saltare in
aria con tutto l'apparato. Intanto giunse l'ordine di abbandonare la nave.Con
un calcione sganciai un Carley dai suoi ancoraggi sulle draglie lo buttai a
mare, mi ci buttai sopra e facendomi strada a bracciate tra rottami e chiazze
di olio e nafta che bruciavano, cercai di raccogliere il maggior numero di
compagni, in mezzo ad un fragore assordante e un acre odore di morte. Dopo
circa un'ora un cupo silenzio scese sul mare increspato, rotto soltanto dai
lamenti dei feriti, dai gemiti dei superstiti e da una pioggerellina battente.
La corrente intanto ci spinse al largo nel canale di Sicilia. All'alba uno
spettacolo straziante si aprì ai nostri occhi. Il mare brulicava di corpi
esanimi, gonfi: erano in prevalenza cadaveri di soldati tedeschi, periti
nell'affondamento delle loro navi. Sul mio carley eravamo una decina e per noi
era iniziato il lento peregrinare sul mare trasportati dalla corrente senza
cibo né acqua (meno male che io avevo mangiato e bevuto prima dello scontro!!!!
e questo mi fu di aiuto a sopravvivere). Molti compagni erano giovani "di
terra", e già dopo alcune ore di navigazione soffrivano il mare e non
avevano toccato cibo né bevanda. Avvolto nel mio cappottone me ne stavo immobile
con l'acqua alla cintola aspettando gli eventi dormicchiando.. Una notte piovve
per qualche ora per cui riuscii a raccogliere un po d'acqua nell'elmetto che
non avevo abbandonato. Bevvi un poco io e ne diedi ai miei compagni. Non
sentivo più le gambe, parevano paralizzate, dentro alla sete del carley. di
tanto in tanto pensavo agli squali: se fossero venuti me le avrebbero divorate.
Pensavo ai miei cari a casa, a mia madre, a mia sorelle, a mio fratello
imbarcato sul Vittorio Veneto, ma non ho mai disperato di rivederli. Pensavo a
mio nonno morto in mare su un vapore di ritorno dall'Argentina,
affondato durante una burrasca in Atlantico; a mio padre , anche lui morto in
mare, appena 7 gg. dopo l'entrata in guerra. Non volevo fare la fine dei miei cari!!!
Pregavo la Madonna di Maralunga, Patrona del nostro paese. Ogni tanto mi
addormentavo e sognavo piatti di acciughe fritte del nostro mare. Quando
qualcuno moriva , gli toglievamo la piastrina e lo lasciavamo scivolare
lentamente in quel cupo mare che lo accoglieva con il suo abbraccio. Il peso
diminuiva e il carley si sollevava. Un giovane marinaio rimase per parecchie
ore con il capo reclinato sulla mia spalla. Mi accorsi ad un tratto che era
decaduto e gli diedi sepoltura. Un altro marinaio, impazzito per la sete,si
lanciò in mare a bocca aperta e scomparve tra i flutti. Il mattino del 18
aprile un aereo tedesco ci avvistò. Verso le 10, dopo 56 ore con l'acqua alla
cintola, comparve all'orizzonte la nave ospedale Arno. Ci raccolse: eravamo
rimasti in tre: un marinaio, un maresciallo radiotelegrafista deceduto a bordo
dopo alcune ore ed io. Ci portarono a Napoli dove fui ricoverato per alcuni
giorni all'ospedale di Fuorigrotta. Dopo un periodo di riposo a terra e un
altro di servizio sulle batteri costiere del golfo di Spezia, il 9/11/42 fui
imbarcato sul R.C.T. A: Pigafetta e ancora solcai il Mediterraneo sulla "
Rotta della Morte", scortando convogli, sino al maggio del 1943”.
Attestato di conferimento della Croce al Merito di Guerra al nocchiere Giuseppe Velcich (g.c. Tony Velcich) |
Una decina di giorni
dopo la distruzione del convoglio, raggiunse le acque delle Kerkennah il
sommergibile britannico Upholder, al
comando del capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn. Wanklyn e l’Upholder dovevano diventare di lì a
pochi mesi il più famoso sommergibilista e sommergibile della Royal Navy,
stabilendo il primato britannico in termini di tonnellaggio nemico affondato:
ma in quel momento erano ancora semisconosciuti. Le prime missioni dell’Upholder in Mediterraneo erano state
infruttuose, finora il sommergibile non era riuscito ad affondare nulla; era
partito da Malta il 21 aprile, con l’ordine di pattugliare la costa orientale
della Tunisia e più specificamente di recarsi presso le secche di Kerkennah,
dove i britannici sapevano giacere i relitti incagliati di un piroscafo ed un
cacciatorpediniere lì arenatisi dopo lo scontro del 16 aprile. Il piroscafo era
l’Arta, il cacciatorpediniere il Lampo. Avrebbero potuto essere
recuperati (in realtà, l’Arta era già
stato giudicato irrecuperabile, ma questo i comandi britannici non lo
sapevano), e Wanklyn doveva distruggerli definitivamente prima che ciò potesse
accadere.
Durante la
navigazione verso il punto indicato, l’Upholder
mieté la sua prima vittima: il 25 aprile incontrò, silurò ed affondò l’Antonietta Lauro, il piroscafo che pochi
giorni prima aveva salvato oltre duecento naufraghi del convoglio Tarigo, e che ora stava rientrando dalla
Tunisia in Italia con un carico di fosfati.
Dopo questo primo
successo – secondo una fonte, anzi, fu soltanto il 26 aprile che Wanklyn
ricevette l’ordine di recarsi in un punto al largo della costa tunisina in cui
si trovavano fermi un mercantile tedesco ed un cacciatorpediniere italiano,
probabilmente arenati sulle secche –, l’Upholder
raggiunse le Kerkennah il 26 aprile, e per prima cosa dedicò le sue attenzioni
all’Arta, che giaceva incagliata nel
punto 34°54.5’ N e 11°37’ E: calato il buio, il sommergibile si avvicinò alla
nave tedesca, che venne abbordata da un drappello del sommergibile, che ne
esplorò il relitto abbandonato e semiallagato prelevando svariati oggetti dalle
dotazioni dell’Afrika Korps (mappe, elmetti, armi portatili, tascapane e altro
ancora), e portandoli sull’Upholder
come trofei. Venne anche scassinata la cassaforte del comandante, dalla quale
furono asportati vari documenti. Poi, alle 21.44, il mercantile tedesco venne
definitivamente distrutto con cariche esplosive.
Passata la notte, l’Upholder cercò di ripetere l’impresa con
il Lampo: siccome questi si trovava
in posizione sfavorevole per un attacco col siluro, alle 19.50 del 27 aprile il
sommergibile emerse e si avvicinò al relitto incagliato del cacciatorpediniere
per assumere una posizione favorevole per un attacco silurante, ma nel
tentativo finì invece con l’incagliarsi a sua volta, alle 20.40, in quattro
metri e mezzo d’acqua, a circa 3650 metri dal suo obiettivo. Wanklyn riuscì a
disincagliare il suo sommergibile (per altra fonte, invece, dopo poco l’Upholder si liberò dal bassofondale da
solo, “senza una ragione apparente”), ma decise che era troppo rischioso
tentare di avvicinarsi ulteriormente al Lampo
in acque tanto basse, pertanto rinunciò a distruggerne il relitto e lasciò la
zona.
Foto
aerea del relitto del Lampo
incagliato sulle secche di Kerkennah, scattata il 17 aprile 1941 (sopra: Coll.
Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it; sotto,
g.c. STORIA militare)
Secondo fonti
francesi, qualche giorno dopo la battaglia del 16 aprile il relitto del Lampo avrebbe ricevuto un'altra vista,
stavolta coronata da successo, da parte di membri della Resistenza francese in
Tunisia, facenti parte di una rete capeggiata dall’avvocato André Mounier e dal
maggiore Jean Breuillac dell’Esercito francese. Le medesime fonti, anzi,
affermano che la rete Mounier-Breuillac avrebbe avuto un ruolo non indifferente
nella distruzione stessa del convoglio: il mattino del 14 aprile uno dei membri
di tale organizzazione, il capitano Yves Rocolle, avrebbe segnalato da Tunisi
ai britannici il passaggio del convoglio «Tarigo», precisandone la
composizione, scorta, rotta, velocità, armamento contraereo dei mercantili,
così permettendone l’intercettazione. Osservatori appostati sulla costa
tunisina avrebbero continuato a seguire la navigazione del convoglio durante
tutta la giornata, continuando ad inviare aggiornamenti ai comandi britannici.
Dopo la battaglia, fu
Mounier, saputo che alcune delle navi giacevano incagliate sui bassifondali, a
decidere di organizzare una spedizione per esplorare i relitti e recuperare
eventuali documenti; tale impresa fu materialmente condotta da Jean Ducrot,
addetto stampa presso la Residenza francese di Tunisi, con l’appoggio del servizio
segreto francese di Tunisi, fedele a De Gaulle. Raggiunte le secche di
Kerkennah a bordo di una barca di pescatori greci, senza essere apparentemente
notato dagli aerei dell’Asse che sorvolavano la zona, Ducrot nascose il
barchino sottobordo al relitto del Lampo,
e salì sul cacciatorpediniere abbandonato. Il ponte ed i corridoi, riferì poi,
erano “un carnaio nauseabondo”; ma in
plancia trovò parecchi documenti, che portò con sé. Ducrot compì poi anche una
seconda spedizione, esplorando il relitto dell’Arta, con esito ancor più fruttuoso; i documenti recuperati, dopo
essere stati fatti asciugare, furono mandati a Tunisi in due sacchi, e qui
furono analizzati dai servizi segreti di Tunisi, che trasmisero poi a Malta
tutte le informazioni che ne poté ricavare sulla situazione delle forze
dell’Asse.
Un’altra immagine del relitto del Lampo sulle secche di Kerkennah (Coll. Famiglia Leroux, da www.sfax1881-1956.com) |
Per quasi tre mesi
dopo il disastro del 16 aprile, il relitto incagliato e abbandonato del Lampo rimase sulle secche di Kerkennah
col suo equipaggio di morti. Il 4 luglio, infine, giunse sul posto la nave
soccorso Epomeo: Supermarina l’aveva
mandata per provvedere finalmente a dare sepoltura a quei poveri resti, un
incarico insolito per una nave il cui compito era solitamente quello di salvare
vite umane.
Ricevuto l’ordine di
raggiungere le Kerkennah alle tre di notte del 4 luglio, mentre si trovava a
Lampedusa, l’Epomeo era partita
immediatamente, assumendo rotta 252°. Era ormai notte quando raggiunse lo
spettrale relitto del Lampo.
La visione che
accolse gli uomini dell’Epomeo è
descritta a toni vividi nel libro "Le missioni avventurose d'una
squadra di navi bianche": “L’Epomeo
giunse di notte; con le sue luci accese vegliò quel simulacro di nave guerriera
soverchiando il chiarore lunare che veniva a trovarlo come le notti passate.
Due mesi e mezzo erano trascorsi da quel tragico scontro ed il Lampo era
rimasto coi suoi morti a bordo. Il vento del deserto lo aveva cosparso di
sabbia, i piovaschi l'avevano battuto lavando la patina rossigna; il mare
polverizzato dai frangenti sotto le raffiche del largo, aveva imbevuto di
salmastro quei corpi di marinai aggrappati ai cannoni ed alle mitragliatrici;
il sole li aveva prosciugati; l'acre salsedine della Piccola Sirte, il sentore
delle alghe e l'alito del mare avevano preservato quelle membra giovani come in
un sonno letargico, facendole partecipi degli eventi di quel seno africano
pullulante di vita marina, cosparso d’isolotti verdeggianti ed ornati di palme
tra le sabbie e le alghe affioranti sotto il sole cocente. Quei corpi di
marinai sembravano ancora vivi quando, alle prime luci dell'alba, l'Epomeo
venne ad ancorarsi più vicino e gli sguardi si fissarono su quella nave
affascinante. I cannoni erano puntati ancora verso il largo, com'erano rimasti
dopo l'ultima salva; nella torretta di poppa sei cannonieri stavano ancora
uniti in un gruppo serrato; sull'alto della plancia un biondo ricciuto, dal
viso intatto, stringeva la canna della sua mitragliatrice; un sergente e tre
siluristi erano accanto ai tubi di lancio. Sparsi dovunque i resti di corpi
straziati e mutilati”.
Simili sono anche le
scene descritte l’11 gennaio 1942 – durante una conversazione casuale – ad Aldo
Fraccaroli, allora giovane ufficiale della Regia Marina e poi divenuto storico
navale, dal capo palombaro della nave per recuperi Artiglio II, che fu impiegata nelle operazioni di disincaglio: “La coperta emergeva di poco sopra il livello
dell’acqua (…) L’incendio aveva
devastato la nave e bruciato i marinai. Alcuni puntatori delle mitragliere
erano ancora al posto di combattimento, morti bruciati, con le mani aggrappate
alle armi”.
Fattosi giorno, l’Epomeo inviò a bordo del Lampo una squadra di infermieri e
marinai, comandati da un ufficiale medico. Le ore successive furono dedicate alla
macabra incombenza di passare al setaccio la nave, ispezionando ogni locale e
recuperando i corpi dei marinai morti da più di due mesi; tutte le salme furono
portate in coperta, dove si procedette alla loro identificazione, poi, al tramonto,
i corpi vennero rinchiusi in sacchi zavorrati, trasbordati sulla Epomeo, che li portò più al largo, e
sepolti in mare con gli onori militari, dopo una breve cerimonia religiosa. Il
libro già citato descrive la mesta operazione: “Una squadra d'infermieri e marinai e un ufficiale medico trasbordarono
sul Lampo. Ispezionarono il ponte di coperta, le plance ed i locali interni;
salutarono commossi quelle salme rimaste ai loro posti, tra le lamiere
squarciate e i rottami dispersi, e iniziarono l'opera pietosa, cercando di
radunare quel che rimaneva dei corpi dilaniati e confusi dalla violenza del
combattimento. Poi le salme vennero rimosse ed allineate in coperta per il
riconoscimento; qualcuna fece resistenza come se volesse stare ancora la suo
posto; alcuni corpi aderivano sulle lamiere come se vi fossero saldati e
confusi in una comunione ostinata; furono quasi staccati per forza dal ferro
della nave. Tutta la giornata passò prima che l'ultimo fosse allineato sotto il
cielo a fianco degli altri. Al tramonto i sacchi furono chiusi; ognuno ebbe un
peso perché affondasse rapidamente e così vennero portati al largo per la
immersione con gli onori militari e con un breve rito religioso. Allora il Lampo
rimase solo e deserto sulla secca di Kerkenah. Ormai non era più che un relitto
di nave. Il suo equipaggio errava nel cimitero azzurro dove tanti altri marinai
riposavano già, lontani dalle frenetiche competizioni, nella quiete profonda,
dove la vita si rinnova in creature meravigliose sotto i tenui raggi d’indaco e
di violetto; dove tutto si scioglie e si ricompone in forme vaghe di coralli
arborescenti ed in perfette simmetrie di madrepore luminose. La pace è con loro e con tutti gli altri,
alleati ed avversari, di ogni stirpe e d'ogni lingua, d'ogni fede e d'ogni
bandiera (…) Il Lampo fu poi
ricuperato (…) rimesso in linea dopo
un anno, veniva di nuovo attaccato ed affondato (…) Anche lo scafo del Lampo riposa là sul fondo di quel mare che accolse
il fiore della nostra Marina (…) Le
secche di Kerkennah non erano che un’espressione geografica dei portolani;
isolotti sabbiosi con qualche palma e qualche capanna di pescatori di spugne e
d’aragoste; altifondi e praterie marine affioranti a bassa marea in larghe zone
giallastre decolorate dal sole e pullulanti di vita, intersecate da canali di
acque limpide e ricche di pesca, sorvolate da branchi di gabbiani; limitate da
una serie di boe numerate, colorate di rosso, di nero, di bianco per evitare
sinistri e per indicare piccoli ridossi alle barche di pescatori ed ai velieri
sorpresi dalle burrasche. Ora Kerkennah è un cimitero di navi, cosparse di
relitti. Su quelle secche e su quel mare aleggia il ricordo di giovani vite
sacrificate agli dei della guerra e le sette boe luminose sono candelabri e
monumenti che narrano ai naviganti storie di eroismi e di virtù marinare”.
re
immagini delle operazioni di recupero e sepoltura in mare delle vittime del Lampo nel luglio 1941 (da “Le missioni avventurose d’una
squadra di navi bianche” di Mario Peruzzi, USMM, Roma 1952)
Terminato questo
triste compito, si pensò anche al recupero della nave: nonostante i danni
causati dal combattimento e dalla permanenza sulle secche, il Lampo venne giudicato ancora riparabile,
e si decise pertanto di disincagliarlo e rimorchiarlo in Italia per rimetterlo
in servizio.
A questo scopo furono
inviati sul posto la nave per recuperi Artiglio
II ed il motoveliero requisito V 68 Elsa;
quest’ultimo era un trabaccolo romagnolo requisito nel giugno 1940 ed adibito
alla vigilanza foranea, al comando del suo proprietario e comandante del tempo
di pace, Giuseppe Padovani, militarizzato col grado di capo nocchiere di prima
classe. A bordo dell’Elsa si
trovavano un ufficiale della Regia Marina e quattro sommozzatori; insieme
all’equipaggio del trabaccolo, quegli uomini lavorarono per oltre un mese (alcuni
fonti parlano di due mesi) per tamponare le falle nello scafo del Lampo, prosciugarne i locali allagati e
rimettere la nave in condizioni di galleggiabilità. Per questo lungo e delicato
lavoro, svolto sotto la costante minaccia di attacchi nemici contro cui
avrebbero avuto ben poco da opporre, Giuseppe Padovani e l’intero equipaggio
dell’Elsa (il motorista Armando
Padovani, fratello di Giuseppe, militarizzato come capo meccanico di seconda
classe; il secondo capo segnalatore Francesco Ridolfi; il sottonocchiere
Salvatore Tornabene; i marinai militarizzati Primo Rocchi e Michele Coria; il
marinaio radiotelegrafista Nicola Cocina; i cannonieri Giuseppe Galesi, Orazio
Bonaccorsi, Michele Mannino e Gherardo Del Zoppo) sarebbero stati decorati con
la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione «Imbarcato su motoveliero requisito, destinato quale base di appoggio
per le operazioni di disincaglio e di recupero di una unità gravemente colpita
in un combattimento navale, partecipava ai lavori con tenacia e perizia in una
zona esposta all’offesa nemica, contribuendo decisamente al successo
dell’impresa (Mediterraneo Centrale, luglio-agosto 1941)». L’Elsa fu protagonista anche di un’altra
importantissima operazione legata al convoglio “Tarigo”: il recupero di
documenti britannici dal relitto del Mohawk,
operazione per la quale venne usato come battello d’appoggio per i subacquei.
Quando il Lampo fu debitamente rattoppato e
prosciugato, sì da garantire che sarebbe rimasto a galla una volta
disincagliato, si procedette a liberarlo dal banco su cui giaceva da ormai
quattro mesi. I lavori di disincaglio si protrassero per quattro giorni, dall’8
all’11 agosto 1941, e furono condotti con l’appoggio dell’Artiglio II, che prese poi a rimorchio il Lampo disincagliato; la difficile operazione venne condotta senza
che i ricognitori britannici o gli osservatori francesi se ne accorgessero,
riuscendo così a riportare indisturbati il relitto in Italia.
Il Lampo a Palermo nella tarda estate del 1941 (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it) |
Rimorchiato
inizialmente a Palermo, il Lampo vi
fu sottoposto ad alcuni lavori provvisori per poi ripartirne il mattino del 25
agosto 1941, intorno alle dieci, per essere trasferito a Napoli. Fuori del
porto trovò ad aspettarlo i suoi vecchi gemelli Folgore e Fulmine ed i
“quasi gemelli” della VII Squadriglia, Freccia,
Dardo e Strale.
Fu il Folgore ad assumere il rimorchio del Lampo, rilevando l’unità che l’aveva
rimorchiato fuori dal porto; siccome il suo scafo era stato completamente
svuotato durante i lavori di recupero, tuttavia, il Lampo aveva una stabilità molto precaria. Mezza giornata venne
dunque dedicata a prove di rimorchio nel Golfo di Palermo, al termine delle
quali si decise che il Folgore
avrebbe rimorchiato il Lampo di
poppa: quest’ultima, opponendo maggior resistenza alle onde rispetto alla prua,
dava maggiori garanzie di sicurezza. Il rimorchio avvenne a bassissima
velocità, sotto la scorta degli altri cacciatorpediniere; l’inusuale formazione
raggiunse Napoli il 28 agosto.
Il Lampo a Napoli nel settembre 1941:
vistosi i danni alle sovrastrutture ed al fumaiolo (sopra: Coll. Luigi Accorsi
via www.associazione-venus.it;
sotto: da www.digilander.libero.it/planciacomando.
Non è chiaro quale delle due foto sia per il verso giusto)
Altre riparazioni
provvisorie vennero eseguite a Napoli, dopo di che il Lampo fu trasferito ancora a La Spezia e poi a Genova, dove il 21
settembre 1941 fu immesso in bacino di carenaggio per essere sottoposto a
lunghi lavori di ricostruzione presso i Cantieri del Tirreno, lavori che ebbero
termine nel maggio del 1942, ad oltre un anno dal disastro del 16 aprile 1941. Nel
corso di tali lavori, oltre ad essere riparato, il Lampo ricevette anche alcune modifiche all’armamento: un impianto
lanciasiluri trinato da 533 mm venne eliminato, mentre l’armamento contraereo
fu potenziato con l’aggiunta di due mitragliere pesanti singole Breda 1939 da
37/54 mm (altra fonte parla di una mitragliera binata Breda da 20 mm,
installata sulla tuga tra i due impianti lanciasiluri).
La nave tornò
formalmente in servizio il 18 maggio 1942, anche se il necessario periodo di
addestramento del nuovo equipaggio fece sì che trascorressero ancora quasi due
mesi prima che il Lampo, tornato
pienamente operativo, riprendesse a solcare le rotte dei convogli.
Il Lampo a Genova a fine lavori, nell’aprile 1942 (g.c. STORIA militare) |
Altra foto del Lampo a Genova a fine lavori, datata maggio 1942 (ma appare evidente che sia stata realizzata nella stessa data della precedente) (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net) |
Il Lampo in manovra a Genova a inizio maggio 1942: l’unità sta uscendo in mare per effettuare delle prove dell’apparato motore al termine dei lavori (g.c. STORIA militare) |
11 maggio 1942
Il capo meccanico di
terza classe Alberto Branz (29 anni, da Gorizia),
del Lampo, muore in Italia.
9 luglio 1942
Il Lampo parte da Patrasso alle 23
insieme al Folgore (caposcorta) per
scortare in Nordafrica convoglio «L», composto dalle motonavi Lerici e Ravello.
10 luglio 1942
Alle 5.20 il
convoglio «L» si congiunge al convoglio «O» (motonave Unione, scortata dal cacciatorpediniere Freccia e dalle torpediniere Partenope, Polluce e Calliope), formando così il convoglio
«S» del quale è caposcorta il Freccia.
Alle 10 si riunisce ai primi due un terzo convoglio, l’«N», proveniente da
Argostoli con la motonave Apuania scortata
dalle torpediniere Orsa e Pallade.
Alle 18 il Saetta raggiunge il convoglio per
poi separarsene di nuovo dopo un’ora e mezza, seguito però da Lerici e Polluce; le tre navi fanno rotta per Suda.
11 luglio 1942
Unione, Apuania e Ravello giungono a Bengasi alle
7.40. Con esse arrivano in Libia complessivamente 10.775 tonnellate di
munizioni, artiglieria e materiali vari, 1181 tonnellate di carburanti e
lubrificanti, 360 tra automezzi e rimorchi, 60 motocarrozzette, sette carri
armati, una maona, un pontone, due impianti per distillazione e 401 soldati.
Le navi della scorta
non entrano in porto, perché devono assumere la scorta di un altro convoglio in
uscita: alle 17, infatti, Freccia (caposcorta), Folgore, Lampo, Orsa, Pallade e Calliope assumono la scorta del convoglio «Y», formato dalle
motonavi Nino Bixio e Monviso dirette a Brindisi.
13 luglio 1942
Il convoglio arriva a
Brindisi alle 13.50.
18 luglio 1942
Il Lampo scorta da Brindisi a Patrasso i
piroscafi Vesta ed Hermada e la cisterna militare Stige.
25 luglio 1942
Alle quattro del
mattino il Lampo, il vecchio
cacciatorpediniere Riboty, la torpediniera
Antonio Mosto e l’incrociatore ausiliario Zara partono da Bari per scortare a Patrasso i piroscafi Aventino e Milano, diretti in Nordafrica con 1871 soldati, 15 tra automezzi e
rimorchi e 213 tonnellate di munizioni, artiglieria e materiali vari. Fa parte
del convoglio anche la motonave Donizetti,
che però è diretta a Corfù; quando il convoglio giunge al largo dell’isola, Donizetti e Mosto se ne separano e raggiungono pertanto Corfù.
Da Patrasso i due
piroscafi proseguiranno per Bengasi, via il Pireo e Suda, con la scorta di
altre unità (cacciatorpediniere Saetta
e Bersagliere, torpediniere Lince e Sagittario); giungeranno a destinazione, nonostante ripetuti
attacchi aerei che causeranno alcuni danni all’Aventino.
9 agosto 1942
Il Lampo e l’incrociatore ausiliario Arborea scortano il piroscafo Quirinale da Bari a Durazzo.
6 settembre 1942
Alle 2.30 il Lampo (capitano di corvetta Antonio
Cuzzaniti) salpa da Brindisi insieme ai cacciatorpediniere Aviere (caposcorta, capitano di
vascello Ignazio Castrogiovanni) e Legionario ed alle torpediniere Partenope e Pegaso, per
scortare in Libia il convoglio «P» (motonavi Ankara e Sestriere).
Alle 10.40, al largo
di Capo Santa Maria di Leuca, il convoglio «P» si unisce al convoglio «N»,
proveniente da Taranto (motonavi Ravello e Luciano Manara, scortate dai
cacciatorpediniere Freccia, Bombardiere, Geniere, Fuciliere, Corsaro e Camicia Nera e dalla torpediniera Pallade), formando un unico convoglio denominato «Lambda», che
fruisce anche di nutrita scorta aerea da parte di velivoli italiani e tedeschi.
Complessivamente le quattro motonavi hanno a bordo 7287 tonnellate di
munizioni, artiglieria e materiali vari, 7056 tonnellate di carburanti e
lubrificanti, 613 tra automezzi e rimorchi, 15 carri armati e 558 soldati.
In base alle
disposizioni impartite, il convoglio naviga lungo la costa della Grecia; verso
le 15.30, al largo di Corfù, si verifica un attacco di aerosiluranti decollati
da Malta. Quattro degli aerei vengono abbattuti dalle navi della scorta, ma
alle 15.40 la Manara viene
colpita a poppa da un siluro; presa a rimorchio dal Freccia (capitano di fregata Alvise Minio Paluello), può
essere portata all’incaglio nella baia di Arilla (Corfù). Il resto del
convoglio prosegue; al tramonto si scinde nuovamente nei due gruppi originari
(meno Freccia e Manara) che navigano separati per tutta
la notte, pur seguendo entrambi la medesima rotta lungo la costa ellenica.
7 settembre 1942
All’alba i due gruppi
si riuniscono di nuovo, assumendo una formazione con le motonavi disposte a
triangolo (Ravello a
dritta, Ankara a
sinistra, Sestriere di
poppa) e le navi scorta disposte tutt’intorno (con il Corsaro di poppa), oltre alla scorta aerea di 7 Junkers Ju 88
tedeschi, 5 caccia italiani Macchi Mc 200 ed un idrovolante CANT Z. 506.
Alle 8.35 il
sommergibile britannico P 34 (tenente
di vascello Peter Robert Helfrich Harrison), preavvisato del prossimo arrivo
del convoglio, avvista su rilevamento 305° le alberature ed i fumaioli delle
navi italiane. Iniziata la manovra d’attacco alle 8.40, alle 9.21 il P 34 lancia quattro siluri da 6400
metri, in posizione 36°17’ N e 21°03’ E (45 miglia a sudovest dell’isola greca
di Schiza); Sestriere e Ravello, avvistati i siluri, li evitano
con la manovra. Il Lampo viene
temporaneamente distaccato per dargli la caccia, lanciando bombe di profondità
a scopo intimidatorio, per poi riunirsi al convoglio; anche l’Aviere, che ha avvistato le scie dei
siluri, effettua un attacco con bombe di profondità.
Sul P 34 si ha l’impressione di essere sotto
attacco da parte di ben tre cacciatorpediniere, con l’impiego di idrofoni; a
partire dalle 9.36 vengono lanciati diversi “pacchetti” di bombe di profondità,
piuttosto vicini ma a profondità troppo scarsa (il P 34 si trova a 36 metri di profondità). Alle 10.30 vengono sentiti
rumori che vengono attribuiti ad un cacciatorpediniere dotato di ecogoniometro
che rimpiazza gli altri tre; alle 10.56 questo cacciatorpediniere passa sulla
verticale del P 34 e lancia un
pacchetto di quattro bombe di profondità che esplodono molto vicine, causando
alcuni danni. Alle 12.26 il comandante Harrison, non sentendo più rumore di
motori né di ecogoniometro da un po’ di tempo, decide di tornare a quota
periscopica. Dopo dieci minuti, però, vengono avvertite emissioni sonar al
traverso a dritta; il P 34 si porta
ugualmente a quota periscopica, ma alle 12.38 avvista un cacciatorpediniere al
traverso a dritta, a 2280 metri di distanza. Harrison decide dunque di tornare
subito in profondità; il cacciatorpediniere ha stabilito un contatto sonar con
il P 34. Alle 12.58 il
cacciatorpediniere passa nuovamente sulla verticale del sommergibile e lancia
un pacchetto di cinque bombe di profondità, che esplodono molto vicine e
causano ulteriori danni. Dopo circa un minuto viene lanciato un altro “pacchetto”,
che però esplode un po’ più lontano. Il P
34 rimane in profondità per il resto del pomeriggio, tornando a quota
periscopica soltanto alle 17.
In tutto sono state
lanciate 83 bombe di profondità; gli scoppi delle bombe, oltre ad indurre il
sommergibile a restare immerso in profondità per tutto il pomeriggio, hanno arrecato
gravi danni al suo motore di sinistra: quando alle 17.15 si cerca di metterlo
in moto, scoppia un incendio, il cui fumo invade tutto il sommergibile. Il
motore è fuori uso ed il P 34, dopo
essere emerso per cinque minuti alle 17.44 per far uscire il fumo, deve
interrompere la missione e rientrare a Malta per le riparazioni dei danni
causati dalle bombe di profondità.
Intanto, il convoglio
prosegue. Per tutta la giornata del 7, e nella notte successiva, le navi
vengono ripetutamente attaccate da bombardieri (di giorno si tratta di
Consolidated B-24 “Liberator” statunitensi) ed aerosiluranti.
Alle 19.40 il
convoglio «Lambda» si scinde nuovamente in due gruppi: Lampo, Ankara, Geniere e Partenope dirigono per Tobruk, mentre Pallade, Pegaso, Camicia Nera, Aviere, Corsaro, Legionario, Ravello e Sestriere fanno rotta per Bengasi (dove arriveranno alle 11
dell’indomani).
Il gruppo che
comprende il Lampo, durante la
notte, viene sottoposto ad ulteriori e pesanti attacchi di bombardieri; mentre
l’Ankara rimane indenne,
il Fuciliere (capitano di
fregata Del Grande) subisce alcuni allagamenti in conseguenza dell’esplosione
di alcune bombe cadute vicine, ragion per cui deve lasciare la scorta e raggiungere
Creta, scortato dal Bombardiere.
8 settembre 1942
In mattinata, si
aggregano al gruppo che comprende il Lampo
anche l’incrociatore ausiliario Brioni
(impiegato come trasporto) e la torpediniera Orione, provenienti da Suda.
Il Lampo e le altre navi del suo
gruppo entrano a Tobruk alle 14.
9 settembre 1942
Alle 18 il Lampo (caposcorta) e la torpediniera Pallade partono da Bengasi per scortare
al Pireo il piroscafo Petrarca.
11 settembre 1942
Il convoglietto
arriva al Pireo alle 22.30.
21 settembre 1942
Il Lampo salpa da Taranto nella notte
tra il 21 ed il 22, insieme al cacciatorpediniere Euro ed alla torpediniera Partenope, scortando la nave cisterna Proserpina, diretta in Libia con scalo intermedio al Pireo ed a
Suda. La petroliera ha a bordo un prezioso carico di 5316 tonnellate di benzina
(la sua portata sarebbe in realtà quasi doppia: ma in Italia non c’è altro
carburante disponibile da inviare in Africa).
22 settembre 1942
In serata il
convoglio viene attaccato da nove aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron
della Royal Air Force (guidati dal tenente colonnello Maurice ‘Larry’ Gaine,
che ha da poco assunto il comando del 39th Squadron), scortati
da sei caccia Bristol Beaufighter del 227th Squadron (guidati
dal tenente colonnello Donald Shore). Volando a bassa quota, gli aerei
intercettano il convoglio al largo di Antipaxo, per colpire prima che riesca ad
entrare nel Golfo di Corinto. Il piano britannico prevede che i Beaufort,
agendo suddivisi in “coppie fluide”, dovranno attaccare contemporaneamente da
tutte le direzioni, in modo da provocare una maggior dispersione del tiro
contraereo (data la scarsità delle risorse disponibili a Malta, i piloti degli
aerosiluranti hanno l’ordine di attaccare solo navi di stazza pari o superiore
alle 5000 tsl), mentre i Beaufighter si divideranno in due gruppi da tre con
differenti compiti: tre Beaufighter dovranno attaccare le navi per “sopprimere”
il loro fuoco contraereo, e gli altri tre dovranno restare sul cielo degli
aerosiluranti per fornire loro protezione in quota.
I britannici
subiscono una perdita prima ancora prima di incontrare il convoglio: uno dei
tre Beaufighter della sezione “anti-contraerea”, pilotato dal sergente
australiano A. J. Phillips, entra in collisione con un Beaufort pilotato dal
sottotenente canadese Aubrey F. Izzard, il quale riporta alla coda danni tali
da precipitare in mare, uccidendo tutto l’equipaggio. L’aereo di Phillips
riesce ad evitare tale tragica sorte, ma è costretto a rientrare a Luqa (Malta)
senza poter partecipare all’attacco. Quando i restanti tredici aerei
raggiungono il convoglio, sul cui cielo sono visibili due caccia Macchi M.C.
200 e diversi bombardieri Junkers Ju 88, le tre unità della scorta iniziano a
girare in cerchio intorno alla Proserpina,
emettendo cortine fumogene ad alta velocità; il capitano Terry A. McGarry spara
un razzo Very giallo, segnale di attaccare, ed i Beaufort vanno all’attacco. Il
Beaufighter del tenente colonnello Shore, addetto alla soppressione del fuoco
contraereo, compie due passaggi mitragliando una delle navi scorta con
cannoncini e mitragliere, poi mitraglia anche la Proserpina; viene a sua volta colpito, e sarà costretto ad un
atterraggio d’emergenza a Luqa, senza feriti tra l’equipaggio. Il Beaufort del
sottotenente canadese Dallas Schmidt mitraglia un cacciatorpediniere, ritenendo
di aver colpito delle munizioni (probabilmente è l’Euro, sul quale rimangono uccisi due uomini); viene poi attaccato
da uno Ju 88, che riesce però ad eludere, mentre gli altri Beaufighter
attaccano gli altri Ju 88 senza particolari risultati da una parte o
dall’altra. Un mitragliere del Beaufort del tenente colonnello Gaine rivendica
il probabile abbattimento o danneggiamento di uno Ju 88. Tutti i Beaufort,
sebbene attaccati ripetutamente dagli aerei italo-tedeschi, lanciano i loro
siluri contro la Proserpina, che
è parzialmente nascosta dal fumo; ma la petroliera riesce ad evitarli tutti con
abili manovre. (Secondo la versione italiana gli aerosiluranti avrebbero
dapprima lanciato senza risultato i loro siluri, poi mitragliato sia la Proserpina che le navi della
scorta, mentre da parte britannica risulterebbe il contrario). L’attacco
britannico termina così nell’insuccesso; le navi italiane lo superano con pochi
lievi danni causati dal mitragliamento.
23 settembre 1942
Lampo,
Euro, Proserpina e Partenope,
dopo aver attraversato il Canale di Corinto, raggiungono il Pireo alle 23. Da
lì la nave cisterna proseguirà per l’Africa con diversa scorta, giungendo
indenne a destinazione.
26 settembre 1942
Alle 12.30 il Lampo e le torpediniere Partenope e Clio salpano da Brindisi per scortare a
Bengasi la motonave Francesco Barbaro,
avente a bordo 175 militari, 21 carri armati, 151 tra automezzi e rimorchi, 547
tonnellate di nafta e carbone, 1217 tonnellate di munizioni e materiale
d’artiglieria e 2334 tonnellate di materiali vari.
27 settembre 1942
Alle sette del
mattino Lampo, Partenope, Clio e Barbaro si uniscono ad un altro gruppo,
partito da Taranto e diretto anch’esso a Bengasi, formato dalla moderna
motonave Unione scortata dal
cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano (capitano di fregata
Carlo Rossi, caposcorta) e dalle torpediniere Aretusa e Lince;
i due gruppi formano così un unico convoglio (denominato appunto «Barbaro»),
del quale è caposcorta il Da Verrazzano.
Procedendo a 14 nodi,
il convoglio imbocca le rotte costiere della Grecia occidentale, ma fin dal
mattino del 27 settembre inizia ad essere tallonato da velivoli da ricognizione
nemici.
La loro presenza non
è casuale: già il 26 settembre l’organizzazione britannica “ULTRA” ha
intercettato e decifrato messaggi italiani dai quali ha potuto apprendere che «L’Unione partirà da Taranto alle 20.30
del 26 e la Barbaro da Brindisi alle 22.30 del 26, per riunirsi in
mare alle 06.00 del 27 e procedere per Bengasi dove giungeranno alle 16.00 del
28». Ne è stato informato il sommergibile britannico P 35 (poi divenuto Umbra), al comando del tenente di
vascello Stephen Lynch Conway Maydon.
Alle 15.40 del 27
settembre il P 35 avvista
un aereo che vola in cerchio a 8 miglia per 280° e, presumendo che si
tratti di uno dei velivoli della scorta aerea del convoglio segnalato da
“ULTRA”, porta la velocità al massimo per portarsi in quella zona. Alle 16.02
il sommergibile avvista infatti il convoglio, formato da due grossi mercantili
scortati da cinque tra cacciatorpediniere e torpediniere più degli aerei, su
rilevamento 285°. Alle 16.30 Maydon sceglie come bersaglio il mercantile più
vicino, ossia la Barbaro; il
comandante britannico stima rotta e velocità del convoglio come 150° e 14 nodi,
e ritiene che vi siano sei tra cacciatorpediniere e torpediniere a scortarlo.
Alle 16.33, in
posizione 37°04’ N e 20°36’ E (35 miglia a sud di Capo Marathia sull’isola
di Zacinto, ed al largo di Cefalonia), il P 35 lancia quattro siluri verso la Barbaro, da una distanza compresa tra i 7300 e gli 8300 metri.
I velivoli della
scorta aerea avvistano le scie dei siluri dopo il lancio, e vi si avventano
contro aprendo il fuoco con le mitragliatrici, nel tentativo di colpirli e
farli esplodere prima che possano raggiungere il bersaglio; ma alle 16.40 uno
di essi colpisce la Barbaro a
prua, sul lato sinistro, a circa 60 miglia per 275° (ad ovest) da Navarino.
Sebbene gravemente
danneggiata, la motonave rimane a galla, ed il Lampo riceve ordine dal caposcorta di prenderla a rimorchio e
portarla a Navarino; mentre il cacciatorpediniere dà esecuzione a quest’ordine,
Partenope e Clio danno la caccia al sommergibile attaccante e poi assumono la
scorta del gruppetto formato dal Lampo
con la Barbaro a rimorchio. L’Unione, col resto della scorta, prosegue
invece per la sua rotta; nella notte successiva verrà a sua volta silurata, da
un aereo, ma il Da Verrazzano
riuscirà a rimorchiarla a Navarino.
Frattanto il P 35, dopo aver lanciato, è sceso in
profondità, ha assunto rotta 300° ed ha fatto uno “scatto” a tutta forza per
cinque minuti, allo scopo di allontanarsi dal convoglio prima che inizi la
reazione della scorta.
Questa ha inizio alle
16.43, quando una bomba di profondità scoppia piuttosto vicina al sommergibile;
quest’ultimo accosta allora per 270°, ma seguono altre bombe d’aereo, dieci in
tutto, l’ultima delle quali alle 17.57. Alle 17.06, tra un attacco e l’altro,
il P 35 ha modo di tornare
a quota periscopica e di osservare il proprio bersaglio, che si trova ora su
rilevamento 176°: la Barbaro è
leggermente appoppata ed appare immobilizzata, con un cacciatorpediniere nei
pressi; si leva da essa parecchio fumo nero. Essendovi aerei tutt’intorno,
Maydon scende a 15 metri ed assume rotta 200°, ed alle 17.13 inizia a
ricaricare i tubi lanciasiluri per tentare un nuovo attacco. Alle 17.33,
vedendo che dalla motonave non si leva più del fumo, il P 35 accosta per 240°, ma alle
17.34 ha inizio un pesante contrattacco da parte della scorta, che costringe il
sommergibile a scendere a 60 metri ed a manovrare per sottrarsi alla caccia. Ne
esce comunque di nuovo indenne, ed alle 17.52 rileva il bersaglio su
rilevamento 155°, notando dopo cinque minuti che ci sono tre cacciatorpediniere
o torpediniere in un raggio di 3660 metri (evidentemente Lampo, Partenope e Clio).
Alle 18.25 il P 35 torna a quota periscopica:
avvistato un cacciatorpediniere o torpediniera a poppavia, distante 1370 metri,
diretto verso di lui ed in avvicinamento, Maydon se ne torna a 60 metri. La nave
italiana lancia undici bombe di profondità, che esplodono piuttosto vicine,
arrecando alcuni lievi danni al P 35;
alle 19.03 seguono altre sei bombe di profondità, esplose molto vicine al
sommergibile, che tuttavia prosegue nella manovra di attacco. Alle 19.36 il
battello britannico accosta per 250° per portarsi ad ovest prima di sferrare
l’attacco, in modo da godere del vantaggio dato dalla luna che sorge; viene
ultimato il ricaricamento dei tubi lanciasiluri. Alle 20.06 il P 35 riemerge nel punto 37°06’ N e
20°28’ E; la Barbaro appare
ancora a galla ma sempre ferma, su rilevamento 070°, ad una distanza di circa
quattro miglia. Tre tra cacciatorpediniere e torpediniere le girano intorno in
cerchio, ad un distanza di un paio di miglia. Nelle due ore seguenti il P 35 si mantiene in contatto visivo
col bersaglio, per attaccare col favore del buio una volta calata la notte, e
riduce le distanze procedendo in superficie, per poi tornare ad immergersi alle
22.25. Cinque minuti dopo, in posizione 37°09’ N e 20°27’ E, il sommergibile
lancia due siluri contro l’immobile Barbaro da
una distanza compresa tra i 5500 ed i 7300 metri, per poi scendere subito dopo
a 36 metri di profondità, mettendo tutta la barra a dritta.
Maydon avverte
un’esplosione dopo dieci minuti, molto più tardi di quanto da lui calcolato in
base alla distanza stimata: in realtà, questa volta nessun siluro è giunto a
segno.
Alle 23.10 il P 35 avvista quattro navi su
rilevamenti compresi tra 079° e 061°, l’ultima delle quali (rilevamento 061°) è
la Barbaro. Maydon fa ricaricare
gli altri due tubi lanciasiluri.
28 settembre 1942
Alle 00.34 il P 35 assume rotta 360°, allo scopo di
portarsi nuovamente in posizione favorevole rispetto alla luna; alle 00.45
avvista due cacciatorpediniere o torpediniere su rilevamenti 044° e 058°, e
cinque minuti dopo riemerge in posizione 37°07’ N e 20°21’ E. La motonave
italiana appare ancora a galla, ma avvolta da un “velo” di fumo, con le navi
scorta che continuano a girarle intorno. Il P 35 si trattiene in zona, senza per il momento lanciare nuovi
attacchi.
Nonostante il
fallimento del secondo attacco del P 35,
gli sforzi del Lampo per rimorchiare
la Barbaro a Navarino non sono
comunque coronati da successo: l’incendio scoppiato a bordo della motonave dopo
il primo siluramento, infatti, si rivela incontenibile, ed alle 4.41 del 28
settembre le fiamme raggiungono le munizioni che facevano parte del carico
(altra versione parla di un’esplosione verificatasi durante la notte
all’interno della stiva colpita dal siluro ed incendiata), e la Francesco Barbaro esplode ed affonda
punto approssimato 37°15’ N e 19°55’ E, una cinquantina di miglia a sudovest di
Capo Marathia nell’isola di Zacinto.
Su un totale di 278
uomini, tra equipaggio e militari di passaggio, imbarcati sulla Francesco Barbaro, le vittime sono 30; il
Lampo ha recuperato 123 superstiti,
le torpediniere altri 125.
Alle 10.30 dello
stesso 28 settembre Lampo, Partenope e Clio arrivano a Navarino, e vi
sbarcano i naufraghi della Barbaro. Partenope e Clio ripartono poi per andare incontro all’Unione che, silurata da aereo alcune ore prima, sta arrancando
verso quel porto – dove riuscirà ad arrivare – a rimorchio del Da Verrazzano.
30 settembre 1942
Alle 18.10 il Lampo (caposcorta) e le
torpediniere Partenope, Aretusa e Clio lasciano Bengasi per scortare a Brindisi, via Navarino, le
motonavi Ravello e Monginevro.
1° ottobre 1942
A mezzogiorno, il
convoglio si divide: Lampo, Clio e Monginevro fanno rotta per Navarino, mentre Ravello, Aretusa e Partenope dirigono
verso il Pireo. Alle 17.40 il convoglio di cui fa parte il Lampo viene attaccato da nove bombardieri, ma non subisce
danni.
Alle 21.40 Lampo, Clio e Monginevro giungono
a Navarino.
12 ottobre 1942
Il Lampo (capitano di corvetta Antonio
Cuzzaniti) e la Partenope (capitano
di corvetta Pasquale Senese) salpano da Corfù alle 23.50 per scortare a Bengasi
la moderna motonave Foscolo.
13 ottobre 1942
Alle 7, al largo di
Corfù, Lampo, Foscolo e Partenope si
uniscono ad un convoglio partito da Brindisi per Bengasi la sera precedente e
formato dalla motonave D’Annunzio
(gemella della Foscolo), dai
cacciatorpediniere Folgore (capitano
di corvetta Renato D’Elia) e Nicoloso
Da Recco (caposcorta, capitano
di vascello Aldo Cocchia) e dalle torpediniere Ardito (tenente di vascello Emanuele Corsanego) e Clio (tenente di vascello Ugo
Tonani). Caposcorta del convoglio così formato è il Da Recco; le navi procedono alla velocità di 15 nodi (Foscolo e D’Annunzio, moderne unità della nuova classe “Poeti”, sono infatti
tra le più veloci navi da carico della Marina Mercantile italiana). Nonostante
un violento temporale, i velivoli della scorta aerea raggiungono puntualmente
il convoglio sin dalle prime luci dell’alba, e rimangono sul suo cielo per
tutto il giorno.
Durante il pomeriggio
il sommergibile britannico Porpoise
(tenente di vascello Leslie William Abel Bennington) viene informato della
presenza di un convoglio di due navi mercantili, scortate da sei
cacciatorpediniere, in posizione 38°14’ N e 19°35’ E, con rotta 180° e velocità
15 nodi: si tratta del convoglio di cui fa parte il Lampo. Il Porpoise sembra
trovarsi in posizione perfetta per intercettare il convoglio, ma non avvista
nulla all’infuori di alcuni aerei: le navi italiane, infatti, passano un po’
più ad est di quanto previsto dai britannici.
Alle 21.58 si accende
un bengala, alquanto lontano sulla dritta del convoglio, e si sente rumore di
aerei; pertanto viene dato l’allarme e tutte le navi iniziano ad emettere
cortine nebbiogene. Alle 22 un aereo sgancia due bombe che cadono tra il Folgore (che procede in coda al
convoglio) e le motonavi (che sono disposte in linea di fronte); alle 23.07 si
sente ancora rumore di aerei ed alle 23.30 si accendono tre nuovi bengala,
sempre lontani e sulla dritta.
Alle 23.56 un aereo
sgancia due bombe di piccolo calibro che cadono vicino al Folgore, causando lievi danni ed alcuni feriti. Al tempo stesso,
il Folgore avvista due aerei a
circa 200 metri di quota ed apre il fuoco contro di essi, insieme alle
altre navi di poppa.
14 ottobre 1942
Alle 00.30, quando il
convoglio si trova a cento miglia da Bengasi, cessa l’allarme e si smette di
emettere nebbia, dato che non si sentono più rumori di aerei da mezz’ora.
Nessuna nave è stata colpita e nessuna, a parte il Folgore, ha subito alcun danno, grazie alla violenta reazione
contraerea delle navi di scorta, che hanno disorientato i piloti nemici. Il
caposcorta Cocchia del Da Recco
riterrà che più che un vero e proprio attacco aereo si sia trattato di qualche
aereo di passaggio che ha trovato per caso il convoglio e vi ha sganciato
contro le bombe che aveva.
Il convoglio giunge a
Bengasi alle 13.30.
Dopo appena mezz’ora,
non appena le motonavi sono entrate in porto, Lampo, Folgore, Da Recco (caposcorta), Partenope, Ardito e Clio ne
ripartono scortando la motonave italiana Sestriere e la tedesca Ruhr, scariche, uscite da Bengasi incrociandosi con Foscolo e D’Annunzio in arrivo.
16 ottobre 1942
Alle 18 il convoglio
si divide: Lampo e Da Recco fanno rotta per Taranto
scortando la Sestriere, mentre Folgore, Partenope e Ruhr dirigono
per Brindisi. L’Ardito, colta da
avaria, raggiunge Argostoli con l’assistenza della Clio.
17 ottobre 1942
Lampo,
Da Recco e Sestriere raggiungono Taranto alle 13.50, dopo un viaggio in cui
non hanno subito alcun attacco.
28 novembre 1942
Il Lampo (capitano di corvetta Antonio
Cuzzaniti) ed il cacciatorpediniere Nicoloso
Da Recco (capitano di vascello Aldo
Cocchia, caposcorta) salpano da Taranto per scortare a Palermo la nave cisterna
Giorgio, carica di benzina, ed il
piroscafo Anna Maria Gualdi. Cocchia ricorda
nelle sue memorie il comandante Cuzzaniti del Lampo come un "famoso e
intrepido «scortatore»".
Il Gualdi dà parecchi pensieri ai
comandanti delle unità di scorta: subito dopo aver lasciato Taranto viene colto
da avaria; prosegue, ma continua ad uscire dal posto ad esso assegnato in
formazione; rischia di finire su un campo minato italiano; infine, nello
stretto di Messina, segnala una grossa avaria alle caldaie, in seguito alla
quale il caposcorta Cocchia gli ordina di raggiungere Messina.
Intorno a mezzanotte,
a nord della Sicilia, Lampo, Giorgio e Da Recco incontrano un altro convoglio avente come caposcorta la
torpediniera Orsa (capitano di
corvetta Bucci); proprio in questo momento, favoriti dalla luce lunare, uno o
due aerosiluranti britannici attaccano il convoglio di cui fa parte il Lampo, sorvolandolo, lanciando alcuni
bengala e poi anche un siluro, senza colpire nulla.
29 novembre 1942
Lampo,
Giorgio e Da Recco raggiungono Palermo in mattinata.
1° dicembre 1942
Il Lampo (caposcorta, capitano di corvetta
Antonio Cuzzaniti) e la torpediniera Climene (tenente
di vascello Mario Colussi) salpano da Palermo per Tunisi alle nove del mattino
(o 9.15) scortando la pirocisterna Giorgio (comandante
militare, tenente di vascello di complemento Italo Cappa), carica di benzina,
con la quale formano il convoglio «G».
I comandi britannici
sono però già al corrente della navigazione del convoglio, dato che fin dal 29
novembre “ULTRA” ha fatto sapere che la Giorgio
sarebbe dovuta partire da Palermo alle 6.30 del 1° dicembre insieme ai
trasporti Aventino, Puccini, Anna Maria Gualdi e KT
1 procedendo a 9 nodi per raggiungere Tunisi (Giorgio e Gualdi)
e Biserta (le altre navi ed il traghetto Aspromonte, che si sarebbe dovuto loro aggregare al largo di
Trapani), con arrivo previsto alle 6 del 2 dicembre. In origine, infatti, la
partenza dei convogli era prevista per il 29 novembre, ma successivamente
Supermarina ne ha deciso il rinvio di un giorno (con partenza prevista, per il
«G», alle 10 del 30 novembre), e poi di altre ventiquattr’ore.
Alle 15 il convoglio
«G» inverte temporaneamente la rotta per aspettare il convoglio «H» (trasporti
truppe Aventino e Puccini, traghetto Aspromonte, trasporto militare
tedesco KT 1,
cacciatorpediniere Folgore, Da Recco e Camicia Nera, torpediniere Procione e Clio, provenienti da Palermo e diretti a
Biserta) che lo deve sorpassare al largo di Trapani, ed alle 16.30, quando ciò
è avvenuto, il convoglio «G» torna sulla rotta originaria e si accoda all’«H»,
come prescritto dall’ordine d’operazioni, seguendolo a qualche miglio di
distanza. Gli ordini prevedono che i due convogli navighino insieme, a 10 nodi,
fino a mezzanotte, per poi dividersi ed assumere rotte parallele (il «G» più a
nord, l’«H» più a sud) puntando l’uno verso Tunisi e l’altro verso Biserta.
Data la poca differenza nelle rispettive velocità, i convogli «G» e «H»
navigheranno l’uno in vista dell’altro per buona parte della traversata.
Nel frattempo, alle
15.15 (o piuttosto qualche minuto prima, essendo le 15.15 l’ora in cui
Supermarina intercetta il segnale di scoperta lanciato dal ricognitore, che
viene decrittato e poi ritrasmesso all’aria per allertare il convoglio) il
convoglio «G» è stato avvistato da ricognitori britannici, che scatenano su di
esso ripetuti attacchi aerei, aventi per bersaglio la Giorgio.
Alle 18.33 si sente
rumore di aerei e vengono pertanto adottati gli accorgimenti necessari a fare
fronte ad un possibile attacco aereo; i primi velivoli nemici sul cielo del
convoglio appaiono alle 20.31, e da quell’ora fino alle 21.48 Giorgio, Lampo e Climene vengono
continuamente sorvolate da aerei nemici, eseguendo pertanto continue accostate,
emettendo cortine fumogene e sparando saltuariamente con le mitragliere.
Alle 21.58, dopo un
nutrito lancio di bengala sul lato sinistro del convoglio (a lanciarli è stato
un Fairey Albacore dell’821st Squadron della Fleet Air Arm,
munito di radar ASV per l’individuazione di navi), vengono avvistati degli
aerei vicinissimi: si tratta di due aerosiluranti Fairey Albacore dell’828th Squadron
della Fleet Air Arm, decollati da Malta e guidati dal tenente di vascello R. M.
Maund, condotti sul posto dall’altro Albacore dell’821st Squadron.
Subito dopo, gli Albacore lanciano i loro siluri, ed uno di essi colpisce la Giorgio a prora dritta (alcune fonti
indicano erroneamente l’ora come le 21.56 o le 22.15), a 44 miglia per 268° (ad
ovest) da Trapani nonché a sud di Marettimo: la petroliera si apprua e sbanda a
dritta, mentre a bordo divampa subito un fortissimo incendio, alimentato dal
carburante contenuto nelle sue cisterne.
Aldo Cocchia, che dal
Da Recco assisté a distanza
all’attacco contro il convoglio «G», descrive così quei momenti nel suo libro
di memorie "Convogli": “Dopo i
bengala su di noi, altri ne vidi accendersi sul convoglio Lampo. E lì,
improvvisa, divampò la tragedia. Una cortina di bengala, scie luminose di
mitraglia contraerei che salivano, altre delle armi degli aerei che venivano
verso il mare, d’un tratto una fiammata alta nel cielo. Mi illusi per un
istante che potesse trattarsi di un apparecchio nemico incendiato dal tiro
contraereo, ma fui subito richiamato alla realtà da un messaggio del Lampo che
informava che il Giorgio era stato colpito e si era incendiato”.
Sulla Giorgio vengono fermate le macchine; i
feriti vengono trasbordati su Lampo
e Climene, mentre la parte di
equipaggio rimasta illesa riesce ad estinguere le fiamme entro le 23.35. A quel
punto il Lampo ordina
alla Climene di prende a
rimorchio la petroliera; per poterlo fare, però, la torpediniera deve prima smontare
le sistemazioni dei paramine, operazione piuttosto lunga. Il comandante
Cuzzaniti decide pertanto di recuperare tutto l’equipaggio della Giorgio, facendolo trasbordare su Lampo e Climene, e di lasciare la cisterna momentaneamente alla deriva,
dirigendo verso Marettimo, con l’intento di tornare sul posto a giorno fatto.
In certo qual modo
l’aerosiluramento della Giorgio sottrae
il convoglio «G» ad una sorte peggiore, in quanto se avesse regolarmente
proseguito avrebbe rischiato di essere intercettato dalla Forza Q britannica
(incrociatori leggeri Aurora, Sirius ed Argonaut, cacciatorpediniere Quiberon e Quentin)
la quale, uscita da Bona alle 17.30 per compiere una scorreria nelle acque del
banco di Skerki, sulla scorta delle notizie di “ULTRA”, ed informata degli
avvistamenti di convogli italiani in mare, aveva regolato la propria rotta e
velocità in modo da intercettare i convogli «G» ed «H», che navigavano a poca
distanza l’uno dall’altro. Il convoglio «H», avendo proseguito, cadrà nella trappola
e verrà distrutto, con l’affondamento di tutti i mercantili e del Folgore ed il grave danneggiamento
di Procione e Da Recco. Mentre dirigono verso
Marettimo, infatti, Lampo e Climene vedono all’orizzonte dei
bagliori: si tratta dello scontro in corso tra convoglio «H» e Forza Q. Nello
stesso tempo, le due siluranti vengono a più riprese sorvolate ed illuminate da
velivoli nemici.
2 dicembre 1942
Alle 6.15 Lampo e Climene raggiungono nuovamente la Giorgio, trovando sul posto anche la Clio (che, scampata alla distruzione del convoglio «H», ha
avvistato la petroliera alla deriva due ore prima) e due MAS; il comandante Cuzzaniti
ordina alla Clio, unitasi al Lampo, di partecipare alla scorta. Di
conseguenza, mentre la Climene prende
a rimorchio la petroliera, cercando lentamente e tra mille difficoltà di
portarla a Trapani, Lampo e Clio ne assumono la scorta.
Alle 7.30 il Lampo intercetta un messaggio del Da Recco che chiede urgentemente aiuto
via radio – è ridotto in condizioni gravissime dopo il combattimento della
notte precedente – ed il comandante Cuzzaniti decide di raggiungere subito col Lampo la nave in difficoltà, lasciando la Clio ed i due MAS a scortare Giorgio e Climene (petroliera e scorta riusciranno a raggiungere la costa
siciliana poche ore dopo; la Giorgio,
in procinto di affondare, verrà mandata ad incagliare presso Punta Troia per
scongiurarne l’affondamento). Di nuovo Aldo Cocchia in proposito: “Pensai che per la cisterna, carica com’era
di benzina fosse suonata l’ultima ora, ma il Giorgio aveva la pelle dura e
Cuzzaniti del Lampo era di quelli che non mollano. Dopo ore di lotta col fuoco,
riuscirono a circoscrivere l’incendio e poi a rimorchiare il Giorgio prima a
Trapani, quindi a Palermo. Impresa più unica che rara, questa di salvare una
cisterna carica di benzina in fiamme”.
Giunto nelle acque in
cui il convoglio «H» è stato distrutto, il Lampo
incontra per primo il cacciatorpediniere Camicia
Nera, unità superstite della scorta di tale convoglio (insieme alla Clio, è l’unica nave a non aver subito
gravi danni), intento al salvataggio dei naufraghi dell’Aspromonte. Il
comandante del Camicia Nera, capitano
di fregata Adriano Foscari, ordina al comandante Cuzzaniti del Lampo di raggiungere il Da Recco e riferire sulla sua situazione.
Così viene fatto; raggiunto il malridotto cacciatorpediniere, che si trova
immobilizzato e con oltre metà dell’equipaggio ucciso o gravemente ustionato a
seguito della deflagrazione del deposito munizioni prodiero, il Lampo inizia a trasbordarne i feriti
gravi (in massima parte ustionati).
Successivamente
sopraggiungono vicino al Da Recco anche
i cacciatorpediniere Antonio Pigafetta (capitano di vascello Rodolfo
Del Minio) ed Antonio Da Noli (capitano di fregata Pio
Valdambrini), fatti uscire da Trapani per ordine di Supermarina non appena
informata che il convoglio era sotto attacco. Lampo e Camicia Nera si
pongono pertanto agli ordini del comandante Del Minio; questi, assunto il
comando delle operazioni di assistenza al Da
Recco, ordina al Lampo – una
volta che questi avrà finito di imbarcare i feriti – di proteggere il Da Recco mentre il Pigafetta stesso ne predispone il rimorchio di poppa. Una volta
completato il trasbordo, infatti, il Lampo
inizia ad evoluire intorno a Da Recco
e Pigafetta, emettendo cortine
nebbiogene ed eseguendo ricerca ecogoniometrica contro eventuali sommergibili.
Del Minio ordina inoltre che tutti i feriti vengano trasferiti sul Da Noli, essendo imbarcato su
quest’ultimo il medico della XV Squadriglia Cacciatorpediniere.
Alle 9.50 il
rimorchio è pronto: il Pigafetta
inizia la navigazione verso Trapani trainando il Da Recco, con la scorta del Lampo
e successivamente anche dei MAS 563 e
576. Alle 11.24 si unisce alla scorta
anche il Da Noli, che ha intanto a
sua volta trasbordato i feriti sulla piccola nave ospedale Capri; ma dopo appena mezz’ora se ne va in seguito a nuovo ordine,
per partecipare al salvataggio dei naufraghi delle navi affondate.
Verso le 15 la Clio, che dopo l’incaglio della Giorgio ha ricevuto ordine dalla Climene di recarsi a Trapani, s’imbatte
nel gruppo Lampo-Da Recco-Pigafetta e si
aggrega a tale formazione, rinforzandone la scorta. Verso le 18 le quattro navi
raggiungono finalmente Trapani.
17 dicembre 1942
Assume il comando del
Lampo, al posto del capitano di
corvetta Antonio Cuzzaniti, il parigrado Loris Albanese. Sarà l’ultimo
comandante del Lampo.
19 dicembre 1942
Il Lampo ed i cacciatorpediniere Geniere (caposcorta) e Vincenzo Gioberti partono da
Palermo alle due di notte, insieme alla Clio, per scortare in Tunisia un convoglio formato dalle moderne
motonavi Calino, Mario Roselli ed Alfredo Oriani.
Durante la
navigazione, il convoglio si divide: Lampo,
Clio, Calino ed Oriani fanno
rotta per Tunisi, ove arrivano alle 18 (o 18.30), mentre Gioberti, Geniere e Roselli dirigono per Biserta, dove
giungono alle 17.25.
20 dicembre 1942
Il Lampo salpa da Biserta alle 3.30,
scortando la motonave Viminale,
diretta a Palermo.
21 dicembre 1942
Lampo
e Viminale arrivano a Palermo alle 9.
23 dicembre 1942
Il Lampo parte da Palermo per Biserta alle
21, scortando la Viminale.
24 dicembre 1942
All’alba Lampo e Viminale si congiungono con un convoglio proveniente da Napoli e
diretto a Tunisi, formato dalla motonave Col
di Lana e dal trasporto militare tedesco KT 2, scortati dalle torpediniere Sirio e Perseo.
Si forma così un
unico convoglio del quale è caposcorta il Lampo;
alle 9.57, al largo di Capo Bon ed a nordovest di Zembra (Golfo di Tunisi), la Perseo (tenente di vascello Saverio
Marotta) attacca un sommergibile localizzato all’ecogoniometro – che secondo
una fonte avrebbe lanciato quattro siluri contro il convoglio e contro la
stessa Perseo, oppure contro il Lampo –, ritenendo di averlo
probabilmente danneggiato. (Per altra fonte avrebbe partecipato alla caccia
anche il Lampo). Qualche fonte
attribuisce a questa azione l’affondamento del sommergibile britannico P 48 (che viene talvolta retrodatato al
22 dicembre e/o attribuita all’azione congiunta della Perseo, della torpediniera di scorta Ardente e della vecchia torpediniera Audace, che in realtà si trovava all’epoca in Adriatico), ma in
realtà questi non fu coinvolto in tale episodio, essendo la posizione
dell’attacco della Perseo (45 miglia
a nord di Capo Bon) troppo lontana dall’area d’agguato del sommergibile britannico.
In realtà il P 48 fu quasi certamente
affondato il giorno seguente dalle bombe di profondità della torpediniera di
scorta Ardente.
Il sommergibile
coinvolto potrebbe essere invece stato il P
51 (poi divenuto Unseen, tenente di vascello Michael Lindsay Coultron
Crawford), che alle 10.33 del 24 dicembre 1942 lanciò senza successo quattro
siluri, da una distanza di 2300 metri, contro un convoglio formato da una
motonave – identificata da Crawford come la tedesca Ankara – scortata da due o tre cacciatorpediniere, che aveva
avvistato cinque minuti prima in posizione 37°32’ N e 10°45’ E (a nord del
Golfo di Tunisi), su rilevamento 260°, da una distanza di circa cinque miglia.
Altra fonte identifica tuttavia il convoglio attaccato dal P 51 come quello formato dalla motonave italiana Mario Roselli scortata dai
cacciatorpediniere Bombardiere e Camicia Nera, in navigazione da Biserta
a Palermo.
Le navi procedono
insieme per alcune ore, poi i due convogli tornano a dividersi, e dirigono
verso le rispettive destinazioni. Alle 19 Lampo
e Viminale arrivano a Biserta.
27 dicembre 1942
Il Lampo (capitano di corvetta Loris
Albanese) salpa da Palermo per andare ad unirsi ad un convoglio salpato da
Napoli in mattinata e diretto a Biserta, formato dalla motonave tedesca Gran scortata dalla torpediniera Pallade (tenente di vascello Filippo
Ferrari Aggradi).
28 dicembre 1942
Poco dopo mezzanotte,
al largo di Ustica, il Lampo
raggiunge il convoglietto Pallade-Gran e ne assume il ruolo di caposcorta.
Alle 5.55, una
dozzina di miglia a nord di Marettimo, il Lampo
rileva all’ecogoniometro un sommergibile nemico sulla sinistra, ed ordina pertanto
un’accostata d’urgenza a dritta. La Gran,
però, non esegue l’ordine, nonostante l’eccellente visibilità (la luna è allo
zenit) renda impossibile non accorgersi del fatto che le due navi da guerra
stanno accostando: la Pallade spara
allora un colpo di cannone per richiamare l’attenzione del comandante della Gran, ma la nave tedesca continua a
procedere lungo la precedente rotta. Si saprà poi che il comandante della Gran era alla sua prima missione in
Mediterraneo ed inesperto in materia di navigazione in convoglio. Inesperienza
fatale: il sommergibile rilevato dall’ecogoniometro del Lampo è il britannico Ursula
(tenente di vascello Richard Barklie Lakin), che ha avvistato il convoglio
(“una grossa nave mercantile scortata da due cacciatorpediniere”) alle 5.30, in
posizione 38°09’ N e 11°51’ E, ad una distanza di 9150 metri, e che dopo
essersi avvicinato ed essersi immerso alle 5.42 sta ora per attaccare. Pochi
minuti dopo (fonti britanniche parlano delle 5.53, con leggera discrepanza
rispetto a quelle italiane, che parlano delle 6), nel punto 38°09’ N e 11°54’
E, l’Ursula lancia tre siluri contro
la Gran (della quale stima la stazza
in 6000 tsl), da una distanza di appena 685 metri. Colpita in pieno, la
motonave tedesca esplode, affondando rapidamente dodici miglia a nord/nordovest
di Marettimo.
Lampo
e Pallade danno la caccia al
sommergibile attaccante (che dopo il lancio è sceso a 45 metri ed ha iniziato
ad allontanarsi: i primi scoppi di bombe di profondità vengono avvertiti alle
6.06, anche se secondo il diario di bordo dell’Ursula non sarebbe stata effettuata caccia) per due ore, senza
successo, dopo di che recuperano i naufraghi della Gran – diciotto, su 40 uomini che si trovavano a bordo della
motonave – e raggiungono Biserta. Da qui ripartono alle 16 scortando la
motonave Caterina Costa, diretta a
Palermo. Lampo e Pallade la scortano però soltanto fino a Tunisi, dove vengono
sostituiti dai cacciatorpediniere Bersagliere
(caposcorta) e Mitragliere.
30 dicembre 1942
Alle due di
notte il Lampo parte da Palermo,
insieme ai cacciatorpediniere Maestrale
(caposcorta) e Corsaro ed alle torpediniere
Pallade e Sirio, scortando le motonavi Mario
Roselli, Manzoni ed Alfredo Oriani, dirette a Biserta.
Alle 5.04 il
sommergibile britannico Ursula (tenente
di vascello Richard Barklie Lakin), a circa 12 miglia per 360° da Capo San Vito
siculo (nel punto approssimato 38°43’ N e 12°40’ E, dove si è appena spostato
su ordine del comando flottiglia di Malta), avvista il convoglio italiano che
procede a 15 nodi su rotta 240°, a 8200 metri di distanza. Alle 5.09 l’Ursula s’immerge e si avvicina alla
massima velocità per attaccare il mercantile di testa (che sembra il più
grande), immergendosi a quota leggermente maggiore alle 5.13 perché il
cacciatorpediniere di testa gli passa vicino, salvo poi tornare a quota
periscopica alle 5.15 per trovare che il convoglio ha zigzagato di 35° verso l’Ursula stesso. Alle 5.20 la motonave di
testa è a soli 550 metri dall’Ursula –
che ha già superato lo schermo dei cacciatorpediniere e sta per lanciare i
siluri – e continua ad avvicinarsi; il sommergibile tenta di scendere più in
profondità per evitare la collisione, ma rimane per oltre un minuto a 7,6 metri
di profondità e viene così speronato, alle 5.22, quando si trova a soli 8,8
metri di profondità. La collisione danneggia la torretta e le camicie dei
periscopi dell’Ursula (i
periscopi e le relative camicie vanno distrutti, così come i telegrafi
superiori e le luci esterne, mentre la plancia riporta danni superficiali e la
sezione centrale del cavo anti-reti viene portata via), che è costretto ad
abbandonare la missione. Le navi italiane proseguono senza aver nemmeno notato
l’accaduto: alle 5.25 il cacciatorpediniere di coda passa sulla verticale dell’Ursula, che nel frattempo è riuscito a
scendere a maggiore profondità, ed alle 6 il sommergibile perde ogni contatto
sonoro con il convoglio. L’Ursula fa
ritorno a Malta; necessiterà di lunghe riparazioni per i danni causati dalla
collisione.
Infruttuosamente
attaccato anche da aerei, e raggiunto alle 14.30 dalle motosiluranti MS 16 e MS 33 (provenienti da Biserta), il convoglio giunge a Biserta tra
le 17 e le 17.30.
31 dicembre 1942
Lampo
(caposcorta), Pallade e Sirio ripartono da Biserta alle otto del
mattino per scortare il piroscafo tedesco Balzac,
diretto a Napoli.
1° gennaio 1943
Il convoglietto
arriva a Napoli alle 8.30.
Il Lampo nell’inverno 1942-1943 (Coll. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net) |
19 gennaio 1943
Alle 14 il Lampo (caposcorta), insieme alle
torpediniere Monsone e Libra, salpa da Palermo scortando un
convoglio formato dai piroscafi Chieti, Silvano e Campobasso.
20 gennaio 1943
Alle 8 il convoglio
si divide in due gruppi: Lampo, Monsone, Silvano e Campobasso
fanno rotta per Tunisi, dove giungono alle 15.20; Lira e Chieti dirigono
per Biserta, dove arrivano alle 17.15.
21 gennaio 1943
Alle 17.30 Lampo (caposcorta) e Monsone lasciano Tunisi scortando il
piroscafo tedesco Gerda Toft, diretto
a Trapani.
22 gennaio 1943
All’1.45 il
convoglietto viene attaccato da aerei a tre miglia da Capo Bon: nessuna nave
viene colpita, mentre uno degli attaccanti viene abbattuto.
Alle 22.30 le tre
navi raggiungono Trapani. Qui termina il viaggio del Gerda Toft; il Lampo,
invece, prosegue per Napoli.
23 gennaio 1943
Il Lampo arriva a Napoli alle 8.
26 gennaio 1943
Il Lampo (caposcorta, capitano di
corvetta Loris Albanese) ed il cacciatorpediniere Saetta (capitano di corvetta Enea Picchio) partono da Napoli
alle 4.30, scortando i piroscafi Noto e Spoleto, diretti a Biserta.
Tra le 6.34 e le 6.37
il convoglio viene avvistato nel punto approssimato 40°22’ N e 14°22’ E (una
dozzina di miglia a sud della Bocca Piccola) dal sommergibile britannico P 211 (poi Safari, capitano di fregata Benjamin Bryant), che pur ritenendo che
“i cacciatorpediniere [dei quali
Bryant ritiene di vederne quattro] rendano
l’attacco molto difficile” alle 6.48 lancia quattro siluri da 2750 metri
contro il mercantile più vicino. A causa di un errore di sottostima della
velocità da parte di Bryant, tutti i siluri mancano il bersaglio; le navi non
si accorgono neanche di essere state attaccate.
Alle 18 il convoglio
raggiunge Palermo, dove sosta alcune ore.
27 gennaio 1943
Il convoglio riparte
da Palermo all’una di notte; alla scorta si è unita la torpediniera di
scorta Ciclone (capitano di
corvetta Luigi Di Paola).
Alle 4.15, circa
cinque miglia a nord di Trapani, il convoglio viene attaccato da un singolo
aerosilurante, che lancia infruttuosamente il suo siluro.
Alle 8.22 il
convoglio – che oltre alle navi gode anche di una scorta aerea di una dozzina
di aerei, perlopiù da caccia – viene avvistato dal sommergibile
britannico Turbulent (capitano
di fregata John Wallace Linton), che alle 8.55, in posizione 37°46’ N e 11°14’
E, lancia quattro siluri da 2750 metri contro i due mercantili, in un momento
in cui le loro sagome sembrano “sovrapporsi” nel periscopio, per poi scendere subito
in profondità.
Subito dopo il lancio
(le fonti italiane indicano le 8.54, con leggerissima discrepanza rispetto
all’orario di lancio indicato dal Turbulent),
uno dei velivoli della scorta aerea avvista e segnala al convoglio le scie dei
quattro siluri, in arrivo da sinistra: il comandante Albanese ordina a tutte le
navi di accostare ad un tempo di 90° a dritta, manovra che viene prontamente
eseguita, permettendo così di evitare tutti i siluri. Due corvette in zona per
una crociera antisommergibili si occupano di dare subito la caccia
all’attaccante (senza però riuscire a danneggiarlo), mentre il convoglio
prosegue.
Le navi entrano a
Biserta alle 16.30.
5 febbraio 1943
Il Lampo (caposcorta) e le corvette Gabbiano e Persefone partono da Palermo alle 17 per scortare a Tunisi la
motonave italiana Col di Lana ed il
piroscafo tedesco Henri Estier.
6 febbraio 1943
Il convoglio arriva a
Tunisi alle 20.
7 febbraio 1943
Lampo,
Gabbiano e Persefone ripartono da Tunisi alle 00.40 scortando il piroscafo Lanusei, di ritorno a Palermo.
8 febbraio 1943
All’una di notte si
aggrega al convoglio il rimorchiatore militare Ciclope, anch’esso diretto a Palermo.
Le navi arrivano a
Palermo alle 3.45.
15 febbraio 1943
Alle quattro del
pomeriggio il Lampo (capitano di
corvetta Loris Albanese) parte da Palermo per scortare a Tunisi il piroscafo
italiano Capo Orso ed il trasporto
militare tedesco KT 13.
Alle 20.58, in
condizioni di buona visibilità nonostante il buio, il Lampo avvista un ricognitore avversario giunto sul cielo del
convoglio ed apre il fuoco contro di esso, ritenendo di averlo abbattuto quasi
sicuramente.
16 febbraio 1943
All’1.45 della notte
hanno inizio gli attacchi di aerosiluranti, che si protraggono fino alle 3.33:
in questo lasso di tempo se ne svolgono ben nove, ma solo quattro dei velivoli
giungono al lancio dei siluri, grazie all’intenso tiro contraereo delle navi,
che induce gli altri a rinunciare. Il terzo lancio, alle 2.45, vede il Capo Orso colpito da uno o due
siluri.
Secondo le fonti
britanniche, per attaccare il convoglio del Capo Orso decollarono inizialmente da Malta sei aerosiluranti
Bristol Beaufort del 39th Squadron della Royal Air Force, dei
quali soltanto la metà riuscirono a trovare le navi da attaccare. Uno dei tre,
pilotato dal tenente John N. Cartwright, fu danneggiato dall’intenso tiro
contraereo del Lampo e
costretto ad abbandonare l’attacco e rientrare alla base di Luqa (secondo il
libro “The Armed Rovers”, questo sarebbe il presunto ricognitore che il Lampo ritenne di aver abbattuto alle
20.58); gli altri due lanciarono i loro siluri, ma senza successo (uno di essi,
pilotato dal capitano sudafricano Donald Pax Tilley, compì tre tentativi di
attacco in condizioni di scarsa visibilità, lanciando il suo siluro nell’ultimo
passaggio, senza risultato apprezzabile). (Secondo un’altra versione, furono
solo due i Beaufort che avvistarono il convoglio e andarono all’attacco: quello
di Tilley e quello di Cartwright).
Fu poi il turno di
nove Vickers Wellington del 221st Squadron RAF, armati parte
con bombe e parte con siluri; due di essi, pilotati dal sottotenente George
Alfred Painter (aereo LB182) e dal sergente neozelandese William Alexander
Fraser (aereo LB153, danneggiato nell’attacco dal tiro contraereo delle navi),
rivendicarono due siluri a segno su un bastimento che identificarono come “nave
cisterna” ma che in realtà era il Capo
Orso. Fraser fu poi decorato con la Distinguished Flying Medal per questa
azione, con motivazione «Il sergente
Fraser riceveva ordine di attaccare un convoglio formato da una nave cisterna
di 5000 tsl [in realtà era il Capo
Orso] scortata da due
cacciatorpediniere. Nonostante intenso tiro contraereo che danneggiava l’aereo
e feriva il mitragliere di coda, il siluro veniva lanciato da 600 iarde [549
metri] e colpiva la nave cisterna a
centro nave. Il sergente Fraser è uno straordinario pilota di aerosiluranti
Wellington il cui coraggio, determinazione e iniziativa rappresentano un
magnifico esempio per la squadriglia».
L’esplosione asporta
la prua del Capo Orso; carico di
benzina, il piroscafo viene ben presto avvolto dalle fiamme ed affonda in meno
di mezz’ora, a sudovest di Marsala e di Favignana e 17 miglia a sud di
Marettimo.
Il comandante
Albanese del Lampo descrive così la
fine del Capo Orso: «Alle 2.45 odo un’esplosione sul lato
sinistro e vedo un forte incendio a bordo del Capo Orso. L’incendio si estende
su una vasta zona a causa della benzina, di cui era carico il piroscafo, sparsa
sulla superficie del mare. Il piroscafo affonda a mano a mano e alle 3.10
scompare nel punto lat. 37°40’ [Nord] long. 12°07’ [Est]». Altra fonte indica l’orario di
affondamento come le 3.20, anziché le 3.10.
Gli attacchi aerei
non si fermano: alle 3.21 ed alle 3.33 il Lampo viene assalito da tre aerei, tutti sulla dritta,
reagendo con violento fuoco delle mitragliere ed eseguendo veloci accostate per
schivare i siluri, dei quali tuttavia non viene osservato lo sgancio. Il KT 13 si ferma brevemente a prestare
soccorso ai naufraghi del Capo Orso,
ma recupera solo tre uomini prima di proseguire insieme al Lampo; alle 4.30 il comandante Albanese ordina alla nave
soccorso Capri, che sta passando
nelle vicinanze, di occuparsi del salvataggio dei restanti naufraghi. Verranno
così salvati altri 41 uomini del Capo
Orso, mentre le vittime sono 56.
Lampo
e KT 13 arrivano a Tunisi alle 21.55.
17 febbraio 1943
Alle otto del mattino
il Lampo riparte da Tunisi scortando
la motonave Col di Lana, diretta a
Palermo con un carico di prigionieri di guerra.
Alle 22.50 il piccolo
convoglio viene avvistato da un ricognitore, e di conseguenza iniziano gli
attacchi aerei.
18 febbraio 1943
Aerosiluranti isolati
od a coppie attaccano Lampo e Col di Lana alle 00.25, alle 00.40, alle
00.48 ed alle 00.50; in quest’ultimo attacco, verificatosi 18 miglia a
nord-nord-est di Capo San Vito Siculo, la Col
di Lana viene colpita da un siluro ed affonda all’1.08.
Al Lampo non resta che raccogliere i naufraghi,
ma all’1.05, mentre è intento in tale opera di soccorso, viene attaccato da due
aerosiluranti: il comandante Albanese decide pertanto di interrompere il
salvataggio e di fare rotta verso Palermo ad alta velocità. All’1.37 il Lampo subisce un ulteriore attacco
aereo, anche questo senza risultato, ed alle 3.50 arriva a Palermo. È la nave
soccorso Capri, fatta uscire da
Trapani, a recuperare i restanti naufraghi della Col di Lana.
Distintivo del Lampo (Coll. Giuseppe Celeste, via www.associazione-venus.it) |
20 febbraio 1943
Alle 10.30 il Lampo (caposcorta, capitano di corvetta
Loris Albanese) riparte da Palermo per scortare a Tunisi, insieme alla
torpediniera Sagittario, i piroscafi Campania e Lanusei.
Il convoglietto
raggiunge Trapani alle 16.30, e vi sosta fino a notte.
21 febbraio 1943
Alle due di notte il
convoglio, cui si è unito anche il piroscafo Siena, lascia Trapani per Tunisi. Alle 4.30 si aggregano alla
scorta le moderne corvette Artemide
(tenente di vascello Franco Micali) e Persefone
(tenente di vascello Roberto Lucciardi).
Alla stessa ora, al
largo di Punta Libeccio, il convoglio viene attaccato da un aereo che sgancia
un siluro, senza colpire nulla. Nell’arco della successiva ora le navi italiane
subiscono ben otto attacchi aerei (compreso quello delle 4.30): alle 4.43 una
formazione di aerei sgancia sul convoglio numerose bombe; alle 4.50 un aereo
lancia un altro siluro; alle 4.52 un terzo aerosilurante sgancia anch’esso
contro il convoglio; altri quattro attacchi di aerosiluranti si svolgono alle
5.10, alle 5.20, alle 5.25 ed alle 5.30, ma la violenta reazione contraerea
delle navi di scorta – favorita dalla luna piena, che rende la notte molto
luminosa e facilita l’avvistamento degli attaccanti – frustra tutti i tentativi
avversari, costringendo gli aerosiluranti a lanciare da lontano (l’aereo che
attacca alle 5.25, in particolare, rinuncia a portare a fondo il proprio
attacco per l’intensità della reazione della scorta). Nessuna nave subisce
danni, mentre due degli aerei attaccanti vengono probabilmente danneggiati dal
tiro della scorta, dato che vengono notati gli scoppi di vari colpi di
mitragliera pesante contro la parte anteriore di due velivoli, che però non
sono visti precipitare.
Dopo l’alba giunge
sul cielo del convoglio la scorta aerea, che alle 10.50 avvista un sommergibile
e lo segnala prontamente al convoglio, che può così eludere anche questa
minaccia. Alle 11.22, tuttavia, uno dei velivoli della scorta aerea precipita
in mare per cause sconosciute, affondando immediatamente; le corvette, mandate
sul posto per soccorrere eventuali superstiti, non ne trovano nessuno.
Alle 11.30 Artemide e Persefone lasciano la scorta.
Il convoglio
raggiunge indenne Tunisi alle 18.
22 febbraio 1943
Il Lampo (caposcorta, capitano di
corvetta Loris Albanese), la Sagittario
e la moderna torpediniera di scorta Groppo
lasciano Tunisi alle 4.30 scortando i piroscafi tedeschi Gerd ed Henry Estier ed il
trasporto militare KT 13, pure
tedesco.
Alle 11.50, in
posizione 37°45’ N e 11°12’ E (una dozzina di miglia ad est del banco di
Skerki), il convoglio viene attaccato da nove bombardieri, identificati dal
comandante Albanese come Lockheed Hudson, che si avvicinano a bassa quota
(50-60 metri) scortati da altrettanti caccia Lockheed Lightning. Gli aerei si
avvicinano da poppa e, giunti a circa 3 km, si dividono in due gruppi, uno di 6
bombardieri e 6 caccia, l’altro di 3 bombardieri e 3 caccia. Il primo gruppo
sorvola il convoglio risalendolo da poppa verso prua e sganciando le bombe sui
mercantili, dei quali il Gerd
viene colpito a poppa; il Lampo apre
il fuoco con le mitragliere e subito le altre navi fanno lo stesso, mentre i
velivoli tedeschi della scorta aerea si avventano sugli attaccanti. Due aerei
nemici vengono visti precipitare a proravia del convoglio, gli altri si
ritirano inseguiti dagli aerei tedeschi e dalle cannonate delle navi di scorta.
Il secondo gruppo di aerei si porta sul lato sinistro del convoglio e serra le
distanza fino a giungere vicinissimo, ma viene accolto dalla reazione contraerea
della scorta navale e dal deciso contrattacco degli aerei tedeschi e deve
rinunciare all’attacco, ritirandosi ed accodandosi agli aerei del primo gruppo
che si stanno già allontanando. Uno Ju 88 tedesco viene però abbattuto; il Lampo può soltanto recuperare il corpo
senza vita del suo pilota. Il Gerd affonda
alle 12.02; mentre il Lampo ed il
resto del convoglio proseguono, il comandante Albanese distacca la Groppo per recuperarne i naufraghi. Alle
13.40 la Groppo comunica al Lampo che ha salvato tutti superstiti
del piroscafo tedesco (28, su 37 uomini imbarcati) e che inoltre ha recuperato
e catturato anche due piloti britannici che tentavano di fuggire sul loro
battellino di gomma a motore.
23 febbraio 1943
Il resto del
convoglio raggiunge Palermo alle 8.
3 marzo 1943
Alle 10 il Lampo (caposcorta) parte da Napoli per
scortare a Biserta, insieme alle moderne torpediniere di scorta Ardito ed Animoso, la motonave Caterina
Costa ed i piroscafi Saluzzo e Pierre Claude (quest’ultimo tedesco).
Non appena esce in
mare, il convoglio viene avvistato da ricognitori nemici, che da quel momento
non cessano di pedinarlo: a ciò fanno seguito reiterati attacchi di bombardieri
e di aerosiluranti, ma nessuna nave subisce danni, mentre il tiro delle navi di
scorta abbatte uno degli aerei nemici.
Alle 15 l’Ardito lascia la scorta del convoglio,
mentre tre ore più tardi si unisce ad essa la torpediniera Clio. Successivamente si aggrega alla scorta anche la corvetta Antilope, da Trapani.
4 marzo 1943
Il convoglio
raggiunge Biserta alle 18.35.
5 marzo 1943
Il Lampo (caposcorta) lascia Biserta
alle 10, insieme alle torpediniere Animoso
e Pegaso, per scortare a Napoli i
piroscafi Sabbia e Frosinone e la nave
cisterna Bivona.
6 marzo 1943
Alle 22 l’Animoso lascia la scorta del
convoglio. Il Sabbia è
colto da avaria di macchina che lo costringe a ridurre la velocità, ritardando
l’arrivo a Napoli.
7 marzo 1943
Alle 15.57, a
quindici miglia per 240° da Punta Carena (Capri), un velivolo della scorta
aerea avvista un sommergibile sulla sinistra del convoglio. L’aereo segnala
l’avvistamento al Lampo, che tuttavia
non può attaccare il sommergibile, avendo l’ecogoniometro in avaria.
Alle 23.30 la Pegaso lascia la scorta del
convoglio.
Il Lampo ed i mercantili arrivano a Napoli
tra le 21 e le 23.30.
17 marzo 1943
Alle 22 il Lampo (capitano di corvetta Loris
Albanese) salpa da Messina insieme al cacciatorpediniere Lubiana (caposcorta, capitano di fregata Luigi Caneschi) ed alle
torpediniere Tifone (capitano di
corvetta Stefano Baccarini), Antares
(capitano di corvetta Maurizio Ciccone), Perseo (capitano
di corvetta Saverio Marotta) e Cassiopea (capitano
di corvetta Virginio Nasta), per scortare a Biserta le motonavi Marco Foscarini e Nicolò Tommaseo.
18 marzo 1943
Alle 14 Lubiana e Tifone lasciano la scorta del convoglio, dirigendo per Napoli,
dove devono assumere la scorta di altri convogli in partenza per la Tunisia.
19 marzo 1943
All’1.30 il Lampo subisce una grave avaria di
macchina, al punto da dover essere preso a rimorchio dalla Cassiopea; entrambe le unità devono così
lasciare la scorta del convoglio e dirigere per Napoli, sotto la scorta del
cacciatorpediniere Gioberti (capitano
di fregata Pietro Tona), appositamente inviato.
20 marzo 1943
Lampo, Gioberti
e Cassiopea raggiungono Napoli alle
2.50.
16 aprile 1943
Alle 22 il Lampo salpa da Livorno di scorta al
piroscafo tedesco Pierre Claude,
diretto a Tunisi con scalo intermedio a Gaeta.
17 aprile 1943
Lampo
e Pierre Claude arrivano a Gaeta alle
16.34. Da qui la nave tedesca proseguirà con la scorta della torpediniera Ardimentoso.
21 aprile 1943
Alle 7 il Lampo (caposcorta) parte da Tunisi
insieme alla torpediniera Libra per
scortare a Napoli, via Trapani, il piroscafo Caserta.
Il convoglio
raggiunge Trapani alle 20.
23 aprile 1943
Il convoglio
raggiunge Napoli alle 00.20.
La fine
Il destino – per chi
ci crede – sembrava aver già fissato da tempo il luogo e il mese in cui il Lampo doveva incontrare la sua fine: il
luogo erano le acque della Tunisia, il mese quello primaverile di aprile. Già
una volta questa nave era “morta” in tali circostanze: nell’aprile del 1941,
cannoneggiato, squarciato, incendiato, il Lampo
era “affondato” nelle acque delle Kerkennah, ma quella volta si era posato su
un fondale di pochi metri, così il suo “affondamento” si era risolto in poco
più che un incaglio. Con lunghi sforzi e tanto lavoro era stato rattoppato,
disincagliato, riparato, riportato alla vita: per altri nove mesi aveva ripreso
a navigare e combattere in quel Mediterraneo che già una volta aveva cercato di
carpirlo, scortando convogli, fronteggiando aerei e sommergibili. Era rimasto
l’ultimo della sua classe: il Baleno,
suo compagno di sventura nella funesta notte del 16 aprile 1941, era rimasto
per sempre nell’azzurro delle Kerkennah; il Fulmine
l’aveva seguito sette mesi più tardi, anch’esso affondato a cannonate da navi
nemiche mentre scortava un famoso convoglio, il "Duisburg". Più a
lungo era durato il Folgore, che
aveva persino fatto in tempo a navigare di nuovo col Lampo rinato; la sua fine era giunta il 2 dicembre 1942, le
modalità le stesse dei suoi gemelli: in combattimento contro navi nemiche,
difendendo il convoglio che gli era stato affidato. Come per Lampo e Baleno (il Fulmine era
invece affondato più a nord e ad est, nel Mar Ionio), il Folgore si era inabissato nelle acque della Tunisia, presso il
banco di Skerki. Quattro gemelli accomunati da uno stesso destino: scortare
convogli tra l’Italia e l’Africa, l’Africa e l’Italia, senza tregua, fino ad
affondare su quelle rotte tormentate.
Dei quattro solo il Lampo era sopravvissuto abbastanza a
lungo per vivere il periodo peggiore della guerra dei convogli, l’estenuante
“battaglia” dei convogli verso la Tunisia: sei mesi di passione, dal dicembre
del 1942 al maggio del 1943, nei quali la rotta per la Tunisia si sarebbe
guadagnata la nomea di "rotta della morte". Il Folgore era affondato proprio all’inizio di questa “battaglia”, di
cui era stata una delle primissime vittime: il Lampo sarebbe affondato alla fine, una delle ultime vittime. La sua
seconda e definitiva “morte”, come la prima, si sarebbe compiuta nelle acque
della Tunisia, nelle miti giornate di aprile.
Alle undici del
mattino del 30 aprile 1943 (altra versione parla delle 11.30) il Lampo, al comando del capitano di
corvetta Loris Albanese, salpò da Trapani diretto ancora una volta a Tunisi. La
differenza era che questa volta non c’era nessun mercantile carico di
rifornimenti da scortare: adesso era il Lampo
stesso a trasportare i rifornimenti, 52 tonnellate di munizioni, sistemate nei
locali di prua e di poppa. Già da mesi, del resto, i cacciatorpediniere
superstiti erano impiegati in missioni veloci di trasporto (di truppe,
perlopiù) dalla Sicilia alla Tunisia, lasciando a torpediniere e corvette il
compito di scortare i convogli di navi mercantili: il Lampo era stato uno dei pochi cacciatorpediniere ancora adibiti a missioni
di scorta. Ora, per la prima volta, gli era affidata una missione di trasporto,
mentre ormai la campagna tunisina volgeva agli sgoccioli. Sarebbe stato il Lampo, stavolta, ad essere scortato, ma
non da altre navi: la sua scorta era costituita da otto aerei da caccia della
Regia Aeronautica (questo secondo la storia ufficiale dell’USMM, mentre
l’articolo "Canale di Sicilia, 30 aprile 1943" di Marco Mattioli,
pubblicato sul numero di dicembre 2013 della rivista "Storia
Militare", parla di sette Macchi Mc 202 “Folgore” del 151° Gruppo da
Caccia della Regia Aeronautica).
L’impiego dei
cacciatorpediniere per missioni veloci di trasporto avveniva dietro pressante
richiesta alla Regia Marina da parte degli alti Comandi degli eserciti italiano
e tedesco, sui quali a sua volta faceva pressione in tal senso il Comando in
Capo delle forze tedesche nello scacchiere sud, Oberbefehlshaber Süd; si riteneva che la maggior velocità di queste
unità, rispetto ai ben più lenti convogli di navi mercantili, garantisse maggior
probabilità di successo, specialmente se le missioni erano effettuate di notte.
In effetti questo era risultato vero nei mesi precedenti, in cui i
cacciatorpediniere italiani – in una notte una squadriglia poteva trasportare
1200 soldati con il loro equipaggiamento personale dalla Sicilia alla Tunisia –
erano riusciti a trasportare 52.000 soldati in Tunisia, con perdite inferiori
all’1 %; ma adesso la situazione era mutata, la superiorità aerea
angloamericana era sempre più soverchiante e, soprattutto, l’andamento della
battaglia per il controllo della Tunisia era definitivamente compromesso. Proprio
il 30 aprile si era esaurita senza alcun guadagno l’ultima offensiva tedesca
contro le posizioni tenute dalla 1a Armata britannica del generale
Kenneth Anderson; l’unico risultato di questo fallimentare attacco era che grazie
alle perdite subite italiani e tedeschi non disponevano ora che di 69 carri
armati in tutta la Tunisia. Nella zona di Mateur i britannici avevano
conquistato le alture su ambo i lati della zona appropriatamente soprannominata
“Mousetrap” (“trappola per topi”), e le truppe italo-tedesche erano sempre più
respinte verso la costa; in preparazione dell’offensiva finale, il generale
Montgomery aveva fatto giungere dalla Libia, in rinforzo alla 1a
Armata, la 7a Divisione corazzata, la 4a Divisione
indiana e la 201a Brigata Guardie.
Sull’opportunità di
continuare ad effettuare missioni di trasporto verso Tunisi, esponendo i
cacciatorpediniere al crescente strapotere aereo avversario, quando ormai
appariva evidente che la Tunisia era perduta e che nessun sacrificio sul mare
avrebbe potuto prolungarne significativamente la resistenza, la storia
ufficiale della Marina appare dubbiosa. Il volume "La difesa del traffico
con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia"
così si esprime in merito: «Si era nella
fase conclusiva delle operazioni terrestri, quando ormai la speranza di mantere
il piede in terra tunisina era svanita insieme con quella di poter continuare a
rifornire in modo apprezzabile le truppe combattenti. Tuttavia le Alte Autorità
dell’Esercito italiano e di quello tedesco continuavano a chiedere alla Marina
il trasporto di soldati a mezzo di cacciatorpediniere (…) Viene fatto oggi di chiedersi perché tanto
insistessero gli alti Comandi terrestri per far trasportare alcune centinaia di
uomini e poche munizioni, che non potevano dare alcun sensibile apporto
all’ultima resistenza “in articolo mortis” delle Armate dell’Asse in Tunisia:
risulta che furono accampate ragioni morali, nel senso che bisognava dare fino
all’ultimo agli uomini combattenti oltre mare l’impressione di non essere
abbandonati a loro stessi». E la Marina, come sempre, eseguì; quel giorno
il prezzo pagato sarebbe stato altissimo.
La sera del 29 aprile
altri due cacciatorpediniere, l’italiano Leone
Pancaldo ed il tedesco Hermes,
erano partiti da Pozzuoli per Tunisi in missione di trasporto, nel loro caso di
truppe. Il mattino del 30, giunti al largo di Capo Bon, erano stati attaccati
da sciami di cacciabombardieri e bombardieri angloamericani: dopo aver superato
indenni i primi tre attacchi, il quarto e più violento si era scatenato intorno
alle undici e mezza, proprio mentre il Lampo
lasciava Trapani. Questa volta non c’era stato nulla da fare, entrambi i
cacciatorpediniere erano stati gravemente colpiti: l’Hermes, con a bordo decine di morti e di feriti, era riuscito a
raggiungere la rada tunisina di Korbus,
dov’era rimasto immobilizzato per i danni subiti (rimorchiato a Tunisi, vi fu
autoffondato una settimana dopo al momento della caduta di quella piazzaforte);
peggio era andato al Pancaldo, che
intorno a mezzogiorno e mezzo era affondato portando con sé 199 dei 527 uomini
a bordo. Un altro singolare scherzo del destino: proprio come il Lampo, il Pancaldo era al suo secondo affondamento: era già stato affondato
il 10 luglio 1940 nella rada di Augusta, da aerosiluranti britannici, venendo
recuperato e tornando in servizio dopo oltre due anni e mezzo di lavori. Questi
due “redivivi” dovevano entrambi terminare la propria esistenza lo stesso
giorno, nello stesso modo, nelle stesse acque.
Ricevuta notizia di
questo primo disastro, Supermarina avrebbe voluto richiamare in porto il Lampo, presagendo quello che gli sarebbe
capitato: ma la missione venne fatta proseguire.
Le prime ore di
navigazione del Lampo trascorsero
senza eventi di rilievo, ma alle cinque di quel pomeriggio l’aviazione Alleata,
ormai padrona quasi incontrastata dei cieli nel Canale di Sicilia, manifestò la
sua potenza: nei successivi quaranta minuti, ben 50 cacciabombardieri
angloamericani (secondo i rapporti italiani) scatenarono i loro attacchi contro
quel cacciatorpediniere che procedeva isolato, scortato soltanto da otto aerei.
Gli attaccanti erano
dei Curtiss P-40 “Warhawk” del 79th Fighter Group dell’USAAF
(composto dall’85th, 86th, 87th e 316th Squadron,
quest’ultimo “prestato” dal 324th Fighter Group per acquisire
esperienza sul campo), soprannominati “Falcons” e già protagonisti, poche ore
prima, dell’affondamento del Pancaldo:
al termine di quell’azione, i P-40 erano rientrati alla base di Hani West
(Tunisia) dove si erano riforniti di carburante, bombe e munizioni, poi erano
decollati nuovamente durante il pomeriggio per effettuare un’altra crociera
offensiva antinave nel Golfo di Tunisi.
Secondo le fonti
statunitensi, l’attacco contro il Lampo
fu condotto da 24 P-40 dell’87th Fighter Squadron (i cui piloti
erano soprannominati “Skeeters”) e del 316th Fighter Squadron,
divisi in due formazioni di dodici aerei ciascuno e scortati da un imprecisato
numero di P-40 dell’85th Squadron “Flying Skulls”.
Scesi
in picchiata da una quota iniziale di 2700 metri, gli aerei statunitensi
attaccarono a più riprese, a ondate successive, emergendo da una distesa di
nubi basse; i Macchi C. 202 della scorta aerea andarono subito al contrattacco,
insieme a cinque Macchi C. 205 “Veltro” del 1° Stormo giunti in loro aiuto, ma
era uno scontro impari. Ne nacque una confusa mischia tra i Macchi ed i “Flying
Skulls”, che impegnarono immediatamente gli aerei italiani – scambiati per
Messerschmitt Bf 109 tedeschi, in realtà non presenti – per impedir loro di
interferire con l’attacco al Lampo da
parte degli aerei delle altre due squadriglie. Da parte italiana venne
rivendicato l’abbattimento di un caccia Supermarine Spitfire (da parte di un
Macchi 202 del 151° Gruppo Caccia Terrestre) e quello probabile di un P-40 (per
altra fonte, sarebbe stato rivendicato l’abbattimento di due P-40: uno ritenuto
certo, da parte del Macchi 205 del tenente Mario Ligugnana della 72a
Squadriglia, 17° Gruppo Caccia Terrestre, ed uno probabile, da parte di un
Macchi 202 del 151° Gruppo Caccia Terrestre), oltre a numerosi P-40 danneggiati
da fuoco di mitragliatrici; da parte statunitense il capitano Sammy Say
(comandante della “Sezione Rossa” dell’85th Fighter Group) affermò
di aver incendiato con le sue mitragliere un Messerschmitt Bf 109 (tipo di
aereo non presente, come già detto: evidentemente era un Macchi), ed il tenente
Malcolm “Joe” McNall (che insieme al parigrado Charles “Kim” Bolack aveva
attaccato quattro Macchi) rivendicò l’abbattimento di un Macchi 202, colpito al
motore con conseguente perdita di liquido refrigerante ed emissione di fumo, il
cui pilota si dovette infine lanciare col paracadute.
Da
parte statunitense non risulta alcuna perdita, mentre da parte italiana andò
perduto un caccia Macchi 205 dell’88a Squadriglia del 1° Stormo da
Caccia Terrestre del 6° Gruppo, il MM. 9316 pilotato dal sottotenente Luigi
Caroli (facente parte della scorta aerea del Lampo), che perse la vita, ed un Macchi 202 del 151° Gruppo fu
danneggiato al largo di Capo Mustafà.
Il Lampo, intanto, si difendeva come poteva
con il proprio armamento contraereo, ma dinanzi a quella pioggia di bombe ci fu
poco da fare. Dapprima fu colpito e gravemente danneggiato a poppa, poi fu
colpito anche a prua, sebbene con danni più contenuti; ben presto si ritrovò
immobilizzato ed incendiato, con decine di morti e feriti tra l’equipaggio. Le
munizioni trasportate iniziarono ad esplodere, soprattutto quelle sistemate a
poppa; per evitare il peggio, si procedé ad allagare i depositi di munizioni.
Invano l’equipaggio tentò di contrastare il crescente sbandamento; il Lampo appariva ormai in procinto di
rovesciarsi, come se gli incendi e le esplosioni non fossero un problema
sufficientemente grave, ed alle 17.35 il comandante Albanese dovette
riconoscere che non era più possibile fare nulla per salvare la sua unità.
Diede ordine di abbandonare la nave.
Mentre il resto
dell’equipaggio eseguiva l’ordine, i serventi del complesso prodiero da 120 mm
continuarono a fare fuoco; smisero soltanto quando ebbero esaurito le munizioni
a loro disposizione. Quando anche loro ebbero abbandonato la nave, rimasero sul
Lampo soltanto tre uomini: il
comandante Albanese, un sottufficiale meccanico (forse si trattava del
sottocapo meccanico Giulio Mandelli, valtellinese, rimasto a bordo del Lampo per gettare ai compagni in mare
qualsiasi oggetto che potesse fungere da galleggiante: ricevette poi un encomio
che terminava con la frase “Abbandonava
l’unità, irrimediabilmente colpita, solamente quando gli veniva specificamente
ordinato”) ed un sottocapo elettricista. Il comandante del Lampo compì un ultimo giro d’ispezione
del suo cacciatorpediniere, in preda agli incendi, per accertarsi che nessuno
fosse rimasto a bordo; poi, alle 17.50 circa, lasciò per ultimo la sua nave
insieme ai due graduati.
La storia del 79th
Fighter Group pubblicata nel 2001 da Don Woerpel (“The 79th Fighter
Group: Over Tunisia, Sicily, and Italy in World War II”) descrive in
questi termini la fine del Lampo, dal
punto di vista dei piloti statunitensi: "Emettendo un fitto fumo nero, la nave zigzagò goffamente via dalla
scena nella direzione di Capo Bon. Più tardi si sarebbe capovolta e affondata
presso Sidi Daoud". I piloti dell’87th e 316th
Squadron rivendicarono tre bombe a segno sul Lampo.
In mare, i naufraghi
del Lampo si riunirono sulle zattere
di salvataggio. Intorno alle 18.15 altri venti cacciabombardieri piombarono sul
relitto ormai abbandonato del cacciatorpediniere, sul quale gli incendi
ardevano sempre più violenti, e si accanirono ancora su di esso, bombardandolo
e mitragliandolo. La fine venne alle 19.12, così il comandante Albanese la
descrisse nel suo rapporto: «con bandiera
a riva e al grido di “Viva il Re” dell’equipaggio, dopo essere esploso a prua e
a poppa, il Lampo affonda di prua, coricato sul fianco dritto: quando
sott’acqua si sono uditi altri scoppi». La posizione dell’affondamento era
a 6 miglia per 80° (cioè ad est) di Ras Mustafà, e sei miglia a levante di
Kelibia. Il cerchio si era chiuso, il mare di Tunisia, dopo aver già ghermito
il Lampo due anni prima, se lo era
preso per sempre. Erano passati esattamente due anni e due settimane dalla
tragica notte della battaglia delle Kerkennah.
Il Lampo nel 1936 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
E così si erano persi
in poche ore ben tre cacciatorpediniere e quasi trecento uomini, al fine di «dare fino all’ultimo agli uomini combattenti
oltre mare l’impressione di non essere abbandonati a loro stessi»; nessun
vantaggio venne da questo sacrificio alle truppe italo-tedesche che
combattevano in Tunisia. Ancora altri due cacciatorpediniere, Fuciliere e Carabiniere, erano pronti in porto a partire per un’altra missione
di trasporto verso la Tunisia; ma dopo la perdita del Lampo, la loro partenza venne saggiamente annullata.
Come se non bastasse,
anche i mezzi inviati a soccorrere i naufraghi dei cacciatorpediniere vennero
attaccati dagli aerei nemici, subendo diverse perdite: il MAS 552 e la MS 25,
partiti per recuperare i naufraghi del Pancaldo,
ed il motodragamine tedesco RA 10,
che aveva lasciato Biserta per soccorrere i superstiti del Lampo. Prima di poter giungere sul posto, il RA 10 fu attaccato da cacciabombardieri – probabilmente dei Curtiss
P-40 “Warhawk” del 57th Fighter Group dell’USAAF – che lo colpirono
con una bomba nel locale macchine, provocandone l’affondamento, due miglia a
sud di Capo Bon, alle 16.11.
Da parte Alleata, e
specialmente statunitense, all’azione del 30 aprile 1943 venne attribuito
notevole peso, arrivando a paragonarla, con le dovute proporzioni, alla
battaglia del Mare di Bismarck, combattuta nel Pacifico neanche due mesi prima
e nella quale le forze aeree statunitensi, senza alcuna partecipazione navale,
erano riuscite a distruggere da sole un intero convoglio giapponese, affondando
otto cacciatorpediniere e quattro trasporti e provocando la perdita di quasi
3000 tra soldati e marinai nipponici. Certamente i cacciabombardieri della
United States Tactical Forces avevano conseguito una vittoria notevole nel
Canale di Sicilia, affondando o mettendo fuori uso tre cacciatorpediniere, tre
unità minori e diversi pontoni Siebel e subendo perdite minime. La storia
ufficiale del 79th Fighter Squadron ("The
Falcon: Combat History of the 79th Fighter Group, United States Army Air Force,
1942-1945") nota che l’attacco al Lampo
“fu un bell’esempio del perfetto lavoro
di squadra tra squadriglie, e, insieme alla missione precedente, inflisse il
maggior danno al nemico in un giorno da parte della nostra unità”. Lo
stesso 30 aprile il Comando in Capo delle forze aeree Alleate nel Deserto
Occidentale inviò al 79th Fighter Group un messaggio di elogio: “Gradiate trasmettere a tutte le unità sotto
il vostro comando le mie più sentite congratulazioni per il vostro magnifico
bombardamento di oggi. Simili azioni faranno molto per affrettare la fine del
tedesco in Tunisia”.
La perdita in poche
ore di Lampo, Pancaldo ed Hermes (che
non era stato affondato, ma subì danni tali da rendere impossibile il suo
rientro in Italia, così condannandolo a sicura perdita di lì a pochi giorni)
destò molta preoccupazione presso gli alti comandi della Marina italiana,
preoccupazione condivisa anche dall’ammiraglio Friedrich Ruge, ufficiale di
collegamento della Kriegsmarine presso Supermarina. Come riferito dal diario
operativo del Comando della Kriegsmarine in data 30 aprile 1943, sia gli
ammiragli italiani che Ruge concordavano sul fatto che l’impiego di ulteriori
cacciatorpediniere per missioni di trasporto verso la Tunisia "sarebbe stato infruttuoso ed avrebbe
rappresentato soltanto un inutile sacrificio". Quello stesso
pomeriggio – prima ancora, probabilmente, della perdita del Lampo – l’ammiraglio Ruge, per tramite
del suo ufficiale alle operazioni, fece telefonare ai suoi superiori a Berlino
per riferire che l’impiego dei cacciatorpediniere in tali missioni non era più
giustificabile, chiedendo che venisse quanto prima presa una decisione in
merito con l’approvazione del comandante in capo delle forze armate tedesche
nello scacchiere sud (Oberbefehlshaber
Süd, posizione retta dal feldmaresciallo Albert Kesselring). In un
messaggio aggiuntivo trasmesso per telescrivente per giustificare tale
richiesta, Ruge spiegava che l’attraversamento del Canale di Sicilia nelle ore
diurne era pressoché impossibile, a causa dell’enorme superiorità aerea
avversaria; e che l’attraversamento notturno era estremamente rischioso per via
dell’intensa attività delle forze navali di superficie britanniche, anche se
c’erano, in questo caso, possibilità di “occasionale” successo. Ma il
comandante in capo della Marina tedesca rispose di considerare l’impiego dei
cacciatorpediniere nei trasporti verso la Tunisia “piuttosto normale”, e si
dichiarò intenzionato a non interferire, rimandando ulteriori discussioni in
merito al giorno seguente. Al contempo, il feldmaresciallo Kesselring inviò un
dettagliato rapporto sulla situazione ed uno sulle sue trattative con la Marina
italiana; si dichiarò contrario all’invio di cacciatorpediniere attraverso il
Canale nelle ore diurne, che, a suo dire, era stato deciso “contro i suoi
enfatici avvertimenti”. Il diario operativo della divisione operazioni dello
Stato Maggiore della Kriegsmarine proseguiva puntualizzando che “il nemico sta effettuando attacchi
[aerei] diurni con forze tali da mettere
in condizioni di svantaggio persino 60 dei nostri caccia”, e che il
pericolo di attacchi dall’aria di notte era considerato meno grave, anche
perché il disturbo da parte tedesca dei segnali radio angloamericani rendeva
più difficile per gli aerei Alleati l’individuazione delle navi dell’Asse.
Tuttavia, si ammetteva che “non sarà
possibile evitare perdite di notte”, dando altresì ordine per il
rafforzamento della protezione aerea e navale.
Nel pomeriggio del 1°
maggio si tenne a Berlino una riunione sulla situazione dei rifornimenti per
Tunisi, con la partecipazione dell’ammiraglio Ruge (appositamente convocato a
Berlino da Roma), del capitano di fregata Fausto Sestini (ufficiale di
collegamento della Regia Marina presso lo Stato Maggiore della Kriegsmarine),
del comandante della divisione operazioni della Marina tedesca, del
quartiermastro generale della Marina tedesca e del comandante del ramo
operazioni della divisione operazioni della Marina tedesca. L’ammiraglio Ruge
tratteggiò un quadro a tinte fosche della situazione dei convogli per la
Tunisia, enfatizzando che non era possibile tenere sotto controllo la minaccia
rappresentata dalle forze di superficie nemiche nella parte settentrionale del
Canale di Sicilia, né quella delle mine nella parte centrale, e meno che mai
quella degli attacchi aerei, grande tanto di giorno quanto di notte. Si
dichiarò convinto che le possibilità di una traversata coronata da successo per
imbarcazioni di grandi dimensioni, cacciatorpediniere compresi, fossero così
ridotte da far sì che non valesse più la pena di impiegarle. Il capitano di
fregata Sestini, riferendo l’opinione della Marina italiana, disse che Tunisi
ormai non poteva più essere tenuta, e che tutti i mezzi dovevano essere ora
destinati alla difesa della Sicilia e della Sardegna; la flotta italiana,
cacciatorpediniere compresi – essendo questi indispensabili per l’operatività
delle navi maggiori –, doveva essere preservata per questo compito, mentre
l’ulteriore impiego di navi da guerra italiane sulla rotta tunisina sarebbe
risultato ininfluente, dal momento che la caduta di Tunisi era comunque
imminente. Salvare la flotta avrebbe potuto essere di importanza decisiva per
la difesa di Sicilia e Sardegna.
Il comandante della
divisione operazioni della Kriegsmarine respinse questa visione: dichiarò
assurdo pensare che la flotta italiana potesse impedire l’eventuale invasione
della Sicilia o della Sardegna, stante la netta superiorità della Marina
britannica, ed affermò invece che il modo migliore per difendere l’Italia fosse
di continuare a prolungare la resistenza in Tunisia, perché fino a quando un
lembo d’Africa fosse rimasto in mano all’Asse, uno sbarco in Italia o nelle
isole sarebbe stato improbabile. Per questa ragione, occorreva fare tutto il
possibile per tenere Tunisi; le settimane e persino i giorni avevano
importanza, e “sacrificare la flotta per
questo compito sarebbe di maggior beneficio che salvarla per compiti futuri”,
dato che in caso di invasione delle isole maggiori la superiorità nemica era
tale che anche l’intervento delle forze navali italiane al completo non avrebbe
potuto impedire gli sbarchi. (Su questo, in effetti, non aveva torto: fintanto
che truppe dell’Asse resistevano in Tunisia gli Alleati non avrebbero tentato
un’invasione dell’Italia, dunque sotto questo punto di vista ogni giorno di
resistenza in più in terra africana era un giorno “guadagnato”, ritardando
l’attacco contro la Penisola). In ogni caso, la decisione sul mantenimento
della posizione in Tunisia era di competenza del Comando Supremo, e la Marina
non poteva che allinearsi alle sue decisioni (“non servirà che la Marina ritiri improvvisamente il suo supporto mentre
le altre branche delle forze armate stanno combattendo disperatamente per
resistere. L’obbligo verso le truppe che combattono a terra rende imperativo
che tutte le forze navali siano schierate in loro supporto. L’alternativa in
questo caso è di tenere Tunisi, il che equivale al totale impegno delle risorse
della Marina, o di lasciare che il corpo corazzato [in Tunisia] si arrenda”). Concluse di essere
dell’opinione che “nonostante le
crescenti difficoltà riferite, la continuazione dei rifornimenti verso la
Tunisia dev’essere attuata con tutti i mezzi disponibili, anche l’impiego delle
navi da guerra per i trasporti”.
Ulteriori discussioni
continuarono anche nei giorni successivi; Kesselring sollecitò il capo di Stato
Maggiore generale italiano, generale Vittorio Ambrosio, affinché si continuasse
ad utilizzare i cacciatorpediniere per i trasporti verso la Tunisia, ma
Ambrosio rifiutò, facendo notare che anche gli ammiragli tedeschi non erano più
favorevoli all’impiego dei cacciatorpediniere per questo compito. Il 2 maggio
il capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine, infastidito dai suoi sottoposti
che lasciavano “solo” Kesselring allineandosi alle posizioni italiane, inviò la
seguente comunicazione al Comando della Marna tedesca in Italia: “L’ordine emanato dal Führer esige il
mantenimento del traffico di rifornimenti verso Tunisi con tutti i mezzi
disponibili. Considerazioni riguardo alla preservazione di forze navali per
altri scopi sono, pertanto, fuori luogo. Sono dell’opinione che tutti i mezzi
della guerra navale dovrebbero essere impiegati in supporto del traffico
tunisino, indipendentemente da qualsiasi attacco contro l’Italia o le isole maggiori
che ci si potrebbe attendere in seguito”. Il giorno seguente, un altro
telegramma venne inviato dallo stesso organo al generale Ambrosio ed
all’ammiraglio Arturo Riccardi, capo di Stato Maggiore della Regia Marina: “Ho chiamato il viceammiraglio Ruge a Berlino
per un rapporto il 1° e 2 maggio. Ha riferito sulla questione dei rifornimenti
per la Tunisia e sulle grandi difficoltà dei trasporti via mare. Considero che
l’urgente necessità di tenere Tunisi, e, pertanto, l’afflusso di rifornimenti
nonostante la superiorità locale del nemico in mare e soprattutto in aria,
richieda l’uso senza restrizioni di tutte le unità navali, a prescindere da
operazioni future. Pertanto, non solo ritengo che l’impiego di incrociatori e
torpediniere italiane sia necessario per compiti di trasporto, ma anche quello
di cacciatorpediniere. Anche il più piccolo quantitativo di rifornimenti che
raggiungerà l’Africa è della massima importanza per le truppe che combattono in
Tunisia”. Riccardi ed Ambrosio risposero che la Marina italiana aveva
sostenuto fino a quel momento grandissimi sacrifici, e che la parte superstite
della flotta sarebbe stata necessaria per contrastare un attacco contro le
isole e contro l’Italia continentale; la decisione definitiva sull’impiego
delle forze navali per il mantenimento di Tunisi era demandata a Mussolini.
L’ammiraglio Ruge, dietro pressione dei suoi superiori di Berlino, tentò di
convincere Riccardi ad impiegare anche gli incrociatori per il trasporto di
rifornimenti in Tunisia, ma senza successo. Il 6 maggio l’ammiraglio Riccardi
scrisse una lettera personale al suo omologo tedesco, grande ammiraglio Karl
Dönitz, nella quale sottolineava i tremendi sacrifici sostenuti dalla Marina
mercantile e militare italiana per rifornire le truppe operanti in Africa, ed
evidenziava come la superiorità nemica sul mare, ma soprattutto nell’aria,
avesse vanificato tutti gli sforzi. L’Italia ora fronteggiava nuove minacce per
le quali era necessario che la Marina mantenesse almeno un minimo di capacità
difensiva sul mare; non si poteva pertanto esporre i pochi incrociatori ed
unità sottili rimaste a distruzione certa. Lo stesso giorno il generale
Ambrosio inviò a Dönitz un telegramma di simile tenore: “L’ammiraglio Riccardi ha già risposto al telegramma che le aveva
inviato il 3 maggio, e che è lo stesso inviato a me; sono d’accordo con tutto
ciò che ha dichiarato l’ammiraglio Riccardi, vorrei aggiungere che il Comando
Supremo delle Forze Armate Italiane non può ignorare la possibilità di future
operazioni offensive mirate direttamente contro l’Italia nel considerare
l’impiego di tutte le armi disponibili”.
L’8 maggio, Dönitz
rispose a Riccardi con il seguente telegramma: “Signore, la ringrazio per la sua lettera del 6 maggio (…) Desidero esprimere il mio apprezzamento e la
mia risposta come segue: 1) La Marina tedesca è pienamente al corrente
dell’importante impiego, l’eroica lotta, e le pesanti perdite della Regia
Marina Italiana nella battaglia per il Nordafrica [che è] strategicamente così importante. Confido che
la storia registrerà questa battaglia nella sua piena grandezza. È stato nel
pieno apprezzamento della difficoltà di tale compito che vi avevo al tempo
richiesto di permettere la partecipazione della Marina tedesca nella battaglia
per il Nord Africa in fresca e determinata cooperazione. 2. La questione di
quanto a lungo le nostre truppe in Nordafrica possano continuare a resistere al
nemico dipenda da quantià relativamente ridotte di rifornimenti. La loro
perseveranza, tuttavia, è della massima importanza strategica, perché sopra
ogni cosa essa turberà i piani futuri del nemico. D’altra parte, le forze
navali a disposizione delle forze dell’Asse non potrebbero impedire sbarchi in
altri punti per via della forza notevolmente superiore del nemico. Per contro,
esse potevano, e possono ancora, giocare un ruolo decisivo nel sostegno alla
testa di ponte tunisina, perché ogni successo ottenuto nei tentativi di
rifornimento è estremamente più importante dell’attività di pattugliamento ed
offensiva nel Mediterraneo occidentale, dove non è possibile ottenere un
successo decisivo per via della superiorità del nemico; per questo motivo sono
convinto anche adesso che ogni imbarcazione disponibile debba essere destinata
al rifornimento della Tunisia, ed ho disposto in tal senso per le operazioni
delle forze tedesche. Fintanto che ci sarà un singolo soldato delle forze
dell’Asse che combatte in Nordafrica, non dobbiamo piantarlo in asso (…)”. Il
diario operativo della divisione operazioni dello Stato Maggiore della
Kriegsmarine commentava intanto: “In
questa lettera [di Riccardi, del 6 maggio] il rifiuto di impiegare le ultime unità leggere rimaste alla Marina
italiana è difeso. Tutti i tentativi intrapresi dai tedeschi a questo proposito
sono falliti. Il Comando tedesco ha sempre mantenuto costantemente in vista il
suo obbligo di lealtà verso le truppe che combattono ad oltranza in Tunisia e
soprattutto la necessità strategica di rimandare il più a lungo possibile la
caduta della Tunisia, mentre l’Italia si ritrova a fronteggiare una minaccia
diretta alla madrepatria, e non si aspetta più un esito favorevole della
campagna tunisina”.
Sta di fatto che dopo
il Lampo nessun cacciatorpediniere
partì più per la Tunisia in missioni di trasporto. Nei giorni seguenti
salparono invece per Tunisi e Biserta quattro piccoli convogli di navi
mercantili, scortati da torpediniere: tre furono distrutti prima di arrivare a
destinazione; il quarto raggiunse la Tunisia ma le due navi che lo componevano
– motonave Belluno e torpediniera Tifone – furono gravemente danneggiate
dagli attacchi aerei in porto, e non poterono più tornare in Italia. Il 7
maggio caddero Tunisi e Biserta, e sei giorni dopo le ultime forze dell’Asse in
Tunisia si arrendevano, ponendo fine alla campagna africana.
Su 213 uomini
imbarcati sul Lampo, 59 (secondo
un’altra fonte, 60) avevano perso la vita; i 144 (o 143) sopravvissuti, tra cui
il comandante Albanese e tutti gli ufficiali, vennero tratti in salvo da
imbarcazioni a motore subito inviate sul posto da Kelibia.
Nei due “affondamenti”
del Lampo, nell’aprile del 1941 ed in
quello del 1943, erano morti in tutto 201 tra sottufficiali e marinai:
l’equivalente di un intero equipaggio era perito su questo cacciatorpediniere.
Le vittime del secondo affondamento:
Giovanni Allegretti, marinaio cannoniere,
disperso
Antonino Artipo, marinaio, disperso
Strato Assante, marinaio, disperso
Giuseppe Balsamo, marinaio, disperso
Pietro Barbieri, capo radiotelegrafista di
terza classe, disperso
Giuseppe Bella, marinaio, disperso
Emanuele Bracco, marinaio fuochista, disperso
Stefano Campagna, sottocapo cannoniere,
disperso
Agostino Castagneri, marinaio cannoniere,
disperso
Luigi Cataldi, sottocapo silurista, disperso
Luigi Cercaci, marinaio fuochista, disperso
Carlo Cioffi, marinaio cannoniere, disperso
Libero Contelli, marinaio fuochista, disperso
Igino Nevio Cosmini, marinaio fuochista,
disperso
Pasquale Cuomo, marinaio, disperso
Vincenzo D’Urso, marinaio, disperso
Flaviano De Angelis, sergente silurista,
disperso
Concezio Del Monaco, sottocapo segnalatore,
disperso
Francesco Donato, marinaio S.D.T., disperso
Lamberto Dubini, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Esposito, marinaio cannoniere,
disperso
Felice Fasciglione, sottocapo cannoniere,
deceduto
Virgilio Ferrari, sottocapo cannoniere,
disperso
Natale Fornari, sottocapo cannoniere, disperso
Vincenzo Fusco, marinaio fuochista, disperso
Francesco Galeone, marinaio fuochista,
disperso
Alfredo Hausmann, marinaio segnalatore,
disperso
Michele Iacovitti, marinaio elettricista,
disperso
Antonio Lo Perfido, capo radiotelegrafista di
seconda classe, disperso
Nicola Lucarelli, marinaio fuochista, disperso
Gennaro Marsico, marinaio fuochista, disperso
Giulio Micozzi, marinaio elettricista,
disperso
Armando Migliaccio, sottocapo segnalatore,
disperso
Francesco Rocco Miri, marinaio, disperso
Giuseppe Muoio, marinaio cannoniere, disperso
Cesare Patania, capo meccanico di terza
classe, disperso
Silvio Patella, sottocapo radiotelegrafista,
disperso
Antonino Pecoraino, marinaio cannoniere,
disperso
Condino Perrotta, marinaio cannoniere,
deceduto
Lorenzo Puleo, sergente cannoniere, disperso
Salvatore Puleo, marinaio, deceduto
Vito Rafanelli, marinaio, disperso
Francesco Raiteri, sottocapo elettricista,
disperso
Bruno Ramera, marinaio fuochista, disperso
Fausto Sabene, marinaio elettricista, disperso
Gino Salviati, marinaio cannoniere, disperso
Silvano Saviozzi, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Sergi, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Solesin, marinaio cannoniere,
disperso
Aniello Somma, marinaio, disperso
Pantaleo Spagnoletti, marinaio, disperso
Antonio Speranza, sergente cannoniere,
disperso
Vincenzo Tarallo, marinaio fuochista, disperso
Gennaro Troise, marinaio, disperso
Valerio Valleri, secondo capo S.D.T., disperso
Guerrino Vecchiet, secondo capo
radiotelegrafista, disperso
Francesco Zaccaria, marinaio, disperso
Elio Zegna, marinaio cannoniere, disperso
Il marinaio cannoniere puntatore mitragliere Vincenzo Amato, nato a Boscoreale il 1° ottobre 1921: imbarcato sul Lampo all’epoca dell’affondamento, fu dichiarato disperso in data 10 maggio 1943, ma era stato in realtà catturato dai britannici. Portato in prigionia in Inghilterra, qui si sposò e si trasferì nel dopoguerra (fam. Amato, via Vincenzo Marasco)
Sopra,
cronologia degli imbarchi di Chiaffredo Gallo, e sotto, in versione autografa
Cronologia
delle missioni del Lampo durante il
periodo di imbarco di Chiaffredo Gallo:
L’attestato di conferimento della Croce al Merito di Guerra a Chiaffredo Gallo… |
…e quello del distintivo del periodo bellico 1940-1943. |
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio
Antonino Artipo, nato a Nizza di Sicilia l’8 giugno 1919:
"Destinato a complesso binato di
cacciatorpediniere che nel corso di navigazione isolata per trasporto esplosivi
in Africa Settentrionale impegnava aspro combattimento contro numerosi aerei
che con bombe e mitragliamenti causavano ingenti danni e perdite umane, pur
gravemente ferito, con stoico slancio ritornava al suo posto di combattimento.
Colpita irrimediabilmente l’unità, scompariva in mare con essa.
(Canale di Sicilia, 30 aprile 1943)".
Il relitto del Lampo, adagiato su un fianco a profondità
compresa tra i 70 ed i 90 metri in posizione 36°50’ N e 11°15’ E (11 km ad est
di Kelibia), è stato localizzato nel 2007 dalla spedizione italiana "Altair
2007", capeggiata dal fotografo subacqueo Andrea Ghisotti e dallo storico
Pietro Faggioli. Il relitto appare molto danneggiato, e sono ancora presenti a
bordo abbondanti quantità di munizioni che costituivano il suo carico.
Ulteriori
esplorazioni del suo relitto, rimandate alla spedizione "Altair 2008"
programmata per l’anno successivo, sono state però annullate in seguito
all’improvvisa malattia che colpì Ghisotti e che avrebbe portato, di lì a due
anni, alla sua morte.
Il relitto del Lampo risulterebbe essere stato
esplorato per la prima volta da subacquei francesi e tunisini nel 2009/2010.