Il Turbine a metà anni Trenta (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Cacciatorpediniere
capoclasse della classe omonima (dislocamento standard di 1220 tonnellate, in
carico normale 1560 tonnellate, a pieno carico 1715 tonnellate).
La classe Turbine
rappresentò l’evoluzione finale del concetto di cacciatorpediniere nato con la
classe Sella e perfezionato poi con la classe Sauro: composta da otto
cacciatorpediniere, tutti battezzati con nomi di venti o di fenomeni
meteorologici, fu ordinata con i programmi navali del 1923/1924 (prime quattro
unità) e del 1924/1925 (altre quattro), mentre i Sauro erano ancora in
costruzione, al fine di aumentare il numero di cacciatorpediniere moderni della
Regia Marina. Progettati dai cantieri Odero di Sestri Ponente, i Turbine
vennero impostati nel 1925 e completati tra l’agosto del 1927 (Turbine, unità capoclasse) ed il giugno
1928 (l’Ostro, ultima unità). Tutti
furono costruiti da cantieri genovesi: Turbine
ed Aquilone dai cantieri Odero, Euro e Nembo dai Cantieri del Tirreno di Riva Trigoso, gli altri quattro
dai cantieri Ansaldo di Sestri Ponente.
Simili nell’aspetto e
nelle caratteristiche ed identici nell’armamento, sia artiglieresco che
silurante, alla precedente classe Sauro, da cui erano derivati, i Turbine ne
differivano per una maggiore lunghezza (tre metri in più: 93,2-93,7 metri contro
i 90,2-93,7 dei Sauro), raggiungendo un dislocamento a pieno carico di 1780
tonnellate (1670 o 1715 secondo altre fonti); il dislocamento in carico normale
era invece di 1560 tonnellate, quello standard di 1210 o 1220 (altra fonte
parla di 1073 o 1090 tonnellate, mentre secondo un’altra questo sarebbe stato
il dislocamento standard di progetto, mentre quello effettivo risultò di 1220),
cinquanta (o 80, o 150, a seconda delle fonti) in più rispetto ai Sauro; la
larghezza era di 9,20 metri, il pescaggio di 3,64-3,9.
L’allungamento dello
scafo rispetto alle classi precedenti si era reso necessario per ricavare lo
spazio occorrente ad ospitare un apparato motore più potente (di circa il 10 %
rispetto a quello dei Sauro) in modo da ottenere una velocità superiore di un
nodo rispetto ai Sauro ed ai Sella (anche le forme dello scafo derivate da
questo allungamento avrebbero contribuito all’aumento della velocità).
Un’altra immagine del Turbine (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
L’apparato motore dei
Turbine (due gruppi di turbine a vapore Parsons su due assi, alimentati da tre
caldaie Thornycroft), della potenza
di 40.000 HP (alle prove furono superati i 45.000), consentiva una velocità
massima variabilmente indicata in 31, 33 o 36 nodi. Alle prove in mare,
effettuate con dislocamento medio di 1270 tonnellate (il 9 % in più rispetto a
quello dei Sauro), tutte le navi della classe superarono i 36 nodi previsti dal
contratto (la meno veloce raggiunse i 38,4 nodi), secondo alcune fonti questa sarebbe
stata una velocità nominale, mentre in condizioni operative a pieno carico non
sarebbero stati superati i 33 nodi, ed entro il 1940 – a causa dell’età e
dell’intenso servizio negli anni Trenta – la velocità massima sarebbe calata a
circa 31 nodi. Anche l’autonomia era sensibilmente aumentata rispetto
alle classi precedenti, essendo di 3200 miglia a 14 nodi (contro le 2600 dei Sauro
e le 1800 dei Sella), 3800 miglia a 9 nodi e 660 miglia a 33 nodi (altre fonti
parlano invece di 2150 miglia a 15 nodi, 2700 miglia a 16 nodi o 3000 miglia a
20 nodi, dati che appaiono piuttosto contraddittori): ciò perché
l’ingrandimento dello scafo aveva consentito di aggiungere nuovi serbatoi laterali
(il che portò ad un aumento nel dislocamento in carico normale ed a pieno
carico) che potevano così contenere scorte d’acqua e di carburante maggiore
rispetto alle classi precedenti (446 tonnellate di carburante, rispetto a 250
sui Sella e 260 sui Sauro). Come i Sauro, i Turbine furono caratterizzati da
una tenuta del mare non eccelsa (anche se, secondo una fonte, leggermente
migliore rispetto a quella dei Sauro), che fu poi ulteriormente peggiorata
dall’installazione, nei primi anni Trenta, di una centrale di tiro di forma
cilindrica sopra la plancia. Al pari dei Sauro, i Turbine presentavano una
particolarità, per dei cacciatorpediniere, nell’avere un torrione di comando
leggermente corazzato.
Il Turbine al Pireo, nell’estate del 1942 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Domenico Jacono e www.associazione-venus.it) |
L’armamento era
composto da quattro cannoni OTO Mod. 1926 da 120/45 mm in impianti binati (i Turbine
furono gli ultimi cacciatorpediniere italiani ad imbarcare cannoni di questo
modello, sostituiti nelle classi successive dai più lunghi pezzi da 120/50 mm,
aventi maggiore gittata e cadenza di tiro), due o tre mitragliere singole
Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm antiaeree (due sulle ali di plancia ed una a
poppa) e sei tubi lanciasiluri da 533 mm in due impianti trinati, nonché due
tramogge per bombe di profondità. Successivamente (nei primi anni Trenta o nel
1939, a seconda delle fonti), una delle tre Vickers-Terni da 40/39 mm venne
rimossa, ed al suo posto vennero installate due mitragliere antiaeree da
13,2/76 mm in impianti singoli. Vi erano anche ferroguide per il trasporto e la
posa di 52 mine (secondo una fonte tedesca, forse basata sull’esame del Turbine dopo la cattura nel settembre
1943, la nave non avrebbe potuto però trasportare più di trenta mine senza
mettere a repentaglio la propria stabilità). I Turbine furono i primi
cacciatorpediniere ad avere due stazioni di direzione del tiro invece di una
sola: una era situata sopra la plancia, e l’altra a poppa, tra i due impianti
lanciasiluri. In teoria, ciò avrebbe dovuto permettere ai due complessi da
120/45 di ingaggiare contemporaneamente due bersagli diversi; nella pratica,
tuttavia, la stazione di direzione del tiro poppiera era troppo bassa sul mare,
il che ne limitava l’effettiva operatività.
Particolare delle sovrastrutture e dell’impianto binato prodiero da 120/45 del Turbine in una foto di Aldo Fraccaroli del settembre 1942 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
Nel 1930-1932 i cantieri
Ansaldo di Genova ed i Cantieri del Tirreno di Riva Trigoso costruirono per la
Marina turca due classi di due cacciatorpediniere ciascuna, la Tinaztepe e la
Kocatepe, derivate dalla classe Turbine.
In sostanza, i “Turbine”
furono considerati delle navi affidabili, ben riuscite e bilanciate nelle loro
caratteristiche, e rappresentarono un “gradino” di transizione tra le classi di
cacciatorpediniere sviluppate dalla Regia Marina nel primo dopoguerra e quelle
costruite negli anni Trenta; potevano considerarsi alla pari con i
cacciatorpediniere britannici e francesi costruiti nello stesso periodo. Dalla
classe Turbine i progettisti della Regia Marina derivarono successivamente la
classe Freccia (che ne riprese lo scafo, allungandolo ed allargandolo ulteriormente,
e l’armamento, che risultò identico salvo che per l’adozione di un modello più
moderno di cannone da 120 mm), che introdusse tuttavia importanti cambiamenti
rispetto alle classi precedenti, a partire dal fumaiolo, che divenne uno solo
(come per tutte le altre classi di cacciatorpediniere italiani costruite di lì
alla seconda guerra mondiale).
Le unità della classe
furono intensamente impiegate nella guerra civile spagnola, a contrasto del
contrabbando di rifornimenti per la Spagna repubblicana, affondando due
mercantili nel corso di queste missioni: lo spagnolo Conde de Abasolo (ad opera dell’Ostro)
ed il sovietico Timiryazev (ad opera
del Turbine).
Allo scoppio della
seconda guerra mondiale i Turbine, unità ormai non più giovani, risultavano
superati dai più veloci e meglio armati cacciatorpediniere costruiti negli anni
Trenta, il che non li rendeva più impiegabili con la flotta da battaglia, ma
conservavano ancora un discreto valore bellico per compiti di altro genere, a
partire dalla scorta ai convogli. Nei primi mesi del conflitto furono tutti
dislocati nelle basi cirenaiche di Tobruk e Bengasi, svolgendo attività di
scorta al traffico tra l’Italia e la Libia e di quello lungo le coste libiche,
oltre ad alcune azioni di bombardamento controcosta. L’Espero, il 28 giugno 1940, divenne il primo cacciatorpediniere
italiano ad essere affondato nella seconda guerra mondiale, sacrificandosi in
un impari scontro contro cinque incrociatori britannici per salvare due unità
consorelle; il resto della classe pagò duramente la sua dislocazione nelle
citate basi della Cirenaica, troppo esposte agli attacchi aerei britannici, che
fra il luglio ed il settembre 1940 vi affondarono Nembo, Ostro, Zeffiro, Borea ed Aquilone, oltre
a danneggiare gravemente l’Euro. Su nove
cacciatorpediniere persi dalla Regia Marina nel corso del 1940, ben sei
appartenevano alla classe Turbine: in quello che costituisce probabilmente un
vero record negativo, i tre quarti della classe finirono in fondo al mare nel
giro di poco più di tre mesi dall’entrata in guerra. Turbine ed Euro, unici
superstiti alla fine di quell’anno, sopravvissero viceversa ai successivi tre
anni di guerra contro gli Alleati, senza neanche subire danni gravi a dispetto
dell’intensa attività svolta; andarono perduti entrambi in seguito
all’armistizio dell’8 settembre 1943, sebbene in circostanze molto diverse.
All’inizio del
conflitto l’armamento antisommergibili e, soprattutto, antiaereo dei
cacciatorpediniere classe Turbine risultava piuttosto deficitario (il che sembra
essere confermato dal fatto che sette delle otto unità della classe andarono
perdute per attacco aereo); durante il conflitto Turbine ed Euro subirono quindi
un notevole potenziamento del loro armamento contraereo, con l’installazione di
otto mitragliere Breda da 20 mm in impianti binati al posto delle vecchie
mitragliere pesanti da 40/39 mm (vennero inoltre installati due lanciabombe per
bombe di profondità). Sul Turbine,
inoltre, nel 1942 l’impianto lanciasiluri poppiero venne sbarcato per fare
posto ad una mitragliera contraerea binata da 37/54 mm.
Scheda dedicata alla classe Turbine sul manuale di riconoscimento ONI 202 – Italian Naval Vessels, compilato nel 1942-1943 dal servizio d’intelligence della Marina statunitense. |
Durante la seconda
guerra mondiale, il Turbine svolse
principalmente attività di scorta convogli, dapprima (1940-1941) sulle rotte
della Libia e successivamente (1942-1943) su quelle dell’Egeo. Tra il 10 giugno
1940 e l’8 settembre 1943 effettuò complessivamente 216 missioni di guerra (146
di scorta convogli, 7 di caccia antisommergibili, 4 di bombardamento
controcosta, 4 di trasporto, 7 per esercitazioni, 40 di trasferimento, 8 di
altro tipo), percorrendo complessivamente 65.665 miglia nautiche e trascorrendo
6015 ore in mare e 143 giorni fermo per lavori. Abbatté in tutto, durante le
sue missioni di scorta a convogli, cinque aerosiluranti nemici.
Motto: “Paveant turbinem
hostes” (“il nemico tema il turbine”).
Breve e parziale cronologia.
24 marzo 1925
Impostazione presso i
cantieri Odero di Sestri Ponente (Genova).
21 aprile 1927
Varo presso i
cantieri Odero di Sestri Ponente. Madrina della nave è la signorina Ada Ravano.
Durante le successive
prove in mare, svolte con carico ridotto e sforzando l’apparato motore fino a
sviluppare una potenza di 51.214 HP, il Turbine
raggiunge la velocità massima di 39,6 nodi, che tuttavia non raggiungerà mai in
condizioni operative.
27 agosto 1927
Entrata in servizio.
1928-1929
È comandante del Turbine il capitano di fregata Lorenzo
Gasparri.
Lorenzo Gasparri (Napoli, 1894-1943), comandante del Turbine a fine anni Venti, qui in un riratto di epoca successiva, in divisa da ammiraglio (USMM) |
1929
Il Turbine risulta inquadrato nella II
Squadriglia della 1a Flottiglia Cacciatorpediniere, di base a La
Spezia, insieme ai gemelli Nembo, Euro ed Aquilone.
La II Squadriglia Cacciatorpediniere,
insieme alla I Squadriglia (composta dalle altre quattro unità della classe Turbine:
Espero, Ostro, Zeffiro, Borea) ed all’esploratore Leone, forma la 1a Flottiglia
Cacciatorpediniere, che con la 2a Flottiglia Cacciatorpediniere
(composta dalla III e IV Squadriglia Cacciatorpediniere, formate
rispettivamente dalle unità delle classi Sauro e Sella, e dall’esploratore Pantera) compone la I Divisione
Siluranti, avente per nave ammiraglia l’esploratore Quarto e facente parte della 1a Squadra Navale.
Nei primi anni Trenta
la II Squadriglia compie crociere addestrative nel Mediterraneo.
1929-1932
1931
Insieme ai gemelli Aquilone, Ostro e Borea ed
ai più anziani cacciatorpediniere Daniele
Manin e Giovanni Nicotera,
nonché all’esploratore Pantera,
il Turbine forma la 1a Flottiglia
Cacciatorpediniere, aggregata – insieme alla 2a Flottiglia
Cacciatorpediniere, formata da Tigre,
Nazario Sauro, Cesare Battisti, Francesco
Crispi e Quintino Sella – alla II
Divisione Navale dell’ammiraglio Romeo Bernotti (formata dall’esploratore Ancona e dai cacciatorpediniere Nembo, Euro, Espero e Zeffiro), inquadrata nella 1a Squadra
Navale.
1932
Il Turbine è tra le prime unità della Regia
Marina a ricevere una centralina di tiro del nuovo tipo «Galileo-Bergamini»,
ideato dal capitano di vascello Carlo Bergamini, comandante della I Squadriglia
Cacciatorpediniere di cui il Turbine
fa parte insieme a Nembo, Euro ed Aquilone.
Le navi della
squadriglia compiono un addestramento intensivo con la nuova centrale di tiro;
tale addestramento ha come il risultato la formazione di equipaggi esperti e
qualificati, e la decisione, visti i risultati positivi dell’impiego di tale
apparecchiatura, di imbarcare altre centraline di tiro «Galileo-Bergamini» su
numerose altre unità.
Nello stesso periodo
vengono anche migliorate le sistemazioni di bordo.
1934
Turbine, Euro, Nembo ed Aquilone formano la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere, che,
insieme alla IV Squadriglia (Ostro, Zeffiro, Espero e Borea), è
aggregata alla II Divisione Navale, composta dagli incrociatori pesanti Fiume e Gorizia ed inquadrata nella 1a Squadra Navale.
Squadra Navale alla fonda a Gaeta nel 1934-1935; le tre unità in alto a destra sono cacciatorpediniere classe Turbine (da www.associazione-venus.it) |
Maggio 1934
Il Turbine viene dislocato in Mar Rosso per
qualche tempo insieme al Nembo.
Durante la guerra
saudita-yemenita, il Turbine viene
inviato a Hodeida (Al-Hudayda), nello Yemen, per tutelare gli interessi
italiani nella zona, contesa tra l’Arabia Saudita e lo Yemen. Truppe irregolari
saudite sono giunte alle porte di Hodeida il 28 aprile, il che ha portato a timori
di disordini e saccheggi ai danni dei cittadini stranieri residenti nella città
(soprattutto commercianti indiani con le loro famiglie): per questo, il Regno
Unito ha inviato sul posto lo sloop Penzance
(successivamente affiancato dall’incrociatore leggero Enterprise), che ha sbarcato truppe a Hodeida per garantire il mantenimento
dell’ordine, ed ha evacuato tutti i sudditi britannici (circa 300)
trasferendoli nell’isola di Kamaran. Il 6 maggio Hodeida viene occupata da
truppe regolari dell’esercito saudita, che garantiscono anche il mantenimento
dell’ordine; molti dei cittadini stranieri evacuati nei giorni precedenti
tornano in città, i negozi riaprono.
Da parte italiana, proprio
il 6 maggio vengono inviati a Hodeida il posamine Azio, la nave oceanografica Ammiraglio
Magnaghi (al comando del capitano di
vascello Mario Bonetti, che comanda la formazione italiana) ed il piroscafo Cagliari, che sbarca a sua volta truppe
italiane, armate con fucili e due mitragliatrici. Tuttavia, apparendo la
situazione sotto controllo ed avendo anche i britannici già ritirato le proprie
truppe per evitare un coinvolgimento nel conflitto saudita-yemenita, già il 10
maggio le truppe vengono reimbarcate ed il Cagliari
lascia Hodeida, dove rimangono invece l’Azio
ed un piccolo posto di medicazione realizzato a terra. Successivamente giungono
a Hodeida anche Turbine e Nembo, inviati direttamente dall’Italia.
Il Turbine (capitano di corvetta Mario
Ranieri) giunge a Hodeida alle 22.30 del 12 maggio, mettendosi all’ancora
davanti al porto; alle 16.30 del 15 maggio il comandante Ranieri contatta il
comandante dell’HMS Enterprise,
ufficiale britannico più alto in grado, spiegando di essere partito da Gaeta l’8
maggio, con sole quattro ore di preavviso, con l’ordine di attraversare il Canale
di Suez e dirigere a 18 nodi per Massaua, dove avrebbe ricevuto ulteriori
ordini prima di proseguire per Hodeida. Giunto a Massaua, tuttavia, gli è stato
accordato soltanto il tempo strettamente necessario per rifornirsi di
carburante, dopo di che è stato spedito a Hodeida senza aver ricevuto alcuna
istruzione ulteriore, venendosi così a trovare nella totale ignoranza della
situazione a terra. Il Nembo, unità
caposquadriglia, è salpato da Gaeta un giorno dopo il Turbine, e giunge a sua volta a Hodeida all 18 del 15 maggio. Entrambi
i cacciatorpediniere sono stati inviati in Yemen dal Ministero della Marina, su
richiesta del Ministero delle Colonie.
Nei giorni seguenti,
la situazione a Hodeida ritorna gradualmente alla normalità: in seguito ad un
accordo tra Yemen ed Arabia Saudita (sono infatti iniziati i negoziati per il
raggiungimento di un accordo di pace, che sarà firmato a Taif il 14 giugno), le
truppe saudite si ritirano dalla città, che torna sotto controllo yemenita. Il Turbine lascia Hodeida, diretto a
Massaua, alle 00.15 del 18 maggio.
Ottobre-Novembre 1936
Il Turbine, insieme ai gemelli Nembo e Borea ed ai cacciatorpediniere Dardo
e Saetta, svolge missioni di
vigilanza nel Canale di Sicilia durante la guerra civile spagnola (in
cooperazione con altre unità navali e mezzi aerei), per sorvegliare il traffico
di mercantili sovietici che trasportano rifornimenti dal Mar Nero ai porti
della Spagna repubblicana. Questa attività di vigilanza è stata decisa
dall’Ufficio di Stato Maggiore della Regia Marina il 27 ottobre, con un ordine
al Comando Marina Messina di iniziare crociere nel Canale di Sicilia per
controllare il
passaggio dei mercantili che potrebbero essere diretti ai porti spagnoli con carichi di
truppe e materiale bellico. Questa decisione è stata presa anche in seguito alla divulgazione, da parte di un’agenzia stampa internazionale (e contro espresso divieto del governo francese), di una notizia secondo cui l’Unione Sovietica si starebbe apprestando ad inviare in Spagna, con un convoglio di 27 bastimenti in partenza dal Mar Nero, un intero corpo di spedizione dell’Armata Rossa, forte di 20.000 uomini completamente equipaggiati. La notizia è falsa, ma le voci che circolano in campo repubblicano e le notizie provenienti dalle autorità britanniche a Gibilterra inducono a ritenerla veritiera, a tal punto che il 29 ottobre Francisco Franco, uno dei capi della fazione spagnola nazionalista (appoggiata dal regime fascista di Mussolini), scrive al generale Mario Roatta (comandante della missione italiana in Spagna) un’allarmata lettera indirizzata al governo italiano: «Questo corpo esercito russo per arrivare Spagna attraverso Mediterraneo, deve passare per gli stretti del sud Italia, dove può essere fermato dalla squadra italiana di mare et aria, obbligandolo ritornare indietro. Perciò est necessario et molto urgente ottenere l’aiuto marittimo italiano per evitare l’arrivo di materiali da guerra nei nostri porti e, ciò che est più importante et efficace, lo sbarco di eserciti organizzati. Ritardo nella prestazione quest’aiuto marittimo permetterebbe arrivo, in breve tempo, di gran numero di truppe et di materiali da guerra con tutte le sue possibili gravissime conseguenze. Di fronte questi fatti, in parte già consumati [?], occorre conoscere fino a che punto arriverà l’aiuto della nazione italiana poiché le nostre [possibilità], non si estendono alla lotta contro l’esercito russo in massa, che nel mare può essere facilmente battuto e che, sbarcato crea un gravissimo problema. Conviene segnalare l’estrema urgenza di queste notizie perché a Codesto Governo certo non sfugge che se questi vapori dovessero dare luogo ad una lotta aperta et dichiarata contro la Russia, non conviene permettere che detta nazione prenda dei vantaggi et collochi strategicamente i suoi corpi di esercito et armate aeree, facendo uso, tra le altre, di una base tanto forte et bene difesa come Cartagena, luogo fino ad ora preferito dai Russi per lo sbarco loro materiale da guerra. Si prega una urgente risposta». Parlando con Franco, Roatta esprime dubbi sull’attendibilità della notizia dell’invio di un corpo di spedizione sovietico; anche il futuro dittatore spagnolo è concorde in merito, ma afferma di ritenere che l’Unione Sovietica è “troppo direttamente interessata” all’esito della guerra civile spagnola, tanto da essere pronta a “compiere atti normalmente incredibili” per garantire la vittoria ai repubblicani, anche “a costo di provocare una grande guerra”. Il 6 novembre il tenente colonnello dell’Esercito Foglione, addetto militare ad Istanbul, trasmette al Servizio Informazioni Militari (il servizio segreto del Regio Esercito) un telegramma sui movimenti delle navi sovietiche dal Mar Nero: «Transitati piroscafi russi diretti in Spagna: 27 ottobre scorso KOURSK 28 ottobre BLAGOEV 31 ottobre KOMSOMOL. Carico complessivo: 110 autocarri, 24 carri armati, 14 cannoni, 9 aeroplani, 3200 tonnellate munizioni, 5000 derrate, 250 vestiario. 1° novembre TIMIRIAZEV carico automezzi. 3 novembre SOYUZVODNIKOV con 10 000 tonnellate benzina».
passaggio dei mercantili che potrebbero essere diretti ai porti spagnoli con carichi di
truppe e materiale bellico. Questa decisione è stata presa anche in seguito alla divulgazione, da parte di un’agenzia stampa internazionale (e contro espresso divieto del governo francese), di una notizia secondo cui l’Unione Sovietica si starebbe apprestando ad inviare in Spagna, con un convoglio di 27 bastimenti in partenza dal Mar Nero, un intero corpo di spedizione dell’Armata Rossa, forte di 20.000 uomini completamente equipaggiati. La notizia è falsa, ma le voci che circolano in campo repubblicano e le notizie provenienti dalle autorità britanniche a Gibilterra inducono a ritenerla veritiera, a tal punto che il 29 ottobre Francisco Franco, uno dei capi della fazione spagnola nazionalista (appoggiata dal regime fascista di Mussolini), scrive al generale Mario Roatta (comandante della missione italiana in Spagna) un’allarmata lettera indirizzata al governo italiano: «Questo corpo esercito russo per arrivare Spagna attraverso Mediterraneo, deve passare per gli stretti del sud Italia, dove può essere fermato dalla squadra italiana di mare et aria, obbligandolo ritornare indietro. Perciò est necessario et molto urgente ottenere l’aiuto marittimo italiano per evitare l’arrivo di materiali da guerra nei nostri porti e, ciò che est più importante et efficace, lo sbarco di eserciti organizzati. Ritardo nella prestazione quest’aiuto marittimo permetterebbe arrivo, in breve tempo, di gran numero di truppe et di materiali da guerra con tutte le sue possibili gravissime conseguenze. Di fronte questi fatti, in parte già consumati [?], occorre conoscere fino a che punto arriverà l’aiuto della nazione italiana poiché le nostre [possibilità], non si estendono alla lotta contro l’esercito russo in massa, che nel mare può essere facilmente battuto e che, sbarcato crea un gravissimo problema. Conviene segnalare l’estrema urgenza di queste notizie perché a Codesto Governo certo non sfugge che se questi vapori dovessero dare luogo ad una lotta aperta et dichiarata contro la Russia, non conviene permettere che detta nazione prenda dei vantaggi et collochi strategicamente i suoi corpi di esercito et armate aeree, facendo uso, tra le altre, di una base tanto forte et bene difesa come Cartagena, luogo fino ad ora preferito dai Russi per lo sbarco loro materiale da guerra. Si prega una urgente risposta». Parlando con Franco, Roatta esprime dubbi sull’attendibilità della notizia dell’invio di un corpo di spedizione sovietico; anche il futuro dittatore spagnolo è concorde in merito, ma afferma di ritenere che l’Unione Sovietica è “troppo direttamente interessata” all’esito della guerra civile spagnola, tanto da essere pronta a “compiere atti normalmente incredibili” per garantire la vittoria ai repubblicani, anche “a costo di provocare una grande guerra”. Il 6 novembre il tenente colonnello dell’Esercito Foglione, addetto militare ad Istanbul, trasmette al Servizio Informazioni Militari (il servizio segreto del Regio Esercito) un telegramma sui movimenti delle navi sovietiche dal Mar Nero: «Transitati piroscafi russi diretti in Spagna: 27 ottobre scorso KOURSK 28 ottobre BLAGOEV 31 ottobre KOMSOMOL. Carico complessivo: 110 autocarri, 24 carri armati, 14 cannoni, 9 aeroplani, 3200 tonnellate munizioni, 5000 derrate, 250 vestiario. 1° novembre TIMIRIAZEV carico automezzi. 3 novembre SOYUZVODNIKOV con 10 000 tonnellate benzina».
In totale, tra il 28
ottobre ed il 16 novembre 1937 la Regia Marina impiega quattro incrociatori,
otto cacciatorpediniere e sei unità minori della 1a Squadra Navale
nelle crociere di vigilanza nel Canale di Sicilia. Queste navi effettuano in
tutto 32 missioni, sottoponendo a controllo e riconoscimento 51 bastimenti, in
cooperazione (da inizio novembre) con reparti aerei posti alle dipendenze della
Marina e stanziati nella base di Stagnoni.
Durante queste
missioni, mirate a tenere sotto controllo i movimenti delle navi sovietiche che
attraversano il Canale di Sicilia dirette verso ovest, vengono avvistate
numerose navi di diverse nazionalità con rotta verso ovest, tra cui il
piroscafo sovietico Komsomol, sul cui
ponte vengono visti dei grandi e lunghi cassoni che, secondo l’apprezzamento
italiano, contengono carlinghe ed ali di grossi aerei.
Il Turbine nel 1936 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
26 novembre 1936
Il Turbine partecipa ad una rivista
navale tenuta nel Golfo Napoli in onore del reggente d’Ungheria, ammiraglio
Miklós Horthy.Cacciatorpediniere classe Turbine durante la rivista navale del 26 novembre 1936 nel Golfo di Napoli (foto Vittorio Vaccà, via Coll. Alessandro Burla e www.associazione-venus.it) |
Durante la guerra
civile spagnola il Turbine partecipa,
con altre unità (incrociatori leggeri Luigi
Cadorna ed Armando Diaz,
cacciatorpediniere Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea, torpediniere Cigno, Climene, Centauro, Castore, Altair, Aldebaran, Andromeda, Antares) al blocco del Canale di Sicilia, per impedire l’invio di
rifornimenti dall’Unione Sovietica (Mar Nero) alle forze repubblicane spagnole.
Mussolini ha preso tale decisione a seguito di richieste da parte dei comandi
spagnoli nazionalisti, i quali sostengono, esagerando di molto, che l’Unione
Sovietica stia per rifornire le forze repubblicane spagnole con oltre 2500 carri
armati, 3000 “mitragliatrici motorizzate” e 300 aerei. Il 3 agosto Francisco
Franco ha chiesto urgentemente a Mussolini di usare la sua flotta per fermare
un grosso “convoglio” sovietico appena partito da Odessa e diretto nei porti
repubblicani; sulle prime era previsto il solo impiego di sommergibili, ma
Franco è riuscito a convincere Mussolini ad impiegare anche le navi di
superficie. Nel suo telegramma Franco afferma: «Tutte le informazioni degli ultimi giorni concordano nell’annunciare un
aiuto possente della Russia ai rossi, consistente in carri armati, dei quali 10
pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri (sic), 3 000 mitragliatrici motorizzate, 300 aerei e alcune decine di
mitragliatrici leggere, il tutto accompagnato da personale e organi del comando
rosso. L’informazione sembra esagerata, poiché le cifre devono superare la
possibilità di aiuto di una sola nazione. Ma se l’informazione trovasse
conferma, bisognerebbe agire d’urgenza e arrestare i trasporti al loro
passaggio nello stretto a sud dell’Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna.
Per far ciò, bisogna, o che la Spagna sia provvista del numero necessario di
navi o che la flotta italiana intervenga ella stessa. Un certo numero di
cacciatorpediniere operanti davanti ai porti e alle coste dell’Italia potrebbe
sbarrare la rotta del Mediterraneo ai rinforzi rossi: la cattura potrebbe
essere effettuata da navi battenti apertamente bandiera italiana, aventi a
bordo un ufficiale e qualche soldato spagnolo, che isserebbero la bandiera
nazionalista spagnola al momento stesso della cattura. Invierò d’urgenza
un rappresentante a Roma per negoziare questo importante affare.
Nell’intervallo, e per impedire l’invio delle navi che saranno già in rotta per
la Spagna, prego il governo italiano di sorvegliare e segnalare la posizione e
la rotta delle navi russe e spagnole che lasciano Odessa. Queste navi devono
essere sorvegliate e perquisite da cacciatorpediniere italiani che segnaleranno
la loro posizione alla nostra flotta. Vogliate trasmettere in tutta
urgenza al Duce e a Ciano l’informazione di cui sopra e la nostra richiesta,
unita all’assicurazione dell’indefettibile amicizia e della riconoscenza del
generalissimo alla nazione italiana».
Il blocco navale
viene ordinato da Roma il 7 agosto ed ha inizio due giorni più tardi; oltre ai
sommergibili, inviati sia al largo dei Dardanelli che lungo le coste della
Spagna, prendono in mare gli incrociatori Diaz e Cadorna,
otto cacciatorpediniere (tra cui il Turbine)
ed altrettante torpediniere che si posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le
coste del Nordafrica francese. Cacciatorpediniere e torpediniere operano in
cooperazione con quattro sommergibili ed un sistema di esplorazione aerea a
maglie strette (idrovolanti dell’83° Gruppo Ricognizione Marittima, di base ad
Augusta) e sono alle dipendenze dell’ammiraglio di divisione Riccardo Paladini,
comandante militare marittimo della Sicilia; successivamente verranno
avvicendati da altre siluranti e dalla IV Divisione Navale (incrociatori
leggeri Armando Diaz, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna, Bartolomeo Colleoni). Sono complessivamente ben 40 le navi
mobilitate per il blocco: i quattro incrociatori della IV Divisione,
l’esploratore Aquila, dieci
cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Lampo, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea),
24 torpediniere (Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La Masa, Generale Carlo Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba, Generale Achille Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe Missori e Monfalcone) e la nave coloniale Eritrea. Altre due navi, gli
incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta, camuffati da spagnoli Lago e Rio, hanno l’incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati
dalle navi da guerra in crociera.
Il dispositivo di
blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all’Alto
Comando Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di
operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle
in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all’uscita dei
Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono
segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di Sicilia
e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche questo
nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali) troverebbero
ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della Tunisia e
dell’Algeria. Infine, come ultima barriera per i bastimenti che riuscissero ad
eludere anche tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato lungo le coste
della Spagna.
In base all’ordine
generale d’operazioni numero 1, gli incrociatori, l’Eritrea e parte dei cacciatorpediniere devono compiere
esplorazione pendolare sul meridiano 16° E, cooperando con gli aerei da
ricognizione che conducono esplorazione sistematica per parallelo; altri
cacciatorpediniere formano uno sbarramento esplorativo tra Lampedusa e le
propaggini meridionali del banco di Kerkennah (nei pressi di Sfax), mentre le
torpediniere conducono esplorazione a rastrello tra Pantelleria e Malta, lungo
l’asse del Canale di Sicilia. Adriatico/Lago e Barletta/Rio compiono
esplorazione a triangolo presso Capo Bon; Aquila, Fabrizi, Missori, Montanari, Monfalcone, Nievo, Papa e La Masa compiono
vigilanza sistematica nello stretto di Messina. Il blocco si protrae dal 7
agosto al 12 settembre con intensità variabile; nel periodo di maggiore
attività sono contemporaneamente in mare nel Canale di Sicilia 12 navi di
superficie, 5 sommergibili e 6 aerei. Gli ordini per le navi di superficie sono
di avvicinare e riconoscere tutti i mercantili avvistati, specialmente quelli
privi di bandiera (e che non la issano subito dopo averne ricevuto
l’intimazione dalle unità italiane), quelli che di notte procedono a luci
spente, quelli con bandiera sovietica o spagnola repubblicana, quelli che hanno
in coperta carichi di natura palesemente militare, e quelli che sono stati
specificamente indicati per nome dal Comando Centrale. Se un mercantile viene
riconosciuto come al servizio della Spagna repubblicana, la nave italiana che
l’ha avvistato deve seguirlo e segnalarlo al sommergibile più vicino, che dovrà
poi procedere ad affondarlo. Se quest’ultimo fosse impossibilitato a farlo,
spetterebbe alla nave di superficie il compito di seguire il mercantile fino a
notte, tenendosi in contatto visivo, per poi silurarlo una volta calata
l’oscurità. I piroscafi identificati come “contrabbandieri” di notte devono
invece essere subito affondati. Se venisse incontrato un mercantile
repubblicano a grande distanza dalle acque territoriali della Tunisia, la nave
che lo avvista deve chiamare sul posto uno tra Rio e Lago oppure
una nave da guerra spagnola nazionalista (parecchie di queste sono
appositamente dislocate nel Mediterraneo centrale) che provvederanno a
catturarlo. Ordini tassativi sono emanati per evitare interferenze o incidenti
con bastimenti neutrali (il che talvolta obbliga a seguire un mercantile
“sospetto” per tutto il giorno al fine di identificarlo, dato che talvolta
quelli diretti nei porti repubblicani usano bandiere false), e questo, insieme
all’intensità del traffico navale nel Canale di Sicilia, rende piuttosto
complessa e delicata la missione delle navi che partecipano al blocco.
Nei primi giorni del
blocco sono particolarmente attivi i cacciatorpediniere di base ad Augusta.
Dopo i primi successi, però, ci si rende conto che il sistema di vigilanza nel
Canale di Sicilia non funziona come dovrebbe: diversi piroscafi al servizio dei
repubblicani lo aggirano avvicinandosi di giorno ai settori in cui incrociano
le navi italiane, aspettando il buio per entrare nelle acque territoriali della
Tunisia e poi attraversare la zona di maggior pericolo seguendo la costa, o
sostando nei porti francesi in attesa dell’alba. Di conseguenza, il Comando
della Regia Marina dispone delle crociere di cacciatorpediniere nella fascia
costiera compresa tra 10 e 30 miglia dalla costa tunisina tra Capo Tenes e La Galite,
per completare il dispositivo esistente intensificando la sorveglianza nel
Canale di Sardegna. Il Turbine (insieme
ad Euro, Da Recco, Pancaldo, Ostro e Zeffiro) è uno dei cacciatorpediniere
adibiti a queste missioni, della durata di tre giorni, operando in sezione con
il Pancaldo o con l’Ostro e con base alternativamente a
Cagliari e Palma di Maiorca.
Siccome queste
crociere si svolgono in aree dov’è possibile che i cacciatorpediniere italiani
incontrino navi da guerra repubblicane, una sezione di incrociatori (a
turno, Attendolo-Eugenio di Savoia, Trento-Trieste, Attendolo-Bande Nere) viene tenuta
costantemente a Cagliari pronta ad intervenire in appoggio ai
cacciatorpediniere, in caso di scontro con superiori formazioni navali
repubblicane. Se i cacciatorpediniere dovessero invece incontrare piroscafi
riconosciuti come repubblicani (o al loro servizio) al di fuori delle acque
territoriali francesi, dovranno tenersi in contatto visivo fino al calar del
sole, dopo di che dovranno avvicinarsi col buio ed affondarlo con il siluro. In
caso di riconoscimento notturno, se l’identificazione risulterà inequivocabile,
dovranno affondarlo subito.
Il blocco navale così
organizzato (del tutto illegale, dato che l’Italia non è formalmente in guerra
con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi
effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche, l’elevato
rischio comportato dalla traversata a causa del blocco italiano porta in breve
tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica
alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera
britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche
navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona
col favore della notte. Entro settembre, l’invio di mercantili con rifornimenti
per i repubblicani dall’Unione Sovietica attraverso il Bosforo è praticamente
cessato, tanto che i comandi italiani si possono ormai permettere di ridurre di
molto il numero di navi in mare per la vigilanza, essendo quest’ultima sempre
meno necessaria e non volendo provare troppo le navi in una zona dove c’è
spesso maltempo con mare grosso. Ad ogni modo, le navi assegnate al blocco
vengono mantenute nelle basi siciliane, pronte a riprendere il mare qualora
dovesse manifestarsi una ripresa nel traffico verso la Spagna.
Oltre alla grave
crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si verifica proprio nel
momento cruciale della conquista nazionalista dei Paesi Baschi (principale
centro di produzione di armi tra le regioni in mano repubblicana), il blocco ha
un impatto notevole anche sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione
civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di procurarsi beni di
prima necessità) quanto nei vertici politico-militari, che si rendono conto di
come, mentre i nazionalisti ricevono dall’Italia supporto incondizionato,
persino sfacciato, con largo dispiego di mezzi, Francia e Regno Unito non
sembrano disposte a fare molto più che parlare in aiuto alla causa repubblicana
(in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte manifestazioni contro
queste due nazioni, da cui i repubblicani si sentono abbandonati).
Il blocco italiano
impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani, ma scatena anche gravi
tensioni internazionali (specie col Regno Unito) e feroci proteste sulla stampa
spagnola repubblicana ed internazionale, con accuse di pirateria – essendo,
come detto, un’operazione in totale violazione di ogni legge internazionale –
nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston Churchill. Il
governo britannico, invece, evita di accusare apertamente l’Italia, dato che il
primo ministro Neville Chamberlain intende condurre una politica di
“riavvicinamento” verso l’Italia per allontanarla dalla Germania; anche questo
fa infuriare i repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del
coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono già, dato
che l’Operational Intelligence Center dell’Ammiragliato intercetta e decifra
svariate comunicazioni italiane relative alle missioni “spagnole”), solo per
vedere questi ultimi fingere di attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti
spagnoli.
Nel settembre 1937
Francia e Regno Unito organizzeranno la Conferenza di Nyon per contrastare la
“pirateria sottomarina”: gli occhi di tutti sono puntati sull’Italia, anche se
questa non viene accusata direttamente (tranne che dall’Unione Sovietica,
ragion per cui l’Italia, sebbene invitata, rifiuta di partecipare alla conferenza).
Se ufficialmente i britannici non parlano apertamente di coinvolgimento
italiano, attraverso i canali diplomatici questi fanno pervenire al ministro
degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, l’irritazione per alcuni incidenti che
hanno coinvolto proprio navi britanniche (il cacciatorpediniere HMS Havock è stato attaccato, ancorché
senza risultato, dal sommergibile italiano Iride), ragion per cui il 12 settembre si decide di sospendere il
blocco per non incrinare le relazioni con il Regno Unito. Nel periodo 7
agosto-12 settembre, le navi italiane hanno avvicinato e identificato ben 1070
bastimenti mercantili, di svariate nazionalità. Da questo momento, sarà
incombenza unicamente della Marina franchista impedire che altri rifornimenti
raggiungano i porti repubblicani.
(g.c. Aldo Cavallini via www.naviearmatori.net) |
17 agosto 1937
Il Turbine e l’esploratore Leone Pancaldo tentano di intercettare
il piroscafo spagnolo repubblicano Aldecoa,
battende bandiera britannica, al largo della costa africana, ma il mercantile
riesce a sfuggire entrando nelle acque territoriali del Nordafrica francese,
seguendo poi la costa fino ad entrare nel porto di Algeri. Il Turbine riferisce di essere stato
attaccato con lancio di siluri.
In seguito alla fuga
dell’Aldecoa, per evitare che simili
episodi possano ripetersi in futuro, il Comando in capo della Regia Marina
ordinerà al capitano di vascello Giovanni Remedio Ferretti (capo della missione
navale italiana in Spagna) ed all’esploratore Quarto (nave ammiraglia delle forze navali italiane dislocate in
acque spagnole) di coordinarsi con le autorità spagnole nazionaliste affinché
gli incrociatori pesanti Canarias e Baleares intervengano tempestivamente per
intercettare i mercantili repubblicani avvistati tra Algeri ed Orano dalle navi
italiane, che sorvegliano quel tratto di costa ma nelle ore diurne non possono
intervenire per evitare di essere riconosciute.
28-29 agosto 1937
Il Turbine (capitano di corvetta Virginio
Rusca), in crociera di pattugliamento in sezione con l’Ostro, riceve ordine dal capitano di vascello Giuseppe Fioravanzo
(comandante delle forze navali impegnate nella vigilanza nel Canale di Sicilia,
con bandiera sull’esploratore Quarto)
di trovarsi per le sei del mattino del 29, insieme all’incrociatore ausiliario Rey Jaime I della Marina spagnola
nazionalista, a quindici miglia da Capo Matifou, seguendo poi la costa fino a
Bougie per intercettare e catturare il mercantile greco Alkatrin, sospettato di contrabbando di rifornimenti per i
repubblicani e segnalato dallo Stato Maggiore della Marina, il mattino del 28
agsto, quindici miglia a nordest di Capo De Garde (vicino a Bona).
L’Alkatrin viene fermato e catturato dal Rey Jaime I alle 12.40, dieci miglia a
nord di Capo Tenes, e condotto a Palma di Maiorca, dove arriverà a mezzogiorno
dell’indomani; i controlli qui effettuati, tuttavia, riveleranno che la nave,
il cui vero nome è Aikaterine I, è
regolarmente iscritta ai Lloyd’s Registers ed è in navigazione dalla Turchia
alla Norvegia con un carico di cromo e materiale colorante. Non essendo quindi
coinvolto nel traffico verso i porti repubblicani, il piroscafo viene lasciato
andare.
(da www.wrecksite.eu) |
30 agosto 1937
Verso le quattro del
pomeriggio (per altra fonte, le sei di sera) il Turbine (capitano di corvetta Virginio Rusca), durante una crociera
di pattugliamento tra Capo Tenes e La Galite in sezione con l’Ostro, intercetta al largo dell’Algeria (tra
Algeri e Capo Tenes) la motonave sovietica Timiryazev
(2151 tsl, di
proprietà della Sovietflot ed al comando del capitano A. A. Rydnyuk), partita
da Cardiff due settimane prima e diretta a Port Said con un carico di 2834
tonnellate di carbone (secondo altra fonte, invece, la Timiryazev aveva caricato il carbone a Liverpool, dov’era giunta
dal Mar Nero dopo aver fatto scalo intermedio a Le Havre). Il Turbine, identificata la Timiryazev come sovietica e stimata la
sua rotta come 283°, la segue per un po’, poi se ne va (portandosi fuori vista
ma continuando a tallonarla nelle restanti ore di luce), salvo riapparire
nuovamente al crepuscolo; calato poi il buio, il cacciatorpediniere si avvicina
al mercantile sovietico ed alle 21 lancia due siluri, che colpiscono la Timiryazev nella sala macchine (secondo
Francesco Mattesini, solo uno dei due siluri sarebbe andato a segno),
provocandone il rapido affondamento in posizione 36°57’ N e 03°58’ E, a cinque
miglia da Tigzirt (Algeria) e 74 miglia ad est di Algeri. Anche l’Ostro (capitano di corvetta Teodorico
Capone) lancia un siluro contro il mercantile sovietico, ma senza colpire. L’intero
equipaggio – 26 uomini e tre donne o 35 uomini e due donne, a seconda delle
fonti – riesce ad abbandonare la nave prima che questa affondi, venendo tratto
in salvo da un peschereccio algerino che rimorchia la loro scialuppa a Dellys
(Algeria), dove giungono verso l’una di notte del 31 agosto.
La Timiryazev è l’unica nave sicuramente
“sospetta” ad essere stata intercettata dai cacciatorpediniere italiani durante
le crociere di cacciatorpediniere in acque tunisine ordinate dal Comando della
Regia Marina. In realtà, tuttavia, non stava trasportando rifornimenti destinati
alla Spagna repubblicana, essendo in navigazione da Cardiff a Port Said (altra
fonte, non verificabile, afferma invece che fosse effettivamente impiegata nel
traffico di rifornimenti per la Spagna repubblicana, e che avesse a bordo un
carico di materiale bellico destinato alle forze repubblicane).
L’equipaggio
sovietico ha avuto modo di distinguere la bandiera e la sigla identificativa
della nave attaccante, la cui identità viene ben presto denunciata da vari
giornali: sebbene, stranamente, i primi articoli parlino di un attacco ad opera
di un sommergibile, già il 1° settembre il corrispondente ad Algeri del “Daily
Herald” scrive che il comandante della Timiryazev
ha dichiarato che “dopo aver superato lo
stretto di Gibilterra, un cacciatorpediniere italiano con la sigla T.B. ha
compiuto un giro attorno a noi, dopo di che la nave è stata silurata ed è
affondata in pochi minuti”. Dalla sigla identificativa i giornalisti non
tardano a risalire all’identità del colpevole: vari giornali britannici e del Commonwealth
(ad esempio il “Canberra Times”, il “West Australian”, il “Sydney Morning
Herald” e l’“Evening Post”), a chiosa delle dichiarazioni del comandante
Rydnyuk, scrivono che “si afferma a
Londra che il cacciatorpediniere italiano Turbine, avente sigla identificativa
TB, è armato con sei tubi lanciasiluri e dieci [sic] cannoni”.
Il 6 settembre il
governo sovietico accuserà apertamente quello italiano di essere responsabile
degli attacchi al naviglio sovietico verificatosi nei giorni precedenti, inviando
una nota di formale protesta al ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, nella
quale si afferma di avere prove incontrovertibili delle responsabilità italiane
e si cita specificamente, tra gli altri, il caso della Timiryazev. La nota denuncia gli attacchi italiani come contrari
non solo ai “principi dell’umanità”, ma anche ai più elementari e riconosciuti
standard delle leggi internazionali, esigendo che il governo italiano ponga
fine agli attacchi, risarcisca i danni causati e punisca i mandanti di queste
aggressioni. Il ministro degli Esteri Ciano userà la controversia così sorta
tra Italia ed Unione Sovietica come pretesto per giustificare la mancata
partecipazione dell’Italia alla conferenza di Nyon, in segno di protesta per le
accuse sovietiche di pirateria.
La notizia dell’affondamento del Timiryazev in un articolo giornale dell’epoca (da www.wrecksite.eu) |
La stessa notizia sul “Canberra
Times” del 2 settembre 1937 (da www.trove.nla.gov.au)...
|
…sull’“Evening Post” dello stesso giorno (da www.paperspast.natlib.govt.nz)... |
…e sul “Sydney Morning Herald”, sempre del 2 settembre 1937 (da www.trove.nla.gov.au). |
1° settembre 1937
Il Turbine e l’Ostro vengono inviati a pedinare il piroscafo spagnolo repubblicano
Mar Negro (avente a bordo un carico
di 203 automezzi di produzione sovietica, pezzi di ricambio ed 80 barili di
lubrificanti), salpato da Bona alle 21 del 1° settembre dopo essersi rifugiato in
quel porto il precedente 25 agosto per sfuggire alla vigilanza delle navi
italiane. Durante la sosta a Bona, alcuni agenti spagnoli nazionalisti hanno
avvicinato dei membri dell’equipaggio del Mar
Negro e, ponendo l’accento sulla difficoltà di raggiungere la Spagna
repubblicana, li hanno convinti a consegnare spontaneamente la nave ai
franchisti. Di conseguenza, vengono presi accordi affinché il Mar Negro, lasciata Bona, faccia rotta
per Cagliari; da quest’ultimo porto prendono il mare Turbine ed Ostro, diretti
nella zona a nord di Capo Carbon, che seguono il piroscafo spagnolo
assicurandosi che l’equipaggio non cambi idea. I due cacciatorpediniere
ricevono da MariStat il seguente ordine: "Qualora MAR NEGRO non sia catturato da incrociatore Nazionalista sia
affondato durante la notte". Secondo gli ordini, la cattura del Mar Negro dovrà avvenire al di fuori
delle acque territoriali italiane; da Messina gli viene inoltre inviato
incontro l’incrociatore ausiliario Adriatico
(capitano di fregata Roberto Caruel), camuffato da spagnolo Lago.
Il Mar Negro entra a Cagliari il mattino
del 2 settembre, andandosi ad ormeggiare al molo di levante di quel porto; il
mattino successivo lascia Cagliari scortato dall’Ostro (capitano di corvetta Franz Giuseppe Cerasuoli) ed alle
11.30, al largo di Capo Spartivento, incontra l’incrociatore ausiliario Rey Jaime I della Marina nazionalista,
che lo conduce a Palma di Maiorca (dove sarà trasformato a sua volta in
incrociatore ausiliario).
Settembre 1937
Secondo l’articolo "Naval
Operations in the Spanish Civil War" di Willard C. Frank Jr., pubblicato
sulla "Naval War College Review", in questo periodo il Turbine sarebbe stato infruttuosamente
attaccato con lancio di siluri (che l’avrebbero mancato di poco) da un
sommergibile rimasto sconosciuto, in acque spagnole.
In una cartolina risalente al 1938 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
Il Turbine in una foto forse risalente al maggio 1938 (Naval History and Heritage Command, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
1939
Dislocato a Tobruk.
1° dicembre 1939
Imbarca sul Turbine, quale direttore del tiro, il
sottotenente di vascello Giovanni Garau, futura Medaglia d’Oro al Valor
Militare. Garau resterà sul Turbine
fino al 15 gennaio 1941, quando sarà trasferito sul cacciatorpediniere Fulmine.
Il Turbine entra in Mar Piccolo a Taranto, verso la fine degli anni Trenta (Coll. Gabriele Pavan, via www.icsm.it) |
1939-1940
Lavori di modifica
dell’armamento: vengono eliminate le due mitragliere da 40/39 mm rimaste e
vengono installate otto più moderne mitragliere Breda 1935 da 20/65 mm (in
impianti binati) e due tramogge per bombe di profondità.
Per altra fonte
questi lavori sarebbero avvenuti nel 1942 (al termine dei quali l’armamento
contraereo del Turbine sarebbe stato
composto da sette mitragliere da 20/65, in tre impianti singoli e due binati),
mentre nel 1939 sarebbe stata sbarcata la mitragliera da 40/39 mm poppiera e
sarebbero state installate due mitragliere singole da 13,2/76 mm, una al posto
della 40/39 e l’altra nella tuga centrale.
A La Spezia nel 1939 (g.c. Giacomo Toccafondi) |
Marzo 1940
La I Squadriglia
Cacciatorpediniere, composta da Turbine
(caposquadriglia), Euro, Nembo ed Aquilone, viene dislocata a Tobruk.
6 giugno 1940
Nell’imminenza
dell’entrata in guerra dell’Italia, il Turbine e
le altre unità della I Squadriglia Cacciatorpediniere posano 6 campi minati
difensivi antinave, di 40 mine ciascuno (160 in tutto), nelle acque di Tobruk.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. Il Turbine (al
comando del capitano di fregata Ruggero Ruggeri, 41 anni, da Guarda Veneta) è
caposquadriglia della I Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Tobruk (ed
alle dipendenze di Marina Tobruk), insieme ai gemelli Nembo, Euro ed Aquilone.
13-14 giugno 1940
Secondo una fonte di
incerta affidabilità, nella notte tra il 13 ed il 14 il Turbine avrebbe compiuto, insieme al cacciatorpediniere Strale, una missione di caccia
antisommergibili nel Golfo di Taranto, durante la quale lo Strale avrebbe individuato ed affondato il sommergibile britannico Odin a sud di Capo San Vito (o più
probabilmente, lo avrebbe danneggiato, mentre ad affondarlo sarebbe stato,
qualche ora più tardi, un altro cacciatorpediniere, il Baleno). Non è chiaro se anche il Turbine abbia effettivamente partecipato a questa azione.
14 giugno 1940
Alle 22.30 Turbine (capitano di fregata Ruggero
Ruggeri, comandante della I Squadriglia Cacciatorpediniere), Nembo ed Aquilone partono da Tobruk per bombardare con le loro artiglierie
le posizioni britanniche a Sollum (secondo Francesco Mattesini, gli obiettivi
di quest’azione sarebbero stati rappresentati dalle caserme ivi presenti e
dall’abitato stesso), in Egitto, distante 192 miglia da Tobruk. Assiste alla
missione anche il comandante militare marittimo di Tobruk, contrammiraglio
Alessandro Olgeni. L’azione, avente lo scopo di “ammorbidire” le posizioni
britanniche di Sollum in preparazione della prossima offensiva italiana, è
stata richiesta dal governatore della Libia, maresciallo Italo Balbo.
15 giugno 1940
Alle 3.49 Turbine, Nembo ed Aquilone, giunti
nel punto prestabilito per il bombardamento, aprono il fuoco su Sollum con le
loro artiglierie, proseguendo il tiro sino alle 4.05 e sparando in tutto 220
colpi da 120 mm. La densa foschia impedisce che le unità italiane vengano
avvistate ed attaccate, ma per contro ne ostacola la precisione nel tiro,
rendendo il bombardamento poco efficace. La missione viene completata senza
incidenti.
Sempre nella prima
mattina del 15 giugno, anche la Regia Aeronautica attacca Sollum, con
un’incusione da parte di dodici bombardieri Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero”.
19 giugno 1940
Nel pomeriggio il Turbine (capitano di fregata Ruggero
Ruggeri) viene inviato a 26 nodi a dare la caccia ad un sommergibile britannico
che alle 12.43 ha infruttuosamente lanciato due siluri contro l’incrociatore
corazzato San Giorgio, ancorato
in rada a Tobruk con funzione di nave antiaerei.
Il sommergibile
attaccante è il britannico Parthian,
al comando del capitano di corvetta Michael Gordon Rimington: partito da
Alessandria d’Egitto il 14 giugno per la sua quArta missione di guerra (la seconda in Mediterraneo), da svolgere
nelle acque della Cirenaica, è giunto davanti a Tobruk due giorni dopo, ed il
19 ha attaccato il San Giorgio.
In una prima serie di
attacchi, il Turbine lancia
tutte le sue cariche di profondità (sul Parthian
vengono contate 23 esplosioni); non essendo convinto di aver affondato il
sommergibile, pur avendo avvistato quella che sembra essere una chiazza di
nafta (in realtà, infatti, il Parthian non
ha subito danni, perché tutte le bombe sono esplose lontane: il Turbine non è riuscito a localizzarlo),
il comandante del cacciatorpediniere decide di rientrare in porto per
rifornirsi di bombe di profondità prelevandole dall’Euro, per poi uscire nuovamente e riprendere la caccia, stavolta
insieme al Nembo. In questo lasso di
tempo, però, il Parthian riesce
ad allontanarsi e far perdere le proprie tracce.
Varie fonti
attribuiscono erroneamente a quest’azione del Turbine l’affondamento del sommergibile britannico Orpheus, che sarebbe avvenuto il 19
giugno (o per altre fonti il 16) in posizione 32°30’ N e 24°00’ E (o 32°42’ N e
24°30’ E), 25 miglia a nord di Tobruk.
L’Orpheus (capitano di corvetta James
Anthony Surtees Wise) era partito da Malta il 4 giugno (per altra fonte, il 10
giugno) per la sua sesta missione di guerra (la prima in Mediterraneo), un
agguato difensivo nelle acque di Malta; il 10 giugno, giorno dell’entrata in
guerra dell’Italia, si trovava in pattugliamento a sudovest dell’isola, e
quella sera aveva ricevuto ordine di spostarsi nelle acque di Corfù, inviando
conferma di ricezione dell’ordine alle 23.54. Alle 21.15 dell’11 giugno aveva
ricevuto ordine di tornare a pattugliare le acque di Malta (a seconda delle
fonti, a sudovest dell’isola, oppure a 14 miglia per 130° da Sant’Elmo), ed a
mezzogiorno del 12 aveva avvistato una formazione navale italiana (incrociatori
pesanti Pola, Trento e Bolzano,
cacciatorpediniere Aviere, Artigliere, Lanciere, Ascari, Camicia Nera, Corazziere e Carabiniere)
70 miglia a nordest di Malta, senza però attaccarla. Aveva raggiunto la
posizione assegnata a sudovest di Malta all’una di notte del 13 giugno, e la
sera del 18 aveva comunicato di aver ricevuto l’ordine di raggiungere
Alessandria d’Egitto. Alle 12.11 del 19 giugno il comandante della 1st
Submarine Flotilla aveva ordinato all’Orpheus
di portarsi in agguato al largo di Bengasi in appoggio ad un previsto
bombardamento navale di Bardia (tale ordine era stato intercettato dal servizio
tedesco B-Dienst, che tuttavia non ne aveva informato gli alleati italiani),
ordine che l’Orpheus aveva confermato
di aver ricevuto alle 14.16 e poi ancora alle 21.15 dello stesso giorno. Alle
17.03 del 20 giugno, infine, il comandante della 1st Submarine
Flotilla aveva ordinato all’Orpheus
di lasciare la sua zona d’agguato al largo di Bengasi alle 16 del 22 giugno (o
24 giugno) e di fare rotta per Alessandria, in modo da arrivarvi alle 2.30 del
26, ed alle 14.21 del 22 aveva trasmesso un altro ordine con cui modificava la
rotta che l’Orpheus avrebbe dovuto
seguire. Nessuno dei due ordini necessitava di conferma da parte del
sommergibile, che infatti non la inviò; né inviò mai più alcun segnale. Non
arrivò mai ad Alessandria, e scomparve con tutto l’equipaggio (5 ufficiali e 50
tra sottufficiali e marinai) in data imprecisata. Fu dichiarato disperso il 27
giugno 1940.
Dal momento che
l’ultima comunicazione dell’Orpheus
con la base risale al 19 giugno, si deve ovviamente escludere che questo
sommergibile sia stato affondato dal Turbine
il 16 giugno, tanto più che in tale data si trovava ancora al largo di Malta, e
non di Tobruk. Se invece l’attacco del Turbine
avvenne il 19 giugno, l’affondamento dell’Orpheus
da parte del cacciatorpediniere risulta comunque improbabile, in quanto
l’azione antisom risulterebbe essere avvenuta ad un’ora precedente rispetto a
quella in cui il sommergibile inviò il suo ultimo segnale (inoltre, in quel
momento l’Orpheus doveva essere
ancora in navigazione verso Bengasi, e non già in acque africane: secondo una
fonte, quando accusò ricevuta degli ordini il 19 giugno si trovava un centinaio
di miglia a nordovest di Bengasi). L’attacco subito dal Parthian, invece, coincide negli orari e nella posizione con quello
effettuato dal Turbine.
Probabilmente l’Orpheus incappò in due campi minati
italiani (40 mine ciascuno) posati nel giugno 1940 9-10 miglia ad ovest e
nordovest di Bengasi.
26 giugno 1940
In seguito a
richiesta avanzata dal governatore e comandante superiore delle Forze Armate in
Africa Settentrionale, maresciallo Rodolfo Graziani, a Supermarina, di
utilizzare i cacciatorpediniere della I Squadriglia presenti a Tobruk per un
nuovo bombardamento navale di Sollum, Turbine
(caposquadriglia, capitano di fregata Ruggero Ruggeri), Nembo ed Aquilone eseguono
un altro bombardamento delle linee britanniche a Sollum. Dopo aver coperto la
distanza che separa Tobruk dalla cittadina egiziana durante la notte, alla
velocità di 25 nodi, i tre cacciatorpediniere giungono davanti a Sollum verso
l’alba, in buone condizioni di luce e visibilità, ed aprono il fuoco alle 5.35,
da una distanza di 9800 metri, avendo come bersaglio le caserme ubicate sul
ciglione di Sollum e la zona bassa dei magazzini e dei pontili. Le navi si
avvicinano fino a 1900 metri nella loro azione di fuoco, compiendo anche
un’inversione di rotta di 180° ad un tempo ed un secondo passaggio; il
bombardamento ha termine alle 6.18. Turbine,
Nembo ed Aquilone sparano in tutto 541 colpi da 120 mm con buoni risultati,
grazie anche all’eccellente visibilità nonché alla totale assenza di reazione
da parte britannica.
Essendo questo
cannoneggiamento effettuato più tardi nella giornata rispetto a quello del 15
giugno, partecipa alla missione anche un aereo da ricognizione, che sorvola la
zona con il compito di avvertire in anticipo i cacciatorpediniere
dell’eventuale avvistamento di navi britanniche inviate a contrattaccare, che
tuttavia non si fanno vedere. Terminato il bombardamento, i tre
cacciatorpediniere fanno ritorno a Tobruk alla velocità di 25 nodi, giungendovi
alle 9.10 del mattino. Nel suo rapporto il comandante Ruggeri esprimerà
soddisfazione per l’efficienza mostrata dai cannoni e dal materiale tecnico, ed
elogerà il comportamento dei comandanti e dei direttori del tiro di Nembo ed Aquilone.
Queste azioni di
bombardamento costiero hanno il fine di indebolire le difese britanniche
nell’area, in previsione della prossima offensiva italiana.
Il direttore del tiro
del Turbine, tenente di vascello
Giovanni Garau, verrà decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare per
il suo ruolo in queste due azioni e nei successivi attacchi aerei di luglio, di
cui si dirà più oltre («Direttore del
tiro di cacciatorpediniere dislocato in base avanzata, in due missioni dirigeva
con efficacia il tiro contro basi avversarie. Durante il periodo in cui la nave
fu soggetta a continue azioni aeree del nemico, ha sempre instancabilmente
diretto la reazione aerea dal suo pericoloso posto di combattimento; esempio ai
subordinati di inalterabile calma e sereno sprezzo del pericolo. (Acque della
Cirenaica, 10 giugno-22 luglio 1940)»), mentre il comandante Ruggeri
riceverà la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione «Comandante di squadriglia ct., dislocata in
base avanzata, si dedicava con sicura competenza ed elevato entusiasmo al
perfezionamento della preparazione bellica dell’unità. Durante due azioni di
bombardamento contro una base navale nemica, conduceva con sereno ardimento le
sue unità a brevissima distanza dagli obiettivi da battere, colpendoli
decisamente e ripetutamente con rapidi effetti distruttivi. Più volte
attaccato, reagiva con ferma volontà ed indomito coraggio all’offesa nemica,
che riusciva a sventare, infondendo agli equipaggi dipendenti, spirito
combattivo ed eroica forza d’animo. (Acque della Cirenaica, 11-25 giugno 1940)».
28 giugno 1940
Il Turbine è tra le navi presenti nel porto
di Tobruk quando l’aereo del maresciallo dell’aria Italo Balbo, governatore
della Libia, viene accidentalmente abbattuto dalla contraerea italiana nel
corso di un’incursione aerea britannica (giunto sul cielo di Tobruk subito dopo
la fine bombardamento, l’aereo di Balbo è stato scambiato per un altro
bombardiere britannico). Anche il Turbine
è tra le navi che sparano sull’aereo di Balbo; secondo le memorie del
cannoniere Casimiro Fois, imbarcato sull’Aquilone,
sarebbe stato forse proprio il Turbine
a colpirlo: "Era un pomeriggio di
molta foschia. Corsi alla mitraglia caricandola con un nastro da venticinque
proiettili, poi n’aggiunsi anche un altro. Pochi minuti dopo, vedemmo arrivare
due aerei, ad altezza non molto elevata provenienti dalla stessa direzione
ovest che avevano preso i bombardieri inglesi andandosene dopo il
bombardamento. Non essendo visibili segni di riconoscimento, appena giunti a
tiro, da tutte le unità partirono le raffiche delle mitraglie. Noi sparammo
pochi colpi (una decina circa) giacché, un tenente di vascello che si era
imbarcato pochi giorni prima, essendo stato osservatore pilota, aveva
riconosciuto quegli aerei per nostri e, correndo, gridava: «Non sparate, non
sparate». Purtroppo, pochi istanti prima, avevamo notato del fumo che usciva
dalla parte poppiera di uno degli aerei (era stato colpito) e, mentre noi
esultanti gridavamo vittoria, vittoria, l’aereo, nel tentativo di
atterrare nel campo d’aviazione poco distante, si schiantava al suolo
trascinandosi per alcune centinaia di metri. L’altro, appena notata
la reazione armata da parte delle navi, si abbassò e sfiorando gli alberi dei
natanti passò indenne in mezzo ai nostri tiri. Si disse che dal C.T. Turbine,
capo squadriglia, partì un dispaccio all’Ammiragliato, comunicando che l’aereo
era stato abbattuto dalla sua unità con una raffica micidiale della 40/39, e
che l’Ammiraglio avesse risposto: «Imbecille, quello era l’aereo di Italo Balbo
con lui a bordo». Queste erano le voci che circolavano a bordo. Non sono certo
se erano vere. Era vero però che l’aereo abbattuto era di Italo Balbo e ne
venimmo a conoscenza dopo una mezz’ora circa, naturalmente rammaricandocene".
In realtà, pressoché
tutti gli storici attribuiscono l’abbattimento dell’aereo di Balbo all’incrociatore
corazzato San Giorgio oppure
al sommergibile Marcantonio Bragadin;
di un possibile coinvolgimento del Turbine
non si fa in genere parola.
4 luglio 1940
Tra le 10 e le 11.15 un
idroricognitore britannico Short Sunderland sorvola il porto di Tobruk ad una
quota compresa tra i 1500 ed i 2000 metri e, nonostante il fuoco contraereo
aperto da navi e batterie di terra, rileva la presenza in porto di numerose
navi (ben sette cacciatorpediniere – tutti della classe Turbine: di fatto
l’intera classe Turbine, dopo la perdita dell’Espero avvenuta pochi giorni prima –, quattro torpediniere e sei
navi mercantili, oltre a numerose unità minori ed ausiliarie).
5 luglio 1940
Sulla base dell’esito
della ricognizione aerea condotta il mattino precedente, i comandi britannici
decidono di attaccare la concentrazione di naviglio presente nel porto di
Tobruk con nove aerosiluranti Fairey Swordfish dell’813th Squadron
della Fleet Air Arm, che decollano in serata da Sidi el Barrani avendo come
obiettivo le navi in porto (con priorità proprio per i cacciatorpediniere).
Mentre gli altri
cacciatorpediniere sono per la maggior parte alla fonda al centro della rada, il
Turbine si trova ormeggiato di poppa
al pontile torpediniere del porto di Tobruk, situato nella parte nordoccidentale
della baia. Gran parte degli equipaggi dei cacciatorpediniere sono decentrati a
bordo dei piroscafi Sabbia e Liguria, lasciando a bordo delle navi il
personale addetto alle armi contraeree.
L’allarme aereo viene
dato alle 20.06, ma gli aerei non vengono avvistati finché non sono già giunti
sul porto (alle 20.20); a dispetto della vivace reazione contraerea, gli
Swordfish scendono fino a soli trenta metri per condurre i loro attacchi,
lanciando i siluri da ridottissima distanza (400-500 metri). In pochi minuti
(ne passano solo sette tra l’inizio dell’attacco e la sua conclusione) i siluri
colpiscono i cacciatorpediniere Zeffiro ed Euro ed i piroscafi Manzoni, Liguria e Serenitas,
affondando Zeffiro e Manzoni, mentre le altre navi colpite
devono essere portate all’incaglio per evitarne l’affondamento. I
cacciatorpediniere alle boe vengono infruttuosamente attaccati da due degli
Swordfish, che tuttavia, a causa della difficoltà a transitare come previsto
tra la fila dei cacciatorpediniere a sinistra e quella dei mercantili (Sereno, Sabbia, Liguria, Serenitas e Manzoni) a dritta, e del violento tiro
contraereo aperto dagli stessi cacciatorpediniere, non riescono a lanciare i
siluri. Secondo una fonte di incerta affidabilità, anche il Turbine sarebbe stato attaccato da uno o
due aerei, che tuttavia avrebbero rinunciato a lanciare grazie all’intenso
fuoco contraereo. Alle 21.31 viene dato il cessato allarme.
In seguito alla
perdita di Espero e Zeffiro nelle prime settimane di guerra,
la II Squadriglia Cacciatorpediniere, formata da Espero (caposquadriglia), Ostro,
Zeffiro e Borea, viene disciolta, e le due unità superstiti vengono aggregate
alla I Squadriglia.
19 luglio 1940
Il Turbine è ancora a Tobruk quando i
comandi britannici, ritenendo che l’incrociatore leggero Giovanni delle Bande Nere –
danneggiato nello scontro di Capo Spada – si sia rifugiato in quel porto (in
realtà è andato a Bengasi: l’ultima volta che è stato visto da unità
britanniche, il Bande Nere aveva
rotta verso Tobruk, ma in seguito ha accostato per dirigere a Bengasi),
decidono di lanciare un nuovo attacco di aerosiluranti contro questa base.
Il Turbine è ancora al posto d’ormeggio che
occupava il 5 luglio, al pontile torpediniere (mentre gli altri
cacciatorpediniere sono ancora in rada, ormeggiati alle boe). A bordo
vigono i normali servizi di difesa e sicurezza: gli uomini addetti alle armi
sono ai loro posti alle mitragliere da 40/39 e 13,2 mm, mentre il personale non
necessario per questi servizi è sistemato sui piroscafi Liguria (incagliato ma agibile)
e Sabbia, adibiti ad alloggi per
gli equipaggi. Come da norme contro gli attacchi aerei all’ormeggio, i locali
sono presidiati, le porte stagne e la portelleria chiuse.
Prima dell’attacco
degli aerosiluranti, il porto di Tobruk viene messo in allarme già da altri
attacchi aerei: alle 17, infatti, tre ondate composte rispettivamente da
cinque, tre e quattro bombardieri Bristol Blenheim (decollati dall’Egitto ed
appartenenti agli Squadrons 55 e 201) bombardano nell’arco di una decina di minuti
la parte settentrionale della rada, danneggiando leggermente una batteria
contraerea e le infrastrutture del porto, e subendo la perdita di un velivolo.
Alle 18 viene dato il cessato allarme, ma già alle 18.56 viene suonato un nuovo
allarme a causa dell’arrivo da nordovest di un idrovolante del 700th Squadron
della Fleet Air Arm, catapultato dalla corazzata britannica Warspite, inviato per accertare l’esito
del bombardamento di poco prima. L’idrovolante viene immediatamente bersagliato
da un nutrito ed accurato fuoco contraereo, riportando tali danni da
precipitare in mare mentre torna alla base.
Alle 19.33, ventuno
minuti dopo il tramonto, viene suonato il secondo cessato allarme, ma alle
21.54, in seguito a segnalazioni provenienti dai punti d’ascolto avanzati di
Bardia e Belafarid, viene suonato ancora una volta l’allarme.
Alle 22.30 sei
aerosiluranti Fairey Swordfish dell’824th Squadron della Fleet
Air Arm si presentano sul cielo della piazzaforte: gli aerei, distaccati con la
loro squadriglia dalla portaerei britannica Eagle, sono decollati dalla base egiziana di Sidi el Barrani alle
otto di quella sera, con il compito di silurare le navi ormeggiate a Tobruk;
provenienti da nordest, procedono in due formazioni a cuneo poco distanziate
tra di loro, al comando del tenente di vascello F. S. Quarry.
Le difese contraeree
aprono immediatamente un violento fuoco contraereo, che obbliga gli Swordfish a
compiere ripetuti passaggi sulla rada per non essere colpiti (tre di essi
vengono danneggiati, anche se nessuno fu abbattuto), oltre che per individuare
i bersagli (operazione complicata dalla mediocre luce lunare) e prepararsi
all’attacco. Verso l’1.30 del 20 luglio, mentre le navi in rada aprono a loro
volta il fuoco con i rispettivi armamenti contraerei, gli Swordfish si
dispongono in formazione d’attacco, superano la barriera del fuoco contraereo e
scendono a volo radente sulla superficie del mare, per compiere la corsa di
lancio. Questa volta i siluri a segno sono tre: all’1.32 sul piroscafo Sereno, all’1.34 sull’Ostro ed all’1.37 sul Nembo. Tutte e tre le navi vengono
affondate.
Degli Swordfish
attaccanti, tre vengono danneggiati dal tiro contraereo, ed uno di essi, quello
pilotato dal tenente di vascello G. R. Brown, precipiterà mentre rientra alla
base. Gli altri atterreranno alle 3.30.
Il Turbine esce indenne anche da questo
attacco; dopo le perdite causate dalle incursioni del 5 e 20 luglio (nonché
dell’attacco aerosilurante del 22 agosto 1940 contro naviglio italiano nel
Golfo di Bomba, conclusosi con l’affondamento del sommergibile Iride e della nave appoggio Monte Gargano), tuttavia, verso fine
agosto i Comandi italiani decidono di “arretrare” più ad ovest il naviglio
militare rimasto, ed in particolare di trasferire i cacciatorpediniere
superstiti (ossia Turbine, Borea ed Aquilone) a Bengasi, ritenendo Tobruk troppo esposta all’offesa
aerea nemica.
10 agosto 1940
Il Turbine lascia Tobruk rimorchiando di
poppa il danneggiato Euro, scortato
dalla torpediniera Calliope, in
corso di trasferimento in Italia (via Tripoli), dove dovrà essere sottoposto ai
lavori di riparazione dei danni subiti nell’incursione del 5 luglio.
Le navi fanno una
sosta a Bengasi, poi proseguono poi per Tripoli.
13 agosto 1940
Lo strano convoglio arriva
a Tripoli.
16 agosto 1940
Il Turbine salpa da Bengasi alle 12.30 per
scortare a Tripoli le motonavi Lago Tana
e Città di Bara ed il piroscafo Argentea.
18 agosto 1940
Il convoglio
raggiunge Tripoli in mattinata.
21 agosto 1940
In serata il Turbine riparte da Tripoli per Bengasi,
di scorta al piroscafo Carnia ed alla
motonave Città di Livorno.
23 agosto 1940
Il convoglio giunge a
Bengasi alle 14.30.
Un’altra immagine del Turbine (Coll. Macrì, via Trentoincina) |
16 settembre 1940
Mentre il Turbine, insieme all’Aquilone, si trova ormeggiato di
punta al Molo Principale del porto di Bengasi (più precisamente, all’estremità
nordoccidentale del lato orientale di quel molo, che poco oltre “piega” verso
sudovest creando un angolo), il comandante della Mediterranean Fleet,
ammiraglio Andrew Browne Cunningham, decide di lanciare un attacco aereo contro
quel porto, a seguito dell’avvistamento (il mattino del 15 settembre, da parte
di un ricognitore Short Sunderland del 230th Squadron) di un
convoglio italiano (piroscafi Maria
Eugenia e Gloria Stella, torpediniera Fratelli Cairoli) in navigazione nel
Golfo della Sirte e diretto appunto a Bengasi.
Alle 21.30 del 16
settembre quindici bombardieri Fairey Swordfish iniziano a decollare dal ponte
di volo della portaerei Illustrious,
salpata da Alessandria assieme alla corazzata Valiant, agli incrociatori leggeri Orion, Kent, Liverpool e Gloucester ed a 9
cacciatorpediniere (Hereward, Hyperion, Hasty, Hero, Nubian, Mohawk, Waterhen, Jervis e Decoy). La formazione, suddivisa in tre gruppi (Forza A, incaricata
dell’attacco, con Illustrious ed Orion e 4 cacciatorpediniere, Forza
B di scorta alla Forza A e composta dalla Valiant con 3 cacciatorpediniere, Forza C di sostegno con le
altre unità 20-25 miglia più a sud del resto della formazione), è giunta
alle 21 cento miglia a nordest di Bengasi, come previsto.
Nove degli Swordfish,
appartenenti all’815th Squadron della Fleet Air Arm, hanno
l’incarico di attaccare le navi in porto – ce ne sono ben 32, tra grandi e
piccole – con bombe dirompenti da 227 e 114 kg ed incendiarie da 45 kg, mentre
gli altri sei, dell’819th Squadron, devono posare ciascuno una
mina magnetica Mk I da 680 kg all’imboccatura del porto.
Alle 21.15, in
seguito ad un bombardamento aereo che ha colpito l’aeroporto di Benina, non
lontano da Bengasi, viene dato l’allarme, ma non segue poi il preallarme della
Difesa Contraerea Territoriale, che, non avendo potuto far partire i
motopescherecci assegnati al servizio di vigilanza foranea, non è in grado di
avvistare gli Swordfish che arrivano da nordest, dal mare.
17 settembre 1940
Alle 00.57, senza che
nessuno li abbia precedentemente avvistati, gli aerei britannici (che sono
giunti sul cielo di Bengasi già dalle 00.30, ed hanno sorvolato il porto per
meglio individuare i loro bersagli) passano all’attacco, in due ondate. Vana la
reazione della contraerea di terra.
Le bombe vanno a
segno con tremenda precisione: nel primo passaggio, effettuato alle 00.57 da
nordovest verso sudest, viene affondato il piroscafo Gloria Stella, la torpediniera Cigno viene danneggiata gravemente
ed il rimorchiatore Salvatore Primo ed
il pontone a biga Giuliana sono
colpiti, sebbene senza riportare danni gravi; nel secondo passaggio, compiuto
tre minuti dopo il primo, vengono affondati il cacciatorpediniere Borea ed il piroscafo Maria Eugenia.
Nella confusione del
bombardamento, nessuno a terra sembra fare troppo caso alle sagome scure dei
sei Swordfish dell’819th Squadron che gettano le loro sei mine
magnetiche a circa 75 metri dall’imboccatura del porto: solo il 18 settembre,
ormai troppo tardi per evitare danni, si saprà che qualcuno aveva visto un
aereo abbassarsi a posare delle mine nell’avamporto.
Il Turbine non viene colpito direttamente durante
l’attacco, ma subisce alcuni modesti danni a causa di due grosse schegge che,
lanciate dalle esplosioni verificatesi sul vicino Maria Eugenia, colpiscono la sua torretta telemetrica poppiera: sei
uomini rimangono feriti, e gli apparati di direzione del tiro di poppa vengono
messi fuori uso.
I devastati risultati
del bombardamento hanno dimostrato la vulnerabilità di Bengasi, come in
precedenza di Tobruk, agli attacchi aerei; inoltre, Maria Eugenia e Gloria
Stella sono ancora in fiamme e circondati da un vero e proprio mare di
nafta, che continua a costituire una minaccia per le altre navi: di
conseguenza, temendo nuovi attacchi aerei su Bengasi, Marilibia decide subito
di decongestionarne il fin troppo affollato porto trasferendo a Tripoli,
ritenuta più sicura (in ragione della sua maggiore distanza dalle basi aeree
britanniche), alcune delle navi rimaste indenni.
I trasferimenti
iniziano il mattino del 17 settembre: prima a lasciare Bengasi per Tripoli è la
motonave Francesco Barbaro, scortata
dalla vecchia torpediniera Generale Antonino
Cascino. Alle 11.38, tuttavia, subito dopo essere uscita dall’imboccatura
del porto, la Barbaro fa esplodere
una delle mine magnetiche posate durante l’attacco dagli Swordfish dell’819th Squadron,
riportando gravissimi danni alla prua: deve essere rimorchiata nuovamente in
porto e portata a poggiare con la prua su bassifondali.
Marilibia ordina che
il tratto di mare a sinistra di un gavitello bianco che segnala una secca di
sette metri, subito fuori dal porto, venga subito accuratamente dragato e
controllato per verificarvi l’assenza di mine; i dragamine eseguono l’ordine e
non trovano alcuna mina, pertanto – essendo questa, anche in base a quanto
accaduto alla Barbaro, la zona
che sembra più lontana dall’area sorvolata dai velivoli britannici (e dunque
dove vi dovrebbe essere minor probabilità che siano state posate delle mine) –
viene disposto che le altre navi in uscita da Bengasi passino per questo
braccio di mare.
La sera dello stesso
17, «data l’eccessiva congestione del
porto di Bengasi e il pericolo rappresentato dai due piroscafi in fiamme
circondati da un vero mare di nafta», si decide di far partire per Tripoli
anche il Turbine e l’Aquilone, che dopo le perdite dei mesi
precedenti sono le uniche unità rimaste in efficienza, su otto che componevano
in origine la classe Turbine.
Per primo parte
il Turbine, alle 20.15, seguito dall’Aquilone; dopo aver superato l’ostruzione,
i due cacciatorpediniere, procedendo in linea di fila, manovrano in modo da
passare a sinistra del gavitello bianco che segnala la secca, per transitare
nel tratto di mare ritenuto sicuro come da ordini di Marilibia.
Alle 20.45, tuttavia,
circa un miglio oltre il gavitello, l’Aquilone provoca
in rapida successione lo scoppio di due mine magnetiche, sbanda sulla sinistra ed
affonda in soli cinque minuti in posizione 32°06’28” N e 20°01’30” E. A terra
le difese contraeree, forse ancora con i nervi a fior di pelle dopo
l’incursione della sera precedente, scambiano le detonazioni delle due mine
come quelle di bombe, ed aprono subito il fuoco contro velivoli inesistenti;
anche il Turbine, quando vede la
fiammata generata dai due scoppi (che viene vista anche a terra), ritiene che
l’Aquilone sia stato bombardato
dal cielo, e di conseguenza accelera sino a 20 nodi ed inizia a zigzagare. Già
alle 20.50, tuttavia, il Turbine riduce
la velocità a 15 nodi, ed inizia a chiamare tramite il radiosegnalatore il gemello,
che però non risponde. Prima che il Turbine
possa invertire la rotta per andare in suo soccorso, Marilibia, avendo
immediatamente ordinato che tutti i mezzi disponibili per il soccorso (dragamine
ed altre imbarcazioni), agli ordini del comandante di Marina Bengasi, si rechino
a dare assistenza all’Aquilone
(riusciranno a salvare 148 uomini del suo equipaggio, su un totale di 161 a
bordo al momento dell’affondamento), e temendo che se il Turbine tornasse indietro per
aiutare la nave colpita ne seguirebbe la sorte saltando anch’esso su altre mine
(dubbio tutt’altro che ingiustificato, come dimostreranno molti drammatici
episodi degli anni successivi), ordina a quest’ultimo di proseguire. La
nave raggiunge Tripoli per conto proprio.
21 novembre 1940
Il Turbine e la torpediniera Orione partono da Napoli all’1.50
scortando i trasporti truppe Esperia
e Marco Polo, diretti a Tripoli.
Il convoglio giunge a
Palermo alle dieci del mattino; qui Turbine
ed Orione vengono sostituiti nel
ruolo di scorta dalla XIV Squadriglia Cacciatorpediniere (Ugolino Vivaldi, Antonio Da
Noli, Luca Tarigo).
1° dicembre 1940
Il Turbine (capitano di corvetta Aldo
Naccari) parte da Napoli per Tripoli alle 00.15, scortando un convoglio lento
formato dalle motonavi Andrea Gritti
e Col di Lana.
Il convoglio fa scalo
intermedio a Palermo.
5 dicembre 1940
All’1.35, a nove
miglia da Capo Bon, le vedette di prua del Turbine
avvistano due scie provenienti da traverso a dritta, che passano a poca
distanza dalla prua del cacciatorpediniere. Il comandante Naccari, ritenendo
che si tratti di siluri lanciati da un sommergibile in affioramento, ordina
subito di accostare a dritta, dirigendosi alla massima velocità verso il punto
di origine delle scie; giunto sul posto, il Turbine
manovra per mantenersi su un arco concentrico al punto di provenienza delle
scie e lancia a brevi intervalli due bombe di profondità da 100 kg, regolate
per scoppiare a 50 metri di profondità. Il cacciatorpediniere continua poi ad
incrociare nella zona fino alle due di notte, dopo di che, non riuscendo più a
rintracciare il sommergibile, si riunisce alle due motonavi e prosegue nella
navigazione.
Il convoglio giunge a
Tripoli alle dieci.
12 dicembre 1940
Il Turbine parte da Tripoli alle tre di
notte di scorta al piroscafo Amsterdam
ed alla motonave Riv, diretti a
Palermo.
Dopo alcune ore di
navigazione, il Turbine inverte la
rotta e rientra a Tripoli nella notte del 12; i due mercantili raggiungeranno
indenni Palermo il 14 dicembre.
15 dicembre 1940
Il Turbine parte da Palermo per Tripoli a
mezzogiorno, scortando il piroscafo Amsterdam.
17 dicembre 1940
Turbine ed Amsterdam
raggiungono Tripoli alle 21.
22 dicembre 1940
Parte da Napoli alle
21.30 scortando la motonave Calitea,
diretta in Libia.
24 dicembre 1940
Turbine e Calitea arrivano a
Tripoli alle 22. Da qui la Calitea
proseguirà per Tobruk, sua destinazione finale, con la scorta di altre unità.
27 dicembre 1940
Il Turbine lascia Tripoli alle 16 scortando
la motonave Calino, diretta a
Palermo.
29 dicembre 1940
Turbine e Calino arrivano a
Palermo alle 9.10.
8 febbraio 1941
Il Turbine (caposcorta) e le torpediniere Orsa, Generale Antonio Cantore (per
altra fonte, Centauro) e Giuseppe Missori partono da Napoli per
Tripoli alle 9.30, scortando i piroscafi tedeschi Arcturus, Alikante ed Ankara, carichi di truppe e materiali
della 5a Divisione Leggera tedesca. Si tratta del primo convoglio
tedesco con truppe dell’Afrika Korps, in corso di trasferimento in Libia. Il
convoglio fruisce anche di scorta aerea tedesca, assicurata da velivoli del X.
Fliegerkorps; altri aerei dello stesso reparto, nella notte precedente, hanno
sottoposto Malta ad un pesante bombardamento, per impedire alle forze
aeronavali britanniche di base nell’isola di lanciare attacchi.
Alcune ore dopo la
partenza, il convoglio viene dirottato a Palermo in seguito ad allarme navale (provocato
dall’uscita da Gibilterra della Forza H britannica: in realtà quest’ultima ha
preso il mare per bombardare Genova – operazione “Grog” –, ma di questo i
comandi italiani sono all’oscuro), arrivandovi alle 17.30.
10 febbraio 1941
Cessato l’allarme, il
convoglio riparte da Palermo in mattinata (per altra fonte, alle 00.00).
11 febbraio 1941
All’1.10, in
posizione 34°41’ N e 11°50’ E (ad est di Kerkennah), il sommergibile britannico
Unique (tenente di vascello Anthony
Foster Collett) avvista l’Arcturus e
l’Alicante su rilevamento 010°, mentre
questi procedono su rotTA 160°, senza
notare il resto del convoglio; alle 2.11 lancia quattro siluri contro l’Arcturus, da una distanza di 2290 metri,
ma lo manca, avendone sottostimato la velocità (uno dei siluri subisce un
guasto alla girobussola che lo fa girare in cerchio, tornando indietro e
passando sulla verticale del sommergibile poco dopo il lancio). Dopo
quattordici minuti i siluri, giunti a fine corsa, esplodono contro il fondale;
le tre esplosioni subacquee vengono sentite anche dall’Arcturus, che ne informa il convoglio.
Il convoglio giunge
indenne a Tripoli alle 15.
15 febbraio 1941
Il Turbine rientra a Napoli.
17 o 18 febbraio 1941
Il Turbine si aggrega a Palermo ai
cacciatorpediniere Freccia (caposcorta)
e Saetta di scorta ad un convoglio
partito da Napoli e diretto a Tripoli, formato dai piroscafi tedeschi Maritza, Menes, Arta ed Heraklea. Si tratta del terzo convoglio
con truppe e materiali dell’Afrika Korps.
Il Turbine a Brindisi con alcuni gemelli, tra cui Espero e Borea, perduti nei primi mesi di guerra (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net) |
19 febbraio 1941
Alle 23.10, in
posizione 32°52’ N e 12°48’ E (ad ovest di Tripoli ed a sudest del Golfo di
Gabes), il sommergibile britannico Upholder (capitano
di corvetta Malcolm David Wanklyn) avvista il convoglio di cui fa parte il Freccia, avente rotta 095°, e ne stima
la composizione in “tre navi mercantili scortate da altrettante torpediniere o
cacciatorpediniere, posizionate una a proravia del convoglio e le altre due sui
lati”, dei quali l’unità di testa viene erroneamente identificata come una
torpediniera classe Spica. Alle 23.26 l’Upholder
lancia due siluri da 1370 metri contro l’Heraklea,
mercantile di testa, per poi scendere a 55 metri di profondità. L’Heraklea avvista le scie dei siluri
e riesce ad evitarli con una brusca accostata a dritta.
20 febbraio 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 6.
21 febbraio 1941
Il Turbine (al comando del capitano di
corvetta Enrico Marano, 37 anni, da Cittaducale) ed i cacciatorpediniere Freccia (caposcorta, capitano di
vascello Amleto Baldo) e Saetta (capitano
di corvetta Carlo Unger di Löwenberg) partono da Tripoli alle 8 scortando i
piroscafi tedeschi Maritza, Menes ed Heraklea, che rientrano scarichi in Italia.
Alle 13.55 il
sommergibile britannico Regent (capitano
di corvetta Hugh Christopher Browne) avvista in posizione 33°39’ N e 12°51’ E
(o 33°41’ N e 12°48’ E) il convoglio di cui fa parte il Turbine, in navigazione sulla rotta per
le secche di Kerkennah, ed alle 14.26 lancia due siluri contro il piroscafo di
testa, il più grande, da una distanza di 2300 metri.
Alle 14.30 il Turbine avvista una scia di siluro sulla
propria dritta, a circa 50° dalla prua, e subito dopo anche una seconda scia;
il cacciatorpediniere accosta a dritta, emettendo un fischio per segnalare
l’accostata, ed evita così di stretta misura il siluro, che lo manca
passandogli un poco a proravia. Non è altrettanto fortunato il Menes, che viene colpito da un siluro a
centro nave. Heraklea e Maritza accostano rispettivamente in
fuori a sinistra ed a dritta, per poi riunirsi ed allontanarsi dalla zona
pericolosa, mentre il Saetta si
dirige verso il Menes, che sta
calando le proprie scialuppe; il piroscafo è immobilizzato, ma galleggia
ancora. Al contempo, il Saetta
segnala al Freccia, col
radiosegnalatore, la rotta vera di provenienza dei siluri, che ha rilevato alla
bussola.
Evitato il siluro,
intanto, il Turbine accelera e si
dirige verso il punto di provenienza delle scie dei siluri: giunto sul posto,
lancia una serie di bombe di profondità, alcune regolate per esplodere alla
quota di 25 metri, altre a quella di 50 ed altre ancora a quella di 100. Alle
14.35 il Turbine, avendo visto
emergere delle grosse chiazze di nafta, comunica al Freccia «forse ho affondato
il sommergibile», continuando intanto ad evoluire e lanciare cariche di
profondità; ripassa sul punto in cui galleggia la nafta e lancia altre bombe,
dopo di che vede affiorare all’improvviso delle grosse bolle d’aria, ulteriori
chiazze di nafta e per qualche istante, alle 14.38, anche quello che sembra
essere lo scafo di un sommergibile. Giunge sul posto anche il Freccia, che lancia a sua volta delle
bombe di profondità per poi avvicinarsi al Menes,
accanto al quale è già il Saetta. Anche
dal Saetta viene visto uno
scafo capovolto tondeggiante affiorare in superficie per pochi secondi a
poppavia del Freccia, per poi
sparire subito tra la schiuma che ribolle sul mare; il Turbine spara una coppiola di colpi da
120 mm, e vengono sentiti altri scoppi di bombe di profondità.
Alle 14.50 il Turbine, ritenendo di aver affondato il
sommergibile, lascia la zona e si dirige verso Heraklea e Maritza, che
hanno proseguito nella navigazione. In realtà, il Regent è sopravvissuto, anche se è stato danneggiato (nel suo
giornale di bordo, il comandante Browne scriverà che "il cacciatorpediniere più vicino ha subito contrattaccato ed ha
lanciato in tutto 18 bombe di profondità. Le prime quattro erano molto vicine
ed hanno arrecato danni al Regent, che è stato poi sottoposto a caccia per
tutto il pomeriggio").
Alle 14.50 giunge sul Saetta la prima scialuppa del Menes, con quattro feriti; cinque minuti
dopo, vedendo in mare altre lance di salvataggio, personale del Saetta arma scialuppa vuota con marinai
del Saetta e prende a
rimorchio le altre imbarcazioni. Vengono così recuperati tutti i naufraghi
del Menes, in numero di 69,
quattro dei quali feriti (uno in modo grave, tre meno gravemente); due uomini
del piroscafo risultano dispersi.
Il comandante del Saetta si consulta poi col comandante
del Menes e con l’ufficiale di
collegamento della Regia Marina su quel piroscafo e giunge alla conclusione che
il bastimento possa continuare a galleggiare e sia rimorchiabile, opinione che
comunica al Freccia alle
15.17. Tre minuti dopo, il Freccia ordina
pertanto al Saetta di
prendere a rimorchio il Menes e
di portarlo a Tripoli, che dista solo tre miglia e mezzo.
Nel frattempo, il
Turbine guida Maritza ed Heraklea verso
le Kerkennah, riportandoli sulla rotta seguita prima dell’attacco; alle 15.40
anche il Freccia lascia il
luogo del siluramento per ricongiungersi col convoglio, lasciando il Saetta a provvedere al rimorchio
del Menes. Il piroscafo
danneggiato raggiungerà Tripoli il mattino del 22 febbraio.
24 febbraio 1941
Turbine ed Heraklea arrivano a
Napoli alle 10.30, preceduti di ventiquattr’ore da Freccia e Maritza.
7 marzo 1941
Il Turbine parte da Napoli per Tripoli alle
11.30, insieme ai cacciatorpediniere Fulmine (caposcorta,
capitano di corvetta Antonio Della Corte) e Baleno (capitano di corvetta Giuseppe Arnaud), scortando un
convoglio formato dalla motonave italiana Rialto e dalle tedesche Alicante, Arcturus e Wachtfels (convoglio "Arcturus"),
che trasportano i primi carri armati del 5. Panzerregiment dell’Afrika Korps.
Poco dopo la
partenza, il convoglio torna in porto per allarme navale.
8 marzo 1941
Il convoglio lascia
nuovamente Napoli alle 14 e, dopo una breve sosta a Trapani, prosegue verso
Tripoli.
10 marzo 1941
Durante la
navigazione verso Tripoli, poco prima delle sette di mattina, le navi del
convoglio avvistano una fiammata in lontananza: si tratta dell’esplosione del
piroscafo Fenicia, in
navigazione da Trapani a Tripoli con la scorta dell’incrociatore
ausiliario Attilio Deffenu, che è stato appena silurato dal
sommergibile britannico Unique.
Il caposcorta Della
Corte, dopo l’avvistamento della fiammata, ordina che tutto il convoglio
accosti rapidamente ad un tempo, allo scopo di allontanarlo dal punto in cui
deve trovarsi il sommergibile nemico, ed ordina al Baleno di portarsi sul luogo del siluramento, per prestare
assistenza al Fenicia (che
è ancora a galla, sebbene avvolto dalle fiamme) e proteggere il Deffenu nella sua opera di
salvataggio dei naufraghi.
Per il Fenicia non c’è più nulla da fare,
essendo il piroscafo già in fase di affondamento (s’inabisserà infine alle nove
del mattino); il Baleno rimane
sul posto per proteggere il Deffenu,
fermo a raccogliere i superstiti del Fenicia,
gettando ad intervalli alcune bombe di profondità. Alle 10.30, mentre il Deffenu si allontana verso Tripoli
con 14 naufraghi a bordo, il Baleno (che
in tutto ha lanciato dieci cariche di profondità, senza recar danno all’Unique, che era piuttosto lontano)
lascia la zona e si ricongiunge al convoglio "Arcturus".
12 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 19.30.
Turbine (caposcorta) e Baleno,
lasciato il convoglio, assumono la scorta della motonave Giulia e del piroscafo Sabaudia, partiti da Tripoli per Napoli
a mezzogiorno.
Alle 19.25 il
sommergibile britannico Upright
(tenente di vascello Edward Dudley Norman), in posizione 33°56’ N e 12°55’ E, avvista
del fumo a dieci miglia di distanza, su rilevamento 180°; dopo essersi
avvicinato ad elevata velocità in immersione per dieci minuti, torna a quota
periscopica, ma è troppo buio per vedere le navi al periscopio. Alle 20.20,
pertanto, il sommergibile emerge in posizione 33°56’ N e 12°52’ E ed avvista un
mercantile a cinque miglia di distanza, su rilevamento 240°, con rotta 330°.
Avvicinatosi a tutta forza, poco dopo l’Upright
riesce a vedere tutto il convoglio: due cacciatorpediniere (Turbine e Baleno) e due mercantili, uno grande (la Giulia) ed uno piccolo (il Sabaudia),
in linea di fila. Alle 20.33 il sommergibile britannico lancia due siluri da
2740 metri contro il mercantile di poppa, cioè la Giulia; subito dopo il lancio, accosta in fuori e si allontana a
tutta forza. Uno dei siluri affiora, e nessuno colpisce il bersaglio.
14 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Napoli alle 22.
2 aprile 1941
Il Turbine, il Saetta (caposcorta, capitano di corvetta Giulio Sandrelli) e
la torpediniera Orsa partono
da Napoli per Tripoli alle 11.30, scortando i piroscafi tedeschi Alicante, Maritza, Procida e Santa Fe e l’italiano Tembien, carichi di rifornimenti per
l’Afrika Korps. Il convoglio, che mantiene una velocità di 8-10 nodi, viene
mandato sulla rotta di ponente (Canale di Sicilia e Kerkennah) mentre sulla
rotta di levante (che passa ad est di Malta) viene inviato un convoglio veloce
di trasporti truppe: scopo dell’invio contemporaneo dei due convogli su due
rotte diverse è di confondere le idee ai ricognitori nemici.
5 aprile 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 00.45, dopo aver respinto l’attacco di un sommergibile.
7 (o 8) aprile 1941
Il Turbine parte da Tripoli alle 4.30 per
scortare in Italia, insieme ad Orsa e
Saetta, il convoglio «Maritza»
composto dai piroscafi tedeschi Maritza, Procida, Alicante e Santa Fe che
ritornano scarichi.
A mezzogiorno la
scorta è costretta a tornare in porto a causa del maltempo; i mercantili invece
proseguono, venendo in seguito raggiunti dapprima dalla torpediniera Calliope, mandata da Trapani, e
successivamente dal cacciatorpediniere Scirocco,
salpato da Pozzuoli, che ne assumono la scorta fino a Napoli. (Per altra
versione tutto il convoglio sarebbe rientrato a Tripoli, ripartendo il mattino
del 9 e raggiungendo Napoli alle 10 dell’11 aprile).
10 aprile 1941
Turbine, Saetta (caposcorta) e
Pegaso ripartono da Tripoli per
Napoli alle 22 del 10, scortando i piroscafi Tembien e Capo Orso.
13 aprile 1941
Il convoglio giunge a
Napoli alle 14.30.
21 aprile 1941
Turbine, Folgore (caposcorta), Saetta e Strale salpano da Napoli alle 2.30 (per altra fonte, alle 17)
scortando i piroscafi tedeschi Arcturus, Castellon e Leverkusen e la motonave
italiana Giulia (convoglio
«Arcturus»), con truppe e materiali dell’Afrika Korps. Al convoglio si aggrega
poi anche il piroscafo tedesco Wachtfels,
partito da Palermo; le navi sono poi avviate a Tripoli lungo la rotta delle
Kerkennah.
Nel pomeriggio – a
seguito dell’avvistamento, da parte della ricognizione aerea, di unità leggere
di superficie a Malta – il convoglio viene momentaneamente dirottato a Palermo,
poi viene fatto proseguire ma, per fornire scorta a distanza nel Canale di
Sicilia, vengono fatti uscire in mare anche gli incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere (nave di
bandiera dell’ammiraglio Guido Porzio Giovanola) e Luigi Cadorna, ed i cacciatorpediniere Maestrale e Scirocco.
22 aprile 1941
Alle 22.50, al largo
di Marettimo, il Turbine avvista
un sommergibile emerso sulla dritta del convoglio, a circa 2500 metri di
distanza: la sagoma appare ben distinguibile, tanto che il comandante del Turbine lo identifica come un
sommergibile di tipo francese, munito di due cannoni in coperta. Il Turbine manovra per speronarlo, ma
l’unità avversaria s’immerge rapidamente; allora il cacciatorpediniere dà
inizio alla caccia sistematica con bombe di profondità, lanciandone in tutto 18
fino a mezzanotte, quando il caposcorta ordina al Turbine di abbandonare la caccia e riunirsi al convoglio.
23 aprile 1941
Alle 15.41, a 2,9
miglia per 320° dalla boa n. 1 delle secche di Kerkennah (quando il convoglio
ha iniziato l’accostata per dirigere verso la boa n. 5), il Turbine avvista l’estremità del
periscopio di un altro sommergibile, affiorante a poppavia del convoglio: di
nuovo il cacciatorpediniere attacca l’unità subacquea con bombe di profondità,
ma abbandona la caccia dopo poco tempo perché la maggior parte delle bombe non
esplode, probabilmente a causa della modesta profondità (compresa tra i 20 e i
25 metri).
Sempre nei pressi
delle boe delle Kerkennah vengono incontrate delle barche di pescatori tunisini,
che il caposcorta sospetterà appartenere al «servizio informazioni del nemico» per il loro atteggiamento
(pressoché ferme sulla rotta Pantelleria-boa n. 1), per quanto un’ispezione non
porti a trovare radio od altre prove.
Nel tardo pomeriggio,
presso le boe 3 e 4 delle secche di Kerkennah (cioè ad est delle Kerkennah), il
convoglio viene raggiunto dal gruppo di scorta in diretta, che manda lo Scirocco per prendere accordi circa
le rotte da percorrere nella notte, e si posiziona a poppavia del convoglio,
posizione che manterrà durante la notte.
24 aprile 1941
Alle 00.44 si vedono
chiaramente, su rilevamento 80°, proiettili illuminanti e poi violento tiro
battente, ad una distanza di almeno 30 miglia. Convoglio e scorta diretta ed
indiretta deviano dalla rotta dirigendo verso ponente, ciascun gruppo su
propria iniziativa, in modo da allontanarsi dal potenziale pericolo. Entrambi i
gruppi incrociano poi al largo di Ras Turgoeness, del quale non si vede il
faro, in attesa del giorno, per poter atterrare; tutti si tengono pronti a
reagire ad eventuali attacchi.
Durante la notte,
salpa da Malta per intercettare il convoglio la 14th Destroyer
Flotilla britannica, con i cacciatorpediniere Jervis, Janus, Jaguar e Juno; i cacciatorpediniere britannici non riescono a trovare il
convoglio ed incontrano invece l’incrociatore ausiliario Egeo, che verrà affondato dopo un impari
combattimento. I bagliori visti durante la notte sono quelli del combattimento
nel quale viene affondato l’Egeo, che
ha infatti avuto inizio alle 00.40.
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 17, poco dopo la conclusione di un pesante bombardamento aereo
sulla città. Durante tutto il viaggio, aerei della Regia Aeronautica e del X
Corpo Aereo Tedesco provvedono continuamente a sorvegliare i cieli del
convoglio.
30 aprile 1941
Turbine, Folgore (caposcorta,
capitano di fregata Giuriati), Saetta
e Strale partono da Tripoli
alle 18 (per altra fonte, alle 16) per scortare a Napoli un convoglio di cinque
mercantili, quattro tedeschi (Arcturus, Leverkusen, Castellon e Wachtfels)
ed uno italiano (Giulia). Il
convoglio fruisce anche della scorta indiretta della III e VIII Divisione
Navale.
1° maggio 1941
Alle 11.08 il
convoglio viene avvistato, in posizione 34°38’ N e 11°39’ E, dal sommergibile
britannico Upholder (capitano
di corvetta Malcolm David Wanklyn) che si avvicina a tutta forza in immersione,
per attaccare. Alle 11.31 Wanklyn osserva ancora il convoglio e rileva che
questo sembra disposto su due colonne, con due cacciatorpediniere classe Dardo
a proravia e due cacciatorpediniere classe Turbine sul lato di dritta, uno al
traverso e l’altro verso poppa; alle 11.32, due miglia a sud di Kerkennah, l’Upholder lancia quattro siluri da 2560
metri contro la nave capofila della colonna più vicina, la cui prua si
“sovrappone”, nel periscopio, alla poppa della nave capofila dell’altra colonna
così formando un bersaglio continuo. Subito dopo, il sommergibile ripiega verso
sud.
Tre dei siluri vanno
a segno (l’orario indicato dalle fonti italiane sono le 11.50, discordante
dunque da quello indicato dal sommergibile), colpendo l’Arcturus ed il Leverkusen (capofila
delle due colonne su cui il convoglio è disposto, che sono precedute dal Folgore e dallo Strale impegnati nel dragaggio),
mentre il convoglio si trova presso la boa n. 5 delle Kerkennah. L’Arcturus, centrato da due delle armi, affonda
quasi subito, mentre il Leverkusen,
colpito da un siluro, si apprua, ma riesce poi a tornare in assetto, procedendo
a bassa velocità; sembra galleggiare bene ed il Saetta lo prende a rimorchio, tentando di riportarlo a
Tripoli. In considerazione della scarsa profondità dei fondali nella zona degli
affondamenti, nonché del fatto che nessuno – neanche sul Turbine, che al momento del primo attacco era sulla dritta della
formazione, poco a poppavia dei due mercantili colpiti, e dunque in posizione
adatta per avvistare le scie – ha avvistato scie di siluri od altri segni della
presenza di un’unità subacquea, la scorta attribuisce erroneamente le
esplosioni a mine magnetiche, anziché a siluri lanciati da sommergibile.
Dopo essere emerso
alle 17.30 ed aver lanciato un segnale di scoperta, l’Upholder torna ad immergersi alle 17.55, si avvicina
nuovamente al convoglio ed alle 19.01 lancia altri due siluri, da 1100
metri. Il Leverkusen viene
colpito ancora, ed entro le 19.45 affonda di prua in posizione 34°45’ N e
11°42’ E, quattro miglia a sud di Kerkennah. Il Saetta viene distaccato per recuperare i naufraghi di entrambe
le navi e portarli a Tripoli, mentre Turbine,
Folgore e Strale proseguono con il resto del convoglio.
5 maggio 1941
Dopo una sosta a
Trapani, il convoglio giunge a Napoli alle 7 (secondo altra fonte, invece, vi
sarebbe giunto all’alba del 3 maggio).
A differenza che nel
viaggio di andata, durante questo viaggio la vigilanza aerea italiana e tedesca
è mancata per diverse ore sia nel Canale di Sicilia che nel Tirreno, quando gli
aerei (ricognitori e bombardieri), trattenutisi per poco sul cielo del
convoglio, se ne sono andati senza essere sostituiti.
16 maggio 1941
Lascia Napoli alle
18.30 insieme ai cacciatorpediniere Folgore (caposcorta), Fulmine, Euro e Strale,
scortando in Libia il «26. Seetransport Konvoi», composto dai mercantili
tedeschi Preussen e Sparta e dagli italiani Motia, Capo Orso e Castelverde.
17 maggio 1941
Il convoglio viene
dirottato a Palermo per allarme navale, giungendovi alle 19.
19 maggio 1941
Il convoglio riparte
da Palermo alle 9.30; ad esso si sono unite le navi cisterna Panuco e Superga.
Alle 19 salpa da
Palermo anche una forza di copertura, costituita dagli incrociatori
leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi con i
cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino.
Alle 11.30 un
sommergibile lancia una salva di siluri contro il convoglio; per
evitarli, Preussen e Panuco entrano in collisione, ma
non riportano danni di rilievo e possono proseguire entrambe.
20 maggio 1941
Alle 9.32 il
sommergibile britannico Urge (tenente
di vascello Edward Philip Tomkinson) avvista su rilevamento 020° un
cacciatorpediniere seguito da altre navi, che due minuti dopo identifica come
una formazione composta da due incrociatori e tre cacciatorpediniere, che
passano a 6 miglia di distanza: è la forza di copertura del «26. Seetransport
Konvoi». Poco dopo, l’Urge avvista
su rilevamento 315° un’altra nave, troppo distante per poter essere
identificata, ed alle 9.40 scende a 27 metri e modifica la rotta per evitare un
idrovolante che ha avvistato su rilevamento 080°, a distanza di soli 730 metri,
diretto proprio verso di lui. Tornato a quota periscopica alle 9.47, il
sommergibile si avvede che la nave avvistata in precedenza è un
cacciatorpediniere, che procede a zig zag davanti ad un convoglio di quattro
navi, che navigano a 12 nodi su rotta 135° con la scorta di cinque
cacciatorpediniere.
L’Urge passa quindi all’attacco (in
posizione 35°44’ N e 11°59’ E o 35°46’ N e 11°56’ E, una quarantina di miglia a
nordovest di Lampedusa), lanciando alle 10.52 quattro siluri contro il Capo Orso e la Superga (la cui stazza è sovrastimata da
Tomkinson rispettivamente in 7000 e 9000 tsl), poi s’immerge a maggiore
profondità; nonostante l’Urge rivendichi
tre centri e l’affondamento di entrambi i mercantili, in realtà nessuno dei
siluri va a segno, e l’Euro ne
risale le scie e contrattacca con bombe di profondità. Al termine della caccia
l’Euro ritiene di aver affondato
il sommergibile, ma anche in questo caso si tratta di una rivendicazione
errata; in realtà l’Urge, che è sceso a 85 metri di profondità, è
riuscito a scampare senza subire danni seri, e potrà tornare a quota
periscopica alle 11.35. Il sommergibile britannico rileva lo scoppio di dieci
bombe di profondità nei 10 minuti successivi all’attacco, nessuna delle quali
molto vicina; va però notato che Tomkinson registra anche, poco dopo gli
“scoppi” dei “siluri” (che in realtà non sono tali, non avendo colpito), “una
tremenda esplosione” che arreca alcuni lievi danni all’Urge e provoca il ferimento di diversi membri dell’equipaggio.
Siccome, contrariamente a quanto ritenuto da Tomkinson, nessuna nave è stata
colpita, e tanto meno è esplosa, sembra logico supporre che questi danni e
feriti siano stati in realtà causati dalle bombe di profondità dell’Euro.
21 maggio 1941
Il convoglio giunge a
destinazione alle 11.
22 maggio 1941
Il Turbine parte da Tripoli alle tre di
notte per scortare a Bengasi il piroscafo italiano CadaMosto ed il tedesco Tilly
L. M. Russ.
25 maggio 1941
Il convoglietto
raggiunge Bengasi alle 15.30.
27 maggio 1941
Alle 8 il Turbine parte da Tripoli insieme ad Euro, Folgore (caposcorta) e Fulmine per scortare a Napoli un convoglio formato dai piroscafi
tedeschi Duisburg e Preussen (con a bordo 568
prigionieri), dagli italiani Bosforo e Bainsizza e dalle navi
cisterna Superga e Panuco. È in mare anche una forza di
copertura, costituita dall’incrociatore leggero Luigi Cadorna e dai cacciatorpediniere Maestrale e Grecale.
Il convoglio era già
partito da Tripoli alle 9 del 25 maggio, ma era dovuto rientrare alle 15 del 26
in seguito all’avvistamento di luci sospette tra Lampedusa e Linosa, per poi
ripartire alle 8 del 27. Non è chiaro se il Turbine
facesse parte della scorta anche nella prima “falsa partenza” (ciò sembrerebbe
essere difficilmente compatibile con l’orario di arrivo a Bengasi del convoglio
CadaMosto-Tilly Russ, a meno che il Turbine
non lo avesse lasciato prima di giungere a destinazione).
29 maggio 1941
Duisburg e Superga entrano
rispettivamente a Trapani e Palermo alle 23 ed alle 24, mentre il resto del
convoglio prosegue per Napoli. La forza di scorta indiretta è già rientrata a
Palermo in mattinata.
30 maggio 1941
Il convoglio giunge a
Napoli all’1.30.
30 giugno 1941
Turbine, Freccia (caposcorta),
Dardo e Strale salpano da Napoli alle 18 per scortare a Tripoli le motonavi
Andrea Gritti, Francesco Barbaro, Sebastiano
Venier, Barbarigo, Rialto ed Ankara (quest’ultima tedesca).
Il mare è mosso; il
viaggio procede tranquillamente alla velocità di 16 nodi, senza alcun allarme.
2 luglio 1941
Il convoglio
raggiunge Tripoli alle 18.
28 luglio 1941
Alle 3.40 il Turbine si unisce ai cacciatorpediniere Freccia (caposcorta), Dardo e Strale nella scorta di un convoglio formato dai piroscafi Bainsizza, Spezia (tedesco) ed Amsterdam e
dalla motonave Col di Lana,
partiti da Napoli il giorno precedente e diretti a Tripoli con un carico di
rifornimenti per l’Afrika Korps. In mare, per coprire questo ed altri convogli,
si trovano (fino alle 19 del 28) gli incrociatori leggeri Raimondo Montecuccoli e Giuseppe Garibaldi ed i
cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino
della XII Squadriglia. Il mare non è molto mosso.
Durante la notte, nel
Canale di Sicilia, il convoglio viene attaccato da aerei: per prima cosa alcuni
ricognitori lo illuminano a giorno col lancio di una quarantina di bengala; la
scorta reagisce emettendo fumo ed aprendo il fuoco contro i ricognitori. Poi,
si scatena l’attacco degli aerosiluranti, che s’insinuano tra i mercantili
volando a bassissima quota: ne scaturisce una grande confusione, dato che i
mercantili si difendono sparando rabbiosamente con il loro armamento contraereo
e, siccome gli aerei volano bassissimi ed i piroscafi sparano con alzo zero per
colpirli, molti proiettili finiscono sulle unità della scorta, per fortuna
senza conseguenze. È una vera baraonda tra fumo, bengala e traccianti; gli
aerosiluranti lanciano i loro siluri da varie direzioni, ma non colpiscono
niente.
Terminato l’attacco,
rimane un solo ricognitore che pedina il convoglio per un’altra mezz’ora, poi
se ne va a sua volta.
29 luglio 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 19.15.
Nei giorni seguenti
il porto viene ripetutamente bombardato.
4 agosto 1941
Il Turbine, insieme ai
cacciatorpediniere Freccia (caposcorta,
capitano di fregata Giorgio Ghè), Dardo,
Strale e Lanzerotto Malocello ed alla torpediniera Pegaso, parte da Tripoli alle 8 (o 9.30) scortando i
piroscafi Amsterdam, Bainsizza e Maddalena Odero e la motonave Col di Lana (convoglio «Amsterdam»,
con velocità 10 nodi).
5-6 agosto 1941
Nella notte sul 6
agosto, al largo di Pantelleria, il convoglio viene attaccato da aerei. Il
caposcorta ordina l’emissione di nebbia artificiale, ma tale provvedimento si
rivela inefficace, perché rende più visibile la posizione del convoglio;
risulta inutile accostare verso i bengala, perché gli aerei ne lanciano su
entrambi i lati del convoglio. Ad ogni modo, nessuna nave viene colpita.
7 agosto 1941
Il convoglio
raggiunge Napoli alle 2.30 (o 7.30).
20 novembre 1941
Il Turbine (capitano di corvetta Mario
Rocca) e la torpediniera Perseo (tenente
di vascello Alessandro Cavriani) salpano da Napoli alle 20 scortando il primo
scaglione del convoglio «C», composto dalle motonavi Napoli e Vettor
Pisani.
Il convoglio fa parte
di un’operazione di traffico volta ad inviare urgenti rifornimenti in Libia,
dov’è iniziata da pochi giorni un’offensiva britannica (operazione «Crusader»)
e dopo che la distruzione del convoglio «Duisburg», avvenuta il 9 novembre ad
opera della Forza K britannica, ha provocato la perdita di un ingente
quantitativo di rifornimenti diretti in Africa Settentrionale.
Dopo qualche giorno
di parziale stasi dovuto al disastro del 9 novembre, infatti, il capo di Stato
Maggiore generale, maresciallo Ugo Cavallero, ha dato ordine il 13 novembre di
far partire immediatamente per la Libia le motonavi già cariche e pronte alla
partenza, con poderosa scorta di almeno due divisioni di incrociatori, con
operazione da svolgersi al più presto, al fine di "sfruttare il vantaggio
della sorpresa".
Supermarina,
d’accordo con Superareo, ha quindi subito provveduto a dare le disposizioni per
l’invio a Tripoli delle sei motonavi già pronte a Napoli (Vettor Pisani, Napoli, Monginevro, Ankara, Sebastiano
Venier ed Iridio Mantovani),
lungo la rotta di levante, passando per lo Stretto di Messina e tenendosi poi
al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta (190 miglia).
L’operazione vede in
mare altri due gruppi di due moderne motonavi ciascuno: il secondo scaglione
del convoglio «C», partito da Napoli alle 5.30 del 21 (motonave Monginevro, nave cisterna Iridio Mantovani,
cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco,
torpediniera Enrico Cosenz) ed
il convoglio «Alfa», salpato da Napoli alle 19 del 20 (motonavi Ankara e Sebastiano Venier e cacciatorpediniere Maestrale, Alfredo Oriani e Vincenzo
Gioberti). La III e VIII Divisione Navale dovranno dare loro protezione;
dallo stretto di Messina in poi, dovranno navigare ad immediato contatto col
convoglio «C», quasi incorporate in esso.
Al contempo, una
motonave veloce (la Fabio Filzi)
sarà inviata sempre a Tripoli ma sulla rotta di ponente (per il Canale di
Sicilia), con la scorta di un paio di cacciatorpediniere (oltre che di aerei:
sia sui due convogli che sulla Filzi la
scorta aerea dovrà essere continua, nelle ore diurne, dal 20 al 23 novembre),
per non dare nell’occhio. Contestualmente saranno inviati a Bengasi
l’incrociatore leggero Luigi Cadorna in
missione di trasporto di carburante (da Brindisi) e le motonavi Città di Palermo e Città di Tunisi cariche di truppe
(da Taranto), e verranno fatte rientrare in Italia le navi rimaste bloccate a
Tripoli dall’inizio di novembre. L’idea è che un tale numero di navi in
movimento contemporaneamente, divise in più convogli sparsi su una vasta area,
confonda e disorienti la ricognizione maltese; che i convogli finiscano col
coprirsi a vicenda; che la presenza in mare della III e VIII Divisione scoraggi
interventi da parte della Forza K britannica (autrice della distruzione del
convoglio «Duisburg»), notevolmente inferiore per numero e potenza
(incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively). L’Aeronautica, oltre alla scorta antiaerea ed
antisommergibile dei convogli, effettuerà anche azioni di ricognizione e di
bombardamento degli aeroporti di Malta. Alcuni sommergibili vengono disposti in
agguato nelle acque circostanti l’isola.
Dopo vari rinvii
dovuti al maltempo (che impedisce l’utilizzo degli aeroporti della Sicilia),
l’operazione prende il via, ma fin da subito molte cose non vanno per il verso
giusto. Il convoglio «Alfa» viene avvistato da un ricognitore britannico poco
dopo la partenza; quando viene intercettato un messaggio radio britannico dal
quale risulta che una forza navale britannica non è molto lontana, il convoglio
viene dirottato ad Argostoli, ponendo così fine alla sua partecipazione nell’operazione.
21 novembre 1941
Alle 00.23 la Perseo lascia la scorta del
convoglio.
I due scaglioni del
convoglio «C» si uniscono invece poco prima di imboccare lo stretto di Messina
(poco dopo le 16 del 21), costituendo una formazione unica, sotto la direzione
del Da Recco, procedendo a 14
nodi.
A protezione
dell’operazione esce in mare da Napoli, alle 8.10 del 21, la VIII Divisione
(incrociatori leggeri Luigi di
Savoia Duca degli Abruzzi, nave di bandiera del comandante superiore in
mare, ammiraglio di divisione Giuseppe Lombardi, e Giuseppe Garibaldi; cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Corazziere, Carabiniere e Camicia
Nera) quale scorta indiretta, seguita alle 19.30 dello stesso giorno dalla
III Divisione (incrociatori pesanti Trento, Trieste e Gorizia, quest’ultimo nave ammiraglia) per scorta strategica.
Poco dopo le 16, la
VIII Divisione raggiunge il convoglio «C» e ne assume la scorta diretta; quasi
contemporaneamente, però (mentre ancora la formazione è a nord della Sicilia),
convoglio e scorta vengono avvistati da un aereo e da un sommergibile
avversari, che segnalano a Malta la presenza di navi mercantili e navi da
guerra italiane dirette verso lo stretto di Messina. Supermarina intercetta e
decifra entrambi i segnali di scoperta; stante però la potente scorta di cui il
convoglio gode, sia Supermarina che l’ammiraglio Lombardi decidono di
proseguire, senza neanche modificare la rotta.
Alle 18 Da Recco e Cosenz lasciano la scorta, venendo
sostituiti dai cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi, Emanuele Pessagno ed Antonio Da Noli. Alle 19.50 il convoglio
e la VIII Divisione imboccano lo stretto di Messina, e poco dopo vengono
raggiunti anche dalla III Divisione dell’ammiraglio Angelo Parona. La VIII
Divisione si posiziona in testa al convoglio, la III in coda; tutta la
formazione assume direttrice di marcia lungo la costa siciliana, a 14 nodi,
come ordinato. Alle 20.45 l’ammiraglio Lombardi viene informato da Supermarina
che forze di superficie britanniche sono in mare, e provvede ad ordinare a
tutte le unità "posto di combattimento generale", avvisandole
dell’eventualità di un incontro notturno con navi nemiche. Contemporaneamente
il convoglio inizia ad essere sorvolato da ricognitori britannici, che volano
sul suo cielo con qualche luce volutamente lasciata accesa, in modo da attirare
il fuoco contraereo delle navi, che segnalano così, involontariamente, la
direttrice di marcia del convoglio. L’ammiraglio Lombardi ordina tassativamente
di non aprire il fuoco contro i ricognitori, essendo peraltro inutile, proprio
per evitare di segnalare la propria posizione; ma durante la notte diverse
navi, soprattutto tra quelle mercantili, si lasciano sfuggire sporadiche
raffiche di mitragliera contro tali velivoli.
I ricognitori non
perdono mai di vista il convoglio, aggiornando continuamente Malta sui suoi
spostamenti: innumerevoli messaggi vengono intercettati e decifrati sia da
Supermarina che dal comando della VIII Divisione.
Alle 21.45 la
formazione assume rotta 96°, in modo da uscire prima possibile dal raggio
d’azione degli aerosiluranti, e poco dopo si dispone in ordine di marcia
notturna, con l’VIII Divisione a dritta e la III a sinistra. Tale cambiamento
di rotta e formazione viene ordinato dall’ammiraglio Lombardi per cercare di
disorientare i ricognitori; ma poco dopo ricompaiono i bengala ed i fanalini
dei ricognitori, a mostrare che il convoglio non è stato perso di vista. Non
passa molto, anzi, prima che inizi una serie di violenti attacchi aerei; ed
anche sommergibili britannici si avvicinano al convoglio per attaccarlo.
Alle 23.12 il Trieste viene silurato dal sommergibile
britannico Utmost (capitano
di corvetta Richard Douglas Cayley), riportando danni gravissimi: rimane
immobilizzato, e potrà rimettere in moto solo alle 00.38, scortato da Corazziere e Carabiniere, per trascinarsi verso
Messina. Ma non è finita.
22 novembre 1941
Poco dopo le 00.30
diverse unità sentono rumore di aerei, e dopo pochi secondi molti bengala
iniziano ad accendersi, uno dopo l’altro, nel cielo a nord del convoglio, su
rotta ad esso parallela: l’ammiraglio Lombardi ordina subito a tutte le unità
di accostare a un tempo di 90° verso sud, per dare la poppa ai bengala. Si
prepara infatti un attacco di aerosiluranti, ben 22 Fairey Swordfish dell’830th
Squadron della Fleet Air Arm: Duca
degli Abruzzi, Garibaldi e
le quattro motonavi appaiono ben visibili nella luce dei bengala. L’ordine
viene eseguito, ma alle 00.38 anche il Duca
degli Abruzzi viene colpito da un siluro d’aereo, e si ferma con gravi
danni.
La conseguente menomazione
della forza di scorta, insieme ai continui e violenti attacchi aerei ed alla
notizia della presenza in mare di forze di superficie britanniche, inducono
l’ammiraglio Lombardi ad ordinare che il convoglio, accompagnato da Trento e Gorizia e dalla XI Squadriglia Cacciatorpediniere (oltre alla
scorta diretta), rientri a Taranto; Supermarina conferma l’ordine. Garibaldi e XIII Squadriglia
rimangono ad assistere il Duca degli
Abruzzi; anche il Turbine riceve
ordine di lasciare il convoglio (tutti i mercantili, dispersisi sotto gli
attacchi aerei, rientreranno alla spicciolata a Taranto su ordine del
comandante superiore in mare, poi confermato da Supermarina) ed andare in
soccorso dell’incrociatore silurato.
Il Duca degli Abruzzi rimette in moto già
alle 00.40, non avendo subito danni nei locali dell’apparato motore; gli
allagamenti vengono anch’essi agevolmente contenuti, ma il siluro, che ha
colpito a poppa, ha causato seri danni al timone, il che impedisce
all’incrociatore di governare. Per quasi tre ore il Duca degli Abruzzi gira in tondo – pur di non restare fermo,
bersaglio immobile e fin troppo facile per gli attaccanti – mentre l’equipaggio
ripara i danni agli apparati di governo, sotto la protezione di Garibaldi e XIII Squadriglia che lo
occultano con cortine nebbiogene e sparano intensamente contro bombardieri ed
aerosiluranti che seguitano ad attaccare.
Alle 3.23,
finalmente, il timone è riparato ed il Duca
degli Abruzzi è in grado di fare rotta per le coste della Calabria,
alla velocità di 6 nodi; alle sette del mattino l’incrociatore danneggiato è
circondato dai cacciatorpediniere Turbine,
Corazziere, Carabiniere, Vivaldi, Da Noli, Granatiere, Fuciliere e Alpino e dalla torpediniera Perseo. Tutte le siluranti evoluiscono
intorno al Duca degli Abruzzi,
emettendo cortine fumogene per occultarlo.
L’incrociatore,
assistito dal rimorchiatore Impero e scortato da Granatiere, Fuciliere, Alpino, Vivaldi, Da Noli e Perseo,
riuscirà faticosamente a rientrare a Messina alle 11.42; Turbine, Corazziere e Carabiniere
dirigono invece per Reggio Calabria, dove arrivano alle 12.40.
29 novembre 1941
Il Turbine scorta il piroscafo Arca, carico di munizioni, da Brindisi a
Patrasso.
1° dicembre 1941
Scorta nuovamente l’Arca da Brindisi a Patrasso.
6 dicembre 1941
Il Turbine salpa dal Pireo per scortare a
Suda il piroscafo tedesco Bellona,
carico di materiali per le forze armate tedesche.
Alle 23.30 il
sommergibile britannico Proteus
(capitano di corvetta Philip Stewart Francis), intento a ricaricare le proprie
batterie in superficie, avvista in posizione 36°41’ N e 23°29’ E, su
rilevamento 020°, due sagome che Francis identifica inizialmente come
cacciatorpediniere, aventi rotTA 160°,
a cinque miglia di distanza. In considerazione della buona luce lunare, che
rischia di facilitare il suo avvistamento, Francis decide d’immergersi ed
avvicinarsi in immersione ad elevata velocità; alle 23.45 identifica i suoi
bersagli come una nave mercantile scortata da “un cacciatorpediniere od una
torpediniera”. Si tratta di Turbine e
Bellona. Il Proteus continua ad avvicinarsi ad elevata velocità.
7 dicembre 1941
Alle 00.06, prima che
il Proteus possa lanciare contro il Bellona (che dista in quel momento 3660
metri), il Turbine – distante 1830
metri dal sommergibile – vira improvvisamente verso il sommergibile britannico,
aumentando la velocità. Il Proteus
deve così rinunciare all’attacco e scendere in profondità; alle 00.10 il Turbine inizia a bombardarlo con bombe
di profondità, lanciandone in tutto quattro, delle quali la prima esplode
“piuttosto vicina” al sommergibile. Alle 00.50, non rilevando più rumore di
motrici di navi, il Proteus riemerge,
e non trova più nessuno.
Alle 7.26 un altro
sommergibile britannico, il Truant
(capitano di corvetta Hugh Alfred Vernon Haggard), in agguato al largo di Capo
Drepano, avvista il Turbine ed il Bellona, che lo segue ad una distanza di
circa 550 metri, in uscita dalla baia di Suda e diretti verso est, con un
idrovolante sul loro cielo. Alle 7.47, a 3,8 miglia per 084° dall’isolotto di
Suda, il Truant lancia tre siluri
contro il Bellona da una distanza di
1370 metri: sebbene a bordo del sommergibile britannico venga avvertita una
forte esplosione dopo 52 secondi (seguita dopo cinque minuti da altre due meno
violente, ritenute essere gli altri due siluri che esplodono contro la costa),
nessuna delle armi è andata a segno. Alle 7.53 il Truant torna a quota periscopica ed osserva il Bellona, che sembra fermo. Tra le 7.57 e le 8.28 il Turbine lancia 20 bombe di profondità
conto il Truant; tutte esplodono "vicine, ma non molto vicine"
(secondo il rapporto di Haggard), causando soltanto danni di lieve entità.
Terminato il
contrattacco, Turbine e Bellona raggiungono indenni Suda alle
9.30.
12 dicembre 1941
Il Turbine parte da Taranto alle 11 di
scorta al piroscafo Iseo, diretto in
Africa Settentrionale da dove poi dovrà proseguire per Argostoli. In mare
aperto si unisce alle due navi un secondo gruppo, partito da Brindisi,
costituito dal piroscafo Capo Orso e
dal cacciatorpediniere Strale: le
quattro unità formano un unico convoglio, che ha come caposcorta lo Strale (per altra versione tutte e
quattro le navi sarebbero salpate insieme da Taranto).
13 dicembre 1941
Il convoglio arriva
ad Argostoli in mattinata. Durante la sosta nel porto greco, le navi vengono
attaccate da 6 bombardieri britannici Bristol Blenheim Mk. IV del 107th Squadron
della Royal Air Force, decollati da Luqa (Malta) e guidati dal sottotenente
Ivor Broom (gli altri cinque aerei sono pilotati rispettivamente dal
sottotenente William Williamson e dai sergenti Noseda, Crossley, Gracie e Lee).
Siccome se attaccassero dal mare verrebbero avvistati da maggiore distanza, i
Blenheim seguono un percorso più largo e si avvicinano a Cefalonia sorvolando
l’entroterra greco-albanese, per poi puntare sull’isola solo nella fase finale
dell’avvicinamento; conducono l’attacco a volo radente, quasi sfiorando gli
alberi delle navi. Sganciate le bombe (Broom e Crossley effettuano anche dei
passaggi di mitragliamento contro i cacciatorpediniere), virano bruscamente
verso destra e si allontanano verso ovest, sorvolando le colline che dominano
il porto. Su di loro fanno fuoco le batterie contraeree situate sulle alture
circostanti la baia di Argostoli e le armi antiaeree dei cacciatorpediniere, ed
interviene anche un caccia Macchi della Regia Aeronautica in volo sul porto
(forse un Macchi Mc 202), respinto – secondo fonti britanniche – dall’aereo del
sergente Crossley. Nessuna nave subisce danni (contrariamente alle affermazioni
di Broom, che nel 1987, divenuto maresciallo a riposo della RAF, affermerà che
una nave sarebbe stata affondata ed un’altra seriamente danneggiata; secondo
altro resoconto britannico, parimenti errato, Broom avrebbe colpito un
mercantile con una bomba, mentre un’altra avrebbe mancato il bersaglio di 7-8
metri), mentre gli attaccanti perdono due dei sei aerei: uno (il Z7800 pilotato
dal sergente A. J. Lee), colpito dal tiro delle navi o da quello del Macchi,
impatta contro la superficie del mare ed affonda (il suo equipaggio – sergenti
A. J. Lee, R. Haggett ed Ambrose John Comeau – viene tratto in salvo da mezzi
italiani e fatto prigioniero); l’altro viene centrato dal tiro delle navi
durante il sorvolo, e precipita con la morte di tutto l’equipaggio (sergente R.
G. Gracie, pilota; sergente A. P. McLean, osservatore; sergente J. S.
Calderwood, operatore radio, questi ultimi due canadesi), i cui corpi vengono
recuperati e sepolti nel cimitero di Argostoli.
Qualche ora dopo
vengono inviati ad attaccare le navi presenti ad Argostoli altri cinque
Blenheim, appartenenti al 18th Squadron della RAF (anch’essi
decollati da Luqa), armati ciascuno con 600 kg di bombe. Anche questo attacco è
infruttuoso per i britannici, che perdono un altro Blenheim (il Z7858, pilotato
dal sergente Frank Jury) attaccato da un caccia Macchi Mc 202, che ne danneggia
il motore di sinistra, con perdita dell’elica. Il Blenheim tenta di tornare
verso Malta, ma è costretto ad ammarare vicino ad un peschereccio presso
Delimara, dopo essersi liberato della bomba che ha ancora a bordo. Tutto l’equipaggio
(sergente Frank Jury, pilota; sergente Tom Black, navigatore; sergente Dennis
J. Mortimer, mitragliere) sopravvive riportando soltanto lievi ferite, e viene
tratto in salvo dai pescatori maltesi.
In tutto, secondo una
fonte, la RAF avrebbe lanciato ben quattro aerei contro il convoglio Iseo-Capo
Orso durante la sosta ad Argostoli, nella mattina del 13 dicembre,
tutti senza successo.
Alle 15.30 (o
18) Turbine, Strale, Iseo e Capo Orso
ripartono per Bengasi, nell’ambito dell’operazione di traffico «M. 41»: adesso
il ruolo di caposcorta è passato al Turbine.
Dopo le gravi perdite
subite dai convogli diretti in Libia nelle settimane precedenti, le forze
italo-tedesche in Nordafrica si trovano in situazione di grave carenza di
rifornimenti proprio mentre è in corso una nuova offensiva britannica,
l’operazione «Crusader», ed urge rifornirle.
Con la «M. 41»,
Supermarina intende inviare a Tripoli e Bengasi tutti i mercantili già carichi
presenti nei porti dell’Italia meridionale, mobilitando per la loro protezione,
diretta e indiretta, pressoché tutta la flotta in condizioni di efficienza.
Sono previsti tre
convogli: l’«A», da Messina a Tripoli, formato dalle moderne motonavi Fabio Filzi e Carlo Del Greco scortate dai
cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco ed Antoniotto Usodimare (poi dirottato
su Taranto per unirsi da subito all’«L» ma distrutto durante tale percorso dal
sommergibile britannico Upright);
l’«L», da Taranto per Tripoli, formato dalle motonavi Monginevro, Napoli e Vettor Pisani scortate dai
cacciatorpediniere Freccia ed Emanuele Pessagno (con a bordo il
contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone) e dalla torpediniera Pegaso; e l’«N», da Navarino ed
Argostoli per Bengasi, costituito da Capo
Orso, Iseo, Turbine e Strale, cui si devono aggiungere la motonave tedesca Ankara, il cacciatorpediniere Saetta e la torpediniera Procione provenienti da Argostoli.
Ogni convoglio deve
fruire della protezione di una forza navale di sostegno, che di giorno si terrà
in vista dei trasporti e di notte a stretto contatto con essi. Il gruppo
assegnato al convoglio «N» è composto dalla corazzata Andrea Doria e dalla VII Divisione (ammiraglio di divisione
Raffaele De Courten) con gli incrociatori leggeri Muzio Attendolo ed Emanuele
Filiberto Duca d’Aosta, mentre gli altri due convogli saranno protetti
dalla corazzata Duilio (nave
ammiraglia dell’ammiraglio di squadra Carlo Bergamini) e da un’eterogenea VIII
Divisione composta per l’occasione dagli incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi (nave di
bandiera dell’ammiraglio Giuseppe Lombardi, comandante della VIII Divisione)
e Raimondo Montecuccoli e
dall’incrociatore pesante Gorizia (con
a bordo l’ammiraglio di divisione Angelo Parona).
Infine, a tutela
dell’intera operazione contro un’eventuale uscita in mare delle corazzate della
Mediterranean Fleet, prende il mare la IX Divisione Navale (ammiraglio di
squadra Angelo Iachino, comandante superiore in mare) con le moderne
corazzate Littorio e Vittorio Veneto, scortate dalla XIII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino).
Queste navi si dovranno posizionare nel Mediterraneo centrale.
A completamento dello
schieramento, un gruppo di sommergibili viene dislocato nel Mediterraneo
centro-orientale con compiti esplorativi ed offensivi; è inoltre previsto un imponente
intervento della Regia Aeronautica.
Per via della carenza
di navi scorta e del tempo necessario a reperirne, l’operazione, inizialmente
prevista per il 12 dicembre, viene posticipata di un giorno.
Nel tardo pomeriggio
del 13, quando i convogli sono già in mare, la ricognizione aerea comunica a Supermarina
che una consistente forza britannica, comprensiva di corazzate ed incrociatori
(in realtà sono solo quattro incrociatori leggeri: i ricognitori hanno
grossolanamente sovrastimato la composizione e potenza della forza avvistata),
si trova tra Tobruk e Marsa Matruh, diretta verso ovest. La somma delle forze
italiane in mare è complessivamente superiore, ma si trova divisa in gruppi tra
loro distanziati e vincolati a convogli lenti e poco manovrieri; per questo,
alle ore 20 Supermarina decide di sospendere l’operazione, ed i convogli
ricevono ordine di rientrare. Ciò non basterà ad evitare danni: durante la
notte, il sommergibile britannico Urge silurerà
la Vittorio Veneto,
danneggiandola gravemente.
Alle 22.50 il Turbine, ricevuto ordine da Supermarina
di rientrare in porto in seguito alla sospensione dell’operazione, ordina
ad Capo Orso ed Iseo, che procedono in linea di fronte,
d’invertire la rotta: durante la manovra, a coronamento di una delle notti più
funeste della guerra per la Marina italiana, l’Iseo sperona il Capo
Orso, ed entrambe le navi riportano danni piuttosto seri, per quanto non
tali da impedire loro di rientrare in porto con i propri mezzi.
14 dicembre 1941
Entrambi i piroscafi
e la loro scorta riescono a raggiungere Argostoli alle nove-dieci del mattino.
Secondo decrittazioni
di “ULTRA” del 15 dicembre, entrambe le navi avrebbero serie falle, ed il Capo Orso sarebbe stato portato
all’incaglio per evitarne l’affondamento (ma ciò appare strano, considerato che
già due giorni dopo la nave sarà in grado di trasferirsi a Patrasso senza
scorta).
Poco dopo l’arrivo ad
Argostoli, il Turbine vi imbarca 35
naufraghi rimpatrianti dell’equipaggio civile della motonave Calitea (affondata il giorno precedente
dal sommergibile britannico Talisman),
trasbordati dal Freccia, che li ha
recuperati insieme ad altri sopravvissuti e li ha portati ad Argostoli.
Terminato l’imbarco, il Turbine
lascia Argostoli diretto a Patrasso, dove sbarca i naufraghi (che saranno poi
rimpatriati tre giorni dopo dalla motonave Calino).
23 dicembre 1941
Il Turbine, insieme alle torpediniere Lupo, Sirio e Pegaso,
all’incrociatore ausiliario Brioni ed
al cacciasommergibili tedesco Drache,
scorta da Suda al Pireo un convoglio formato dalla cisterna militare Volturno, dalle motonavi italiane Città di Agrigento, Città di Alessandria e Città di Savona e dai piroscafi
tedeschi Salzburg e Santa Fe, carichi di truppe e materiali.
Alcune immagini del Turbine al Pireo, nel dicembre 1941 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Domenico Jacono e www.associazione-venus.it)
30 dicembre 1941
Il Turbine parte da Argostoli alle otto del
mattino per scortare a Navarino la motonave Città
di Marsala, avente a bordo materiali tra cui veicoli, trattori, munizioni,
olio in fusti nonché truppe (alcuni ufficiali e 54 soldati) destinate a
Navarino e Patrasso.
Alle 8.45 il
sommergibile britannico Proteus
(capitano di corvetta Philip Stewart Francis), in agguato a 2,5 miglia peR 195° dall’isola di Vardiani, avvista Turbine e Città di Marsala in uscita da Argostoli, con rotTA 180°, da una distanza di tre miglia,
e manovra per attaccare. Alle 8.53 le due navi italiane virano di 90° a dritta,
ed alle 9.01 il Proteus lancia tre
siluri da 1830 metri di distanza, per poi scendere subito in profondità. Uno
dei siluri va a segno, colpendo la Città
di Marsala in sala macchine, in posizione 38°02’ N e 20°22’ E, una decina
di miglia a sudovest di Argostoli.
Il Turbine inizia il contrattacco alle
9.05: lancia in totale trenta bombe di profondità, di cui però solo le prime
tre o quattro esplodono vicine al Proteus,
senza tuttavia causare danni. La Città di
Marsala, intanto, sbanda pericolosamente e viene abbandonata da gran parte
del personale imbarcato, ma rimane a galla a dispetto dei gravi danni; quando
il Proteus torna a quota periscopica
alle 10.15, vede la motonave ancora a galla ed il Turbine intento a pattugliare verso il mare aperto, ed alle 11.05,
quando Francis dà un’altra occhiata al periscopio, vede la Città di Marsala molto bassa sull’acqua, con il Turbine ancora in pattugliamento.
Ritenendo la sua vittima ormai spacciata, il Proteus se ne va; in realtà la motonave, raggiunta da due
rimorchiatori subito inviati sul posto da Argostoli, può essere rimorchiata in
salvo in quel porto, e verrà in seguito riparata.
9 gennaio 1942
In mattinata il Turbine viene fatto partire da Marimorea
(Comando militare marittimo in Grecia occidentale) per
andare in soccorso del piroscafo Fedora,
silurato dal sommergibile HMS Thrasher
alle quattro del mattino, 35 miglia a sudest di Capo Dukato. Il Fedora, tuttavia, affonda alle 5.40,
prima che il Turbine possa
raggiungerlo; alle 8.20 il cacciatorpediniere incontra l’incrociatore
ausiliario Brindisi (capitano di
corvetta Filippo Rando), che scortava il Fedora
e che ne ha salvato l’equipaggio, e le due navi fanno rotta insieme per
Patrasso, dove giungono alle 14.15.
29 gennaio 1942
Il Turbine (al comando del capitano di
corvetta Giulio Rocca, 36 anni, da Venezia) parte da Brindisi di scorta al
piroscafo Absirtea, diretto a
Patrasso.
1° febbraio 1942
Dopo una breve sosta
a Corfù, il convoglio, cui si sono uniti anche il piroscafo tedesco Macedonia ed il
cacciatorpediniere Euro
(provenienti da Bari), riparte alla volta di Patrasso; caposcorta è il
comandante Rocca del Turbine.
I due trasporti, con
rotTA 173°, procedono in linea di
fronte (Macedonia a dritta
ed Absirtea a sinistra), ad
una velocità di appena cinque nodi, in conseguenza del mare molto agitato da Scirocco; il Turbine zigzaga sulla sinistra del convoglio, l’Euro sulla dritta.
Alle 10.45, a sei
miglia per 320° da Capo Dukato nell’Isola di Santa Maura (Isole Ionie), l’Absirtea avvista le scie di tre
siluri a sinistra; nonostante la contromanovra subito iniziata, solo un siluro
può essere evitato, mentre gli altri due colpiscono il piroscafo a a
poppa, alle 10.46.
Il Macedonia, intanto, accosta subito a
dritta e viene fatto allontanare alla massima velocità, mentre Turbine ed Euro lanciano delle bombe di profondità sulla sinistra dell’Absirtea, onde impedire al sommergibile
che l’ha silurato di attaccare anche il piroscafo tedesco.
L’attaccante è il
sommergibile britannico Thunderbolt (capitano
di corvetta Cecil Bernard Crouch), che alle 10.30, a 4,4 miglia per 291° da
Capo Dukato (in posizione 38°35’ N e 20°27’ E), ha avvistato – in condizioni di
scarsa visibilità – il convoglio italiano mentre procedeva su rotta 130°, da
una distanza di 3800 metri. Il sommergibile è penetrato all’interno dello
schermo dei cacciatorpediniere ed alle 10.43 ha lanciato una salva di tre
siluri contro l’Absirtea, da soli 915
metri di distanza. Anche dopo il lancio, il Thunderbolt è rimasto a quota periscopica allo scopo di
attaccare anche il secondo mercantile; ha visto uno dei siluri andare a segno
sull’Absirtea, ma la rapida accostata
a dritta del Macedonia ha vanificato
il proposito di attaccarlo, pertanto Crouch ha ordinato di scendere in
profondità. Sul Thunderbolt vengono
contate 21 esplosioni di bombe di profondità, delle quali sono vicine le prime,
che causano alcuni danni di minore entità.
A causa del mare
agitato, il Turbine non ha potuto
avvistare né il periscopio, né le scie dei siluri, impedendo così al comandante
Rocca di stimare la posizione del sommergibile; questi decide di conseguenza di
proseguire per Patrasso scortando il Macedonia,
distaccando l’Euro per prestare
assistenza all’Absirtea.
Mentre Turbine e Macedonia raggiungeranno regolarmente Patrasso, i tentativi dell’Euro di prendere a rimorchio l’Absirtea falliranno a causa delle
condizioni del mare, ed il piroscafo affonderà dopo che l’Euro ne ha tratto in salvo la maggior parte dell’equipaggio.
7 febbraio 1942
Turbine ed Euro scortano
da Patrasso a Brindisi, via Corfù, il piroscafo Andrea Contarini, la motonave Apuania e la pirocisterna Giorgio. In mare, nel tratto da Patrasso a Corfù, si uniscono al
convoglio anche la torpediniera Sagittario e
la cisterna militare Devoli,
provenienti da Argostoli e diretti a Corfù.
13 febbraio 1942
Il Turbine scorta da Corfù a Patrasso,
insieme all’incrociatore ausiliario Brindisi
ed alla torpediniera Angelo Bassini,
i piroscafi Francesco Crispi, Piemonte e Milano, carichi di truppe e materiali vari.
17 febbraio 1942
Il Turbine e la torpediniera Generale Carlo Montanari scortano da
Patrasso a Navarino la nave cisterna Prometeo.
4 marzo 1942
Turbine, Montanari e la
torpediniera Antonio Mosto scortano
la motonave Viminale ed i piroscafi Francesco Crispi, Piemonte e Galilea,
carichi di truppe rimpatrianti dalla Grecia, da Patrasso a Bari, con scalo
intermedio a Corfù.
Alle 9.25, a 27,2
miglia per 330° da Capo Dukato, il convoglio scortato dal Turbine, in navigazione verso nord (proveniente da Patrasso, è
diretto a Corfù) e scortato anche da due aerei, viene avvistato dal
sommergibile britannico Torbay (capitano
di fregata Anthony Cecil Capel Miers) che tuttavia, essendosi in precedenza
spostato dalla posizione assegnata per la missione per inseguire (senza
successo) un altro e più piccolo convoglio, non è in grado di portarsi in
posizione idonea per l’attacco. Infastidito dall’occasione mancata, della quale
si fa colpa, Miers decide di seguire il convoglio nella rada di Corfù; il Torbay riesce a penetrare nella
rada durante la notte, ma con le luci dell’alba si accorgerà che i trasporti
truppe non ci sono, avendo probabilmente proseguito direttamente verso
l’Italia. Il sommergibile ripiegherà allora su un altro piroscafo presente in
rada, il Maddalena G., affondandolo
con un siluro.
9 marzo 1942
Il Turbine scorta da Brindisi a Patrasso i
piroscafi Motia, Probitas e Caterina Madre.
A Santa Maria di Leuca si aggregano al convoglio anche il piroscafo tedesco Hans Schmidt e la torpediniera Francesco Stocco, provenienti da
Taranto.
13 aprile 1942
Il Turbine salpa da Taranto alle 12.15 per
scortare a Tripoli, insieme al cacciatorpediniere Freccia, la motonave Ravello,
nell’ambito dell’operazione di traffico «Aprilia». Le navi procedono a 15 nodi,
con condizioni meteomarine favorevoli.
Durante la notte un
ricognitore britannico lancia un bengala proprio sulla verticale del convoglio,
ma poi se ne va senza che si materializzi alcun attacco.
14 aprile 1942
Ad est della Sicilia,
in mattinata, il convoglio che comprende il Turbine
si congiunge con altri due, provenienti da Napoli (motonavi Vettor Pisani e Reichenfels, cacciatorpediniere Antonio Pigafetta e Nicolò
Zeno, torpediniera Pegaso) e da
Brindisi (motonave Reginaldo Giuliani,
cacciatorpediniere Mitragliere,
torpediniera Aretusa,
quest’ultima rientrata in porto il 14 mattina), formando un unico convoglio
diretto a Tripoli (caposcorta è il Pigafetta).
Sempre in mattinata,
un velivolo tedesco della scorta aerea cade in mare; lo Zeno ne recupera l’equipaggio.
Il 14 aprile “ULTRA”
intercetta dei messaggi relativi al convoglio; due idroricognitori Martin
Maryland del 203rd Squadron vengono inviati da Bu Amud, in
Cirenaica, alla ricerca del convoglio, e lo trovano. Alle 7.30 anche un
Beaufort del 22nd Squadron (sergente S. E. Howroyd), dotato di
radar ASV (Air to Surface Vessel), viene inviato a rintracciarlo.
A mezzogiorno
decollano da Bu Amud otto aerosiluranti britannici Bristol Beaufort (in realtà
nove, ma uno, del 39th Squadron, deve rientrare poco dopo), due
del 22nd Squadron e sei del 39th Squadron (201st Group),
guidati dal capitano John M. Lander e scortati da quattro caccia Bristol
Beaufighter del 272nd Squadron (maggiore W. Riley, sottotenente
Stephenson, tenente Derek Hammond, sergente J. S. France; gli aerei, non avendo
abbastanza autonomia per tornare in Cirenaica dopo l’attacco, dovranno poi
raggiungere Malta). Nel pomeriggio, un Martin Maryland che sta tallonando il
convoglio (tenente James Bruce Halbert) viene abbattuto da un velivolo tedesco
della scorta; anche il Beaufort con radar ASV, dopo aver localizzato il
convoglio e comunicato la sua posizione, viene danneggiato da dei Messerschmitt
Bf 109 tedeschi mentre cerca di atterrare a Malta, e si schianta al suolo. Il
suo messaggio non viene però ricevuto dagli aerei inviati ad attaccare il
convoglio, che anzi superano la rotta da esso percorsa senza notare nulla.
Giunti gli aerei in
un punto 70 miglia a sudest di Malta, il capitano Lander si rende conto che
devono aver già oltrepassato il convoglio ed ordina quindi di virare verso
sudovest, ponendosi alla ricerca del convoglio. Dopo venti minuti i Beaufighter
dopo avvistano un gruppo di Me 110 e Ju 88 tedeschi della scorta aerea, che
ingaggiano, abbattendo un cacciabombardiere Dornier Do 17 e danneggiano un
caccia Messerschmitt Bf 110 ed un bombardiere Junkers Ju 88. Dopo questo primo
scontro tra aerei, a qualche miglio di distanza dalle navi, i caccia britannici
avvistano anche il convoglio. Si verifica qui, però, un errore che salverà le
navi dell’Asse: i Beaufighter della scorta, ritenendo che anche i Beaufort
debbano aver avvistato il convoglio, si allontanano in direzione di Malta, come
previsto dai loro piani (i Beaufighter, infatti, avendo minore autonomia dei
Beaufort, avevano il solo compito di accompagnare i Beaufort sull’obiettivo e
localizzare il convoglio, per permettere agli aerosiluranti di attaccare, dopo
di che avrebbero dovuto subito fare rotta per Malta, per non esaurire il
carburante; che peraltro è già notevolmente diminuito a causa dello scontro con
gli aerei tedeschi), senza avvisare gli aerosiluranti della presenza delle navi
dell’Asse. In realtà i Beaufort, che volano a meno di quindici metri (per
eludere i radar), più bassi dei Beaufighter (questi ultimi, essendo più veloci,
dovevano procedere a zig zag sulla loro verticale, per non lasciare indietro i
Beaufort: anche questo ha aumentato i loro consumi), avvistano le navi solo
mezz’ora più tardi, alle 15.47, e passano all’attacco prendendo di mira
la Giuliani ed il Reichenfels, che sono le navi più grosse
del convoglio: ma con loro sorpresa vedono pararsi dinanzi a sé ben 15-20 (per
altra fonte, oltre 25) caccia Messerschmitt Bf 109 (appartenenti al JG. 53),
sei Bf 110 e parecchi Ju 88 della Luftwaffe.
Gli aerosiluranti
britannici, privi ora di scorta, tentano egualmente di allinearsi per lanciare
contro Giuliani e Reichenfels, ma vengono attaccati dagli
aerei tedeschi e presi sotto il tiro delle armi contraeree delle navi di
scorta. Solo cinque degli otto aerei riescono a lanciare i propri
siluri, nessuno dei quali va a segno, mentre gli altri tre devono gettare in
mare il proprio carico per alleggerirsi quando vengono attaccati dalla scorta
aerea. Uno dei Beaufort (sottotenente Bertram W. Way) attacca un CANT Z. 506
italiano della 170a Squadriglia Ricognizione Marittima ma viene
abbattuto da un Bf 109 (sergente Ludwig Reibel), mentre gli altri, danneggiati,
inseguiti dagli aerei tedeschi e con il carburante in esaurimento, tentano
disperatamente di raggiungere Malta: ma proprio quando sono giunti in vista
dell’isola, vengono abbattuti o precipitano uno dopo l’altro. Un primo Beaufort
(capitano Robert W. G. Beveridge) cade in mare alle 16.45, un altro (tenente
Robert B. Seddon) precipita subito dopo a causa dei danni subiti, un terzo
(tenente Derek A. R. Bee) viene abbattuto da un Messerschmitt quando ormai sta
per atterrare, un quarto (sottotenente Belfield) viene abbattuto anch’esso da
un Bf 109. Alla fine, solo tre degli otto Beaufort che avevano attaccato il
convoglio riescono ad atterrare: due (tenente S. W. Gooch e capitano Lander)
con danni gravissimi (tanto che uno – quello del capitano Lander – deve
compiere un atterraggio d’emergenza e non potrà più essere riparato), uno
(capitano A. T. Leaning) del tutto indenne. 15 avieri britannici, su 20
componenti gli equipaggi dei cinque Beaufort distrutti, sono morti. L’unico
squadrone di Beaufort britannici in Egitto è stato annientato, e ci vorranno
due mesi prima che ne venga ricostituito un altro.
Ma non ci sono solo
gli aerei: tre sommergibili britannici, il Thrasher, l’Urge e
l’Upholder, hanno anch’essi ricevuto
l’ordine di attaccare il convoglio, formando uno sbarramento lungo 50 miglia
tra Lampedusa ed il Golfo della Sirte.
Alle 15.33 del 14,
proprio mentre è in corso l’attacco dei Beaufort, due Ju 88 della scorta
ravvicinata, dopo aver danneggiato un Beaufort, mitragliano un sommergibile
avvistato in superficie nel punto 36°10’ N e 15°15’ E, ritenendo di aver
ottenuto esito positivo. In realtà, nessun sommergibile britannico risulta
essersi trovato in posizione compatibile; è probabile un abbaglio dei piloti,
cosa assai comune.
Poco dopo, alle
16.15, la Pegaso riceve da
un idrovolante CANT Z. 506 della scorta aerea (il MM 45389, n. 2 della 170a Squadriglia
dell’83° Gruppo della Ricognizione Marittima, pilotato dal sottotenente pilota
Pier Luigi Colli e con a bordo il tenente di vascello Mauro Tavoni quale
osservatore) la segnalazione della presenza di un sommergibile (precisamente di
una «scia ritenuta di sommergibile») in posizione 34°47’ N e 15°55’ E (a 90
miglia per 130° da Malta, e 200 miglia a nordest di Tripoli). Il CANT Z. 506
lancia un fumogeno bianco per segnalare il sommergibile, sulla sinistra del
convoglio; la Pegaso lo
riferisce al Pigafetta (caposcorta),
il quale lancia all’aria il segnale «un sommergibile in 34°50’ – 15°50’» ed
ordina alle navi di accostare subito a dritta, mediante segnale di bandiera,
razzi a luce verde (due) e segnalazioni col radiotelefono.
La Pegaso lascia la sua posizione di
scorta in testa al convoglio, si porta a tutta forza nel punto indicato
dall’idrovolante, ottiene un contatto all’ecogoniometro e lancia un pacchetto
di bombe di profondità, poi perde il contatto (alle 16.30). Non vengono
avvistati rottami. Conclusa la brevissima azione antisom, senza che si siano
manifestati segnali di un avvenuto affondamento del sommergibile, la
torpediniera segnala al Pigafetta il
risultato dell’attacco e poi ritorna al convoglio, riassumendo la sua posizione
di scorta in testa ad esso. Tuttavia, nel frattempo (subito dopo aver lanciato
il fumogeno) il pilota dell’idrovolante si è accorto che la scia da lui
avvistata, e ritenuta quella di un periscopio, è in realtà lasciata da un
delfino; osservando l’attacco dall’alto, senza aver modo di avvertire la Pegaso dell’errore (avrebbe potuto
farlo solo usando la radio, ma ciò non è consentito), il sottotenente Colli ha
visto che esso si è svolto contro un branco di delfini, e non un sommergibile,
cosa che provvederà a riferire al suo rientro alla base di Taranto, alle 19.30
di quel giorno. Anche Marina Messina, in una telefonata a Supermarina
effettuata alle 19.45 del 12 aprile, riferirà: "1615 – Il nostro aereo ha avvistato scia ritenuta di sommergibile.
Lanciato fumata bianca – effettivo riconoscimento per scia di
delfini. 1630 – Un C.T. [in realtà, la Pegaso] di scorta ha
segnalato “sommergibile nemico” con artifizi e sparando
con mitragliere e con cannoni. Aereo ritiene si trattasse ancora di
scie di delfini".
Per lungo tempo si è
ritenuto che in quest’azione sia stato affondato il sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm
David Wanklyn), ma ricerche più recenti hanno mostrato che ciò è in realtà poco
probabile, mentre più verosimilmente l’Upholder
saltò sui campi minati difensivi di Tripoli o venne affondato da aerei tedeschi
qualche ora prima dell’azione della Pegaso.
Durante la notte il
convoglio torna a dividersi in tre gruppi; vengono avvistati dei bengala
lanciati da aerei britannici in cerca del convoglio, ma nessuna delle navi
viene localizzata. Lo stato del mare va invece peggiorando.
Il Turbine nel 1942 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
15 aprile 1942
Le navi del convoglio
giungono a destinazione senza alcun danno, tra le 9.30 e le 10.
18 aprile 1942
Alle 6.40 il Turbine salpa da Taranto per scortare a
Bengasi il piroscafo Capo Orso.
In seguito
all’affondamento del piroscafo tedesco Bellona,
silurato alle 7.28 dello stesso giorno dal sommergibile britannico Torbay, il convoglietto formato da Capo Orso e Turbine viene temporaneamente dirottato.
Originariamente,
infatti, era previsto che il Bellona –
partito da Brindisi alle 13 del 17 e diretto anch’esso a Bengasi – ed il
cacciatorpediniere Strale, di
scorta a quest’ultimo, dovessero unirsi in mare aperto a Turbine e Capo Orso
per formare un unico convoglio. I decrittatori britannici dell’organizzazione
“ULTRA”, tuttavia, già il 16 aprile hanno intercettato messaggi italiani dai
quali apprendono che «il Capo Orso scortato
dal Turbine deve lasciare Taranto alle 6.30 del giorno 18 a 10 nodi
ed unirsi al più presto al Bellona ed allo Strale per raggiungere
Bengasi alle 15.00 del giorno 20»; il 17 hanno decrittato altri messaggi da
cui hanno ricavato che «Il Capo Orso scortato
dal cacciatorpediniere Turbine dovrà lasciare Taranto alle 6.30 del
18 per Bengasi a 10 nodi e deve arrivare alle 15.00 del giorno 20. Il Bellona scortato
dal cacciatorpediniere Strale lascerà Brindisi e si unirà al
convoglio», ed il 18 altri ancora da cui hanno saputo che «Il Capo Orso doveva lasciare
Taranto alle 6.30 di questa mattina sotto la protezione del cacciatorpediniere Turbine per
unirsi al piroscafo Bellona scortato dal cacciatorpediniere Strale che
proviene da Brindisi. Il convoglio deve giungere a Bengasi alle 15.00 del
giorno 20». Sulla base di tali informazioni il sommergibile britannico Torbay, alle 7.28 del 18, ha
intercettato il Bellona,
silurandolo ed affondandolo; il Capo
Orso (che è il più veloce dei due piroscafi, e quello su cui più si
concentrano le attenzioni dei decrittatori britannici) evita analoga sorte
grazie al tempestivo dirottamento, seguito alla notizia dell’affondamento
del Bellona.
Nemmeno questo sfugge
ad “ULTRA”: il 19 aprile, infatti, i decrittatori britannici informano i loro
comandi che «il Capo Orso scortato
dal Turbine ha lasciato Taranto alle 6.40 del giorno 18 per Bengasi,
a mezzogiorno la sua rotta è stata alterata, ma dovrà ugualmente raggiungere
Bengasi nel pomeriggio del 20» e che «gli
ordini riguardanti la riunione col Bellona proveniente da Brindisi
sono stati cancellati».
20 aprile 1942
Ripresa la
navigazione, Turbine e Capo Orso giungono a Bengasi alle 14.10.
Alle 19.30 dello
stesso giorno il Turbine riparte da
Bengasi per scortare a Brindisi il piroscafo Iseo.
22 aprile 1942
Turbine ed Iseo arrivano a
Brindisi all’1.30.
30 aprile 1942
Il Turbine e l’incrociatore ausiliario Lero scortano da Brindisi a Patrasso il
piroscafo Re Alessandro, carico di
truppe e materiali vari.
2 maggio 1942
Il Turbine e l’incrociatore ausiliario Arborea scortano il piroscafo Sant’Agata da Patrasso a Prevesa.
5 maggio 1942
Il Turbine salpa da Napoli in mattinata
(tra le otto e mezzogiorno) insieme al cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta, capitano di vascello Ignazio
Castrogiovanni) ed alle torpediniere Circe ed Enrico Cosenz, per scortare a Bengasi un
convoglio composto dai piroscafi Trapani
(tedesco) ed Anna Maria Gualdi (italiano).
La partenza dei piroscafi avviene tra le otto e mezzogiorno.
6 maggio 1942
Nello stretto di
Messina si unisce al convoglio anche un terzo piroscafo, l’italiano Capo Arma, proveniente da Brindisi. La
riunione del convoglio avviene sotto la direzione del Vivaldi.
Alle 22 si aggrega
alla scorta la torpediniera Pegaso,
proveniente da Taranto.
7 maggio 1942
Alle 5.35 la Cosenz lascia la scorta del
convoglio, e la Circe fa lo
stesso alle 16.45.
Alle 16.32 il
sommergibile britannico Thorn (capitano
di corvetta Robert Galliano Norfolk) avvista in posizione 34°34’ N e 17°59’ E
del fumo, su rilevamento 335°. Il sommergibile – indirizzato verso il convoglio
sulla base di decrittazioni di “ULTRA” – accosta nella direzione in cui si
trova il fumo, ed alle 17.02 avvista gli alberi ed i fumaioli dei tre piroscafi
del convoglio, distanti 9150 metri, con rotTA
170°. Norfolk avvista anche cinque aerei di scorta, ed alle 17.15 anche due
dei cacciatorpediniere della scorta, uno a proravia del convoglio e l’altro al
traverso a sinistra.
Alle 17.22 (fonti
italiane indicano l’orario dell’attacco nelle 17.30), in posizione 34°34’ N e
17°56’ E (180 miglia a nordovest di Bengasi), il Thorn lancia quattro siluri contro il mercantile di testa, l’Anna Maria Gualdi, da una distanza di
2750 metri: tutte le navi evitano i siluri con rapide manovre, poi Vivaldi e Pegaso contrattaccano, lanciando 35 bombe di profondità nell’arco
di un’ora. La Pegaso è
particolarmente attiva nel contrattacco, e ritiene di aver danneggiato il
sommergibile; in realtà, sebbene due pacchetti di bombe di profondità (composti
da cinque bombe ciascuno, i primi lanciati durante l’attacco) siano esplosi
piuttosto vicini al Thorn, il
sommergibile non ha subito danni.
8 maggio 1942
Tra le 2 e le 5.30 il
convoglio subisce ripetuti attacchi aerei; nessuna nave subisce danni, mentre
uno dei velivoli avversari viene abbattuto.
Il convoglio arriva a
Bengasi alle 17.
Da Alessandria
d’Egitto, a seguito dell’avvistamento del convoglio, salpano il 10 maggio
(quando le navi sono già giunte a destinazione) i cacciatorpediniere
britannici Jervis, Kipling, Lively e Jackal,
con l’incarico di intercettarlo e distruggerlo al largo di Bengasi: non solo
non riusciranno a trovarlo (visto che è già in porto), ma saranno avvistati ed
attaccati dall’aviazione tedesca di base a Creta nel pomeriggio dell’11 e nella
notte successiva. Dei quattro cacciatorpediniere, soltanto il Jervis riuscirà a tornare alla
base.
Il Turbine risulterebbe essere partito da
Bengasi alle otto del mattino dello stesso 8 maggio per scortare a Brindisi la
motonave tedesca Ankara (evidente la
discrepanza di orario rispetto all’arrivo del convoglio precedente).
9 maggio 1942
Alle 21, al largo
della Cirenaica, il convoglietto Turbine-Ankara si unisce ad un altro
formato dalla motonave italiana Monviso,
dalla torpediniera Pegaso e dal
cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi,
che diviene caposcorta del convoglio unico così formato. A mezzanotte, il Vivaldi lascia la scorta diretto a
Messina.
10 maggio 1942
All’alba, Monviso ed Ankara si separano di nuovo,
dirette l’una a Taranto e l’altra a Brindisi. Turbine e Pegaso
rimangono entrambi con l’Ankara, che
giunge a Brindisi a mezzogiorno.
16 maggio 1942
Il Turbine salpa da Taranto per Bengasi
alle 13.30, scortando la motonave Nino
Bixio. Le due navi formano il convoglio «X», uno dei tre diretti in Libia
nell’ambito dell’operazione di traffico «Lero»; gli altri due sono denominati
«C» e «R».
Alle 19.30, al largo
di Leuca, il convoglio «X» si unisce al convoglio «R» (motonave Mario Roselli e
cacciatorpediniere Nicolò Zeno),
provenienti da Brindisi. I due convogli così riuniti dirigono per congiungersi
al convoglio «C» (motonave Lerici e
torpediniere Clio e Perseo), proveniente da Napoli.
17 maggio 1942
Alle 8.30, 70 miglia
a sud di Capo Spartivento, il gruppo formato dai convogli «X» e «R» si
congiunge col convoglio «C», formando un convoglio unico avente come caposcorta
lo Zeno.
Tale convoglio
procede sulla rotta a levante di Malta, fino alle 19.45: a quell’ora, giunte le
navi a 80 miglia da Tripoli, il convoglio «C» (Lerici, Clio e Perseo) si separa nuovamente dagli altri
(che sono diretti invece a Bengasi) e fa rotta per Tripoli.
18 maggio 1942
Turbine, Zeno, Bixio e Roselli entrano a Bengasi alle 13.
Alle 19 il Turbine lascia Bengasi per scortare a
Tripoli i piroscafi Tripolino e Bravo.
20 maggio 1942
Il convoglio
raggiunge Tripoli alle 15.15.
23 maggio 1942
Duecento miglia ad
est di Malta, il Turbine avvista per
caso e trae in salvo il sergente aviere tedesco Felix Sauer, pilota da caccia
appartenente al 10./JG. 53 della Luftwaffe, alla deriva da otto giorni su un
canotto gonfiabile in seguito all’abbattimento del suo aereo nei cieli maltesi,
il precedente 16 maggio, alla sua novantesima missione come pilota da caccia. L’odissea
ed il salvataggio del sottufficiale tedesco verranno menzionati
(dall’ammiraglio Luigi Sansonetti, sottocapo di Stato Maggiore della Marina)
anche ad una riunione del Comando Supremo tenutasi il 25 maggio; il celebre
giornalista Dino Buzzati, corrispondente di guerra imbarcato sulle navi della
Regia Marina, scriverà per il “Corriere della Sera” un articolo sull’odissea di
Sauer e sul suo successivo salvataggio.
Paracadutatosi dal
suo caccia Messerschmitt Bf 109 prima che questo precipitasse in mare, verso le
quattro del pomeriggio del 16 maggio, una quindicina di chilometri ad est di
Marsa Scirocco (Malta), Sauer aveva
gonfiato il battellino in dotazione (dimensioni, un metro per due) e vi si era
arrampicato; un’ora e mezza più tardi era sopraggiunto un idrovolante tedesco
da soccorso, ma questo era stato attaccato e danneggiato da dei caccia
Supermarine Spitfire mentre tentava di ammarare, venendo così costretto a
rinunciare all’ammaraggio ed a rientrare alla base. Successivamente, al
crepuscolo dello stesso giorno, era stato inviato un altro idrovolante da
soccorso, ma questo lo aveva sorvolato a bassissima quota (forse una decina di
metri) senza vederlo, a dispetto dei razzi da segnalazione che Sauer aveva
freneticamente lanciato. Le uniche provviste in dotazione al canotto erano tre
barrette di cioccolato, alcune pasticche di Pervitin ed un po’ di zucchero
contenuto in una cassetta d’alluminio; niente acqua. Nella notte tra il 16 ed
il 17 maggio, il vento aveva spinto il battellino verso la costa maltese e
Sauer aveva avvistato le luci di due imbarcazioni intente alla ricerca di
qualcosa in mare, ma aveva evitato di farsi notare per non essere catturato.
All’alba del 17, un terzo aereo da soccorso era passato a non più di cinquanta
metri dal suo canotto, ma di nuovo senza notarlo. Il vento lo aveva poi spinto
verso sud, fino a giungere in vista dell’isolotto di Fifola verso il tramonto;
avvistate cinque motosiluranti britanniche, Sauer aveva usato l’ultimo razzo
rimasto per cercare di attrarne l’attenzione, ma neanche loro l’avevano visto. Un’ora
dopo aveva avvistato di nuovo le luci di due imbarcazioni intente nella ricerca
di qualcosa o qualcuno (forse proprio lui), e stavolta aveva gridato per
chiedere aiuto, ma ancora una volta non era stato visto né sentito. Aveva
allora trasformato una bandiera gialla da segnalazione, in dotazione al
canotto, in una piccola vela; il vento l’aveva spinto verso nord, e con le
prime luci del 18 aveva avvistato la costa della Sicilia, ma a quel punto il
vento aveva cambiato ancora una volta direzione e l’aveva spinto dapprima verso
sud, in direzione dell’Africa, e poi verso est, verso la Grecia. In una notte
di mare calmo, era riuscito a mitigare la sete con un po’ di condensa generata
dall’umidità notturna nel canotto, ma questo fenomeno non si era ripetuto, ed
alla fine Sauer, dopo aver infruttuosamente tentato di realizzare un
rudimentale dissalatore con un pezzo di garza ed un tubo vuoto di un razzo da
segnalazione, era giunto a bere qualche sorso di acqua di mare, mescolandola
con un po’ dello zucchero per mitigarne il sapore salato. Andando alla deriva
sempre più verso est, perdendo gradualmente le forze e non avvistando niente
all’infuori di aerei che passavano a grande distanza, aveva scritto un’ultima
lettera indirizzata alla moglie, sul retro della sua foto e su alcuni altri
pezzi di carta, dubitando ormai delle sue possibilità di sopravvivenza. Poi,
l’ottavo giorno, quando ormai giaceva privo di forze sull’orlo della morte, il Turbine si era imbattuto per puro caso
nel suo canotto, ed era stato issato a bordo del cacciatorpediniere italiano e
rifocillato. Il salvataggio è così descritto dallo stesso Sauer: “Ottavo giorno: alba di un nuovo giorno. So
che questa è l’ultima volta che vedrò il sole. Potrei durare abbastanza da
vederlo tramontare, ma non lo vedrò mai più sorgere dall’oscurità della notte
per gettare luce e speranza su questa terra. A meno che… Ma verso sud c’è
qualcosa. Non si tratta di acqua né di delfini, né di nuvole o di un miraggio.
Un miraggio non avrebbe contorni così solidi, geometrici. Un miracolo! Una
grossa imbarcazione sta venendo dritta verso di me, come se stesse obbedendo un
comando segreto. È qualcosa di difficile da credere, e nondimeno non sono ne
sono stupefatto. (…) con un ultimo
sforzo alzo la piccola vela affinché possano vedermi più facilmente. Ma non è
necessario. Sull’imbarcazione – la torpediniera [sic] Turbine – è stato dato l’allarme. Adesso riesco a riconoscere la
bandiera: rossa-bianca-verde. Italiani! Urrà! Quando vengo portato a bordo, debole
ed a malapena in grado di muovermi, scoppio a piangere. Ma quando vengo portato
a terra sono già un uomo cambiato, grazie alle cure premurose ed estremamente
devote dei miei camerati italiani, anche se mi sento ancora debole ed a
malapena in grado di reggermi in piedi”.
A quasi cinquant’anni
di distanza, nel 1990, Felix Sauer conserverà ancora un ottimo ricordo dei suoi
salvatori, tanto da chiedere al ricercatore Patrick G. Eriksson, che lo aveva
intervistato per un suo libro sui piloti da caccia della Luftwaffe, di inserire
nel suo libro «una menzione onorevole per
i miei soccorritori – i coraggiosi ufficiali e marinai italiani del Turbine»
(che Sauer, evidentemente sulla scorta di voci errate, credeva essere stato
affondato durante l’invasione angloamericana della Sicilia nel 1943).
Felix
Sauer nel suo canotto, in due fotografie scattate dal Turbine (da “Alarmstart South and Final Defeat”, di Patrick G.
Eriksson)
Felix Sauer riceve da bere dai marinai del Turbine, subito dopo il salvataggio (da “Alarmstart South and Final Defeat”, di Patrick G. Eriksson) |
27 maggio 1942
Il Turbine parte da Messina alle due di
notte e va a rinforzare la scorta del convoglio «F», in navigazione da Napoli a
Bengasi con gli incrociatori ausiliari Città
di Genova, Città di Napoli e Città di Tunisi scortati dai
cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta),
Lanzerotto Malocello ed Antoniotto Usodimare .
Il convoglio subisce
due attacchi di sommergibili, alle 18.40 ed alle 19, ma nessuna nave viene
colpita.
28 maggio 1942
Il convoglio «F»
arriva a Bengasi alle 10.30.
Turbine, Vivaldi (caposcorta),
Malocello ed Usodimare ripartono da Bengasi alle 10.40, sempre scortando le
stesse tre navi del convoglio «F».
29 maggio 1942
Alle 10 il Turbine lascia il convoglio, che
raggiungerà indenne Napoli il giorno seguente.
1° giugno 1942
Assume il comando del Turbine il capitano di corvetta Salvatore Granato, 34 anni, da Reggio Calabria.
16 giugno 1942
Il Turbine, l’Euro e la torpediniera Partenope, trovandosi in porti della Grecia, vengono fatti salpare
nelle prime ore della notte per andare a rinforzare la scorta antisommergibili
delle corazzate Littorio (nave
di bandiera del comandante della Squadra Navale, ammiraglio Angelo Iachino)
e Vittorio Veneto, che stanno
rientrando a Taranto dopo aver partecipato, in Mediterraneo orientale, alla
battaglia aeronavale di Mezzo Giugno. Il rinforzo alla scorta antisommergibili
è stato disposto da Supermarina per proteggere il più possibile le navi da
attacchi di sommergibili, specialmente dato che la Littorio è stata danneggiata da un aerosilurante: alcune ore
prima l’incrociatore pesante Trento,
immobilizzato da un aerosilurante, è stato affondato dal sommergibile
britannico Umbra mentre si
tentava di prenderlo a rimorchio.
Turbine ed Euro
raggiungono la squadra navale all’alba (la formazione procede a 20 nodi, la
velocità massima che la Littorio può
raggiungere dopo il siluramento) e ne assumono la scorta antisommergibili. Più
o meno nello stesso momento la Littorio,
che dopo il siluramento è passata dietro alla Vittorio Veneto, torna ad assumere il suo posto in testa alla
formazione, sul cui cielo arriva al contempo la prima pattuglia di caccia della
Regia Aeronautica. Alle 5.06 la squadra navale accosta per 315°, dirigendosi
verso il punto in cui cominciano le rotte di sicurezza costiere tra i campi
minati difensivi, a sud di Santa Maria di Leuca. Nella supposizione che possano
esservi sommergibili in agguato, le navi iniziano al contempo a zigzagare;
varie unità comunicano infatti avvistamenti di periscopi, inducendo ad
accostate d’urgenza di tutta la formazione per sottrarsi ad eventuali attacchi,
anche se è possibile che si sia in realtà trattato di falsi allarmi. I
sommergibili britannici della I Flottiglia si sono effettivamente spostati, nel
corso della notte, poco a sud di Santa Maria di Leuca; pur essendosi ben
posizionati nei pressi delle rotte percorse dalla squadra italiana, non
riusciranno ad attaccare.
Verso le 8.30 Turbine ed Euro vengono sostituiti nel compito di scorta antisom dalle
torpediniere Sagittario, Antares ed Aretusa, inviate da Taranto per ordine
di Supermarina; a questo punto, i due cacciatorpediniere fanno rotta per
Brindisi.
Il Turbine (in terza fila) ormeggiato accanto al cacciatorpediniere Folgore ed all’incrociatore ausiliario Barletta, nel 1942 (da www.forums.clydemaritime.co.uk) |
23 giugno 1942
All’alba il Turbine (capitano di corvetta Salvatore
Granato) sostituisce il cacciatorpediniere Folgore
nella scorta di un convoglio partito da Palermo la sera precedente e diretto a
Bengasi, composto dalle motonavi Nino
Bixio e Mario Roselli
scortate dalle torpediniere Castore, Orsa e Partenope (per altra versione, il Turbine avrebbe fatto parte della scorta fin dalla partenza da
Palermo, avvenuta alle 21.30 del 22 giugno, assumendo il comando della scorta
dopo la separazione dal Folgore,
entrato a Messina alle 6.18 del 23). Le due motonavi hanno un carico di 3660
tonnellate di materiali vari (comprese munizioni e materiale d’artiglieria),
2696 tonnellate di carburanti e lubrificanti, 283 tra automezzi e rimorchi,
cinque carri armati e due gru diesel, oltre a 247 militari di passaggio.
Più o meno nello
stesso momento, decollano da Malta alcuni ricognitori del 69th Squadron
RAF, per rintracciare il convoglio che i Beaufort avevano vanamente tentato di
attaccare tre giorni prima. Alle 7.30 un Supermarine Spitfire della PRU
(Photographic Reconnaissance Unit) della RAF avvista e segnala il convoglio
formato da Bixio e Roselli; al momento dell’avvistamento le
due motonavi stanno navigando in linea di fronte, precedute due navi scorta e
con altre due navi scorta sui fianchi, piuttosto distanziate. Di conseguenza,
durante la mattinata il convoglio viene fatto oggetto di attacchi di
bombardieri ed aerosiluranti.
In particolare, alle
9.35 decollano da Malta, per attaccare il convoglio, ben dodici aerosiluranti
Beaufort: sette del 217th Squadron e cinque (nuovi di zecca,
del tipo Mark IIA) del 39th Squadron, questi ultimi appena
arrivati dall’Egitto. I Beaufort sono suddivisi in quattro sottogruppi di quattro
velivoli ciascuno, guidati rispettivamente dal tenente colonnello W. A. L.
Davies (217th Squadron), dal tenente Sangster (217th Squadron),
dal maggiore Patrick M. Gibbs (39th Squadron) e dal capitano A.
T. Leaning (39th Squadron). Li scortano dodici Beaufighters del
235th Squadron, sei dei quali come scorta ravvicinata e sei
come copertura a quota superiore, guidati dal tenente colonnello H. J. Garlick
(il quale è però costretto al rientro dopo poco tempo). Il maggiore Gibbs, dato
che lo Spitfire della PRU ha parlato di una formazione piuttosto “ampia” del
convoglio italiano, suggerisce di adottare una tattica diversa da quella
solita: invece di aggirare il convoglio ed attaccarlo dalla testa, i Beaufort
dovrebbero avvicinarsi da poppa, dividersi, penetrare all’interno della
formazione italiana passando negli ampi varchi esistenti tra i mercantili e le
navi scorta posizionate sui fianchi, e poi virare per attaccare di lato.
Quando però i
Beaufort avvistano il convoglio, si rendono subito conto che le navi scorta in
posizione laterale sono molto più vicine ai mercantili di quanto previsto (la
distanza tra motonavi e navi scorta non è superiore al miglio), di conseguenza
gli aerosiluranti devono cambiare tattica e avvicinarsi da poppa, tenendosi
appena al di fuori della portata delle navi scorta, per poi virare e sorvolarle
mentre vanno all’attacco. In questo modo, però, i Beaufort si espongono al tiro
contraereo delle navi scorta per buona parte del volo di avvicinamento: e così
avviene. Il tiro delle navi italiane è molto intenso, e diretto soprattutto
contro i tre sottogruppi di Beaufort che attaccano dal lato sinistro: i capi
formazione dei due sottogruppi del 39th Squadron, gli aerei di
Gibbs e Leaning, vengono entrambi colpiti, ed altri due Beaufort (appartenenti
a tali sottogruppi) sono abbattuti. Di essi, il W6518 (sergente pilota B. Guy)
viene colpito e cade in mare con perdita totale dell’equipaggio, mentre del
DD976 (tenente T. H. Gardinier), anch’esso abbattuto, sopravvivono il pilota ed
il navigatore (sergente E. Mullin), poi tratti in salvo (e fatti prigionieri)
da una delle navi scorta, mentre i due mitraglieri dell’aereo rimangono uccisi.
Un altro Beaufort, l’L9802, viene seriamente danneggiato con anche il grave
ferimento del pilota (sergente C. J. Nolan, colpito ad una gamba), ma riesce a
rientrare alla base (dovrà compiere un atterraggio d’emrgenza nella base di
Luqa); due dei Beaufort danneggiati, compreso quello del maggiore Gibbs,
saranno costretti al rientro ad un atterraggio d’emergenza, subendo danni tali
da risultare irreparabili.
Nonostante le
perdite, però, uno dei Beaufort riesce a lanciare con successo: alle 12.30, a
39 miglia per 134° da Capo Rizzuto, la Roselli viene
colpita a poppa da un siluro, che la rende ingovernabile. Il caposcorta Granato
ordina allora alla Partenope di
prendere a rimorchio la Roselli, ed
alla Castore (tenente di vascello
Gaspare Tezel) di scortare la Bixio
dapprima a Crotone e successivamente a Taranto.
Turbine ed Orsa rimangono con Partenope e Roselli per fornire scorta ed assistenza alla motonave danneggiata;
siccome il tentativo della Partenope
di rimorchiarla fallisce per impossibilità di governare, è l’Orsa (capitano di corvetta Eugenio
Henke) ad assumere al suo posto il rimorchio della motonave. Da Taranto vengono
inviati sul posto i rimorchiatori Gagliardo, Fauna (per altra fonte, quest’ultimo
sarebbe giunto da Crotone) e Portoferraio
e la torpediniera Enrico Cosenz;
successivamente giunge anche un quarto rimorchiatore, il Pluto, che si unisce al rimorchio (per altra versione, i
rimorchiatori di Taranto avrebbero rilevato l’Orsa nel rimorchio della Roselli).
Turbine e Partenope scortano la motonave danneggiata e le unità impegnate nel
suo traino.
25 giugno 1942
Nell’ultimo tratto
della navigazione la scorta viene rinforzata dalle torpediniere Antares ed Aretusa, giunte da Messina e Crotone.
Il Turbine e le altre unità del gruppo Roselli arrivano a Taranto alle 12.35.
(Secondo una fonte
tedesca, invece, il 24-25 giugno 1942 il Turbine,
insieme al Francesco Crispi, al
cacciatorpediniere tedesco ZG 3 Hermes ed alle torpediniere Castelfidardo e Solferino, avrebbe scortato dal Pireo a Creta un convoglio di sette
navi mercantili. Ciò non risulta, tuttavia, dalla cronologia USMM).
2 luglio 1942
Il Turbine salpa alle 13 da Taranto
insieme ai cacciatorpediniere Euro e Giovanni Da Verrazzano (caposcorta)
ed alle torpediniere Antares, San Martino, Castore, Polluce e Pegaso per scortare a Bengasi un
convoglio composto dalle moderne motonavi Monviso, Nino Bixio ed Ankara (quest’ultima tedesca).
Si tratta del primo
importante convoglio dopo la riconquista di Tobruk da parte dell’Asse, con un
carico complessivo di 8182 tonnellate di munizioni e materiali, 1247 tonnellate
di carburanti e lubrificanti, sette carri armati e 439 veicoli; la Monviso ha a bordo 128 automezzi,
due carri armati, 300 tonnellate di carburanti e lubrificanti e 3020 tonnellate
di altri materiali (tra cui materiale d’artiglieria e munizioni), oltre a 165
militari.
Già alle 14.18 il
servizio di decrittazione britannico “ULTRA” intercetta e decifra un messaggio
codificato dalla macchina “Enigma”, apprendendo così della partenza del
convoglio; successive decrittazioni precisano la composizione della scorta e la
rotta che il convoglio seguirà (rotte costiere e di sicurezza fino alle 4.30
del 3 luglio, quando Sagittario e San Martino si devono unire alla
scorta, dopo aver completato un rastrello in quelle acque; indi riunione con
convoglio che deve passare probabilmente a sudovest di Capo Gherogambo).
Vengono dunque disposti attacchi aerei contro il convoglio, ed un ricognitore
viene inviato a cercarlo, in base alle informazioni di “ULTRA”, per precisarne
meglio la posizione.
Tuttavia, anche
l’Ufficio Beta del Servizio Informazioni Segrete (il servizio segreto della
Regia Marina) è al lavoro: la sera del 2 luglio gli uomini del SIS intercettano
e decrittano un messaggio radio inviato alle 20.40 da Malta ai ricognitori YU3Y
e 86KK, con l’ordine di cambiare rotta e cercare 30 miglia più ad est delle
posizioni assegnate. Il messaggio è codificato col sistema SYKO, che i
decrittatori del SIS sono riusciti a decifrare; inoltre, rilevazioni
radiogoniometriche permettono di localizzare i ricognitori britannici (a 150
miglia per 350° da Bengasi l’uno, a 90 miglia per 350° da Bengasi l’altro).
Alle 21.40, così, Supermarina invia al convoglio del Turbine un messaggio PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze
Assolute) ed informa il capoconvoglio che i britannici conoscono la loro
posizione: in tal modo, il capoconvoglio cambia rotta.
La Pegaso rileva all’ecogoniometro un
sommergibile nemico e lo attacca con intenso lancio di bombe di profondità,
ritenendo di averlo affondato, ma in realtà non è stato colpito nulla (è
possibile che il sommergibile stesso fosse solo un falso contatto).
3 luglio 1942
Nonostante il
cambiamento di rotta, alle 3.30 il ricognitore H3TL riesce a trovare il
convoglio, e lo comunica per radio a Malta. Di nuovo, però, il SIS intercetta e
decifra il messaggio, e nel giro di mezz’ora Supermarina invia un nuovo
avvertimento al convoglio, che cambia di nuovo rotta. La mattina ed il
pomeriggio il convoglio procede senza incontrare forze britanniche.
Alle 15.13 ed alle
16.13, però, il SIS intercetta nuovi messaggi in codice britannici, e scopre
che da Malta sono decollati otto aerosiluranti Bristol Beaufort.
Infatti il convoglio
è stato avvistato da ricognitori nel pomeriggio, ed alle 18.30 sono decollati
per attaccarlo otto aerosiluranti Bristol Beaufort, scortati da cinque caccia
Bristol Beaufighteer; due degli aerei, però, non sono riusciti a decollare, ed
altri due sono stati costretti a tornare indietro poco dopo il decollo. I
rimanenti attaccano il convoglio alle 20.10, da est, provenendo dalla direzione
opposta del crepuscolo e delle navi della scorta. Due aerei attaccano il
mercantile al centro (la Bixio),
altri due il mercantile di coda; questi ultimi due vengono abbattuti dal tiro
contraereo di Turbine ed Euro (per altra fonte i Beaufort
attaccanti erano sei, di cui tre abbattuti). Nonostante la coordinazione con i
Beaufighters, che mitragliano le navi per contrastare il loro tiro contraereo,
l’attacco britannico fallisce completamente: nessuna nave è colpita.
(Secondo una fonte,
sempre in serata il convoglio viene attaccato da tre aerosiluranti Vickers
Wellington, guidati da un Wellington VIII dotato di radar ASV – Air to Surface
Vessel, per l’individuazione delle navi da parte di un aereo –, ma anche in
questo caso non vengono subiti danni. È però probabile una confusione col
successivo attacco di Wellington del 4 luglio).
4 luglio 1942
Alle 00.18 ed alle
00.42 il ricognitore N1KL invia due segnali di scoperta del convoglio, seguiti
all’una di notte da un terzo segnale, lanciato dal ricognitore ZZ7P. Sono
decollati da Malta cinque velivoli Vickers Wellington, due dei quali armati con
siluri e tre con bombe da 227 kg: la scorta del convoglio, però, occulta i
mercantili con cortine fumogene, e gli attaccanti devono sganciare bombe e
siluri pressoché a caso, senza riuscire a vedere i bersagli. Nessuna bomba o
siluro va a segno.
Nella mattinata del 4
luglio, nuovo attacco: stavolta da parte di tre Wellington e tre bombardieri
quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, tutti della Royal Air Force,
decollati dall’Egitto. I Wellington non riescono a trovare il convoglio; i B-24
invece sì, ma le loro bombe non vanno a segno.
Alle 10.30 ed alle
14.15 (quando l’Ankara viene
mancata da quelli che sembrano dei siluri) il convoglio viene attaccato da
sommergibili (ma è probabile che si sia trattato di falsi allarmi).
Il britannico Turbulent (capitano di fregata John
Wallace Linton) avvista alle 11.10 delle alberature verso nord, in posizione
33°30’ N e 20°30’ E (un’ottantina di miglia a nord di Bengasi), e si avvicina
per attaccare, riconoscendo alle 11.25 il convoglio come composto da tre grosse
navi mercantili scortate da “almeno cinque, ma più probabilmente sette” tra
torpediniere e cacciatorpediniere; prima di poter attaccare, alle 11.41, viene
localizzato dal sonar della Pegaso (Linton
riterrà, erroneamente, di essere stato avvistato da un aereo), e viene così
costretto ad interrompere l’attacco, subendo poi una caccia antisom che inizia
alle 11.48. La prima scarica di 6 bombe di profondità, lanciata in posizione
33°28’ N e 20°28’ E, esplode molto vicina ma causa soltanto danni minori;
successivamente vengono gettate molte altre bombe di profondità, che però
esplodono più lontane. Da parte italiana si ritiene, erroneamente, di avere
affondato il sommergibile (che invece torna a quota periscopica alle 12.40);
comunque, l’attacco è sventato.
(Qualche fonte
afferma che anche il sommergibile britannico Thrasher avrebbe infruttuosamente attaccato il convoglio, ma deve
trattarsi di un errore, considerato che proprio il 4 luglio questo battello
rientrò a Beirut al termine di una missione).
Il convoglio giunge
indenne a Bengasi alle 18.45.
8 luglio 1942
Il Turbine (caposcorta) e la torpediniera Enrico Cosenz partono da Napoli per
Tripoli alle otto del mattino, scortando la nave cisterna Picci Fassio.
9 luglio 1942
A mezzogiorno il
convoglietto raggiunge Trapani, dove sosta fino alle 21.30; poi riparte, senza
più la Cosenz ma con al suo posto la
cannoniera-cacciasommergibili Oriole.
12 luglio 1942
Dopo aver seguito le
rotte costiere della Tunisia, il convoglietto raggiunge Tripoli alle 19.
Questo viaggio
risulta però incompatibile con un’altra missione che, secondo la medesima
cronologia USMM (“La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1°
ottobre 1941 al 30 settembre 1942”), il Turbine
avrebbe compiuto a partire dall’8 luglio, esposta di seguito.
8 luglio 1942
Il Turbine parte da Suda per Tobruk alle
20.50, scortando la nave cisterna Alberto
Fassio.
9 luglio 1942
Alle undici del
mattino Turbine ed Alberto Fassio si uniscono al convoglio
«Siena», partito anch’esso da Suda per Tobruk la sera precedente e composto
dalle motonavi italiane Città di
Agrigento, Città di Alessandria e
Città di Savona e dai piroscafi
tedeschi Delos e Santa Fe, scortati dal cacciatorpediniere italiano Mitragliere, dal cacciatorpediniere
tedesco ZG 3 Hermes, dalle torpediniere italiane Sirio e Cassiopea e dai
cacciasommergibili tedeschi UJ 2104 e
UJ 2107. Capo scorta del convoglio
unico così formatosi è il Mitragliere.
Alle 23.30 del 9 ha
inizio una serie di attacchi aerei, che si protraggono a più riprese fino alle
15 del giorno seguente: nessuna nave subisce danni, mentre due aerei nemici
vengono abbattuti dal Turbine e dalla
Sirio.
10 luglio 1942
Il convoglio giunge a
Tobruk alle 13.50.
Il Turbine (sulla destra, con colorazione mimetica) in rada a Tobruk, nel luglio 1942 (g.c. STORIA militare) |
15 luglio 1942
Alle 18.30 il Turbine lascia Tobruk alla volta di
Taranto, scortando la motonave tedesca Ankara.
17 luglio 1942
Turbine ed Ankara arrivano a
Taranto alle 21.10.
3 agosto 1942
Il Turbine parte da Taranto per Tobruk alle
00.30, insieme ai cacciatorpediniere Freccia,
Folgore e Grecale, di scorta alla motonave tedesca Ankara.
Alle 9.30 il
convoglio si unisce ad un altro partito da Brindisi per Bengasi, formato dalle
motonavi italiane Nino Bixio e Sestriere con la scorta dei
cacciatorpediniere Legionario e Corsaro e delle torpediniere Partenope e Calliope. Si forma così un unico convoglio, le cui tre motonavi
trasportano complessivamente un carico che assomma a 92 carri armati, 340
veicoli, tre locomotive, una gru, 4381 tonnellate di carburanti e lubrificanti
e 5256 tonnellate di altri materiali, oltre a 292 uomini. Caposcorta del
convoglio unico così formato (dalla scorta molto eterogenea, perché bisogna
utilizzare le unità disponibili al momento: alcune delle unità non hanno mai
navigato assieme, con conseguente scarso affiatamento) è il Legionario (capitano di vascello
Giovanni Marabotto), dotato di radar tedesco tipo «De.Te.»; il Folgore è munito di un nuovo
ritrovato della tecnologia tedesca, l’apparato «Metox», in grado di rilevare le
emissioni dei radiotelemetri di unità nemiche in un raggio di 150 km,
indicando sia la presenza di radar sia se si sia stati individuati da essi.
Di giorno il
convoglio fruisce anche di una nutrita scorta aerea con velivoli sia italiani
che tedeschi.
I comandi britannici,
però, sono al corrente dei dettagli del viaggio delle navi italo-tedesche fin
da prima della partenza: una serie di decrittazioni di messaggi intercettati da
“ULTRA”, il 31 luglio e poi l’1, il 3 ed il 4 agosto, rivelano ai britannici
gli orari previsti di partenza e di arrivo, nonché le rotte che il convoglio
dovrà seguire.
4 agosto 1942
Alle 18, 150 miglia a
nordovest di Derna, il convoglio viene attaccato da dieci bombardieri
statunitensi Consolidated B-24 Liberator che sganciano le loro bombe da alta
quota, ma nessuna nave viene colpita. Si tratta, in assoluto, del primo attacco
condotto da velivoli dell’aviazione statunitense contro naviglio italiano.
Alle 21.40 (per altra
fonte, 19.30) l’Ankara si separa
dal resto del convoglio e dirige per Tobruk, scortata da Turbine, Folgore e Grecale, mentre il resto del convoglio
prosegue per Bengasi.
Poco dopo la Nino Bixio viene immobilizzata da
un’avaria di macchina, il che porta il caposcorta Marabotto a distaccare con
essa Freccia, Freccia e Corsaro ed a
proseguire separatamente con Sestriere, Legionario e Calliope. Alle 22.25, riparata
rapidamente l’avaria, la Nino Bixio può
riprendere la navigazione, appena in tempo prima che iniziano gli attacchi
aerei. Poco dopo, infatti, i tre gruppi in cui il convoglio si è diviso
iniziano ad essere continuamente seguiti da ricognitori (per altra versione, i
ricognitori li avrebbero seguiti fin dalle 19.30, momento della separazione
dell’Ankara dalle altre motonavi) e
vengono attaccati da aerei angloamericani: seguono quattro ore di attacchi di
bombardieri e bengalieri, che attaccano tutti e tre i gruppi, spostandosi di
continuo dall’uno all’altro, ma non riescono a colpire nessuna nave.
5 agosto 1942
All’1.15 Supermarina
invia al caposcorta un messaggio PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze
Assolute) per avvisarlo del pericolo di attacchi nemici, ma è tardi: gli aerei
“apripista” (“Pathfinder”) hanno già illuminato il convoglio con i bengala, e
dieci aerosiluranti Vickers Wellington sono decollati da Malta e si preparano
ad attaccare. Il capoconvoglio, tuttavia, usa comunicazioni al radiotelefono ad
alta frequenza tra nave e nave, nonché il radar del Legionario, al fine di confondere gli aerosiluranti. Inoltre, i
cacciatorpediniere di scorta occultano i mercantili con delle cortine fumogene;
l’attacco dei Wellington risulta completamente infruttuoso.
Tutte le navi
giungono indenni nei porti di destinazione alcune ore più tardi; il gruppo di
cui fa parte il Turbine arriva a
Tobruk a mezzogiorno.
Alle 20.15 dello
stesso 5 agosto il Turbine riparte da
Tobruk insieme al cacciatorpediniere Grecale
(caposcorta) di scorta alla motonave Città
di Savona, diretta a Suda, ed alla nave cisterna Rondine, diretta a Taranto.
6 agosto 1942
Alle 15.54 un
sommergibile attacca infruttuosamente la Rondine
al largo di Gaudo (secondo una fonte, si sarebbe trattato del britannico Thorn, poi affondato con tutto
l’equipaggio dalla torpediniera Pegaso
alcuni giorni più tardi).
7 agosto 1942
All’1.40, in
posizione 35°50’ N e 23°56’ E, il convoglio si scinde: la Città di Savona dirige per Suda, dove arriverà alle dieci di quel
mattino, mentre la Rondine fa rotta
su Taranto. Il volume USMM non specifica quale cacciatorpediniere tra Turbine e Grecale abbia assunto la scorta della Rondine, e quale della Città
di Savona.
Alle 9.40 dello
stesso 7 agosto il sommergibile britannico Proteus
(capitano di corvetta Robert Love Alexander) avvista in posizione 36°52’ N e
24°07’ E (al largo di Capo Spada ed a nordovest di Milos, nell’isola di Creta)
la Rondine ed un cacciatorpediniere
ad otto miglia di distanza, su rilevamento 245°. Alle 10.21 (10.14 secondo le
fonti italiane) il Proteus lancia
quattro siluri contro la Rondine da
una distanza di 4500 metri, ma nessuna delle armi va a segno; il
cacciatorpediniere contrattacca con 21 bombe di profondità, nessuna delle quali
esplode vicina al Proteus.
La Rondine giungerà a Taranto alle 19.40
dell’11 agosto.
11 agosto 1942
Il Turbine ed il cacciatorpediniere Premuda scortano da Suda al Pireo la
piccola nave cisterna Abruzzi.
16 agosto 1942
Il Turbine e due cacciasommergibili
tedeschi scortano la motonave Città di
Alessandria da Suda al Pireo.
18 agosto 1942
Il Turbine (capitano di corvetta Salvatore
Granato) salpa da Suda all’1.45 per scortare in Cirenaica la Città di Alessandria, avente a bordo 195
tonnellate di provviste e materiali vari, 26 tra autocarri ed autovetture, otto
cucine trasportabili e 29 tra ufficiali e soldati diretti in Africa; tutto
materiale per la Wehrmacht.
Alle 12.29 si unisce alla
scorta la torpediniera Sagittario;
rimane caposcorta il Turbine.
A partire dalle 21.30
il convoglietto viene pesantemente attaccato da bombardieri ed aerosiluranti
nemici, che agiscono in cooperazione con aerei bengalieri, ma grazie alle
manovre ed alle cortine nebbiogene emesse dal Turbine nessuna nave subisce danni.
19 agosto 1942
Alle 12.30 il
convoglietto raggiunge Derna, dove la Città
di Alessandria si mette alla fonda per sbarcare parte del carico prima di
ripartire per Tobruk alle otto di sera.
Alle 17.20, mentre la
Città di Alessandria è ancora alla
fonda, si unisce alla scorta la torpediniera Lince, che rimane insieme al convoglio per alcune ore e poi se ne
separa di nuovo alle 23.45.
Il comandante Granato
lamenterà, in proposito, nel suo rapporto: «Il
rinforzo scorta effettuato, prima dal Sagittario e poi dal Lince, non è stato
praticamente di alcuna utilità. Il Sagittario aveva in avaria l’ecogoniometro,
l’apparato radiotelefonico in ultracorte e la radio principale (…) Il Lince non aveva né acqua, né nafta, né
bombe da getto antisom e pertanto ha lasciato la scorta dopo solo quattro ore
di navigazione».
20 agosto 1942
Il convoglietto
raggiunge Tobruk alle 10.50.
Alle 18.30 il Turbine riparte insieme alla
torpediniera Lince, al
cacciatorpediniere tedesco Hermes ed
alla motosilurante tedesca S 41, per
scortare al Pireo i piroscafi Davide
Bianchi e Sportivo e la nave
cisterna militare Stige. Il convoglio
parte inizialmente in più gruppi, tra le 18.30 e le 19.30.
21 agosto 1942
Tutte le navi si
riuniscono al largo di Tobruk alle nove del mattino, sotto la guida del Turbine, formando così un unico
convoglio di cui il Turbine è
caposcorta.
Durante la
navigazione il convoglio subisce attacchi aerei, dai quali esce del tutto
indenne.
22 agosto 1942
In mattinata il
convoglio sosta a Suda per consentire alle unità di scorta di fare
rifornimento.
23 agosto 1942
Il convoglio
raggiunge il Pireo alle 6.15.
Il Turbine al Pireo in alcune foto scattate da Aldo Fraccaroli il 3
settembre 1942 (Coll. Luigi Accorsi, Domenico Jacono e Maurizio Brescia, via www.associazione-venus.it)
7 settembre 1942
Il Turbine scorta il piroscafo Anna Maria Gualdi dal Pireo a Salonicco.
10 settembre 1942
Il Turbine ed il posamine ausiliario
tedesco Bulgaria scortano la motonave
italiana Adriana e la nave cisterna
tedesca Ossag da Salonicco al Pireo.
13 settembre 1942
Il Turbine scorta la motonave Tergestea dal Pireo a Salonicco.
23 settembre 1942
Turbine, Bulgaria e tre
cacciasommergibili tedeschi scortano dal Pireo a Suda la nave cisterna Proserpina e le motonavi Città di Alessandria e Città di Savona.
7 ottobre 1942
Il Turbine scorta il piroscafo Arsia da Suda al Pireo.
8 ottobre 1942
Il Turbine (caposcorta) ed il
cacciatorpediniere Camicia Nera
salpano dal Pireo alle 6.30 scortando il piroscafo tedesco Menes, diretto a Taranto.
A mezzogiorno il
convoglietto raggiunge Patrasso, dopo di che Turbine e Camicia Nera si
trasferiscono al Pireo.
10 ottobre 1942
Alle 15.30 Turbine (caposcorta), Camicia Nera e le torpediniere Lince e Lira partono dal Pireo per scortare a Taranto la nave cisterna Proserpina. (Lince e Lira dovrebbero
però aver lasciato il convoglio poco dopo la partenza, dal momento che lo
stesso 10 ottobre avrebbero assunto la scorta dei mercantili Petrarca e Tergestea in navigazione dal Pireo a Tobruk).
11 ottobre 1942
Alle 7 Turbine, Camicia Nera e Proserpina
arrivano a Patrasso, da dove ripartono alla volta di Taranto alle 12.30 insieme
al Menes.
12 ottobre 1942
Il convoglio
raggiunge Taranto alle 21.35.
3 dicembre 1942
Il sergente
cannoniere Fedele Giardina del Turbine,
di 25 anni, da Lampedusa, muore in territorio metropolitano.
7 dicembre 1942
Il Turbine (secondo una fonte, insieme al
cacciatorpediniere tedesco Hermes) scorta
il piroscafo tedesco Piraeus e l’italiano
Valentino Coda dal Pireo a Kavaliani.
17 dicembre 1942
Il Turbine e le torpediniere Castore e Libra scortano da Rodi al Pireo la motonave Donizetti ed i piroscafi Argentina
ed Ardena, quest’ultimo tedesco.
1942
Lavori di modifica
dell’armamento: l’impianto lanciasiluri trinato di poppa viene eliminato,
mentre vengono installate due mitragliere contraeree Breda 1939 da 37/54 mm (in
impianti singoli) e due lanciabombe per bombe di profondità.
20 dicembre 1942
Turbine, Castore e Libra salpano in nottata dal Pireo per
scortare a Rodi Donizetti, Argentina ed Ardena.
21 dicembre 1942
Durante la notte,
mentre il convoglio si trova a sud di Lero, vengono avvistati dei razzi in
direzione di Lero e di Calino.
Il convoglio arriva a
Rodi in mattinata, sbarca truppe e materiali e riparte alle 15 per tornare al
Pireo, con la stessa scorta dell’andata.
Al momento della
partenza viene notata l’accensione di un grande fuoco sul versante occidentale
del monte Ack Dag, sulla costa della Turchia: tale fenomeno, già verificatosi
altre volte, fa pensare che qualcuno osservi la partenza delle navi da Rodi ed
accenda dei fuochi per segnalarlo.
22 dicembre 1942
La navigazione
procede senza problemi, con mare mosso da tramontana e da maestro. In mattinata
l’Ardena, che procede in coda al
convoglio, avvista il periscopio di un sommergibile e dà l’allarme; subito
il Turbine ed il velivolo
della scorta aerea attaccano il sommergibile, mentre i mercantili si
allontanano a tutta forza dal punto segnalato. Il convoglio raggiunge il Pireo
nel tardo pomeriggio.
26 dicembre 1942
Alle 15 Turbine, Libra e la torpediniera Calatafimi
partono dal Pireo per scortare ad Iraklion la Donizetti, l’Ardena ed il
piroscafo Re Alessandro.
27 dicembre 1942
Le navi incontrano
mare molto agitato, ma alle 8.40 sono in vista di Iraklion ed alle 9 entrano in
porto, mettendovisi alla fonda. Nell’ultimo tratto di navigazione del
convoglio, il velivolo tedesco della scorta aerea è precipitato in mare per
cause ignote.
29 dicembre 1942
Turbine, Libra e Calatafimi lasciano Iraklion per
scortare al Pireo Donizetti, Re Alessandro, Ardena, Città di Savona ed
il piroscafo bulgaro Burgas. Le
navi procedono a otto nodi.
30 dicembre 1942
Alle 9.45 Turbine e Calatafimi rilevano un sommergibile sulla sinistra del
convoglio e lo attaccano immediatamente con bombe di profondità, mentre i
mercantili si allontanano. Il tempo è buono, salvo che per un forte piovasco
poco prima di mezzogiorno. Tutte le navi raggiungono regolarmente il Pireo.
8 gennaio 1943
Il Turbine ed il cacciatorpediniere Francesco Crispi scortano dal Pireo a
Rodi i piroscafi Vesta e Bucintoro, carichi di automezzi,
materiali vari e viveri per la popolazione civile, per un carico complessivo di
1300 tonnellate.
13 gennaio 1943
Il Turbine scorta il Vesta di ritorno da Rodi al Pireo.
1° febbraio 1943
Assume il comando del Turbine il capitano di corvetta Francesco De Rosa De Leo (37 anni, da Montalbano Jonico).
1° febbraio 1943
Assume il comando del Turbine il capitano di corvetta Francesco De Rosa De Leo (37 anni, da Montalbano Jonico).
3 febbraio 1943
Alle due del
pomeriggio Turbine, Euro e le torpediniere Solferino e Calatafimi partono dal Pireo per
scortare a Rodi Donizetti, Argentina e Ardena (le prime due cariche di truppe e
materiali, la terza posizionata in coda al convoglio con funzioni di nave
salvataggio naufraghi).
Tempo buono, con mare
poco mosso.
4 febbraio 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 7 (qui i mercantili sbarcano parte del carico), per poi ripartire
alle 20, diretto a Rodi. Mare mosso, cielo sereno.
5 febbraio 1943
Alle 6.50 un MAS
proveniente da Rodi raggiunge il convoglio, che si trova in un passaggio
obbligato e dunque particolarmente pericoloso. Le unità della scorta lanciano
bombe di profondità a scopo intimidatorio.
Il convoglio giunge a
Rodi alle 7. Giornata calda, nonostante sia febbraio.
6 febbraio 1943
Alle 17 Turbine, Euro, Solferino e Calatafimi lasciano Rodi per scortare Donizetti, Ardena ed Argentina di
ritorno al Pireo. La Donizetti ha
imbarcato militari che si recano in licenza, mentre sull’Argentina salgono civili italiani che sfollano da Rodi.
In serata, verso le
21.30, vengono visti fasci di luce e scie di proiettili traccianti verso Lero.
7 febbraio 1943
Il convoglio giunge a
Lero alle 5, ripartendone alle 16. Durante la sosta, la Donizetti imbarca altri militari in
licenza.
Nella notte, cielo
coperto, densa foschia, notte particolarmente buia; però vi è un’elevata
fosforescenza, che rende le scie delle navi particolarmente visibili.
8 febbraio 1943
Scortato anche da
dieci aerei (cinque da caccia e cinque antisommergibili) e raggiunto
nell’ultimo tratto da una vedetta antisommergibili, il convoglio raggiunge il
Pireo alle 8.30.
14 febbraio 1943
Turbine, Euro e Calatafimi scortano la nave
cisterna tedesca (ex greca) Petrakis
Nomikos da Salonicco a Trikiri.
15 febbraio 1943
Nel pomeriggio il Turbine, ormeggiato in rada al Pireo
(stretto di Salamina) vicino alla Donizetti,
perde la sua ancora sinistra, impigliatasi in quella di dritta della Donizetti, durante la manovra di
disormeggio. Prende poi il mare insieme all’Euro;
i due cacciatorpediniere dovranno scortare una petroliera.
18 febbraio 1943
Turbine ed Euro arrivano al
Pireo alle 13. Durante la missione sono stati attaccati da aerei, ma non hanno
subito danni.
21 febbraio 1943
Alle 14 Turbine (caposcorta), Solferino e Calatafimi salpano dal Pireo per scortare a Rodi Donizetti, Argentina ed Ardena (le
prime due sono cariche di truppe, la terza procede in coda al convoglio con il
compito di recuperare naufraghi se qualche nave dovesse essere silurata).
Calata la notte, c’è
la luna piena.
Il convoglio incontra
tempo pessimo, con forte vento e mare agitato da nord-nord-est in continuo
peggioramento, fino a forza 8, che mette in difficoltà soprattutto le siluranti
della scorta e l’Ardena: “Il Calatafimi dà l’impressione di infilarsi
sotto tutte le volte che le onde lo ricoprono”, scrive Widmer Lanzoni, allievo
ufficiale della Donizetti, per il
quale questo è il mare peggiore che abbia mai incontrato; il Turbine contatta la torpediniera con segnalazioni
ottiche e le chiede se sia in grado di tenere il mare ed al contempo adempiere
efficacemente ai propri compiti di scorta, ricevendo risposta affermativa.
Sulla Donizetti, che rolla fortemente perché
vuota di carico, e sull’Argentina si
registrano invece parecchi casi di mal di mare tra la truppa imbarcata. Il
convoglio continua a dieci nodi, ma il tempo continua a peggiorare.
22 febbraio 1943
All’1.30 della notte,
prima di raggiungere il mare aperto al largo delle Cicladi, il comandante del Turbine decide di far invertire la rotta
al convoglio per rientrare al Pireo: il mare è troppo brutto per proseguire, le
unità della scorta – specie Calatafimi e Solferino – non sono in grado di
garantire il servizio di scorta in queste condizioni. La Calatafimi, la nave più piccola del
convoglio, riceve ordine di rifugiarsi a Sira, mentre il resto del convoglio supera
quest’isola e prosegue per il Pireo; alle 4.15, tuttavia, siccome neanche Turbine e Solferino riescono più a tenere il mare, il caposcorta ordina
a tutto il convoglio di invertire nuovamente la rotta e dirige anch’esso su
Sira, dove entra alle 6.30. Prime ad entrare in porto sono le tre siluranti
(che hanno più problemi a tenere il mare: Widmer Lanzoni commenta che “Non ce l’avrebbero fatta a restare ancora
fuori”), seguite dai mercantili (prima la Donizetti, poi l’Ardena e
per ultimo l’Argentina); anche la
manovra di ormeggio è difficoltosa, causa le forti raffiche di vento freddo che
soffia senza sosta.
Il convoglio sosta a
Sira per quattro giorni a causa del persistente mare agitato.
26 febbraio 1943
Alle 20.30 il
convoglio può finalmente lasciare Sira. Il mare è ora poco mosso, la
navigazione procede senza problemi.
27 febbraio 1943
Alle 6.30 il Turbine e le altre navi, raggiunte
da un MAS che si aggrega per un tratto alla scorta, arrivano a Portolago,
nell’isola di Lero; qui sostano fino alle 20.30, per poi ripartire alla volta
di Rodi, seguendo la costa turca.
28 febbraio 1943
Alle sei del
mattino il convoglio raggiunge Rodi, dove i mercantili sbarcano le truppe
per poi ripartire alle 16 per il Pireo, via Lero, sempre scortati da Turbine, Solferino e Calatafimi.
A Rodi fa caldo. La
navigazione da Lero a Rodi, salvo che per il maltempo, è stata tranquilla:
nessun allarme, e nelle ore diurne il convoglio è sempre stato sorvolato da
caccia e ricognitori della Regia Aeronautica che assicuravano la scorta aerea.
Una volta partite, le
navi fanno rotta per Rodi ad undici nodi.
1° marzo 1943
Il convoglio arriva a
Lero, entrando nella baia di Portolago. In serata le navi ripartono per il
Pireo.
2 marzo 1943
In mattinata il
convoglio entra nel porto del Pireo (San Nicolò).
7 marzo 1943
Alle 16 Turbine, Calatafimi ed il cacciatorpediniere tedesco Hermes (caposcorta) salpano dal Pireo per scortare ad Iraklion Donizetti, Re Alessandro, Ardena e
la motonave tedesca (ex francese) Sinfra.
La Donizetti è unità capoconvoglio, e
in quanto tale conduce la navigazione.
Il mare è agitato,
poi va calmandosi dopo mezzanotte.
8 marzo 1943
Il convoglio arriva
ad Iraklion alle nove. Dopo lo scarico di truppe e merci, le navi ripartono
alle 18: il convoglio è adesso formato da Donizetti, Sinfra e Re Alessandro e dalla nave appoggio
sommergibili Antonio Pacinotti,
scortate da Turbine, Hermes, Calatafimi, Ardena e
dal posamine ausiliario tedesco Drache.
Il mare è quasi calmo, il cielo parzialmente coperto, la notte buia.
9 marzo 1943
Durante la notte il
tempo peggiora: mare grosso al mascone di dritta, con conseguente riduzione
della velocità. Gli spruzzi delle onde arrivano fino in plancia. Verso le 6 viene
modificata la rotta; il convoglio tenta di passare a ridosso delle Cicladi.
Nelle successive due ore, il convoglio riesce ad avanzare soltanto di 14
miglia, ma poi il tempo va migliorando; nel pomeriggio si arriva al Pireo, dove
le navi entrano in porto.
11 marzo 1943
Il Turbine scorta il Re Alessandro dal Pireo ad Iraklion.
26 marzo 1943
Scorta il Re Alessandro dal Pireo a Sira.
Il Turbine con colorazione mimetica (da “Alarmstart South and Final Defeat” di Patrick G. Eriksson) |
7 aprile 1943
Alle 14 Turbine, Euro, Solferino e Castelfidardo salpano dal Pireo per
scortare a Rodi, via Lero, Donizetti,
Re Alessandro ed Ardena (quest’ultima adibita, ancora una
volta, al ruolo di nave salvataggio naufraghi).
Verso le 17.45
la Castelfidardo lancia
l’allarme antisommergibili; Donizetti e Re Alessandro accelerano subito e
accostano a dritta, per poi tornare sulla rotta dopo un quarto d’ora. Verso le
20 Euro e Castelfidardo, distaccate per dare la
caccia al sommergibile, si riuniscono al convoglio, che torna a procedere a
velocità normale.
8 aprile 1943
Alle 6.30 l’Euro avvista un aereo; dapprima si
pensa che si tratti di un velivolo della scorta aerea (che raggiunge il
convoglio ogni giorno all’alba), ma l’aereo non effettua i prescritti segali di
riconoscimento, pertanto l’Euro apre
il fuoco contro di esso, mettendolo in fuga. Poco più tardi sopraggiunge la
vera scorta aerea, mentre vento e mare rinfrescano.
Il convoglio giunge a
Portolago in mattinata; qui la Donizetti imbarca
donne e bambini che vengono evacuati da Lero (in massima parte mogli e figli di
militari italiani stanziati nell’isola), e sottufficiali che si recano in
Italia in licenza. Al momento di salpare, tuttavia, la partenza viene rimandata
per via del maltempo, e lo stesso accade il giorno seguente.
10 aprile 1943
Essendo il tempo in
lento miglioramento, il convoglio, ora ridotto ai soli Turbine, Euro, Solferino e Donizetti, lascia Lero alla volta di Rodi.
11 aprile 1943
Il convoglio entra
nel porto di Rodi poco dopo le cinque del mattino.
Poco prima delle
sette di sera iniziano le manove per uscire dal porto, ma la catena
dell’ancora del Turbine rimane
impigliata in quella dell’Euro, e le
manovre compiute da quest’ultimo per liberarla finiscono col far rimanere la
sua ancora impigliata in quella della Donizetti e
nelle catene delle ancore del Turbine.
L’Euro esce dal porto
abbandonando la sua ancora, mentre il Turbine non
vuole smanigliare la sua, così viene perso molto tempo per liberarla, mentre il
vento fresco di tramontana fa sbattere più volte la Donizetti contro la poppa del Turbine, danneggiando il lanciabombe per bombe di profondità di
quest’ultimo. Solo alle 21.40 la Donizetti riesce
a liberarsi dell’ancora dell’Euro ed
a uscire dalle ostruzioni. Widmer Lanzoni della Donizetti descrive così l’incidente: “Alla partenza il Turbine si è trovato impigliato con la sua catena
nell’ancora dell’Euro. L’Ardena, che era di prua a noi in testata del molo, è
riuscita ad uscire ed a far compagnia al Castelfidardo già fuori. Dopo lunghe
manovre l’Euro è uscito lasciando la sua ancora impigliata nella nostra e nelle
catene del Turbine. Il Turbine non voleva smanigliare la propria ancora e così
abbiamo perso parecchio tempo. Intanto il vento fresco da tramontana, ci ha
mandato più volte contro la poppa del Turbine. Gli abbiamo scassato il
lancia-bombe di profondità. Per fortuna che le bombe erano sicuramente
disinnescate. Almeno spero. Finalmente alle 21,40, liberatici dall’ancora dell’Euro,
che era proprio a cavallo della nostra, abbiamo passato le ostruzioni. Stanno
capitando troppo spesso questi grovigli di ancore con i caccia. Speriamo almeno
che nel viaggio non debba usare il lancia-bombe scassato”.
12 aprile 1943
Nel corso della notte
il convoglio incontra mare cattivo di prua od al mascone, che costringe a
ridurre la velocità, ma tutte le navi arrivano regolarmente a Lero in mattinata,
entrando nella rada di Portolago. In serata il convoglio prosegue per Lero.
13 aprile 1943
In mattinata il
convoglio arriva al Pireo.
18 aprile 1943
Turbine ed Euro scortano
il Re Alessandro dal Pireo
a Lero.
19 aprile 1943
Turbine ed Euro scortano
il Re Alessandro da Lero al
Pireo.
20 aprile 1943
Nelle prime ore del
20 aprile, il Turbine parte dal Pireo
per assumere il comando della componente navale di un’operazione congiunta
italo-tedesca, con l’impiego sia di truppe dell’Esercito (24a
Divisione Fanteria "Pinerolo") che di unità navali, diretta contro la
Resistenza ellenica nella Grecia sudorientale (canale di Ebuea, zona di Volo).
Negli ultimi tempi, infatti, i partigiani greci nella zona hanno mostrato
notevole aggressività: il 14 aprile, ad esempio, hanno catturato un battello
postale italiano in navigazione da Volo a Stylide, rimorchiandolo a Volo, ed
hanno respinto e danneggiato due cannoniere tedesche (GA 02 e GA 26) che
avevano tentato d’intervenire. I comandi italiani e tedeschi hanno pertanto
deciso di lanciare la più grande operazione antipartigiana organizzata in Egeo
fino a quel momento, per “ripulire” questa regione dai partigiani.
La componente navale
dell’operazione consiste, oltre che nel Turbine,
nelle torpediniere Castelfidardo e Solferino, nelle motosiluranti MS 26 e MS 41, nel dragamine RD 9
e nel rimorchiatore Elias, per la
parte italiana; nei posamine ausiliari Drache
e Bulgaria, nel cacciasommergibili UJ 2102 e nelle cannoniere ausiliarie GA 3, GA 5, GA 6, GA 8, GA 9, GA 43, GA 53, GA 55, GA 57, GA 59, GA 61, GA 66, GA 68, GA 69 ed Aetos per la
parte tedesca. Le altre unità sono già sul posto quando il Turbine salpa dal Pireo per assumerne il comando: quando giunge
anch’esso sul posto, le operazioni navali sono ormai giunte al termine.
22 aprile 1943
Il Turbine cattura due motovelieri con a bordo personale militare britannico.
25 aprile 1943
Il Turbine cannoneggia un gruppo di partigiani greci a Gardiki.
28 aprile 1943
Al termine delle operazioni antipartigiane, il Turbine affonda un motoveliero partigiano.
5 maggio 1943
Il Turbine e due motosiluranti italiane
ritornano al Pireo dopo operazioni al largo dell’Attica.
9 maggio 1943
Il Turbine scorta il piroscafo Corso Fougier dal Pireo a Salonicco.
11 maggio 1943
Turbine, Castelfidardo, Solferino e l’incrociatore ausiliario Barletta scortano Donizetti, Re Alessandro
e la nave cisterna greca Elli da Rodi
al Pireo.
5 giugno 1943
Turbine e Castelfidardo scortano
la nave cisterna Firus dal
Pireo ai Dardanelli.
11 giugno 1943
Turbine, Castelfidardo e la
torpediniera Monzambano scortano
dal Pireo ai Dardanelli il piroscafo tedesco Whilhelmsburg.
19 giugno 1943
Turbine, Euro e Monzambano scortano Donizetti, Ardena e Re
Alessandro dal Pireo a Lero e poi a Rodi.
21 giugno 1943
Turbine, Euro e Monzambano scortano Donizetti, Ardena e Re
Alessandro da Rodi al Pireo.
24 giugno 1943
Il Turbine e due cacciasommergibili
tedeschi scortano il piroscafo Volodda
dal Pireo a Salonicco.
28 giugno 1943
Turbine e Monzambano scortano
la motonave Sinfra da Salonicco a
Rodi.
7 luglio 1943
Turbine (capitano di corvetta Francesco De Rosa De Leo), Monzambano ed i cacciasommergibili
tedeschi UJ 2102 e UJ 2104 assumono al largo dei Dardanelli
la scorta della nave cisterna Petrakis
Nomikos (secondo Uboat.net, questa nave era stata ribattezzata
Wilhelmsburg, mentre il volume USMM "La difesa del traffico con l’Albania,
la Grecia e l’Egeo" la chiama ancora col nome di Petrakis Nomikos) e del piroscafo Gerda Toft, ambedue tedeschi, che devono scortare al Pireo.
I due mercantili,
provenienti dal Mar Nero, escono dallo stretto dei Dardanelli e incontrano le
unità di scorta al di fuori delle acque territoriali turche; vi è anche una
scorta aerea, composta da quattro velivoli. Caposcorta è il comandante del Turbine.
Alle 7.30 il
convoglio è in formazione di marcia, con il Turbine
in posizione di scorta laterale sinistra, la Monzambano di scorta ecogoniometrica laterale sinistra, l’UJ 2102 di scorta ecogoniometrica
laterale dritta e l’UJ 2104 di scorta
laterale dritta; la Petrakis Nomikos
(che è dotata anch’essa di ecogoniometro ed esegue esplorazione ecogoniometrica
in base alle norme promulgate dall’Ammiraglio dell’Egeo) ed il Gerda Toft sono al centro della
formazione, in linea di fila (Petrakis
Nomikos davanti, Gerda Toft
dietro). Le navi procedono a nove nodi.
I comandi britannici,
tuttavia, sono al corrente del transito di questo convoglio (probabilmente in
seguito all’intercettazione e decifrazione di comunicazioni dell’Asse), ed
hanno pertanto inviato il sommergibile Rorqual
(tenente di vascello Lennox William Napier) per intercettarlo.
Alle 4.10 il Rorqual, in agguato a 13 miglia per 310°
dal faro di Ponente nell’isola di Tenedo, avvista due cacciatorpediniere a
quattro miglia di distanza, diretti a lento moto verso i Dardanelli: il
comandante Napier intuisce che debbano essere la scorta inviata incontro alle
due navi tedesche provenienti dal Mar Nero, di cui è stato avvertito. Alle
6.03, infatti, il Rorqual osserva dei
fumi in avvicinamento dai Dardanelli e vede i cacciatorpediniere avvicinarsi
agli stretti; alle 7.02 Napier assiste alla formazione del convoglio, che
giudica come composto da una grossa nave cisterna (la Petrakis Nomikos), i due cacciatorpediniere di prima (Turbine e Monzambano), ed una “corvetta” (in realtà l’UJ 2102), con una scorta aerea di tre velivoli. Alle 7.59 il Rorqual lancia quattro siluri contro il
convoglio, due dei quali vanno a segno alle 8.02 colpendo la Petrakis Nomikos: a bordo del Turbine, il comandante De Rosa De Leo
vede due «due colonne d’acqua seguite da
due forti esplosioni intervallate di circa 5 secondi e (…) la cisterna Petrakis Nomikos fermarsi e
sbandare fortemente sulla dritta». Subito i velivoli della scorta aerea
lanciano alcune bombe di profondità nel tratto di mare compreso tra la Petrakis Nomikos ed i due
cacciasommergibili tedeschi. De Rosa De Leo ordina al convoglio di accostare
d’urgenza a sinistra, all’UJ 2102 e
ad uno degli aerei di scorta di dare la caccia al sommergibile attaccante ed
alla Monzambano ed all’UJ 2104 (che intanto ha recuperato tre
naufraghi della nave silurata) di proseguire scortando il Gerda Toft; poi, con il Turbine,
si avvicina alla Petrakis Nomikos per
prestarle assistenza. Per la nave cisterna non c’è niente da fare: colpita da
un siluro a prua (tra le tanche 1 e 2) e da un altro a poppa (tra la tanca 6 ed
il locale pompe), sta assumendo uno sbandamento sempre più accentuato sulla
dritta ed è ormai in procinto di affondare; impossibile tentare il rimorchio.
Ammainate le scialuppe, l’equipaggio abbandona ordinatamente la nave; ultimo a
scendere sulle lance è il comandante. Non vi è alcuna vittima: su 66 uomini di
equipaggio il Turbine ne recupera 63,
mentre gli altri tre sono già stati precedentemente raccolti dall’UJ 2104.
Alle 9.05 la Petrakis Nomikos si capovolge, con la
bandiera tedesca a riva; alle 9.25 l’UJ
2102 lancia numerose bombe di profondità contro il Rorqual, che infatti ha contato le esplosioni di 16 bombe di
profondità (che esplodono abbastanza vicine da causare qualche lieve danno alle
luci e ad alcuni impianti non vitali) subito dopo il siluramento, e poi quelle
di altre dieci (che esplodono lontane, senza causare danni) appunto alle 9.25.
Alle 9.35 la Petrakis Nomikos cola a
picco in posizione 39°57’ N e 25°50’,5 E (o 39°55’ N e 25°50’ E, cinque miglia
ad ovest di Tenedo), mentre l’equipaggio del Turbine e gli stessi naufraghi tedeschi, a bordo del
cacciatorpediniere, rendono gli onori militari alla nave che s’inabissa.
Lasciato sul posto l’UJ 2102 ed un aereo per continuare la
caccia al sommergibile, il Turbine si
riunisce alle altre navi, ricostituisce il convoglio e prosegue verso il Pireo.
Alle 9.50 il Rorqual torna a quota
periscopica e vede il cacciasommergibili tedesco ancora intento nella caccia,
ad un paio di miglia di distanza.
8 luglio 1943
Turbine, Monzambano, Gerda Toft e UJ 2104 raggiungono il Pireo alle 7.35.
10 agosto 1943
Turbine, Euro, Monzambano ed il
cacciatorpediniere Francesco Crispi scortano Helli, Donizetti e Re
Alessandro dal Pireo a Rodi.
12 agosto 1943
Turbine, Euro, Crispi e Monzambano scortano Helli, Donizetti e Re Alessandro da Rodi al Pireo.
23 agosto 1943
Il Turbine scorta il piroscafetto Eolo da Lero al Pireo.
25 agosto 1943
Turbine, Crispi e Castelfidardo scortano dal Pireo a Rodi Ardena, Eolo e Sinfra.
4 settembre 1943
Turbine, Crispi e due
cacciasommergibili tedeschi lasciano Rodi per scortare al Pireo la Sinfra.
6 settembre 1943
Dopo aver fatto scalo
a Lero, Turbine, Crispi e Sinfra arrivano
al Pireo.
(g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net) |
Epilogo in Egeo
Nel settembre del
1943 il Turbine, al comando del
capitano di corvetta Francesco De Rosa De Leo, faceva parte della IV
Squadriglia Cacciatorpediniere, avente base nel Dodecaneso e formata oltre che
dal Turbine dai cacciatorpediniere Francesco Crispi (caposquadriglia,
capitano di fregata Giuseppe Verzocchi), Quintino
Sella (capitano di corvetta Corrado Cini) ed Euro (capitano di fregata Vittorio Meneghini). Queste quattro navi,
per quanto datate, costituivano le unità navali dell’Asse di maggiore potenza
nel settore dell’Egeo, dove erano adibite a compiti di scorta. La IV
Squadriglia dipendeva dal Comando Zona Militare Marittima dell’Egeo (Mariegeo),
con sede a Rodi, ma aveva la sua base a Lero.
Quando la notizia
dell’avvenuta firma dell’Armistizio di Cassibile, che poneva fine alle ostilità
tra l’Italia e gli Alleati, venne annunciata al mondo, l’8 settembre 1943, il Turbine non si trovava però nel
Dodecaneso, bensì al Pireo, dov’era giunto due giorni prima al termine di una
missione di scorta della motonave Sinfra.
Al Pireo, o più
precisamente ad Atene, aveva sede il Comando Gruppo Navale Egeo Settentrionale
(Marisudest), il cui comando era ricoperto, al momento dell’armistizio, dal
capitano di fregata (facente funzioni di capitano di vascello) Umberto Del
Grande. Al Pireo si trovava un Comando Marina italiano che tuttavia, essendo
situato in territorio sotto controllo tedesco, fungeva piuttosto da ufficio di
collegamento con i Comandi della Kriegsmarine in Egeo, ed era infatti
denominato Maricolleg Pireo. In questa composita struttura mista italo-tedesca
il capitano di fregata Del Grande, oltre che comandante di Marisudest, era
anche capo di Stato Maggiore italiano del comandante delle forze navali
tedesche nell’Egeo (Admiral Ägäis,
incarico ricoperto all’epoca dal viceammiraglio Werner Lange, che aveva il suo
quartier generale ad Atene). Le navi italiane alle dipendenze di Del Grande
erano da questi impiegate in base agli ordini ricevuti dall’ammiraglio tedesco.
Anche la centrale comunicazioni del Pireo era in mano tedesca: tutte le
comunicazioni dirette dall’Italia a Marisudest e Maricolleg passavano prima per
l’alleato teutonico.
In seguito alla
caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, la “penetrazione” tedesca nelle
strutture di comando italiane si era andata intensificando: sia a Marisudest
che a Maricolleg Pireo erano giunti ufficiali e personale della Kriegsmarine,
con la scusa di un miglioramento della collaborazione italo-tedesca. In realtà
gli alti comandi tedeschi, prevedendo che la caduta di Mussolini preludesse ad
un tentativo da parte italiana di uscire da quella guerra ormai perduta,
stavano già preparandosi al momento in cui la defezione italiana si sarebbe
concretizzata: e con quel personale approntavano i nuovi comandi tedeschi che,
al momento opportuno, avrebbero sostituito quelli italiani.
Dato tutto ciò, la
situazione al Pireo all’indomani dell’armistizio si rivelò particolarmente
difficile per i Comandi italiani, che di fatto avevano tedeschi tutt’intorno ed
anche in mezzo a loro.
Sul Turbine la notizia dell’armistizio
scatenò sulle prime delle manifestazioni di giubilo: l’equipaggio,
ingenuamente, credette che quella disastrosa guerra fosse finita, e che presto
la nave sarebbe potuta tornare in Italia. Furono persino messe in pressione le
caldaie, e gli equipaggi di due rimorchiatori si presentarono a bordo
domandando di poter rientrare anche loro in Italia col Turbine. Il comandante, capitano di corvetta Francesco De Rosa De
Leo, non era a bordo per via di alcuni impegni a terra; tornò sul Turbine alle nove di sera dell’8
settembre, mentre all’iniziale esultanza, tra i marinai del cacciatorpediniere,
andava subentrando una crescente apprensione. Ogni collegamento tra il Turbine e le altre navi, infatti, era
venuto meno; l’equipaggio fu mandato ai posti di combattimento, mentre la nave
si posizionava nel canale di accesso al porto.
In quella tragica
giornata di settembre, il porto del Pireo era particolarmente affollato di navi
italiane: oltre al Turbine c’erano un
altro cacciatorpediniere, il Francesco
Crispi (anch’esso giunto il 6 settembre con la Sinfra e, al pari del Turbine,
dipendente non da Marisudest ma da Mariegeo, con sede a Rodi); due
torpediniere, Calatafimi e San Martino; un incrociatore ausiliario,
il Francesco Morosini; una
motosilurante, la MS 42; otto
motovelieri e tre motovedette del locale gruppo antisommergibili; otto
dragamine ausiliari; tre navi ausiliarie; le navi mercantili Adriana, Ascianghi, Arezzo, Celeno, Città di Savona, Pier Luigi,
Salvatore, Tarquinia, Vesta.
Con la centrale delle
comunicazioni in mano tedesca, fu il responsabile del Comando Militare
Marittimo Grecia Occidentale (Marimorea, con sede a Patrasso), ammiraglio di
divisione Giuseppe Lombardi, ad informare il capitano di fregata Del Grande
dell’avvenuto armistizio, la sera dell’8 settembre, chiedendogli altresì di
darne immediatamente notizia al generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell’11a
Armata (con quartier generale ad Atene) da cui dipendevano tutte le truppe
d’occupazione italiane in Grecia.
Vecchiarelli, però,
sapeva già dell’armistizio: fu proprio lui, anzi, a confermare ufficialmente la
notizia a Del Grande alle 20.30 di quella sera, aggiungendo che da Roma era
stato ordinato che in caso di ostilità da parte tedesca le navi in mare
avrebbero dovuto raggiungere un porto del Sud Italia, mentre quelle in avaria
si sarebbero dovute autoaffondare.
Di conseguenza,
Marisudest ordinò subito a tutte le navi di approntare le macchine al moto ma
di tenersi anche pronte all’autoaffondamento; dopo di che Del Grande riunì in
consiglio di guerra i suoi ufficiali superiori: il comandante in seconda di
Marisudest, capitano di fregata Ferdinando Calda; il capo dell’ufficio
operazioni, capitano di fregata Lanfranco Lanfranchi; ed il capo dell’Ufficio
Recuperi Medio Oriente (avente sede ad Atene e subordinato a Marisudest per gli
aspetti disciplinari), maggiore del Genio Navale Guglielmo Giani. I quattro
ufficiali dovettero riconoscere che la tardiva comunicazione dell’armistizio
rendeva impossibile un’azione a sorpresa volta a trasferire le navi di
Marisudest in un porto italiano, e che con il porto in mano tedesca la loro
fuga dal Pireo sarebbe stata possibile soltanto attraverso un’azione di forza
che avrebbe necessitato del supporto delle truppe del Regio Esercito.
L’organizzazione delle operazioni di autoaffondamento venne affidata al
maggiore Giani.
Alcuni minuti dopo la
mezzanotte, il comandante del posamine ausiliario tedesco Drache, che già aveva accompagnato il Turbine in varie missioni di scorta nell’Egeo, si presentò a bordo
del cacciatorpediniere italiano ed annunciò che quest’ultimo era sotto il tiro
delle batterie costiere tedesche da 150 mm, che avrebbero aperto il fuoco se il
Turbine avesse tentato di uscire dal
porto. Per di più, aggiunse l’ufficiale tedesco, il Drache stesso aveva appena posato un nuovo campo minato davanti al
porto. Quand’anche il Turbine fosse
riuscito a superare indenne mine e batterie costiere, il sorgere del sole
avrebbe portato l’intervento dei bombardieri tedeschi dislocati nelle basi di
Atene. Le luci dell’alba mostrarono che il comandante del Drache non aveva bluffato: l’equipaggio del Turbine si preparò allora ad autoaffondare la nave, mentre il
comandante De Rosa De Leo scendeva a terra per chiedere lumi ai suoi superiori.
Nel frattempo, ad
Atene, il generale Vecchiarelli aveva intavolato negoziati con i comandi
tedeschi in Grecia; ritenendo che la «netta
inferiorità di armamento» delle sue truppe avrebbe portato, in caso di
resistenza armata alle pressioni tedesche, ad un inutile spargimento di sangue,
nelle prime ore del 9 settembre il comandante dell’11a Armata ordinò
a tutte le sue truppe di consegnare le armi – salvo quelle individuali – ai
tedeschi, credendo alle promesse tedesche di rimpatriare le truppe italiane,
che sarebbero state sostituite da reparti della Wehrmacht nel loro compito di
occupazione della Grecia. (Promessa ben presto infranta: tutti gli italiani,
Vecchiarelli compreso, finirono invece in prigionia in Germania). In armonia
con le sue decisioni di rinuncia alla resistenza e di consegna delle armi, Vecchiarelli
ordinò di sospendere i preparativi per la partenza delle navi italiane al
Pireo.
Nella notte tra l’8
ed il 9 settembre, intanto, un rappresentante dell’ammiraglio Lange si era
recato sia alla sede di Maricolleg Pireo che a bordo di ciascuna nave italiana
presente in porto, comunicando che l’imboccatura del porto era stata minata e
sbarrata, e che contro qualsiasi nave che avesse tentato di partire sarebbe
stata usata la forza. Truppe corazzate tedesche, nel frattempo, avevano
completamente circondato il Pireo.
Il capitano di
fregata Del Grande si incontrò per due volte con l’ammiraglio Lange, che gli
chiese di cedere le navi alla Kriegsmarine, ottenendone un rifiuto; infine,
alle due di notte del 9 settembre, Del Grande fu “invitato” ad impedire ogni sabotaggio
delle sue navi ed a schierarsi con la Germania. Il comandante di Marisudest
tenne il generale Vecchiarelli al corrente di questi incontri, ed alla fine
quest’ultimo gli inviò un ordine scritto definitivo circa l’atteggiamento da
assumere nei confronti dei tedeschi: siccome gli accordi presi con i Comandi
tedeschi prevedevano la cessione alla Wehrmacht di tutte le armi in dotazione
alle forze armate italiane in Grecia, anche le navi da guerra avrebbero dovuto
essere consegnate intatte. A Del Grande non rimase che distruggere tutti i
documenti segreti ed organizzare la cessione delle navi «nella forma meno umiliante per la Marina e per il personale imbarcato».
A questo proposito,
venne deciso che la consegna di ogni unità non sarebbe avvenuta direttamente
tra il comandante ed i tedeschi, bensì dapprima tra il comandante ed un
ufficiale subordinato, e poi tra quest’ultimo ed i tedeschi; che gli equipaggi
italiani avrebbero potuto tenere le armi individuali, e che la bandiera
italiana sarebbe stata ammainata soltanto dopo lo sbarco degli equipaggi. Ogni
atto di sabotaggio era proibito.
La mesta cerimonia
ebbe termine entro mezzogiorno del 9 settembre 1943.
Anche il Turbine passò così, senza colpo ferire,
in mano tedesca: alle dieci del mattino era arrivato l’ordine di spegnere le
caldaie, ed alle 11.20 il comandante De Rosa De Leo tornò a bordo e comunicò ai
suoi uomini che gli ordini degli alti comandi italiani in Grecia erano di
consegnare la nave intatta ai tedeschi.
La storia ufficiale
della Marina commenta: «durante le
operazioni di cessione e di affondamento [tre navi mercantili furono
infatti autoaffondate prima del raggiungimento degli accordi per la cessione] il contegno degli ufficiali e degli
equipaggi fu dignitoso e disciplinato». Lo storico Vincent O’Hara, nel suo
libro "The German Fleet at War, 1939-1945", descrive così la scena di
quell’insolito “passaggio di consegne”: «Il
comandante italiano del Turbine discese la passerella della sua nave, salutando
e venendo salutato da ufficiali di Marina tedeschi. Questi stessi ufficiali
salirono a bordo, e questo è quanto».
Il volume USMM
"Navi militari perdute" afferma che la cattura (o piuttosto la
consegna, date le circostanze) del Turbine
ebbe luogo a mezzogiorno del 9 settembre 1943; stranamente, tale libro afferma
che dopo essere stata evacuata «in
ottemperanza agli accordi fra il Comando territoriale italiano e quello tedesco»,
la nave fu «abbandonata alla deriva»
per poi essere catturata dai tedeschi. Secondo il libro “Kampf um die Ägäis” di
Peter Schenk, il Turbine fu
inizialmente presidiato da un plotone di Küstenjäger, per poi essere trasferito
alla Kriegsmarine.
Due amare
immagini della consegna del Turbine
ai tedeschi: sopra, il comandante De Rosa De Leo sbarca salutato da ufficiali
tedeschi; sotto, una squadra di Küstenjäger sale a bordo della nave (dal libro “Kampf
um die Ägäis” di Peter Schenk, via Francesco De Domenico)
Lo stesso 9 settembre
Marina Lero comunicava a Mariegeo Rodi che «Crispi
– Turbine – Tramaglio – Orsini – Cerere non ancora giunti alt Pregherei notizie».
Invano il Comando Marina di Lero, nei giorni successivi (almeno fino al 12
settembre), tentò a più riprese di mettersi in contatto col Turbine e con le altre navi sorprese
dall’armistizio al Pireo. Anche Rodi cercò di contattare quelle navi, che si
sapeva essere al Pireo e prossime alla partenza, per ordinare loro di
raggiungere immediatamente Lero; ma ovviamente non ci fu nessuna risposta.
A mezzogiorno dello
stesso 9 settembre venne chiusa anche la stazione radio di Marisudest, già
sorvegliata da sentinelle tedesche fin dalla notte precedente; nei giorni
seguenti ebbe inizio il trasferimento del personale di Marina destinato a terra
e di quello imbarcato sulle navi mercantili verso i campi di prigionia del
Reich, con la falsa promessa del rimpatrio in Italia. Non pochi marinai,
diffidando – a ragione – delle promesse tedesche, riuscirono a fuggire prima
della partenza, trovando rifugio presso famiglie greche od unendosi alla
Resistenza ellenica. Nonostante le pressioni tedesche per la continuazione
della guerra a fianco dell’Asse, la quasi totalità del personale italiano
rimase fedele al governo legittimo. Il 19 settembre venne arrestato anche il
capitano di fregata Del Grande.
Gli equipaggi delle
navi da guerra, compreso quello del Turbine,
rimasero invece in un primo momento al Pireo, in quanto era intenzione dei
tedeschi di trattenerli, forse per tornare ad armare le unità ex italiane per
le quali vi era penuria di personale tedesco. Il 14 ottobre 1943, tuttavia,
venne deciso che al Pireo sarebbero rimasti soltanto una settantina di
specialisti, che avrebbero dovuto aiutare il personale della Kriegsmarine a
familiarizzare con le navi italiane; gli altri sarebbero partiti a loro volta
per la prigionia in Germania. Insieme ad essi rimasero in un primo momento al
Pireo anche cinque ufficiali, tra cui il capitano di fregata Calda ed il
maggiore Giani, ed una ventina di uomini di Marina Pireo; ma il 1° ottobre
vennero arrestati anche Calda e Giani.
Gli specialisti
rimasti al Pireo furono sottoposti ad un’intensa campagna propagandistica, volta
a spingerli ad aderire alla causa tedesca, che vide la partecipazione di
quattro ufficiali italiani passati con i tedeschi (tra di essi il capitano di
fregata Luigi Pilosio, già comandante di un gruppo di batterie della Marina a
Creta); ma tutti o quasi tutti rimasero fermi nel loro rifiuto.
Secondo fonte non
verificata, alcuni marinai italiani avrebbero continuato a far parte degli
equipaggi delle navi catturate anche sotto bandiera tedesca, per convizione o
per costrizione. Erminio Bagnasco, nel libro "In guerra sul mare",
scrive che «risulterebbe che, per poter
armare rapidamente (…) le (…) siluranti italiane (Turbine, Calatafimi
ecc.) di cui erano venuti in possesso in Grecia nei giorni dell’armistizio, i
tedeschi siano riusciti, mediante minacce e promesse, a convincere alcuni
elementi “chiave” degli equipaggi originari, soprattutto personale di macchina,
a rimanere a bordo delle navi prestando la loro opera come “volontari” nella
Kriegsmarine. Non sono stati rintracciati precisi elementi in merito, se non
generiche testimonianze». Enrico Cernuschi e Vincent O’Hara, nel loro
"Dark Navy: the Italian Regia Marina and the Armistice of 8 SeptembeR 1943", affermano che alcuni
membri dell’equipaggio del Turbine
decisero di restare a bordo e continuare la guerra a fianco dei tedeschi,
mentre la maggior parte dell’equipaggio, sbarcato con la promessa di un pronto
rimpatrio in Italia, venne mandata in prigionia in Germania e Polonia.
Per l’equipaggio del Turbine iniziava la lunga odissea della
prigionia in Germania, dalla quale non tutti sarebbero tornati.
La maggior parte del
personale della Regia Marina catturato in Grecia all’indomani dell’armistizio
fu inviato inizialmente nello Stalag III A di Luckenwalde, a sud di Berlino,
dove gli italiani – circa 15.000, tra personale della Marina, dell’Esercito e
dell’Aeronautica – giunsero in treno tra il 29 settembre ed il 3 ottobre 1943.
Quello di Luckenwalde era un campo di smistamento, e per la maggior parte degli
italiani che vi passarono rappresentò soltanto una tappa del loro viaggio verso
la prigionia: qui ciascuno ricevette il proprio numero di matricola; poi, tra
l’11 ed il 17 ottobre, i più furono trasferiti a Tarnapol (odierna Ternopil’,
in Ucraina). Alcuni dei prigionieri accettarono qui di aderire alla Repubblica
Sociale Italiana, e furono pertanto trasferiti a Deblin-Irena (Polonia), poi a
Przemyśl (ancora in Polonia) ed
infine a Norimberga, da dove poterono rientrare in Italia nel giugno 1944.
Gli altri rimasero a
Tarnapol fino al dicembre 1943/gennaio 1944, quando il campo venne sgomberato
dinanzi all’avanzata dell’Armata Rossa. I prigionieri italiani vennero pertanto
dispersi in vari altri campi di prigionia: Siedlice, Deblin, Przemyśl e Tschenstochau (Czestochowa), in Polonia;
Sandbostel, Norimberga e Wietzendorf, in Germania.
Il 25 settembre 1943
gli equipaggi di Turbine, Crispi, Castelfidardo, Calatafimi e Solferino, nonché quello
dell’incrociatore ausiliario Francesco
Morosini, furono caricati su un treno formato da carri bestiame e carri
scoperti. Comandante del personale italiano sul treno era il capitano di
fregata Verzocchi, ufficiale di grado più elevato rimasto dopo che Del Grande
era stato già imbarcato su un aereo diretto in Germania.
Il treno lasciò la
stazione di Larissa (Atene) alle 18; il comandante superiore tedesco aveva
detto agli scettici ufficiali italiani che la destinazione del convoglio era
l’Italia settentrionale, ma in realtà il treno li portava verso la prigionia in
Germania. Per giustificare l’arzigogolato percorso seguito dal treno, fu detto
agli equipaggi italiani che il viaggio sarebbe stato più lungo del normale a causa
degli attacchi dei partigiani jugoslavi, che avevano distrutto numerosi ponti
lungo il percorso.
Gli equipaggi
italiani ormai prigionieri affrontarono così un lungo carosello per tutta l’Europa
orientale: il treno fece scalo a Salonicco, poi Skopje in Macedonia, Nic,
Sofia, Filippopoli, Sciumla e Provadia in Bulgaria; il 3 ottobre attraversò il
Danubio a Cornovada e poi fece scalo a Galaz (Bessarabia, Romania). Il 5
ottobre il convoglio transitò per Fetosta e Tandarei in Transilvania, poi entrò
in Ungheria, toccando Varadino, Seghedino e Nagykanizza; il 10 entrò in Austria
e sostò a Matterburg, dove salirono a bordo soldati tedeschi armati che
assunsero la scorta degli italiani. Furono toccate Vienna e Linz e infine si
entrò in Germania: Norimberga, Iena ed il 12 ottobre Bad Sulza, in Turingia, a
sud di Lipsia.
Qui le sorti degli
italiani si divisero: le vetture ov’erano sistemati gli ufficiali furono
infatti staccate, e venne impedito ogni contatto tra ufficiali e marinai, al
punto che l’attendente di un ufficiale venne colpito da una fucilata alla
spalla per aver cercato di salutarlo.
Nel campo di Bad
Sulza gli ufficiali ricevettero il loro numero di matricola di prigionieri, e
dovettero consegnare il denaro che avevano; un ufficiale tedesco li esortò di
nuovo a proseguire la guerra a fianco delle forze tedesche, ma ottenne un
compatto rifiuto.
Il 14 ottobre il
treno con gli ufficiali ripartì, con scorta armata e senza più il capitano di
fregata Verzocchi, ed attraversò Lipsia, Dresda, Open per poi entrare in
Polonia: Cracovia, Tarnow e la destinazione finale, Leopoli, dove giunse il 20
ottobre. In questi sei giorni di viaggio i prigionieri non ricevettero alcun
cibo.
Sottufficiali e
marinai rimasero a Bad Sulza, nello Stalag IX C. Questo campo, dal quale
dipendevano numerosi sottocampi (Arbeitskommando)
sparpagliati per una vasta area della Turingia, era stato creato nel febbraio
1940 ed aveva inizialmente ospitato prigionieri polacchi catturati durante
l’invasione del loro Paese; ad essi si erano aggiunti, quattro mesi dopo,
numerosi prigionieri belgi e francesi catturati durante la conquista tedesca
delle rispettive nazioni, ed a fine 1940 erano arrivati anche soldati
britannici catturati a Dunkerque, seguiti nell’aprile del 1941 da prigionieri
jugoslavi e poi da altri britannici e canadesi catturati in Nordafrica, Italia
(1943) ed Olanda (ottobre 1944). Per ultimi, nel dicembre 1944, arrivarono
soldati statunitensi catturati durante l’offensiva delle Ardenne. I prigionieri,
in tutto 50.000 (oltre alle nazionalità già citate, ed agli italiani arrivati
dopo il settembre 1943, c’erano anche prigionieri sovietici), lavoravano in
varie fabbriche della regione e nelle miniere di potassio di Mühlhausen.
Dipendevano dallo Stalag IX C anche due ospedali: il grande Reserve-Lazaret
IX-C(a) di Obermassfeld ed il piccolo Reserve-Lazaret IX-C(b) di Meiningen.
La prima notte dopo
il loro arrivo a Bad Sulza, i prigionieri di Marina italiani giunti dal Pireo la
passarono all’addiaccio; il mattino successivo ricevettero delle patate cotte
per il pasto, dopo di che vennero radunati, ed un ufficiale che parlava
italiano pose loro una scelta: restare nel campo di prigionia; arruolarsi nella
Wehrmacht; o lavorare nelle fabbriche. La maggioranza scelse la terza opzione;
i prigionieri vennero pertanto divisi in gruppi ed inviati a lavorare in
fabbrica in varie località della Turingia, attività che continuarono a svolgere
fino alla loro liberazione, nelle ultime settimane della guerra.
Il 29 marzo 1945 lo
Stalag IX C venne evacuato dinanzi all’avanzata statunitense: parte dei
prigionieri furono costretti a marciare per quattro settimane prima di essere
liberati da truppe statunitense. I prigionieri rimasti al campo furono liberati
dalla 6a Divisione corazzata statunitense (facente parte della 3a
Armata del generale Patton) l’11 aprile 1945.
Altri prigionieri
vennero trasferiti da Bad Sulza nello Stalag XI B di Fallingbostel, in Bassa
Sassonia. Questo campo era sorto nel 1937 come villaggio di baracche destinate
ad alloggiare gli operai impegnati nella costruzione della nuova base militare
di Bergen; nel settembre 1939, con lo scoppio della guerra, le baracche erano
state circondate con del filo spinato e la struttura era stata così trasformata
un campo di prigionia. Primi “ospiti”, verso la fine del 1939, erano stati
prigionieri polacchi, seguiti nel 1940 da belgi e francesi; entro la fine del
1940 i prigionieri dello Stalag XI B erano già diventati 40.000, di cui però
soltanto 2500 erano effettivamente alloggiati nel campo principale, mentre gli
altri erano dispersi nei numerosi sottocapi di lavoro (Arbeitskommando)
sparpagliati nella regione circostante. All’apice dell’attività, sarebbero
stati ben 1500 gli Arbeitskommando dipendenti dallo Stalag XI B: in parte i
prigionieri erano adibiti a lavori agricoli, in parte nell’industria, comprese
– benché fosse vietato dalla Convenzione di Ginevra – le fabbriche di
munizioni. Il servizio di guardia era espletato dai militi del
Landesschützen-Bataillon 461, appartenenti alle classi anziane o comunque
considerati inadatti al servizio di prima linea. Nel luglio del 1941, con
l’invasione dell’Unione Sovietica, era sorto un secondo campo denominato Stalag
XI D (o Stalag 321), destinato esclusivamente ai prigionieri sovietici: questi
ultimi, dei quali era pianificato lo sterminio, non disponevano di baracche, e
dovevano dormire in buche scavate nel terreno, ricevendo al contempo razioni di
cibo ampiamente insufficienti anche per la sola sopravvivenza (queste furono
leggermente aumentate a inizio 1942, in modo da mettere i prigionieri almeno in
condizione di lavorare, ma rimasero ancora largamente inferiori al necessario,
ed i prigionieri continuarono a morire, adesso di sfinimento). Ben presto i
sovietici iniziarono a morire a decine al giorno, di fame, di malattie e, più
tardi, anche di freddo. Altri 10.000 prigionieri sovietici vennero imprigionati
nello Stalag XI B, dove nel novembre 1941 vennero finalmente costruite alcune
baracche. Sul finire del 1941 gli ufficiali superiori, i funzionari del Partito
Comunista e gli ebrei vennero separati dagli altri prigionieri e trasferiti nei
campi di concentramento di Sachsenhausen e Neuengamme, dove furono uccisi
mediante fucilazione o nelle camere a gas; in novembre scoppiò in entrambi gli
Stalag di Fallingbostel un’epidemia di tifo, protrattasi fino al febbraio 1942,
che incrementò il già elevato tasso di mortalità dei prigionieri sovietici:
fino ad un centinaio di morti al giorno, di fame e di freddo, durante l’inverno
1941-1942. Nel luglio 1942 lo Stalag XI D venne soppresso, ed i prigionieri
superstiti furono trasferiti nello Stalag XI D.
Questa era la
situazione quando sul finire del 1943 arrivò a Fallingbostel un nuovo numeroso gruppo
di prigionieri, gli “internati militari” italiani: sottoposti a maltrattamenti,
ebbero il secondo più elevato tasso di mortalità tra i vari gruppi di
prigionieri del campo, superato soltanto da quello dei sovietici. I malati ed i
moribondi erano confinati in una baracca a parte: “Alla mattina v'era sempre qualcuno che purtroppo non si muoveva più. Il
poveretto veniva preso, messo in una “finta cassa” da morto e quindi
trasportato fuori con un carretto. Distante dalle baracche c'era una grande
fossa, la cassa veniva posta su un binario, quindi il fondo della stessa veniva
sfilato, il corpo cadeva e subito gli veniva versata sopra della calce in
polvere. Il carretto tornava con la cassa, vuota, pronta per un altro cadavere,
e così via”.
Gli italiani furono
alloggiati in grandi baracche suddivise in dodici locali, ognuno dei quali
conteneva dodici letti a castello a tre piani, senza materassi: si dormiva sul
legno. Il pasto giornaliero consisteva in un mestolo di acqua e rape, un chilo
di pane ed un etto di margarina da dividere in otto.
Poco dopo l’arrivo al
campo, i prigionieri furono arringati da un gerarca fascista che promise loro
il pronto rimpatrio se avessero aderito alla Repubblica Sociale Italiana, e
pronosticò loro vita dura e fame se avessero rifiutato. Nondimeno, furono pochi
coloro che aderirono alla RSI.
Anche gli italiani,
dopo l’arrivo a Fallingbostel, furono smistati nei numerosi Arbeitskommando
della regione, andando a svolgere i lavori più disparati. Le condizioni di vita
e di lavoro degli I.M.I. potevano variare sensibilmente a seconda della propria
destinazione: in alcuni sottocampi, come l’Arbeitskommando 6008 di Hilkerode
(frazione di Duderstadt nella Bassa Sassonia), la vita era difficile. Il
sottocampo era composto da quattro baracche per i prigionieri ed una adibita a
comando tedesco, il tutto circondato da filo spinato; anche qui i prigionieri
erano alloggiati in camerate con letti a castello a tre piani, scaldate da una
grossa stufa. Servizi igienici inesistenti: un secchio serviva da gabinetto per
un’intera baracca; un altro secchio serviva per contenere cibo e bevande, per
l’acqua con cui lavare i pavimenti e per quella con cui bollire gli indumenti –
sempre le stesse divise indossate al momento della cattura, ormai logore e
strappate: nessun vestito di ricambio fu mai fornito –; insetti e pidocchi dilagavano.
Il corpo di guardia era composto da una decina di militari tedeschi della III
Compagnia del 719° Battaglione Fanteria. I prigionieri qui distaccati erano
adibiti ai lavori di costruzione di una nuova fabbrica, la Otto-Schickert-Werke
di Rhumspringe (uno stabilimento chimico destinato alla produzione del
perossido di idrogeno); vi era un’unica pausa di mezz’ora all’ora di pranzo, ma
il pranzo non c’era: gli unici pasti consistevano in una tazza di caffè d’orzo
a colazione ed in un mestolo di acqua e rape, pane e margarina da dividere in
otto per cena. Di domenica i prigionieri non dovevano lavorare, ma il
comandante del campo radunava i prigionieri chiedendo se volessero aderire alla
RSI: ottenendo sempre un rifiuto, li puniva costringendoli a marciare per
un’ora col passo dell’oca. La fame era tanta, ma quanto meno ai prigionieri era
consentito di scrivere a casa una volta al mese e di ricevere dalle famiglie
pacchi con vestiario e generi alimentari. Sia i militari di guardia che i
civili tedeschi con cui i prigionieri lavoravano non perdevano occasione per
maltrattare gli italiani, sempre insultati e spesso malmenati per qualche
piccolezza; ai prigionieri era persino proibito di avvicinarsi ai bidoni in cui
i cuochi che preparavano i pasti per gli operai tedeschi gettavano le bucce
delle patate, e quando un artigliere alpino fu sorpreso a rubare le bucce per
placare la terribile fame, venne picchiato a morte. Indeboliti
dall’insufficienza del vitto, molti prigionieri si ammalavano di dissenteria,
tubercolosi od altre malattie, per le quali non ricevevano alcuna cura (né
subivano alcuna maggiorazione delle magrissime razioni), anche se almeno
venivano esentati dal lavoro. Su 450 "internati militari italiani" dell’Arbeitskommando
6008, almeno 51 morirono durante la prigionia. Un sopravvissuto, militare
dell’Esercito, avrebbe così ricordato quella vita d’inferno: “Da parte loro i soldati tedeschi non
perdevano occasione per ostentare il loro disprezzo e trattarci da miserabili.
“Scheisse Mensch” – uomo di merda – era il loro normale, eterno modo di
interpellarci. Vestiti con le nostre vecchie uniformi, ormai logore e
strappate, senza uno straccio di coperta per la notte, ricoperti di pidocchi.
Tenuti a trasportare all'alba, per svuotarli in una vasca esterna alla baracca,
i bidoni pieni d'escrementi e orina: tanto colmi che ci schizzavano ogni volta,
e per l'interno giorno ci sentivamo sporchi e puzzolenti, privi di forza per
reagire, camminando e lavorando come automi. Senza parlare poi delle
“mancanze”: il minimo ritardo alla “conta” del mattino, un allineamento non
perfetto in squadra nell'andata e ritorno dal lavoro, e così via. Erano botte
dure sul momento. E peggio alla sera, rientrati e inquadrati nel cortile, prima
della gavetta d'acqua e rape, dover assistere alla barbara pena d'un compagno
incorso in punizione. Col poveraccio spogliato a petto nudo, costretto a
sollevare pesi su e giù, e per finire, secchi d'acqua gelata su di lui. Quasi
un programma vero e proprio d'annientamento fisico e morale”.
Anche in queste
condizioni, i prigionieri trovarono la forza per escogitare degli atti di
sabotaggio ai danni dei loro carcerieri: ad esempio, inserendo degli stracci
nelle tubature (destinate ad un impianto chimico) che venivano poi saldate, in
modo da otturarle.
Altri sottocampi,
come quello di Neuhaus (Hildesheim), erano viceversa caratterizzati da
condizioni nettamente migliori: questo piccolo Arbeitskommando era composto da
poco più di una trentina di soldati italiani, sorvegliati da un caporale
tedesco zoppo che, a differenza dei suoi commilitoni di Hilkerode, era di buon
carattere, al punto di non chiudere il cancello neanche di notte. Anche qui i
prigionieri erano adibiti al lavoro in fabbrica (in questo caso, dedicata alla
produzione di mattonelle di catrame), ma il rancio era più abbondante – due
pasti al giorno, cucinati da civili belgi: oltre a pane e margarina, la razione
comprendeva anche delle patate bollite – e sui letti a castello c’erano
materassi di paglia. L’orario lavorativo era di nove ore al giorno: dalle otto
del mattino a mezzogiorno e poi dall’una del pomeriggio alle sei di sera. Anche
qui giunsero fascisti italiani a sollecitare l’adesione alla R.S.I., ed anche
qui non ebbero successo.
A metà 1944 i
prigionieri di Fallingbostel erano 98.380: 25.277 sovietici e 79.928 di altre
nazionalità, in maggioranza distaccati nei vari Arbeitskommando. Nel settembre
1944 venne creato, nell’area in cui era esistito lo Stalag XI D, un nuovo campo
di prigionia, lo Stalag 357 (qui trasferito da Thorn, in Polonia): alla sua
costruzione furono adibiti i prigionieri italiani, mentre gli “ospiti” furono
principalmente soldati del Commonwealth, ma anche sovietici, jugoslavi,
francesi, polacchi e statunitensi. In tutto 17.000 uomini, con una media di 400
per baracca (ma con cuccette soltanto per 150 a baracca), in condizioni dunque
di notevole sovraffollamento; a inizio 1945 la carenza di vitto e medicinali
venne aggravata dall’arrivo di centinaia di prigionieri statunitensi catturati nelle
Ardenne, che dovettero essere alloggiati in tende. Nell’aprile 1945, dinanzi
all’avanzata Alleata, 12.000 prigionieri dello Stalag 357 in buone condizioni
fisiche vennero evacuati verso nordest con marce forzate, in colonne di 2000
uomini; giunti a Gresse, ad est dell’Elba, dopo una marcia di dieci giorni,
furono qui mitragliati da caccia britannici che li avevano scambiati per truppe
tedesche, con diverse decine di morti. Un sergente della RAF convinse l’ormai
ex comandante del campo 357, il colonnello Hermann Ostmann, a mandarlo verso
ovest per prendere contatto con le truppe britanniche, in modo da arrendersi a
queste ultime invece che ai sovietici; così avvenne il 3 maggio 1945. I
prigionieri rimasti a Fallingbostel, in tutto 17.000, vennero liberati ancor
prima: il 16 aprile 1945, infatti, lo Squadrone "B" dell’11°
Reggimento Ussari e lo squadrone da ricognizione dell’8° Reggimento Ussari
britannici liberarono lo Stalag XI B e lo Stalag 357: proprio la sezione del
campo in cui erano rinchiusi gli italiani fu la prima ad essere raggiunta dai
reparti britannici al loro arrivo.
Nel dopoguerra, con
un tocco di giustizia poetica, l’ex Stalag XI B venne adibito dai britannici
all’internamento dei membri dell’ormai disciolto Partito Nazista, prima di
essere impiegato come campo profughi.
In totale, circa
30.000 prigionieri morirono nei campi di Fallingbostel durante la seconda
guerra mondiale: nella quasi totalità si trattava di prigionieri sovietici,
mentre 734 erano di altre nazionalità, cioè italiani, francesi, polacchi,
britannici, belgi, statunitensi, jugoslavi, olandesi, sudafricani, slovacchi e
canadesi. Tutti i prigionieri sovietici, e 273 di quelli di altre nazionalità,
riposano oggi nel “Cimitero dei Senza Nome” di Oerbke.
Questa fu dunque la
sorte dei sottufficiali e marinai italiani catturati al Pireo. Quanto agli
ufficiali, separati dalla “bassa forza” a Bad Sulza e trasferiti più ad est,
una volta giunti a Leopoli vennero perquisiti ed alloggiati nella cittadella,
dove rimasero fino all’inizio del gennaio 1944, tranne gli ufficiali superiori,
i quali furono trasferiti tra fine ottobre e inizio novembre a Tschenstochau
(Polonia). Nel campo, destinato ai soli ufficiali (ve n’erano 3500, con 150
soldati) vennero organizzati dei corsi di lingue, ingegneria, architettura e diritto
e conferenze a tema scientifico o letterario; con i libri in possesso degli
ufficiali venne creata una biblioteca. Gli ufficiali prigionieri elessero come
loro fiduciario ed anziano del campo (in sostanza, comandante dei prigionieri) il
tenente di vascello Giuseppe Brignole, già comandante della Calatafimi, Medaglia d’Oro al Valor
Militare per aver attaccato con la sua nave, sola, una preponderante formazione
navale francese che stava bombardando Genova, nel giugno 1940.
Vi furono varie
visite di ufficiali italiani che avevano aderito alla Repubblica Sociale
Italiana (dapprima il colonnello degli alpini Bracco e successivamente il
maggiore Vaccari, anch’egli degli alpini, ex prefetto di Napoli), i quali
invitarono i loro “colleghi” a fare altrettanto (Vaccari, per la verità, li
esortò a rientrare comunque in Italia e poi decidere il da farsi una volta
rimpatriati, il che portò alla sua destituzione da parte tedesca); solo il 12 %
accettò. Il 2 gennaio gli ufficiali in servizio permanente effettivo, censiti
dal comando tedesco, vennero separati dagli altri e trasferiti nel campo di Ari
Lager a Deblin, distaccamento dello Stalag 307 di Deblin Irina, a sud di
Varsavia (tra di essi era anche il tenente di vascello Brignole, che anche nel
nuovo campo mantenne l’incarico di “Anziano” fino all’agosto 1944, quando lo
cedette al colonnello Angiolini, da poco arrivato da un altro campo). A Deblin
Irina si trovavano circa 6000 ufficiali prigionieri, 1250 erano ad Ari Lager;
sia a Leopoli che a Deblin i prigionieri erano sistemati in caserme in muratura
con riscaldamento sufficiente, ma questa era l’unica nota positiva. Il cibo
infatti scarseggiava, a svantaggio soprattutto di giovani e malati, che
deperivano senza possibilità di recupero; i medicinali erano completamente
assenti, e sia all’arrivo che durante la permanenza al campo gli ufficiali
furono più volte perquisiti dalla Gestapo, venendo denudati, tenuti all’aperto
nella neve per diverse ore (con temperature di 5-10 gradi sotto zero), e
sistematicamente derubati di ogni oggetto di valore o di utilità (macchine
fotografiche, binocoli, strumenti nautici, vestiario, posate che sembravano
d’argento, denaro e oggetti preziosi): persino le fodere delle giacche e le
suole delle scarpe venivano scucite, nell’eventualità che i prigionieri vi
avessero nascosto qualche oggetto di valore. Anche in queste condizioni,
vennero organizzate conferenze culturali e patriottiche ed intrattenimenti
musicali, per tenere alto il morale.
La popolazione polacca
cercò generosamente di aiutare i prigionieri italiani, anche a rischio della
vita: nonostante la presenza di sentinelle tedesche armate che colpivano chi si
avvicinava col calcio del fucile, civili Polacchi gettarono in più occasioni
pane e mele (ed anche sigarette) ai prigionieri, sia lungo la ferrovia percorsa
dai treni che li trasportavano (un treno, grazie alla cessione di vestiario da
parte degli ufficiali e di tabacco da parte dei polacchi, poté essere
interamente rifornito di provviste dopo tre giorni in cui ne ne erano state
fornite dai tedeschi), sia per le vie di Leopoli che all’interno del campo di
Deblin.
Gli ufficiali
rimasero prigionieri a Deblin dal 5 gennaio al 12 marzo 1944, quando iniziò il
loro trasferimento nello Stalag X-B di Sandbostel, in Germania (precisamente,
in Bassa Sassonia), che fu completato il 19 marzo. Un giovane guardiamarina,
avendo tentato di nascondersi in una soffitta per scappare, venne scoperto,
picchiato, privato delle scarpe, spogliato e rivestito con inadeguati abiti di
tela (una volta giunto a Sandbostel, fu condannato a due settimane di carcere
duro in isolamento, a pane e acqua). Tutti gli ufficiali, prima della partenza,
furono denudati e tenuti in questo stato (e senza cibo) per 12 ore in locali
non riscaldati, a temperatura di –10° C. Di nuovo furono derubati di tutti gli
oggetti ritenuti “non leciti”, comprese cinghie per pantaloni, oggetti da
toilette, coltelli sia da tasca sia da tavola, rasoi di sicurezza, penne
stilografiche e sigarette; poi, dopo essere stati tenuti ad aspettare a lungo
sotto la pioggia battente, furono chiusi in carri bestiame privi di
illuminazione e riscaldamento e sporchi per i precedenti trasporti, e portati
così – i vagoni venivano aperti una sola volta al giorno, per la distribuzione
del cibo – fino a Bremerforde, a 14 km dallo Stalag X-B, dopo di che dovettero
percorrere a piedi, sotto la pioggia, l’ultimo tratto del percorso.
Una volta nel nuovo
campo, gli ufficiali vennero nuovamente ispezionati, indi sistemati
provvisoriamente in baracche senza infissi, riscaldamento, illuminazione, posti
letto od anche solo paglia; dopo la disinfezione (i bagagli, aperti per questa
operazione, vennero poi gettati alla rinfusa nel piazzale, sotto la neve ed
esposti al vento) ed una doccia, furono trasferiti in nuove baracche non
compartimentate, con posti letto ad alveare, dov’erano ammassati mediamente in
280 in una baracca di 22 metri per 11. Poco cibo, molti pidocchi e temperature
rigide debilitarono di molto i prigionieri; nell’aprile 1944 i malati in gravi
condizioni erano almeno un migliaio, con un elevato tasso di mortalità. Le
sentinelle del campo avevano il grilletto facile, e tra marzo e agosto almeno
cinque ufficiali caddero sotto i loro colpi.
Nel maggio 1944 il
campo fu visitato da funzionari della Croce Rossa Italiana (dottor De Luca e
signora Muzi Falcone), il che portò ad un lieve miglioramento delle condizioni
di vita (venne distribuita un po’ di paglia per i giacigli); in agosto,
tuttavia, quando gli ufficiali si rifiutarono di lavorare per i tedeschi (in
base alla Convenzione di Ginevra, gli ufficiali prigionieri non potevano essere
costretti a lavorare: ma le autorità tedesche avevano classificato gli italiani
«intenati militari», anziché «prigionieri di guerra», proprio per eludere tali
regole), le condizioni peggiorarono nuovamente.
Nell’estate-autunno
del 1944 l’erogazione dell’acqua, non potabile, venne ridotta a poche ore al
giorno, talvolta poche decine di minuti (in dodici mesi i prigionieri poterono
fare una sola doccia calda di cinque minuti); tutte le coperte sane vennero
confiscate per essere distribuite alle truppe territoriali tedesche,
recentemente formate. La razione di cibo non forniva neanche le calorie
necessarie per un uomo a completo riposo, provocando molte malattie da
denutrizione (a seguito delle proteste, la razione fu portata a 500 g di patate
al giorno, ma in agosto, dopo il rifiuto di lavorare, fu nuovamente diminuita).
La quantità di cibo disponibile veniva leggermente incrementata con le verdure
di orticelli coltivati dagli internati e dai pacchi di viveri inviati dalle
famiglie in Italia.
A fine agosto 1944
scoppiò un’epidemia di tipo petecchiale; il campo fu posto in quarantena, ma
non vennero forniti medicinali. Vitto e clima provocavano un’elevata incidenza
di infezioni intestinali, e le latrine erano mal fatte e del tutto
insufficienti (una ogni 50 uomini); si diffuse anche la tubercolosi.
Il servizio postale
era lentissimo, a causa dei tempi della censura (in media occorrevano 40 giorni
perché una lettera dall’Italia settentrionale fosse consegnata, ma si arrivava
anche a 75); molte lettere venivano distrutte senza neanche essere state
controllate, per ridurre il lavoro dei censori. Non era possibile scrivere ad
autorità diplomatiche, consolari o governative, né a parenti in Germania che
non fossero di primo grado, e meno che mai alla Croce Rossa Internazionale, con
la quale era proibito ogni contatto. I prigionieri potevano ricevere pacchi
dalle famiglie (non più di due al mese, per un peso complessivo di 9 kg), ma il
loro invio dall’Italia settentrionale (sotto controllo tedesco) subiva
frequenti sospensioni, mentre le spedizioni dall’Italia meridionale (sotto
controllo angloamericano) divennero possibili solo a partire dal novembre 1944;
in tutto, soltanto un terzo dei pacchi spediti raggiunse i destinatari. Il
Servizio Assistenza Internati della Repubblica Sociale Italiana inviò a sua
volta delle provviste; complessivamente, durante la permanenza al campo ogni
internato ricevette da tale Servizio 3 kg di riso, 2 kg di galletta, due
scatole di latte condensato, 500 grammi di zucchero ed altrettanti di
marmellata. Verso la fine del 1944 la tabella alimentare subì forti riduzioni,
di 500-600 grammi giornalieri. Per cuocere il cibo c’era un pentolino ogni sei
uomini e poco carbone, la cui razione giornaliera fu ridotta nell’autunno del
1944 a 676 grammi a persona (compreso anche quello destinato al riscaldamento).
Esistevano
all’interno dei campi degli spacci che vendevano matite, dentifricio, lamette
da barba, ma non generi alimentari; i prigionieri potevano farvi compere con il
Lagergeld, una valuta che aveva corso esclusivamente all’interno dei campi di
prigionia, della quale ricevevano periodicamente somme che variavano a seconda
del grado.
Alla fine del gennaio
1945 la maggior parte degli ufficiali fu trasferita nello Stalag X-D di
Wietzendorf, sempre in Bassa Sassonia, dove si trovavano in tutto circa 3000
ufficiali italiani, 700 dei quali troppo debilitati per poter essere
trasferiti. Un migliaio di ufficiali, ritenuti irriducibili, vennero invece
inviati nello Stalag XI-B di Fallingbostel (dove fu di nuovo il tenente di
vascello Brignole a ricevere la carica di fiduciario, mentre quella di anziano
fu ricoperta dal tenente colonnello Alberto Guzzinati). Il 15 febbraio 1945 una
nuova ingiunzione di lavorare, con la minaccia in caso contrario della condanna
ai lavori forzati, fu respinta; venne progettato di trasferire allora i
prigionieri nel campo di concentramenti di Buchenwald, ma fortunatamente tale
piano non poté essere messo in atto poiché le truppe tedesche nella regione,
compreso il campo di Fallingbostel, furono rinchiuse in una sacca dalle forze
Alleate, e nel pomeriggio del 16 aprile 1945 lo Stalag XI-B venne liberato da
reparti della 15ª divisione corazzata britannica. Tre giorni prima era stato
liberato anche lo Stalag X-D di Wietzendorf.
I prigionieri
italiani liberati dai campi della Germania settentrionale furono concentrati
dai britannici nel campo di Munsterlager, nella zona di Hannover (dove di nuovo
il comando dei prigionieri andò al tenente di vascello Brignole: questi li
divise in nove compagnie e ripristinò molte abitudini militari, tra cui adunate
generali, rapporto giornaliero, controllo della libera uscita, servizio di
guardia ai cancelli, alza e ammaina bandiera e punizioni per le infrazioni
disciplinari), da dove il 30 agosto 1945 ebbe inizio il viaggio di rimpatrio,
prima su camion fino a Brunswich, poi in treno fino in Italia.
Furono sette, in
tutto, gli uomini del Turbine che non
fecero ritorno dalla prigionia nei campi del Terzo Reich.
La prima vittima si
ebbe a poco più di un mese dalla cattura, il 13 ottobre 1943: si trattava del
marinaio Giuseppe Scavo, di 23 anni, da Castiglione di Sicilia. Secondo l’Albo
online dei Caduti I.M.I., Scavo sarebbe deceduto per malattia il 13 ottobre
1943; l’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare, tuttavia, lo registra
invece come disperso in prigionia in
Germania in questa data, ed in effetti la banca dati online di Onorcaduti
menziona il suo luogo di sepoltura come “sconosciuto”, ed anche l’Albo degli
IMI caduti non precisa il luogo di sepoltura, e neanche quello di morte (se non
un generico “Germania”).
Il marinaio Giuliano
Bombardelli, di 22 anni, da Riva del Garda, internato nello Stalag XI B di
Fallingbostel (Bassa Sassonia) ed assegnato all’Arbeitskommand 6133, morì di
polmonite il 15 aprile 1944 nell’ospedale “Mutter Haus” di Hildesheim (sempre
in Bassa Sassonia), un “Reservelazarett” (termine che nell’organizzazione della
Sanità militare tedesca designava un ospedale situato al di fuori dei teatri di
guerra, realizzato presso strutture ospedaliere già esistenti in tempo di
pace). Sepolta nel cimitero di Hildesheim il 17 aprile 1944, la sua salma venne
successivamente trasferita nel Cimitero militare italiano d’onore di Amburgo,
dove riposano oggi 5839 militari e civili italiani morti in prigionia in
Germania.
Il marinaio Leonardo
Peruffo, di 20 anni, da Procida, internato nello Stalag IX C di Bad Sulza
(Turingia) ed assegnato all’Arbeitskommando 994 di Gotha, morì per malattia il
17 o 20 settembre 1944 nel villaggio di Wasungen, anch’esso in Turingia.
Sepolti inizialmente nel cimitero di quel paese, i suoi resti vennero in
seguito rimpatriati e tumulati nella natia Procida.
Leonardo Peruffo in una foto scattata dopo la cattura (da www.alboimicaduti.it) |
Il marinaio
cannoniere Mario Benedetti, di 21 anni, da Rottofreno, finì in un luogo ben
peggiore di un “semplice” campo di prigionia: il campo di concentramento di
Dora-Mittelbau, vicino a Nordhausen. In questo campo, creato nella tarda estate
del 1943 ed attivo fino all’aprile 1945, i prigionieri, 60.000 in tutto, erano
impiegati nella costruzione dei missili V1 e V2: vivevano e lavoravano in
condizioni disumane, nelle gallerie sotterranee scavate nella roccia del monte
Kohnstein, nel gruppo degli Harz (sempre in Turingia), dov’era stata delocalizzata
la produzione delle V1 e V2 per sottrarle ai bombardamenti aerei Alleati dopo
le incursioni della RAF sugli impianti di Peenemünde, dove le “super-armi”
erano state sviluppate, nell’agosto del 1943. Il bombardamento di Peenemünde
aveva avuto luogo tra il 17 ed il 18 agosto 1943, e già dieci giorni dopo, il
28 agosto, i primi deportati erano arrivati nel neocostituito campo di Dora,
sorto inizialmente come sottocampo (Arbeitslager) del campo di concentramento
di Buchenwald. Nel gennaio 1944, essendo stata ormai completata buona parte
delle gallerie, ebbe inizio l’attività di assemblaggio delle V1 e V2; dal
momento che i deportati impiegati nella fase iniziale dei lavori di
realizzazione delle gallerie – sovietici, polacchi e francesi – erano in gran
parte morti di freddo e di fame, ed i rimanenti erano indeboliti o considerati
“poco qualificati”, furono trasferite a Dora aliquote di prigionieri prelevati
da altri campi. Quando questi furono diventati troppo numerosi per poter essere
tutti alloggiati nelle gallerie, si iniziarono a realizzare baracche sulle
alture circostanti; il 28 ottobre 1944 Dora-Mittelbau divenne un campo di
concentramento autonomo, con una quarantina di sottocampi dipendenti
sparpagliati per i monti Harz. Vennero realizzate altre gallerie, per
trasferire sottoterra, al riparo dai bombardamenti, anche depositi di
carburante e fabbriche di aerei.
La maggior parte dei
prigionieri erano sovietici, polacchi e francesi, ma c’erano anche 1500
italiani, per la metà militari catturati dopo l’8 settembre e per metà
oppositori politici (triangolo rosso): i primi erano giunti nel dicembre 1943.
I militari italiani trasferiti a Dora indossavano la stessa divisa degli altri
deportati, il tristemente famoso “pigiama a righe”, contraddistinto però dalla
scritta «I.M.I.»; ma il trattamento non differiva minimamente da quello degli
altri deportati. Le SS li chiamavano sprezzantemente “Badoglio” o “maccaroni”.
Impiegati nello scavo
delle gallerie, i prigionieri lavoravano quattordici ore al giorno, con
pochissimo cibo (un solo pasto al giorno, al mattino: una zuppetta, una tazza
di caffè d’orzo annacquato, un pezzetto di pane), tormentati dai pidocchi e
senza vedere la luce del sole per mesi; dormivano in letti a castello di legno,
senza coperte, respirando continuamente polvere. Chi commetteva infrazioni di
qualsiasi tipo – sabotaggio, ma anche soltanto tentare di rubare un po’ di cibo
in più o di riposarsi un poco – era punito davanti a tutti, con la fustigazione
o l’impiccagione, a seconda del “reato” commesso. Ciononostante, molti furono
gli atti di sabotaggio commessi da quei prigionieri, che nella sconfitta della
Germania – e quindi anche nel fallimento delle sue nuove armi – riponevano
tutte le speranze di salvezza: i congegni di controllo delle V2 potevano essere
facilmente messi fuori uso, ed i difetti non sarebbero stati scoperti fino al
momento del lancio. Infatti, ben un quinto delle V1 prodotte non riuscì neanche
a partire, mentre delle V2 addirittura la metà esplose al momento del lancio, e
metà di quelle partite non raggiunse mai l’Inghilterra.
Don Luigi Pasa,
cappellano militare nel campo di Wietzendorf, così scriveva alle autorità
vaticane, l’8 maggio 1945, riferendo dei deportati trasferiti da Dora-Mittelbau
giunti Wietzendorf pochi giorni prima: «…Ma
nella massa che assomma tante copie di sofferenze quali neppur gli anni
avvenire potranno del tutto rivelare sono facilmente individuabili e, per i
segni fisici ed esteriori, i bigio-rigati provenienti dai lavori delle gallerie
di Dora (Nordhausen) la cui tragedia va ricordata accanto a quelle vissute nei
campi di Buckenwalde e di Belen. Sono circa 400 qui giunti la mattina del 4
maggio dal campo di Belen, dove erano stati trasferiti l’11 aprile (dopo
l’abbandono di Dora sotto l’incalzare delle Armate Alleate) con un viaggio
durato sei giorni ed effettuato in carri bestiame aperti, a più di 100 per
carro, sotto la pioggia, senza cibo, seminando la strada ferrata di morti.
Eppure avevano motivo di reputarsi fortunati i partiti da Dora, quando si
sapeva che gli ultimi dei loro compagni, a seguito della impossibilità di
trasporto, erano stati eliminati dalla mitragliatrice delle S. S. Dora, a circa
4 km. da Nordhausen in Turingia, era uno dei centri di fabbricazione dei V1 V2,
altrimenti nota con il nome di Mittelwerok. Ivi furono fatti affluire già alla
fine del 1943 internati politici di tutte le nazionalità, e nel dicembre dello
stesso anno, circa 600 tra militari e politici italiani; il numero poi crebbe
fino a 1300. Il primo lavoro consistette nella costruzione della galleria
sotterranea, anzi del complesso di gallerie da adibirsi a cantiere per uno
sviluppo di due km e mezzo di profondità per m. 200 di lunghezza. Tale opera
venne realizzata con un sistema di lavoro forzato nella sua espressione più
brutale e selvaggia, durata fino al 1 maggio 1944. In questo frattempo dei
25.000 adibiti ai lavori, moltissimi passarono più di 3 mesi senza mai vedere
la luce del sole. Addensati nelle gallerie graveolenti di gas acetilene, sotto
lo stillicidio della roccia, con un vitto affatto insufficiente (la ben nota
razione dell’internato) privi di qualsiasi assistenza estranea e perfino di
quella religiosa, senza alcuna notizia della famiglia, della Patria, del mondo,
erano costretti al pesante lavoro dei minatori per 12 (e alle volte per 18) ore
consecutive e con la non meno grossa appendice di due appelli, che
significavano altre quattro ore sottratte al riposo. Dire queste cose è però
dir nulla. Bisogna cavare dalle loro bocche, che a dire il vero non sono facili
al racconto, la narrazione di quello che hanno sofferto, perché possiamo
credere ai nostri orecchi noi, che pur abbiamo vissuto la vita di prigionia.
Ogni frase, ogni particolare è una pennellata, che incupisce il calvario di
questi sepolti vivi. Ci limitiamo a riferire alcuni appunti relativi alle loro
condizioni generali di vita e di lavoro. Quelli del primo scaglione, non appena
giunti sul posto, furono spogliati totalmente e vennero loro tolte le divise,
gli indumenti e tutti gli oggetti che ancora avevano. Fu loro dato un vestito a
larghe righe bianco-azzurre, il tipico vestito da galeotto e questo, che molti
di essi portano ancora, caratterizza il rigore, cui erano sottoposti, più grave
che in qualsiasi penitenziario. Il Comando del campo era affidato alle SS i
quali si servivano per la disciplina di un corpo di criminali comuni tedeschi
portanti i contrassegni dei loro delitti. Durante il lavoro invece erano
sottoposti al controllo dei dirigenti civili o tecnici delle imprese
esecutrici, sempre pronti a scaricare sui lavoratori qualsiasi responsabilità
per guasti, rotture, ecc. ed a minacciare le feroci pene comminate per
sabotaggio. SS, criminali comuni, dirigenti civili e controlli tecnici
gareggiavano fra loro nei maltrattamenti. Oltre le ingiurie più umilianti e le
percosse dispensate di continuo per motivi più futili o addirittura senza
motivo venivano inflitte quotidianamente in serie le punizioni per così dire
disciplinari costituite dalla fustigazione. Parecchi recano nel corpo e anche nel
volto i segni dello staffile, subiti spesso per un pretesto qualsiasi, altre
volte per motivi addirittura ignorati. La ferocia ed i metodi si esprimevano in
modo particolare con la minaccia delle rappresaglie e con la punizione
collettiva. Tutti hanno negli occhi le quotidiane impiccagioni, specialmente
dei russi e la fucilazione, avvenuta verso al fine del 1943 di 7 alpini rei di
aver chiesto anche per loro un supplemento (mezzo litro) di minestra di rape,
di cui beneficiavano gli internati di altre nazionalità, adibiti allo stesso
lavoro di perforazione. Tutto ciò per tacere delle più crudeli e raffinate
sevizie escogitate dai feroci aguzzini. Nessun conforto, neppure di quelli
minimi e indispensabili, che si realizzano nelle circostanze più misere della
vita era lor concesso, non un giaciglio stabile, che ogni sera dovevano
affidarsi alla sorte, non acqua né per bere, né per lavarsi, mentre
l’insufficiente vitto era raccolto e consumato in vecchi barattoli da loro
raccolti nell’immondezzaio. Tali condizioni di vita, anche solo accennate,
fanno agevolmente ritenere, come conseguenza ineliminabile, l’alta mortalità
subita. In proposito i sopravvissuti non hanno, anche per il rigoroso distacco
in cui erano tenuti i vari gruppi, dati precisi. Ma qualche particolare può
essere tragicamente significativo. Il sergente Vimercati Carlo di Cremano sul
Naviglio (Milano) ed il caporale Mantovani Silvano di Mantova, mi asseriscono
che dei 14 componenti del loro Komandos solo essi due sono oggi superstiti. Da
varie risultanze, che sarebbe troppo lungo riferire, può ritenersi che – specie
fra i lavoratori adibiti alla perforazione – la percentuale dei decessi abbia
superato il 50%. Praticamente essendo nulla ogni assistenza sAnitaria, i
lavoratori dovevano portarsi al posto di lavoro anche se ammalati. Quando non
erano più in grado di muoversi, venivano portati dai compagni al luogo
dell’infermeria, che però abitualmente li rifiutava, accusandoli, senza neppure
visitarli, di simulazione. E intanto ogni giorno morivano sul giaciglio di
fortuna, ed al vicino incombeva portare fuori, al mattino, la spoglia del
compagno e così, centinaia di corpi denudati si accatastavano ogni giorno nelle
gallerie e uscivano solo morti alla luce del sole per venire portati a bruciare
nel crematorio. Tale vita era resa più angosciosa dall’ignoranza della lingua e
dalla mancanza di interpreti, dalla promiscuità di elementi di altre
nazionalità, nei cui confronti i tedeschi ostentavano un trattamento meno
astioso che per gli italiani, e specialmente dall’assoluta privazione di
qualsiasi assistenza spirituale e religiosa e di qualsiasi collegamento
epistolare con la famiglia e la Patria». Un sopravvissuto francese avrebbe
ricordato: “Non vedevamo la luce del
giorno che una volta alla settimana, in occasione dell'appello della domenica.
Nel tunnel il freddo e l'umidità erano intensi. L'acqua che filtrava dalle
pareti provocava una macerazione nauseante. Il fracasso inaudito che regnava lì
dentro fu causa di veri crolli psicologici: rumore di macchine, rumore di
martelli pneumatici, la campanella della locomotiva, continue esplosioni, tutto
rimbombava e si ripercuoteva in un'eco senza fine nel chiuso del tunnel”.
In tutto, circa
20.000 prigionieri morirono a Dora-Mittelbau; a inizio aprile 1945 i superstiti
vennero trasferiti, parte in treno e parte a piedi con marce forzate (le
tristemente note “marce della morte”), verso Ravensbrück, Sachsenhausen e
Bergen-Belsen, così che soltanto poche centinaia di superstiti scheletriti
erano a Dora quando il campo fu liberato dalle forze statunitensi l’11 aprile
1945. Secondo i documenti disponibili, gli "internati militari
italiani" che finirono in questo campo furono 861: ne morirono 304, e tra
di essi anche Mario Benedetti, deceduto il 18 gennaio 1945. È sepolto a Salza,
località poco distante da Nordhausen.
Altri uomini del Turbine morirono quando ormai la guerra
era agli sgoccioli, ad un giorno di distanza l’uno dall’altro: il marinaio
cannoniere Edolo Cesari, di 23 anni, da Poggio Renatico, spirò a Jena (Turingia)
il 24 aprile 1945 (è oggi sepolto nel cimitero comunale di Gallo, in provincia
di Ferrara); il capo meccanico di seconda classe Maurizio Pasqua, di 34 anni,
da Torino, morì a Gera (sempre in Turingia) il 25 aprile 1945 (riposa oggi nel
sacrario militare del Verano, a Roma).
Il marinaio fuochista
Enrico Iacomino, di 22 anni, da Ercolano, morì in Germania l’11 maggio 1945,
pochi giorni dopo la fine delle ostilità in Europa (e, presumibilmente, la sua
liberazione, giunta purtroppo troppo tardi). Tumulati inizialmente nel cimitero
di Helmstedt, cittadina della Bassa Sassonia, i suoi resti vennero
successivamente traslati nel Cimitero militare italiano d’onore di Amburgo.
L’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra
mondiale, stranamente, lo registra come disperso in prigionia in Germania il 3
ottobre 1943.
Incorporato nella
Kriegsmarine, armato da un equipaggio tedesco e ribattezzato TA 14 (dove TA stava per "Torpedoboot
Ausland", ossia torpediniera di origine straniera), l’ormai ex Turbine entrò in servizio sotto bandiera
tedesca il 28 ottobre 1943 e venne assegnato insieme a TA 15, TA 16, TA 17, TA 18 e TA 19
(rispettivamente ex Francesco Crispi,
Castelfidardo, San Martino, Solferino e Calatafimi) alla neocostituita 9.
Torpedobootsflottille (9a
Flottiglia Torpediniere, al comando del capitano di fregata Walter Riede),
creata ad Atene il 20 settembre 1943 e composta interamente da unità ex
italiane. Le navi di questa flottiglia vennero destinate a compiti di scorta,
trasporto truppe e prigionieri, posa di mine e supporto a sbarchi nell’Egeo.
L’armamento
contraereo della TA 14 venne
potenziato, con l’aggiunta di nuove mitragliere contraeree da 20 e 37 mm (nella
sua configurazione definitiva, dopo le ultime modifiche del gennaio 1944,
l’armamento contraereo della TA 14
risultava composto da tre mitragliere singole Breda 1939 da 37/54 mm, quattro
mitragliere binate Breda 1935 da 20/65 mm, e dieci mitragliere singole Breda
1939 da 20/65 mm); la sua velocità massima, a causa dell’età e del logorio
dell’apparato motore, era ormai calata a 27-28 nodi. Venne installato anche un
radar, modello FuMO 28.
Sotto bandiera
tedesca, l’ormai ex Turbine continuò
a fare quello che aveva fatto fino all’armistizio: scortare convogli in Mar
Egeo. Al suo comando venne destinato il tenente di vascello Hans Dehnert.
Una delle conseguenze
più amare della cattura al Pireo ed a Creta delle siluranti italiane dell’Egeo
fu che queste navi, consegnate intatte e riarmate da equipaggi tedeschi,
poterono essere subito utilizzate contro i loro ex proprietari: le guarnigioni
italiane delle isole dell’Egeo, che tra il settembre ed il novembre 1943
vennero eliminate, una dopo l’altra, dalle forze tedesche.
Il presidio che
resisté più a lungo e con più accanimento fu quello di Lero, ove aveva sede la
più grande base navale italiana dell’Egeo: difesa da 8300 italiani (per la
maggior parte marinai), al comando del contrammiraglio Luigi Mascherpa, e da
4000 britannici sbarcati dopo l’armistizio al comando del generale di brigata
Robert Tilney, l’isola resisté a quasi cinquanta giorni di pesanti
bombardamenti da parte della Luftwaffe, durante i quali venne affondato anche
l’Euro, ultimo cacciatorpediniere
rimasto in mani italiane nell’Egeo.
Il 12 novembre,
infine, ebbe inizio la battaglia finale: mezzi navali sbarcarono truppe
tedesche sulle coste di Lero, mentre aerei della Luftwaffe vi paracadutavano
centinaia di paracadutisti. Fu proprio la TA
14 (alla sua prima missione sotto bandiera tedesca), insieme a TA 15, TA 17 e TA 19 (nonché
alla motosilurante S 55, ad una
quindicina di cacciasommergibili della 21. Unterseebootsjägd-Flottille, ad
una dozzina di motodragamine della 12. Räumsboots-Flottille ed al posamine
ausiliario Drache, quest’ultimo con
ruolo di nave comando), a scortare il convoglio di navi mercantili e
motozattere che trasportò e sbarcò a Lero, tra l’11 ed il 12 novembre, le
truppe della 22a Divisione Fanteria tedesca (Kampfgruppe "Müller").
Per la neonata 9. Torpedobootsflottille, al comando del capitano di fregata
Riede, questa rappresentò la prima missione operativa: l’attacco contro Lero,
pronto già da metà ottobre, era anzi stato rimandato proprio nell’attesa
dell’approntamento delle siluranti italiane catturate al Pireo, che sarebbero
divenute operative a partire dal 5 novembre.
La flottiglia
d’invasione era suddivisa in due gruppi: quello occidentale, partito da Coo
(conquistata dai tedeschi il 4 ottobre), era composta dalle motozattere F 123, F 129 e F 331 e da due
piccoli mezzi da sbarco per la fanteria, scortati dai cacciasommergibili UJ 2101 e UJ 2102 e dal motodragamine R
210 (il tutto sotto il comando del tenente di vascello Hansjürgen
Weissenborn); quello orientale, partito in parte da Coo ed in parte da Calino (occupata
dai tedeschi il 7 ottobre), era formato dalle motozattere F 370 e F 497, da due
mezzi da sbarco per fanteria e da dodici imbarcazioni minori, scortate dal
cacciasommergibili UJ 2110 e dal
motodragamine R 195 (al comando del
tenente di vascello Kampen). La TA 14
e le altre "Torpedoboote Ausland" della 9a Flottiglia
dovevano fornire supporto ad entrambi i gruppi, che complessivamente
trasportavano circa 1600 soldati del II Battaglione del 16° Reggimento Fanteria
(Infanterie-Regiment 16) e del II
Battaglione del 65° Reggimento Granatieri (Grenadier-Regiment
65), divisi equamente tra i due gruppi.
Aerei britannici
avvistarono ambedue i gruppi già all’1.20 del 12 novembre, ma i Comandi
britannici del Levante non si resero conto di ciò che quell’avvistamento
significava, nonostante i decrittatori di “ULTRA” avessero già intercettato e
decifrato, nei giorni precedenti, comunicazioni tedesche da cui risultava che
l’attacco contro Lero era previsto per il 12 novembre. Quelle piccole e poco
armate unità, e con esse le vetuste "Torpedoboote Ausland" incaricate
di appoggiarle, sarebbero state agevolmente annientate anche solo da una
squadriglia di cacciatorpediniere, ma i Comandi britannici, timorosi di
incappare nei campi minati (che già avevano causato dolorose perdite nelle
settimane precedenti), non ne mandarono neanche uno. L’operazione tedesca poté
così procedere senza incontrare alcun contrasto; la scorta del convoglietto
occidentale, anzi, s’imbatté “per strada” nel piccolo dragamine britannico BYMS 72 e lo catturò, mentre alle 3.30
del 12 novembre la TA 14 incontrò per
caso la motosilurante britannica MTB 307
(in navigazione da Castelrosso a Lero) al largo di Calino, aprendo il fuoco contro di essa e mettendola in fuga. Alle
4.45 tutte le motosiluranti britanniche di base ad Alinda presero il mare a
tutta forza per intercettare un piroscafo che era stato avvistato 4-5 miglia a
sudest di Lero; non lo trovarono, ma più tardi, mentre dirigevano verso nord,
avvistarono al largo di Farmaco due cacciatorpediniere che ritennero
erroneamente britannici (erano, in realtà, tedeschi). Alle cinque del mattino
la motolancia britannica ML 456, in
pattugliamento ad est della baia di Alinda, avvistò il gruppo orientale e si
avvicinò per scoprire di cosa si trattasse: constatato che si trattava di dieci
mezzi da sbarco e due cacciatorpediniere, andò all’attacco, ma fu respinta e
danneggiata dall’R 195, ripiegando
nella baia di Alinda ove sbarcò alcuni feriti.
I primi sbarchi
avvennero alle 4.30 del mattino del 12, nella baia di Palma ed a Pasta di
Sopra, sulla costa nordorientale di Lero; successivamente altre truppe vennero
sbarcate nella baia di Pandeli, vicino alla città di Lero.
Il primo tentativo di
sbarco del gruppo occidentale venne respinto dal tiro delle batterie costiere
italiane; TA 14 e TA 15 guidarono un secondo tentativo di
sbarco, ma anche questo venne annullato quando il tiro delle batterie costiere
iniziò a mettere colpi a segno su mezzi da sbarco. Nel pomeriggio il gruppo
occidentale tentò ancora una volta di sbarcare le proprie truppe, stavolta con
l’appoggio di tutte e quattro le torpediniere della 9a Flottiglia
(che cannoneggiarono le batterie italiane con le loro artiglierie), ma anche
questo tentativo fu respinto, e la TA 17
incassò un colpo in un locale caldaie.
Meglio andò al gruppo
orientale: nonostante la reazione delle batterie costiere italiane ed i
contrattacchi delle truppe britanniche, i mezzi di quel gruppo riuscirono a
sbarcare abbastanza truppe da creare una testa di sbarco, poi rinforzata col
lancio di un battaglione di paracadutisti.
La storia ufficiale della
Marina italiana (volume USMM "Attività dopo l’armistizio – Tomo II –
Avvenimenti in Egeo") menziona ripetutamente i cacciatorpediniere ex
italiani nella sua descrizione della battaglia di Lero:
–
a pagina
224, il volume scrive che i primi colpi di cannone sparati dalle difese
costiere di Lero furono tirati alle prime luci dell’alba del 12, verso ponente,
dalle batterie Ducci (sita sul Monte Cazzuni ed armata con quattro pezzi da
152/50 mm) e San Giorgio (ubicata sul Monte Scumbarda e munita di tre cannoni
da 152/40 mm), le quali misero così in fuga un convoglio formato da «circa 6 Mz. [motozattere] scortate da due Ct., probabilmente gli ex
italiani catturati al Pireo, che dirigevano verso l’isola da Sudovest»,
mentre i primi colpi sparati nella zona di levante furono esplosi dalla
batteria PL 127 (situata sul Monte Maraviglia ed armata con quattro cannoni da
90/53 mm) che, dopo aver ricevuto dal Comando britannico un allarme relativo a
forze provenienti da est, aveva avvistato a circa 15 miglia di distanza una
formazione composta da due cacciatorpediniere ed una ventina di motozattere, e
di aver poi avvistato alcune altre motozattere a sole 3-4 miglia verso Santa
Marina, sparando una salva in tale direzione «più che altro per richiamare l’attenzione delle batterie navali del
settore»;
–
a pagina
225-226, la composizione delle forze tedesche da sbarco viene stimata in due
gruppi, dei quali uno, proveniente da sudovest, formato da circa 6 motozattere
scortate da due cacciatorpediniere ex italiani, fu messo in fuga dal tiro delle
batterie Ducci e San Giorgio, che avrebbero colpito anche uno dei
cacciatorpediniere; dopo essere stato così respinto, il gruppo si sarebbe
ritirato verso Calino, sparendo alla vista. L’altro gruppo, formato da numerose
motozattere ed altre unità e scortato anch’esso da due cacciatorpediniere,
seguì probabilmente una rotta sud-nord lungo la costa orientale di Lero,
tenendosi a 7-8 miglia di distanza onde restare fuori tiro per le batterie
costiere, ed assunse poi rotta verso ovest, giungendo nella zona dello sbarco
con rotta perpendicolare alla costa, approfittando per avvicinarsi
dell’oscurità ed emettendo cortine nebbiogene; il gruppo si suddivise in
quattro scaglioni, che puntarono rispettivamente sulla costa nordorientale
dell’isola (alcune motozattere furono affondate o costrette alla ritirata dalle
batterie costiere, ma altre riuscirono a sbarcare le loro truppe), sulla costa
ad est di Monte Clidi (giunsero a terra circa quattro motozattere, due delle
quali danneggiate dal tiro delle batterie costiere), sulla costa ad est di
Monte Appetici (una o due motozattere furono affondate dal tiro delle batterie
costiere, ma parte delle truppe giunse egualmente a terra), e sulla costa
settentrionale. Quest’ultimo scaglione, formato da piccole unità, si avvicinò
da nordest con l’appoggio di due cacciatorpediniere, descritti dal volume USMM
come «probabilmente del tipo Calatafimi»;
il tiro delle batterie costiere (specialmente la 888 di Blefuti, armata con
quattro pezzi da 76/40 mm) respinse le piccole unità, incendiandone due e
danneggiandone altre, che si ritirarono verso il largo dietro una cortina
nebbiogena stesa dai cacciatorpediniere, i quali spararono contro la costa
senza causare danni apprezzabili, mentre uno di essi fu probabilmente colpito
dalle batterie costiere;
–
a pagina
233, descrivendo lo sbarco sulla costa ad est di Monte Appetici, si afferma che
la batteria Lago (dotata di sei cannoni da 120/45 mm), dopo aver affondato o
respinto alcune motozattere, «rivolse il
suo tiro contro un gruppo di piccole unità scortate da due Ct. che incrociavano
al largo, facendo cortine di nebbia e sparando contro l’isola da grande
distanza e con scarsi risultati. Sembra che uno dei Ct. sia stato colpito da
una granata. Le unità si ritirarono scomparendo verso il largo ritirandosi
dietro cortine di nebbia»;
–
a pagina
234 è riferito che la batteria PL 113, situata sul Monte Zuncona ed armata con
quattro pezzi da 76/40 mm, avvistò all’alba del 12 motozattere e
cacciatorpediniere tedeschi a nordest ed a sudovest dell’isola; i
cacciatorpediniere scomparvero alla vista, mentre le motozattere si
avvicinarono alla costa per tentare lo sbarco. Successivamente i
cacciatorpediniere aprirono il fuoco contro l’isola, e ciò indusse la PL 113 ad
aprire il fuoco a sua volta, colpendo ed affondando una motozattera;
–
a pagina
240 è scritto che nel corso del pomeriggio del 12 un nutrito gruppo di
motozattere, scortate da due cacciatorpediniere, tentò di avvicinarsi alla
costa occidentale di Lero, probabilmente allo scopo di sbarcare truppe nella
baia di Gurna; la batteria Farinata (munita di quattro pezzi da 120/45 mm) aprì
il fuoco contro le motozattere e, benché contrastata dal tiro dei due
cacciatorpediniere, riuscì a costringere la formazione a ripiegare verso Calino,
coprendo la propria ritirata con cortine nebbiogene;
–
a pagina
258, parlando dei combattimenti del 16 novembre, il libro riferisce che
all’alba due cacciatorpediniere si avvicinarono alla batteria PL 306 (situata
sul Monte Vigla ed armata con due cannoni da 76/40 e sei da 102/35), già
duramente colpita nel corso dei giorni precedenti, probabilmente ritenendo che
quest’ultima fosse stata ormai ridotta al silenzio; invece due dei suoi cannoni
erano ancora utilizzabili ed aprirono il fuoco, «e, secondo quanto riferisce il Cap. Chiantella [capitano
d’artiglieria Luigi Chiantella, comandante della batteria], alla terza salva colpivano uno dei Ct. al disopra del galleggiamento,
all’altezza del primo fumaiolo. A bordo si sviluppava un incendio. Il Ct. si
sottraeva al tiro accostando verso il largo e facendo una cortina di fumo,
mentre l’altro Ct. intensificava il tiro contro la batteria che ormai poteva
rispondere con un pezzo solo. Poi la cortina di fumo coprì tutti e due i Ct.,
che più tardi furono visti allontanarsi, l’uno, sbandato sulla dritta, a
rimorchio dell’altro».
Tra le navi coinvolte
in questi episodi doveva esservi anche l’ex Turbine,
ma è più difficile stabilire quali di queste azioni abbiano interessato questa specifica
unità.
Tra il 15 ed il 16
novembre, durante la battaglia, TA 14,
TA 15 e TA 16 trasportarono altri rinforzi tedeschi dal Pireo a Calino. La TA 14, in particolare, lasciò il Pireo
la sera del 15 e raggiunse Calino, dove imbarcò una cinquantina di cannonieri
della Kriegsmarine e rifornimenti, che trasportò a Coo.
Lero cadde il 16
novembre, dopo quattro giorni di accaniti combattimenti. A cose fatte, alle 16
del 18 novembre la TA 14 salpò dal
Pireo carica di rifornimenti destinati a Lero, insieme a TA 15 e TA 19; giunte a
Lero il mattino del 19, le tre torpediniere scaricarono i rifornimenti ed
imbarcarono 400 prigionieri, dopo di che ripartirono nel pomeriggio dirette al
Pireo, dove giunsero il 20. Successivamente, tornate di nuovo a Lero, TA 14 e TA 15 ne ripartirono il pomeriggio del 21 novembre trasportando
paracadutisti tedeschi (ed il relativo equipaggiamento) da trasferire al Pireo,
dove giunsero all’una di notte del 22. Durante la navigazione, al largo
dell’isola di Nicaria, le due torpediniere localizzarono un sommergibile
britannico e lo attaccarono con bombe di profondità.
Nei mesi seguenti,
l’attività principale dell’ex cacciatorpediniere consisté nella scorta ai
convogli impiegati per i collegamenti tra la Grecia continentale ed i presidi
tedeschi delle isole dell’Egeo.
Il 13 dicembre 1943
la TA 14, insieme alla TA 15, alle motosiluranti S 36 e S 55 ed
al motodragamine R 211, salpò dal
Pireo per scortare a Vathi (nell’isola di Samo) il posamine ausiliario Drache, avente a bordo 300 soldati
tedeschi. Alle 5.05 di quel giorno il sommergibile britannico Unruly (tenente di vascello John Paton
Fyfe) avvistò il piccolo convoglio al largo di Samo, identificando erroneamente
il Drache come una nave mercantile; immersosi
alle 5.18 per portarsi all’attacco, alle 5.34 l’Unruly lanciò due siluri contro il Drache da 900 metri di distanza, in posizione 37°52’ N e 26°54’ E.
Nessuna delle armi andò a segno, ed il convoglio raggiunse regolarmente la
propria destinazione il 14 dicembre; il Drache
sbarcò le truppe che aveva a bordo ed imbarcò un gruppo di prigionieri
italiani, che trasportò poi al Pireo.
Tra il 19 ed il 22
dicembre la TA 14, insieme alla TA 15, al motodragamine R 211 ed alla motosilurante S 54, scortò dal Pireo a Samo il
posamine Drache, avente a bordo 500
militari tedeschi assegnati alla guarnigione di quell’isola, e lo scortò nel
viaggio di ritorno al Pireo con a bordo 600 soldati del Kampfgruppe
"Müller". Nel pomeriggio del 21 dicembre 1943 la TA 14 e la TA 15, appena uscite
dal porto di Karlovasi, localizzarono e bombardarono con bombe di profondità il
sommergibile britannico Sickle
(tenente di vascello James Ralph Drummond), che le aveva poco prima avvistate
al periscopio mentre uscivano dal porto, cui si era avvicinato per osservare il
naviglio presente. Alcune delle bombe esplosero vicine al Sickle, che tuttavia non riportò che lievi danni (altra fonte parla
invece di “danni significativi,
specialmente ai motori elettrici”).
Il mattino del 23
dicembre 1943 la TA 14, insieme a TA 15, R 211 e S 54, salpò da
Mudros (Lemno) scortando il piroscafo bulgaro Balkan, carico di 2200 tonnellate di carbone. Prima della partenza
del piroscafo, TA 14, R 211 e S 54 avevano condotto una ricerca antisom al largo di Lemno, in
seguito all’avvistamento di un sommergibile in quelle acque; non lo avevano
trovato, ma alle 10.35 il convoglietto, ancora in fase di uscita dal porto di
Mudros, venne avvistato dal sommergibile britannico Sportsman (tenente di vascello Richard Gatehouse), che si avvicinò
per attaccare. Alle 11.30, in posizione 39°44’ N e 25°16’ E, lo Sportsman lanciò tre siluri contro il Balkan dalla distanza di 1460 metri: una
delle due armi andò a segno, provocando l’affondamento della nave bulgara a sud
di Mudros (R 211 e S 54 recuperarono 68 naufraghi). La TA 14 diede subito inizio al
contrattacco, bombardando lo Sportsman
con due pacchetti di 5 e 4 bombe di profondità alle 11.39, seguiti da un altro
di cinque alle 11.40, uno di sette alle 11.47 ed uno di tre alle 11.49, ma
senza arrecare danni al sommergibile britannico, che si allontanò indenne. Alle
12.13, anzi, lo Sportsman poté anche
tornare a quota periscopica per osservare la situazione: trovò la TA 14 a 1800 metri di distanza. Quando
il cacciatorpediniere fece per avvicinarsi, alle 12.20, lo Sportsman tornò ad immergersi in profondità, per poi tornare a
quota periscopica alle 12.55.
Tra il 24 ed il 27
dicembre, insieme a TA 15, R 211, S 54 ed ai cacciasommergibili UJ
2106 e UJ 2110, la TA 14 scortò un convoglio di tre
piroscafi (Sabine, Susanne e Petrella) da Salonicco al Pireo, mentre tra il 31 dicembre ed il 2
gennaio 1944, insieme a TA 15, TA 17 e S 54, scortò la motonave Leda
(ex italiana Leopardi) dal Pireo a
Rodi e poi da Rodi al Pireo. L’11 gennaio sopravvisse ad un pesante
bombardamento del Pireo da parte di 84 B-17 della 15th USAAF (cui ne
seguì, calato il buio, un altro da parte della RAF), che affondò alcune unità
tedesche (il dragamine M 1226, ex
italiano RD 9, ed il
cacciasommergibili UJ 2143) e ne
danneggiò altre (le motosiluranti SG. 1
e SG. 2), ma provocò anche numerose
vittime tra la popolazione civile (almeno 700 e forse anche un migliaio, mentre
la cifra di 5000 morti riferita da alcune fonti greche sembra eccessiva).
Il 25 gennaio 1944
la TA 14 (caposcorta, tenente di
vascello Hans Dehnert), la TA 16 e la
TA 17, insieme ai motodragamine R 194 (o R 195) e R 211,
salpò dal Pireo alle 17 per scortare a Lero la motonave Leda.
Alle 2.40 del 26,
dopo rilevazioni idrofoniche ed al radar, il sommergibile britannico Torbay (tenente di vascello Robert
Julian Clutterbuck) avvistò il convoglio in avvicinamento da nordovest su rotta
270°, a sud di Capo Papas, ed alle 2.52 – restando in superficie – lanciò
cinque siluri da 3200 metri di distanza, a 4,5 miglia per 215° da Capo Papas (a
sud delle isole di Amorgos e Nicaria), per poi immergersi. Nessun siluro andò a
segno, perché Clutterbuck aveva sottostimato la velocità dei suoi bersagli (le
armi, infatti, passarono loro a poppa); non vi fu contrattacco, perché subito
prima dell’attacco del Torbay si era
verificata sulla TA 14 un’avaria che
l’aveva completamente privata dell’elettricità, mettendo così fuori uso il
sonar nonché la bussola, la radio e la centrale di direzione del tiro.
Subito dopo il
piccolo convoglio divenne oggetto delle attenzioni di un altro sommergibile:
l’olandese Dolfijn, del capitano
di corvetta Henri Max Louis Frédéric Emile van OOstrom Soede, in agguato venti miglia a sudest del Torbay. Questi ottenne un contatto radar
alle 3.57, a 7300 metri per 300°, in posizione 37°21’ N e 26°17’ E (a sud dell’isola
di Icaria ed al largo di Amorgos), ed avvistò la Leda e la sua scorta un minuto dopo. Rimanendo in superficie,
il Dolfijn manovrò per
tentare di attaccare, ma alle quattro del mattino la Leda accostò verso di lui, il che fece sì che la TA 14, che si trovava sulla dritta del
convoglio, si venisse a trovare molto più vicina al battello olandese: questi
ridusse la velocità e mantenne la prua sul cacciatorpediniere, sperando di non
essere visto, ma alle 4.05 una vedetta della TA 14 lo avvistò. La nave – che in quel momento aveva ancora
tutti gli apparati elettrici fuori uso – accelerò, manovrò per speronare il
sommergibile olandese ed aprì il fuoco con le mitragliere (da soli 640 metri di
distanza) in direzione del Dolfijn,
che fu costretto ad immergersi ed allontanarsi senza aver potuto attaccare. Una
volta che il Dolfijn si fu immerso,
tuttavia, non ci fu alcun contrattacco: avendo sia il sonar che la radio fuori
uso, infatti, la TA 14 non poteva né
localizzare il sommergibile immerso per attaccarlo con le bombe di profondità,
né informare le altre navi della sua presenza. Il convoglio giunse indenne a
Lero alle 6 del 26 gennaio; quel giorno stesso, TA 14 e TA 16 ripartirono
da Lero per il Pireo trasportando 350 prigionieri italiani.
Secondo una fonte, durante
questo viaggio di ritorno, il Torbay
avvistò di nuovo le due siluranti, ma non le attaccò.
Tra il 27 ed il 30
gennaio la TA 14 fu sottoposta ad
alcuni lavori per l’installazione di una mitragliera contraerea quadrinata da
20 mm "Flakvierling" presso la centrale di direzione del tiro
prodiera; terminati questi lavori, il 31 gennaio TA 14, TA 15 e TA 16, con a bordo il comandante della
9. Torpedoboot-Flottille, scortarono il mercantile Sieglinde dal Pireo (da dove
partirono alle 7.30) a Lero (dove giunsero il 1° febbraio).
Il 1° febbraio 1944 la
TA 14 (sempre al comando di Dehnert),
insieme a TA 15 (tenente di vascello
Carl-Heinz Vorsteher) e TA 16
(tenente di vascello Hans Quaet-Faslem), salpò da Lero per scortare a Samo la
motonave Leda, carica di munizioni;
fatto scalo in quest’isola, il piccolo convoglio proseguì per Iraklion, ma
l’indomani venne attaccato da aerei britannici a nordest di Amorgos: la Leda venne affondata, mentre la TA 14 fu gravemente danneggiata da razzi
che la colpirono in sala macchine, costringendola a rientrare al Pireo. Il
sommergibile olandese Dolfijn assisté
all’attacco senza parteciparvi.
I gravi danni causati
da questo attacco richiesero tre mesi di lavori di riparazione nell’Arsenale di
Salamina; durante questo periodo, il 4 febbraio 1944, il comando dell’ex
cacciatorpediniere passò al tenente di vascello Hans Quaet-Faslem. Al termine
dei lavori, il 5 maggio 1944, la TA 14
effettuò una navigazione di prova per verificare il corretto funzionamento di
tutti gli apparati; il 26 maggio partecipò ad un’esercitazione tattica notturna
con tre motosiluranti della 21. Schnellbootflottille, dopo di che riprese l’attività
di scorta.
La sera del 31 maggio
1944 la TA 14 salpò dal Pireo per
scortare ad Heraklion, insieme a TA 16,
TA 17 e TA 19, ai cacciasommergibili UJ
2101, UJ 2105 e UJ 2210 ed ai motodragamine R 34 e R 211 (per una fonte vi sarebbe stato anche un terzo motodragamine),
un convoglio formato dai mercantili tedeschi Sabine (ex italiano Salvatore),
Gertrud (ex danese Gerda Toft) e Tanais (ex greco Holywood).
Si trattava del più grande convoglio organizzato dalla Marina tedesca per
rifornire Creta dal settembre 1943, ed aveva lo scopo di crearvi delle scorte
in un periodo in cui le comunicazioni tedesche in Egeo diventavano sempre più
difficili, sia per i sempre più intensi attacchi aeronavali Alleati, sia per il
progressivo depauperamento del naviglio mercantile tedesco in quel mare (ormai
ridotto a soli 16 bastimenti, del tonnellaggio complessivo di 15.000 tsl).
All’alba del 1°
giugno, il convoglio fu raggiunto anche dalla scorta aerea, composta da sei
Junkers Ju 88 ed un Arado Ar 196. I comandi della Royal Air Force erano a
conoscenza della navigazione del convoglio e del suo importante carico, grazie
sia alle intercettazioni di messaggi tedeschi ad opera di “ULTRA”, sia ai
rapporti della ricognizione aerea (le navi mercantili, infatti, avevano passato
settimane ferme al Pireo, esposte alla ricognizione aerea britannica, in attesa
che fosse disponibile un adeguato numero di navi per la scorta); per
distruggerlo, misero insieme la più poderosa formazione aerea britannica creata
per l’intercettazione di un convoglio nell’intera guerra del Mediterraneo: 18
bombardieri leggeri Martin Baltimore del 15th e 454th
Squadron della South African Air Force (SAAF), dodici bombardieri medi Martin
B-26 “Marauder” del 24th Squadron della SAAF, 24 cacciabombardieri
Bristol Beaufighter del 227th, 252nd e 603rd
Squadron RAF e 16th Squadron SAAF, tredici caccia Supermarine
Spitfire del 94th e 213rd Squadron della RAF e quattro
North American P-51 “Mustang” del 213rd Squadron RAF.
L’attacco fu lanciato
in due ondate: la prima era composta dai Baltimore e dai Marauder, scortati dai
Mustang e dagli Spitfire; questi aerei intercettarono il convoglio quando era a
nord di Creta, a circa trenta miglia da Heraklion, e lo innaffiarono con una
pioggia di bombe. Alcune di quelle sganciate dai Baltimore colpirono a poppa il
Sabine, che procedeva in testa al
convoglio; altre caddero intorno ai cacciasommergibili senza colpirli, mentre i
Marauder mancarono il Sabine facendo
cadere le loro bombe a prua. Un Baltimore del 454th Squadron venne
abbattuto.
Cinque minuti più
tardi sopraggiunse la seconda ondata, composta dai Beaufighter (guidati dal
tenente colonnello Meharg del 252nd Squadron). L’attacco ai
mercantili fu portato da otto Beaufighter del 252nd Squadron e da
altrettanti del 603rd Squadron, mentre altri due velivoli del 252nd
Squadron, insieme a quattro del 16th Squadron SAAF, avevano il
compito di “sopprimere” la reazione delle armi contraeree delle navi; due
Beaufighter del 227th Squadron, infine, avevano il compito di
impegnare eventuali caccia di scorta. L’aereo del tenente colonnello Meharg fu
il primo ad essere abbattuto dal tiro delle navi (sia Meharg che il suo
navigatore sopravvissero e furono fatti prigionieri); analoga sorte ebbe un
Beaufighter del 603rd Squadron, abbattuto con la morte di entrambi
gli uomini dell’equipaggio (sergenti Ronald M. Atkinson e Dennis F. Parsons),
mentre un terzo del 16th Squadron SAAF (capitano E. A. Barrett) fu
danneggiato e costretto ad un atterraggio d’emergenza a Creta, ove il suo
equipaggio fu fatto prigioniero. I due Beaufighter del 227th
Squadron attaccarono gli Arado Ar 196: uno dei due (sergente F. G. W.
Sheldrick) riuscì ad abbatterne uno, mentre l’altro fu danneggiato e precipitò
sulla costa cretese, dove uno dei due uomini dell’equipaggio (tenente John W.
A. Jones) fu fatto prigioniero mentre l’altro (tenente Ronald A. R. Wilson)
trovò rifugio presso i partigiani greci.
Queste perdite furono
ricompensate dagli ingenti danni inflitti al convoglio: il Sabine venne colpito ripetutamente ed incendiato; il Gertrud fu colpito nella sala macchine
ed incendiato a sua volta; il Tanais
fu anch’esso centrato (nell’opera morta) e danneggiato tanto seriamente che
alcuni membri dell’equipaggio si gettarono in mare; il cacciasommergibili UJ 2105, incendiato, si capovolse ed
affondò alle 19.20; il cacciasommergibili UJ
2101 fu a sua volta mortalmente danneggiato ed affondò alle 19.30; la TA 16 fu gravemente danneggiata e resa
quasi ingovernabile; il motodragamine R
211 subì anch’esso danni.
Il Tanais e la TA 16 raggiunsero il porto di Heraklion con i propri mezzi,
nonostante i gravi danni, mentre il Gertrud
vi dovette essere rimorchiato; quando al Sabine,
ridotto ad un relitto carbonizzato, dovette essere finito col siluro da una
delle tre torpediniere tedesche rimaste efficienti, che rientrò poi al Pireo
insieme alle altre (qui giunsero il 2 giugno).
A rimorchiare il Gertrud ad Heraklion fu la TA 19, con la scorta di TA 14 e TA 17; alle 21.58 di quella sera, a quattro miglia per 340°
dall’isola di Standia, le quattro navi furono avvistate da circa 9150 metri di
distanza, su rilevamento 180°, dal sommergibile britannico Vox (tenente di vascello John Martin Michell), che stimò che
avessero rotta verso ovest. Alle 21.59 il Vox
accostò verso il convoglio per intercettarlo, ma tre minuti dopo fu il
convoglio stesso ad accostare verso il sommergibile, ed alle 22.05 una delle
navi tedesche sparò dei proiettili illuminanti verso il Vox, ma il tiro fu troppo corto perché la luce potesse illuminare
il sommergibile e rivelarne così la presenza. Michel avvistò due navi che
identificò come cacciasommergibili, che si avvicinavano al suo battello procedendo
a zig zag; alle 22.07, di conseguenza, decise di immergersi in posizione 35°30’
N e 25°13’ E, per poi attaccare il cacciasommergibili di testa. Alle 22.31 il Vox avvistò un cacciatorpediniere su
rilevamento rosso 90°, a distanza di 1830 metri; interruppe allora l’attacco
contro il cacciasommergibili per passare a questo nuovo e più grande bersaglio,
identificato come la TA 17 (ma
Uboat.net afferma che più probabilmente si trattava della TA 14), contro il quale lanciò, alle 22.36, quattro siluri. Le armi
non andarono a segno, e dalle 22.50 alle 00.30 del 2 giugno il Vox fu sottoposto a caccia con bombe di
profondità dal cacciasommergibili UJ 2142
(uscito da Heraklion insieme alla cannoniera ausiliaria GK 62 per condurre una ricerca antisom presso Standia ed andare poi
a rinforzare la scorta del Gertrud),
che gli arrecò alcuni modesti danni.
Il giorno seguente un
nuovo attacco della RAF su Heraklion affondò anche i danneggiati Gertrud e TA 16 (quest’ultima non fu colpita direttamente dalle bombe, ma affondò
perché investita dall’esplosione del Gertrud,
carico di carburante e munizioni).
Dopo questo disastro,
i Comandi tedeschi sospesero ogni ulteriore invio di convogli verso Creta,
riducendo i collegamenti con quest’isola al solo traffico con unità minori.
Poche settimane più
tardi, alle 21.15 dell’11 giugno 1944, la TA
14, la TA 17 e la TA 19, insieme ai motodragamine R 178 e R 195, salparono dal Pireo per scortare a Portolago (Lero) un
convoglio formato dai mercantili tedeschi Agathe,
Anita, Carola e Celsius (i primi
tre ex italiani – rispettivamente Aprilia,
Arezzo e Corso Fougier – ed il quarto ex spagnolo): stavolta la navigazione
non fu disturbata dagli attacchi aerei, perché il viaggio fu compiuto seguendo
una rotta che tenesse il convoglio al di fuori del raggio d’azione dei
Beaufighter. Quei quattro bastimenti, dopo il disastro del 1° giugno, erano
quanto di meglio restasse ai tedeschi in Egeo in fatto di naviglio mercantile.
Il mattino del 12
giugno il convoglio fu invece avvistato da un sommergibile, il britannico Sickle (tenente di vascello James Ralph
Drummond), nel canale di Steno; questi lanciò alle 12.55 un segnale di scoperta
relativo a quattro navi mercantili scortate da tre cacciatorpediniere e due
motosiluranti in posizione 37°41’ N e 25°04’ E, ma non fu in grado di
attaccare. Il convoglio raggiunse Portolago alle 6.30 del 13 giugno.
Il 14 giugno TA 14, TA 17, TA 19, R 178 e R 195 ripartirono da Lero per scortare a Rodi l’Agathe e la motozattera MFP 497. Alle 18.52 il piccolo convoglio
fu avvistato in posizione 36°40’ N e 26°54’ E (a sudovest di Coo) dal
sommergibile britannico Vivid
(tenente di vascello John Cromwell Varley), che manovrò per attaccare; ma alle
19.21 la TA 19 avvistò il Vivid, mentre questi si apprestava a
lanciare proprio contro questa nave (che distava in quel momento meno di 400
metri), e lanciò un razzo Very rosso per dare l’allarme, virando al contempo
con tutta la barra a sinistra. Il Vivid
fu così costretto ad interrompere l’attacco e scendere a quota profonda, venendo
bombardato alle 19.34 e 19.36 con otto bombe di profondità (quattro ogni volta)
che non causarono danni. Le navi del convoglio giunsero a Rodi il 15 giugno.
Compiuta anche questa
missione, la TA 14 tornò a Portolago.
Ma se il viaggio per
mare stavolta era andato bene, ormai le sempre più sparute navi tedesche
dell’Egeo non potevano considerarsi al sicuro nemmeno in porto: neanche quattro
giorni dopo questo viaggio, nella notte tra il 17 ed il 18 giugno 1944, la TA 14 venne seriamente danneggiata da un’incursione
di commandos britannici – operazione «Sunbeam A» – mentre si trovava ormeggiata
a Portolago.
Eliminare le navi
della 9. Torpedobootsflottille, che rappresentavano – a dispetto della loro età
– le più potenti unità tedesche nell’Egeo, era divenuto un obiettivo primario
per i Comandi britannici in quel settore. Per questo, nella notte tra il 17 ed
il 18 giugno tre kayak "Mark 2" del Royal Marine Boom Patrol
Detachment (RMBPD), denominati Shark,
Salmon e Shrimp ed aventi a bordo due Royal Marines ciascuno (li comandava
il tenente J. F. Richards), penetrarono col favore del buio nella baia di
Portolago (davanti alla quale erano stati portati dalla motolancia ML 360) e piazzarono delle cariche
esplosive sugli scafi delle navi ormeggiate: nelle prime ore del 18 giugno, le
cariche esplosero, affondando la cannoniera ausiliaria GD 91 (un piropeschereccio requisito) ed il rimorchiatore di
salvataggio Titan, e danneggiando
gravemente la TA 14 e la TA 17, scosse rispettivamente
dall’esplosione di due e cinque cariche esplosive. Sulla TA 14, in particolare, lo scoppio delle cariche provocò due grossi
squarci a prua, sul lato sinistro, determinando l’allagamento dei compartimenti
prodieri, ma l’equipaggio riuscì a mantenerla a galla. I sei incursori
britannici, oltre al tenente Richards (ai comandi del kayak “Shark”), erano il marine W. S. Stevens,
secondo di Richards sullo “Shark”; il
sergente J. M. King ed il marine R. N. Ruff sul kayak “Salmon”; il caporale E. W. Horner ed il marine E. Fisher sul kayak
“Shrimp”. Tutti e sei, dopo aver
completato la missione, raggiunsero nuovamente il largo e vennero raccolti
dalla stessa motolancia che li aveva portati lì. Furono Richards e Stevens a
piazzare le cariche esplosive sullo scafo della TA 14: subito dopo averlo fatto, i due uomini dello “Shark”, mentre si trovavano sotto la
prua del cacciatorpediniere ex italiano, vennero inavvertitamente “innaffiati”
da una sentinella tedesca che, non avendoli notati, si era messa ad orinare in
mare. Richards venne poi decorato con la Distinguished Service Cross per questa
impresa; si può immaginare che quest’ultimo inglorioso particolare sia stato
omesso nella motivazione della decorazione…
Tra il 22 ed il 23
giugno, dopo alcune riparazioni provvisorie, la TA 14 lasciò Lero e raggiunse il Pireo, dove avrebbe dovuto essere
sottoposta a riparazioni più approfondite: i lavori, svolti nell’arsenale di
Salamina, ebbero inizio il 1° luglio. Il 15 luglio, mentre erano in corso le
riparazioni, il tenente di vascello Quaet-Faslem cedette il comando della TA 14 al capitano di corvetta Hermann Densch,
che fu l’ultimo della lunga serie di ufficiali – prima italiani, adesso
tedeschi – avvicendatisi al comando di quello che una volta era stato il Turbine.
Il 10 settembre 1944
il diario di guerra della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della
Kriegsmarine riportava la seguente annotazione: "Sulla scorta delle esperienze guadagnate in conseguenza del sabotaggio
delle torpediniere TA 14 e TA 17 a Lero, la Divisione Logistica dello Stato Maggiore
della Marina invia un ordine al Comando della flotta ed al Comando dei
cacciatorpediniere chiedendo se esista un ordine definitivo per la flotta
[che prescriva] che il lato di una nave
[ormeggiata] rivolto verso il mare aperto
debba essere continuamente vigilato da una barca. È necessario che le
esperienze guadagnate dagli eventi di Lero siano utilizzate sotto tutti gli
aspetti".
La lunga e intensa
carriera del Turbine, ultimo
superstite della sfortunata classe cui dava il nome, ebbe definitiva conclusione
il 15 settembre 1944, durante un’incursione aerea della 15th USAAF sull’arsenale
di Salamina (in posizione 37°57’ N e 23°32’ E), dove la TA 14 si trovava in riparazione dopo i danni causati dall’attacco
dei commandos del precedente 18 giugno: colpito da bombe, il cacciatorpediniere
ex italiano saltò in aria. Nel medesimo attacco vennero gravemente danneggiati
un mercantile tedesco, il Mannheim, e
la cannoniera ausiliaria GD 91; anche
le strutture dell’Arsenale subirono ingenti danni.
Altre fonti indicano la
data di affondamento della TA 14 come
il 16 settembre 1944, anziché il 15. Tuttavia Kevin A. Mahoney, nel suo libro
"Fifteenth Air Force against the Axis", scrive che il 15 settembre 51
bombardieri Boeing B-17 “Flying Fortress” del 301st e 483rd
Bomb Group (15th USAAF), scortati da caccia North American P-51
“Mustang”, bombardarono la base degli U-Boot tedeschi a Salamina, «lasciando un cacciatorpediniere ed una
torpediniera in fiamme», oltre a danneggiare officine ed alloggi della base
navale ed una fabbrica di munizioni. Il 16 settembre, viceversa, i velivoli
della 15th USAAF non avrebbero effettuato alcuna missione di
combattimento, a causa del maltempo. L’incursione del 15 settembre rappresentò
il più pesante attacco aereo lanciato dagli Alleati sulla base di Salamina,
almeno fino a quel momento.
Secondo una fonte
ancora differente, la TA 14 sarebbe
stata affondata non da bombe, bensì da razzi, lanciati da velivoli Lockheed
P-38 “Lightning”. Rimangono invariati la data ed il luogo.
La Marina Militare
italiana, non più regia, radiò formalmente il Turbine dai quadri del proprio naviglio soltanto il 27 marzo 1947. Secondo
una fonte (Kostas Thoctarides) il relitto del cacciatorpediniere, recuperato
nel dopoguerra da una compagnia greca, fu rimorchiato nel bacino numero 5 della
base navale di Salamina e qui demolito; secondo un’altra (Aris Bilalis) venne
invece demolito sul posto dalla Marina greca, ed i pezzi furono scaricati in
un’area della vicina base navale. Risulterebbe (secondo quanto riferito dal
subacqueo e ricercatore greco Kostas Thoctarides) che una delle torrette da 120
mm del Turbine sia stata sottratta
alla demolizione, e faccia ancor oggi mostra di sé davanti alla sede del
comando della squadriglia cacciatorpediniere della Marina ellenica, nella base
navale di Salamina.
Un’altra immagine del Turbine (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |