lunedì 27 aprile 2015

Generale Antonio Chinotto

La Chinotto in transito nel canale di navigabile di Taranto a metà anni Trenta (Coll. Maurizio Brescia via www.associazione-venus.it)

Torpediniera, già cacciatorpediniere, della classe Generali (dislocamento standard 730 tonnellate, in carico normale 832, a pieno carico 870 o 890). Nel periodo interbellico operò intensamente e prese parte a diverse crociere. In guerra effettuò 37 missioni, delle quali 9 di scorta (sulle rotte dell’Africa Settentrionale) e 17 antisommergibile.

Breve e parziale cronologia.

20 novembre 1919
Impostazione nei cantieri Odero di Sestri Ponente.
7 agosto 1921
Varo nei cantieri Odero di Sestri Ponente.
26 settembre 1921
Entrata in servizio.
30 agosto 1923
Nel corso della Crisi di Corfù, scatenata dall’assassinio (avvenuto ad opera di ignoti il 27 agosto tra Giannina e Santi Quaranta) del generale Tellini e di una delegazione italiana che avrebbe dovuto definire i confini tra Grecia ed Albania, il Chinotto salpa da Taranto con una forza navale (composta, oltre che dal Chinotto, dai gemelli Generale Antonio Cantore, Generale Marcello Prestinari e Generale Achille Papa, dai cacciatorpediniere Giuseppe Sirtori e Giuseppe La Masa, dalle corazzate Caio Duilio ed Andrea Doria, dall’esploratore Augusto Riboty, da un dragamine e da due navi ausiliarie) incaricata di difendere il Dodecaneso da possibili azioni ostili da parte della Grecia. La squadra viene dislocata a Portolago (Lero).
19 settembre 1923
Il Chinotto, insieme ai gemelli Generale Antonio Cantore, Generale Antonino Cascino, Generale Carlo Montanari, Generale Marcello Prestinari e Generale Achille Papa ed alle corazzate Cesare e Cavour, compone la divisione navale che presenzia, nella baia di Falero, alla resa degli onori (63 salve di cannone con la bandiera italiana al picco) alla bandiera italiana da parte di una divisione navale greca – corazzata Kilkis, incrociatore corazzato Georgios Averof e quattro cacciatorpediniere – che rappresenta (insieme ad un indennizzo economico) l’atto formale di “riparazione”, da parte della Grecia, per l’eccidio di Giannina. Presenziano come testimoni anche gli incrociatori Comus (britannico) e Mulhouse (francese).
In questo periodo presta servizio sul Chinotto il guardiamarina Ugo Botti, futura Medaglia d’oro al Valor Militare.
1° ottobre 1929
Declassato a torpediniera, al pari di tutti i vecchi “tre pipe”.

Il Chinotto negli anni Venti (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net)

1931
La Chinotto, la Papa e due altre vecchie torpediniere, la Nicola Fabrizi e l’Enrico Cosenz, formano insieme al non meno datato esploratore Quarto la Divisione Speciale, agli ordini dell’ammiraglio Denti.
10 agosto 1931
La Chinotto, insieme alle gemelle Giacinto Carini e Generale Achille Papa ed all’esploratore Premuda, presenzia a Capodistria alla commemorazione del quindicesimo anniversario dell’esecuzione di Nazario Sauro.
16 gennaio 1932
Si reca a Capodistria insieme all’esploratore Quarto ed alle torpediniere Angelo Bassini, Giuseppe Cesare Abba, Giuseppe La Farina, Generale Carlo Montanari ed Enrico Cosenz (la formazione è al comando dell’ammiraglio Moreno). La formazione ripartirà il 18 dopo essere stata raggiunta dal Premuda.
1936
Riceve lavori di modifica con l’imbarco di apparati per il dragaggio in corsa.
1939
L’originario armamento secondario di due cannoncini Ansaldo Mod. 1917 da 76/40 mm viene sostituito con un armamento contraereo costituito da due mitragliere binate Breda da 20/65 mm Mod. 1935 e due o quattro mitragliatrici singole da 8/80 mm (per altra fonte, invece, i pezzi da 76 mm vengono lasciati, ma affiancati da sette mitragliere da 20/70 mm Mod. 1939, mentre per altre fu armata con mitragliere da 13,2 mm).
Svolge attività addestrativa mensile.
10 giugno 1940
L’Italia entra in guerra. La Chinotto appartiene in questo momento alla II Squadriglia Torpediniere, di base a La Maddalena, insieme alle gemelle Generale Antonino Cascino, Generale Carlo Montanari e Generale Achille Papa.
Durante la notte la Chinotto posa un campo minato al largo di Ajaccio.
6 giugno-10 luglio 1940
Chinotto, Cascino, Montanari e Papa posano quattro sbarramenti di 60 mine ciascuno a nordest della Maddalena ed altri due (anch’essi di 60 ordigni) nelle bocche di Bonifacio.
 
La Chinotto affiancata dalle gemelle Generale Antonino Cascino (a sinistra) e Generale Marcello Prestinari (a destra) (da www.regione.sicilia.it)

L’affondamento

Nella notte del 28 marzo 1941 la Chinotto, al comando del tenente di vascello Lelio Campanella, lasciò Palermo insieme ad un’altra anziana torpediniera, la Giuseppe Missori (tenente di vascello Carbonara). Le due unità avrebbero dovuto eseguire una missione notturna di ricerca antisommergibile: un battello nemico – probabilmente il britannico Rorqual – era stato avvistato al largo di Capo Gallo.
Appena tre giorni prima, e ad insaputa dei comandanti italiani, proprio il Rorqual (capitano di fregata Ronald Hugh Dewhurst), il più celebre battello posamine della Royal Navy, era stato mandato a posare 50 mine tra Capo Gallo e Scoglio Asinelli, dividendole in tre sbarramenti (uno di dieci mine quattro-cinque miglia a nordest di Capo Gallo, uno di 19 mine a nordest dello Scoglio Asinelli ed il più grande, di 21 mine, a nordovest dello stesso Scoglio Asinelli). Il primo era stato posato dal Rorqual tra le 11.10 e le 11.19 del 25 marzo, iniziando nel punto a 3,7 miglia per 041° da Capo Gallo e procedendo poi in direzione 280°, per circa 0,45 miglia nautiche, con un intervallo di 90 metri tra una mina e l’altra; il secondo dalle 9.40 alle 9.56 del 26 marzo, cominciando nel punto a 2,2 miglia per 022° dal faro dello Scoglio Asinelli e procedendo in direzione 290° con una linea di mine lunga 0,9 miglia nautiche, di nuovo distanziate tra di loro di una novantina di metri; il terzo dalle 10.48, nel punto a 1,5 miglia per 308° dal faro di Scoglio Asinelli, per un miglio in direzione 29° con mine anch’esse distanziate di 90 metri.
Su uno di questi sbarramenti (il terzo, di 21 mine) erano già affondate, il 26 marzo, le cisterne militari Verde e Ticino.
La missione di ricerca intrapresa da Chinotto e Missori si rivelò infruttuosa, dunque alle otto del mattino del 28 le due torpediniere abbandonarono la ricerca – erano in quel momento nel punto tra il meridiano di Capo San Vito ed il parallelo 38°20’ N – e si avviarono sulla rotta di rientro a Palermo, procedendo in linea di fila (Missori in testa, Chinotto che la seguiva nella scia) verso il punto prestabilito «A». Il mare lungo da ovest-sud-ovest al giardinetto ostacolava le manovre, e la densa foschia “nera” peggiorava la situazione. Con il procedere della navigazione le condizioni di visibilità andarono ulteriormente deteriorandosi: alle 9.20, quando Chinotto e Missori, giunte sul punto «A», accostarono per 110°,5 veri, la costa risultava interamente coperta da una foschia nera.
Alle 9.35 iniziò a comparire alla vista la sommità di Capo Gallo, che diede al comandante Carbonara della Missori l’impressione di essere leggermente spostato verso terra; Carbonara non se ne diede comunque pensiero, perché poco tempo prima aveva scortato in quelle stesse acque, per due giorni, la posacavi Città di Milano, e sapeva che verso terra, dalle rotte di sicurezza, non vi erano pericoli sotto la superficie del mare.
Mentre le due torpediniere si avvicinavano alla costa siciliana, tuttavia, alle 9.40, la Chinotto urtò una mina, o forse anche due, dello sbarramento che il Rorqual aveva posato in quelle acque tre giorni prima.
Le esplosioni, verificatesi all’altezza dell’alberetto poppiero (la prima) ed a centro nave (la seconda), spezzarono in due l’anziana torpediniera, che iniziò subito ad affondare 4,5 miglia a nordest di Capo Gallo. Erano le 9.41 quando sulla Missori il comandante in seconda, sottotenente di vascello Guido Suttora, esclamò «il Chinotto affonda», ed il comandante Carbonara, accorso sull’aletta sinistra di plancia, vide la nave sezionaria che quasi ferma, cominciava ad affondare.
Sulla Chinotto, il comandante Campanella diede tutti gli ordini necessari al salvataggio dei suoi uomini e fece mettere a mare le imbarcazioni, sulle quali prese posto l’equipaggio superstite; non vi s’imbarcò a sua volta, e rimase invece a bordo, senza neppure tentare di gettarsi in mare.
Intanto sulla Missori il comandante Carbonara, temendo che la Chinotto fosse stata silurata da un sommergibile posizionato più al largo, ordinò avanti tutta e tutta la barra a sinistra per portarsi nella presumibile posizione del battello attaccante, ma, non vedendo scie di siluri o bolle di lancio, ridusse la velocità; in quel momento la Chinotto fu scossa dalla seconda esplosione, dopo di che scomparve rapidamente sotto la superficie.
Mentre la sua nave s’inabissava, il comandante Campanella, raggiunto dall’acqua, si raccomandò alla Madonna di Pompei; poi si verificò la seconda esplosione, forse causata dall’urto contro un’altra mina, e Campanella venne scaraventato in mare. Fu recuperato da una lancia, i cui occupanti ripulirono le sue ferite con del whisky. In poco tempo, la torpediniera s’inabissò quattro miglia a nordest di Capo Gallo, al limite sudorientale del Banco La Barra ed a dieci miglia da Palermo.
Dopo otto-dieci minuti dall’urto della Chinotto – ormai affondata – contro la prima mina, la Missori, il cui comandante aveva ora compreso che dovessero probabilmente esservi “impedimenti subacquei” sul Banco La Barra, accostò a dritta per portarsi in fondali più profondi, verso sud, poi, senza fermarsi, inviò dei mezzi a recuperare i superstiti della torpediniera sezionaria e comunicò l’accaduto a Marina Palermo, che inviò mezzi di soccorso al comando del capitano di corvetta Antonio Nervi, che provvidero al salvataggio dei superstiti. Il comandante della Missori elogiò l’equipaggio della Chinotto, il cui atteggiamento definì sereno ed austero.
Per il contegno tenuto, il comandante Campanella venne decorato con una Medaglia di Bronzo al Valor Militare. In famiglia non volle più parlare della vicenda, ma anni dopo la sua morte i figli vennero a sapere che nel momento dell’affondamento della Chinotto sua moglie si era svegliata di soprassalto gridando: “Lelio! Lelio! E’accaduto qualcosa a Lelio”.

Dei 119 uomini che componevano l’equipaggio della Chinotto, seguirono la nave in fondo al mare 48 tra ufficiali, sottufficiali e marinai, mentre i superstiti furono 71.
La nave era finita sullo sbarramento di dieci mine (il primo dei tre) posato dal Rorqual quattro miglia a nordest di Capo Gallo il 25 marzo. Tale sbarramento era tanto vicino a due campi minati difensivi italiani (45 ordigni ciascuno) posati nel giugno 1940 che sulle prime si pensò che la Chinotto avesse accidentalmente urtato una mina appartenente al più settentrionale di questi due sbarramenti, ma il fatto che si trattasse di uno sbarramento antisommergibile, con mine regolate per una profondità di dieci metri – tale da non recare danno ad una torpediniera che vi fosse passata sopra – fece sorgere il dubbio che qualche mina, difettosa, potesse essere rimasta ad una profondità minore del previsto. Supermarina ordinò subito di effettuare un dragaggio di controllo, durante il quale fu trovata una mina a soli 2,65 metri di profondità e dotata di dieci urtanti, in luogo dei sette delle mine tipo «Elia» che componevano lo sbarramento difensivo italiano: si capì allora che la Chinotto era affondata su un nuovo campo minato nemico, di cui non si era a conoscenza.
Le operazioni di neutralizzazione di tale minaccia vennero affidate al capitano di corvetta Nervi, sotto la cui direzione tutte e otto le mine residue posate dal Rorqual vennero trovate e dragate: le prime ricerche iniziate il 20 maggio furono interrotte dal maltempo, ma tre giorni dopo, grazie alle indicazioni di alcuni pescatori, fu trovata la prima mina; il 31 maggio, dopo nuove interruzioni dovute al tempo avverso, vennero localizzate e contrassegnate anche le altre sette (gli otto ordigni risultarono disposti a profondità variabili tra 1,65 e 3,60 m con orientamento 278°, la prima nel punto 38°16’20” N e 13°22’20” E e l’ultima nel punto 38°16’23” N e 13°21’45” E, distanziate di circa 120 metri l’una dall’altra tranne la terza e la quarta, tra le quali la distanza era doppia). Il 3 giugno, nonostante il mare ancora mosso, i dragamine RD 20, Ettore Fieramosca e Maria Santissima ed una motolancia provvidero a dragare e neutralizzare tre mine; l’indomani l’opera fu ripetuta con gli altri cinque ordigni, tutti dragati e disattivati.


Caduti sulla Chinotto:

Mario Paolo Angelini, secondo capo meccanico, deceduto
Giuseppe Balsamo, marinaio, disperso
Pasquale Bianco, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Caramico, sottocapo furiere, disperso
Arturo Carnevale, marinaio fuochista, disperso
Giobatta Casagrande, marinaio cannoniere, deceduto
Mirko Casasola, sottocapo meccanico, disperso
Giovanni Cecchini, marinaio fuochista, disperso
Generoso Cincotti, marinaio fuochista, disperso
Ambrogio Cribiu, marinaio silurista, disperso
Biagio D’Ernesto, marinaio cannoniere, disperso
Francesco Di Capua, marinaio, deceduto
Ugo Di Nicola, marinaio fuochista, disperso
Francesco Fiore, marinaio fuochista, disperso
Leonetto Giusti, capo meccanico di terza classe, disperso
Pietro Goich, sottocapo meccanico, disperso
Vito Granata, secondo capo cannoniere, disperso
Vincenzo Guardiglio, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Laterza, marinaio fuochista, disperso
Antonio Luberti, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Maleppa, marinaio fuochista, disperso
Emilio Marzoli, marinaio fuochista, disperso
Michele Matrella, marinaio radiotelegrafista, disperso
Settimo Matteoli, capo cannoniere di prima classe, disperso
Calvino Mercone, marinaio fuochista, disperso
Idine Mocchetti, secondo capo meccanico, deceduto
Cosimo Molle, marinaio cannoniere, disperso
Vincenzo Nicastro, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Noardo, marinaio meccanico, disperso
Tommaso Pallavicini, capitano del Genio Navale, disperso
Rocco Palleschi, sottocapo meccanico, disperso
Antonio Pauro, marinaio, disperso
Nicola Perfetto, capitano CREM, deceduto
Egidio Pirola, marinaio fuochista, disperso
Aldo Polenta, sottocapo segnalatore, disperso
Giulio Ricci, marinaio, disperso
Giuseppe Mario Sala, marinaio fuochista, disperso
Mario Scudeletti, marinaio torpediniere, disperso
Antonio Selenu, marinaio nocchiere, disperso
Virginio Simone, sottocapo cannoniere, disperso
Giovanni Spinosa, marinaio, disperso
Luigi Spinosa, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Toscano, marinaio, disperso
Rinaldo Tronchini, marinaio cannoniere, deceduto
Carlo Valentini, marinaio fuochista, disperso
Fernando Vergani, marinaio fuochista, disperso
Vito Vinci, marinaio, disperso
Giulio Zago, marinaio meccanico, deceduto il 30.3.1941


Il relitto della Chinotto è stato localizzato nel 2002 dal subacqueo palermitano Stefano Baldi ed esplorato per la prima volta nel 2003 dal grande fotografo e subacqueo Andrea Ghisotti. Giace su fondale sabbiose ad una profondità di 103 metri, al largo di Capo Gallo e del Golfo di Mondello; la prua, adagiata sul lato di dritta, è relativamente intatta, mentre gran parte del relitto è ridotto ad un informe ammasso di rottami.


sabato 25 aprile 2015

VAS 208


La VAS 208 fotografata a Biserta il 22 marzo 1943 (g.c. STORIA militare)


Cacciasommergibili (Vedetta Anti Sommergibile, VAS) classe Baglietto 68 t, prima serie. Lungo 28 metri e largo 4,30, con un pescaggio di 1,80 m, dislocava 69,1 tonnellate e raggiungeva una velocità di 20,5 nodi ed un’autonomia di 300 miglia a 19 nodi. L’armamento constava di due mitragliere da 20/65 mm, due mitragliatrici da 6,5 mm, due tubi lanciasiluri da 450 mm, due scaricabombe antisommergibile ed una torpedine da rimorchio; l’equipaggio era composto da 26 uomini.

Breve e parziale cronologia.

1942
Costruita nei cantieri Baglietto di Varazze.
Inizialmente impiegata in Tunisia, verrà successivamente dislocata in Liguria con la V Squadriglia Vedette Antisom.
26-27 agosto 1943
La VAS 208, insieme alle gemelle VAS 214, 220, 224, 238 e 240, alla cannoniera Zagabria, alla corvetta Pellicano, ai sommergibili H 6 e Francesco Rismondo, ai rimorchiatori Sant’Antioco e Portoferraio (per rimorchio bersaglio) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere XIII (Carabiniere, Fuciliere, Mitragliere) e XIV (Artigliere, Legionario, Alfredo Oriani), nonché a numerosi aerei, partecipa ad una prolungata esercitazione (dal tardo pomeriggio del 26 e per tutta la notte successiva, fino al 27) della IX Divisione Navale, composta dalle moderne corazzate Roma, Vittorio Veneto ed Italia. Scopi dell’esercitazione, svolta al largo di La Spezia, sono: esercitazioni di tiro diurne e notturne, verifica della coordinazione tra caccia italiani e tedeschi nel respingimento di attacchi notturni di aerosiluranti, simulazione di attacco notturno di motosiluranti, emissione di cortine fumogene, prove di navigazione notturna. Due delle VAS simulano un attacco notturno di motosiluranti in condizioni di bassa visibilità; una delle due viene avvistata a grande distanza dal Carabiniere ed inquadrata dal suo tiro illuminante e poi anche da un proiettore del Mitragliere, mentre l’altra, trattenendosi a maggiore distanza, non viene individuata.

Procchio

L’armistizio dell’8 settembre 1943 sorprese la VAS 208, insieme alle gemelle VAS 214, 219 e 220, nel porto di Imperia, dove aveva base la V Squadriglia Vedette Antisom (al comando del tenente di vascello Ludovico Motta, imbarcato sulla VAS 214) che le quattro VAS formavano.
La sera stessa dell’8 settembre le forze della Wehrmacht iniziarono ad occupare la Liguria, e nel primo pomeriggio del 9 appariva evidente che presto anche Imperia sarebbe stata raggiunta dalla loro avanzata. Il comandante della Capitaneria di Imperia, tenente colonnello di porto Piaggio, ordinò che tutte le navi mercantili e militari in condizione di muovere dovessero partire il prima possibile per evitare la cattura, senza però specificare dove si sarebbero dovute dirigere, se non che tutti i porti a sud di Livorno fossero da considerarsi sicuri, affermazione decisamente ottimistica e che presto avrebbe perso ogni fondamento.
Intorno alle 15.30 del 9 settembre, pertanto, la VAS 208 e le tre gemelle lasciarono Imperia, proprio mentre entravano nella rada alcune motozattere da sbarco tedesche tipo MFP. Queste ultime, benché più lente delle VAS, erano più grandi e meglio armate; sulle VAS ci si preparò al combattimento, armando le mitragliere da 20 mm che ogni unità aveva, ma nessuno aprì il fuoco e le VAS poterono prendere il largo senza incidenti, per poi fare rotta per Portoferraio. Alcune delle unità della V Squadriglia, infatti, avevano i motori in condizioni ben distanti dalla piena efficienza ed inadatti ad una lunga navigazione di trasferimento; si sperava che a Portoferraio sarebbe stato possibile rimettere in efficienza i motori, rifornirsi e ricevere disposizioni più dettagliate.
Durante la notte le VAS, viaggiando a bassa velocità sia per risparmiare combustibile, sia perché i motori afflitti da reiterate avarie non consentivano molto di più, attraversarono il mare tra Livorno e la Gorgona senza essere avvistate dalle numerose unità tedesche – motozattere, motodragamine, posamine – che incrociavano in quelle acque, dove avevano già affondato o catturato diverse unità minori od ausiliarie italiane (il trasporto Buffoluto, l’incrociatore ausiliario Piero Foscari, il piroscafo Valverde, i VAS 234, sul quale era morto il contrammiraglio Federico Martinengo, 235, 238 e 239, le motozattere MZ 703, 709 e 749, il panfilo-cacciasommergibili AS 113 Pertinace, il dragamine D 1).
Il caposquadriglia Motta, considerati le difficoltà ed i rischi della navigazione notturna in quelle acque infestate da unità tedesche, valutò la possibilità di passare la notte a Capraia, in modo da giungere all’isola d’Elba con la luce del giorno, dunque lasciò le VAS 208, 219 e 220 al largo e si avvicinò al piccolo porto di Capraia con la VAS 214. Quest’ultima, però, nell’avvicinarsi al porto avvistò le sagome di tre motozattere, che avvicinò e chiamò ripetutamente per cercare informazioni, ma senza ottenere risposta: Motta ritenne allora che si trattasse di motozattere tedesche e pertanto si allontanò, rinunciando a sostare a Capraia, si riunì alle tre VAS dipendenti e riprese la navigazione verso sud. In realtà le motozattere erano cinque ed erano italiane (molto simili a quelle tedesche, essendo sostanzialmente una copia con poche modifiche del progetto delle MFP), ma questo era solo il primo degli equivoci che avrebbero pregiudicato la sorte delle VAS della V Squadriglia.
Circa due ore più tardi le quattro VAS arrivarono nelle acque dell’isola d’Elba, più o meno contemporaneamente al rimorchiatore militare Porto Palo ed alla cannoniera Rimini, là giunte navigando isolate da La Spezia. Tutte e sei le piccole unità, essendo ancora buio, seguirono le norme prescritte ed attesero l’alba per farsi riconoscere dal semaforo di Montegrosso e poter così entrare nella rada di Portoferraio. Soffiava però un vento da sud, sempre più forte, che stava facendo ingrossare il mare, ed intorno alle cinque del mattino del 10 settembre le quattro VAS furono costrette a ridossarsi al largo del paesino elbano di Procchio.
Poco prima delle sei (alle 5.45, secondo il sergente Adorno Picchi, in servizio all’osservatorio di Monte Castello), tuttavia, gli osservatori del XXV Gruppo di Artiglieria da Posizione Costiera e gli uomini del 343° Battaglione Mitraglieri, schierato a Biodola e Procchio, avvistarono le unità della V Squadriglia che si avvicinavano lungo la rotta di sicurezza, seguite a distanza da Rimini e Porto Palo. I soldati, che nella generale confusione post-armistiziale avevano i nervi a fior di pelle, credettero che si trattasse di unità tedesche che intendessero effettuare uno sbarco sull’isola d’Elba, perciò aprirono un nutrito fuoco con le mitragliatrici contro le VAS (che per loro fortuna erano ancora piuttosto lontane); seguirono confusi e caotici scambi di segnalazioni completamente erronee, mentre alcune postazioni di terra, vedendo i proiettili traccianti che cadevano in mare, pensarono che fossero colpi sparati dalle navi avvistate e richiesero urgentemente che le batterie costiere aprissero il fuoco. Il colonnello Nicola De Stefanis, comandante del 108° Reggimento Costiero di Portoferraio, credette di trovarsi di fronte a quatto motozattere tedesche che «manifestavano» «intenzione di venire a terra» e ritenne anche che gli «zatteroni» tedeschi, una volta presi sotto il tiro incrociato della propria compagnia mitraglieri, avessero anche risposto al fuoco con grande violenza (in realtà le VAS non reagirono, per non peggiorare la situazione), prima di essere costretti a ritirarsi verso nordovest virando di bordo e coprendosi con cortine fumogene dopo che altre armi si furono unite al fuoco e la sorpresa dello «sbarco» fu sfumata; così scrisse nel suo rapporto, e lo stesso fece il generale di brigata Achille Gilardi, comandante del Settore Elba, che anzi parlò di «sei motozattere con truppe a bordo» e che «invertirono la rotta reagendo al fuoco e proteggendosi con nebbia artificiale» e ritenne che due delle «motozattere» fossero state colpite, visto che al largo se ne videro poi solo quattro (perché tante erano le VAS).
Gli artiglieri degli osservatori erano dubbiosi sulla reale identità delle unità avvistate, e come se non bastasse gli ufficiali non erano presenti, perché a rapporto al Comando di Gruppo, a Literno: tra questi vi erano anche il comandante dell’osservatorio principale di Monte Castello, il tenente colonnello Manzutti, ed il suo vice, tenente Vestrini; trovandosi i due ufficiali a tre quarti d’ora dal loro osservatorio, la responsabilità di valutare l’entità della minaccia e dirigere il tiro ricadde sul sergente Picchi, unico graduato presente.
Il panico di un attacco tedesco si diffuse a macchia d’olio, così alle 6.10 le batterie del XXV Gruppo aprirono il fuoco con i cannoni da 75/27 mm della 11a Batteria, appostati a Santa Lucia della Pila, e gli obici da 149/12 mm della 120a e 121a Batteria di Casa Verna e del Literno. Lo stesso avevano fatto le mitragliatrici dei vari reparti, il 25° Gruppo d’Artiglieria e la batteria costiera «Ludovico De Filippi» dell’Enfola, quest’ultima armata da personale della Regia Marina anziché dell’Esercito e provvista di quattro cannoni navali da 152/45 mm. Si trattò dell’unica, tra le batterie elbane armate da personale della Marina, ad aprire il fuoco; nelle altre, forse, gli artiglieri, avendo più dimestichezza con le unità navali, si resero conto di cosa avevano effettivamente davanti a loro e non spararono. Anche la batteria «De Filippi», comunque, dopo aver sparato pochi colpi a 19.000 metri di distanza, cessò il tiro, mentre cannoni e mitragliere dell’Esercito inseguirono le VAS in precipitosa fuga. Fu grazie alla scarsa gittata delle artiglierie disponibili ed all’imprecisione del tiro se nessuna delle unità italiane fu colpita.
Erano le 6.25 quando le quattro VAS, trovandosi ad un miglio dalla costa al traverso di Scoglietto (Portoferraio) e dirette a Portoferraio, si videro fare oggetto del tiro di una batteria situata ad ovest del porto, con colpi di cannone e raffiche di mitragliera; ritenendo erroneamente – dato che la distanza e la visibilità, secondo il caposquadriglia Motta, sarebbero dovute essere tali da permettere il perfetto riconoscimento della bandiera italiana – che anche l’Elba fosse già in mano ai tedeschi, le unità della V Squadriglia, senza rispondere al fuoco, si allontanarono verso est, tentando di raggiungere il Canale di Piombino per entrare in quel porto. Subito dopo che le quattro unità si furono rifugiate dietro Capo Vita, il motore della VAS 208 andò totalmente e definitivamente in avaria, così che l’unità dovette essere presa a rimorchio da una delle gemelle; non appena ebbero scapolato il ridosso dell’Elba, come se non bastasse, i piccoli cacciasommergibili si trovarono in difficoltà a causa del mare burrascoso da sud, a causa di una forte sciroccata.
Non essendo possibile proseguire ulteriormente con mare tanto avverso, che le sballottava in continuazione, e le unità in condizioni tanto precarie di efficienza (specie con la VAS 208 che doveva procedere a rimorchio), la V Squadriglia dovette puggiare su Portovecchio di Piombino. Stavolta il semaforo della base non commise errori di riconoscimento, e le quattro VAS poterono ormeggiarvisi alle 7.30 (lo stesso fecero anche Rimini e Porto Palo, che le avevano seguite  a distanza per tutto il tempo).
La sosta a Piombino si rivelò purtroppo fatale per i quattro cacciasommergibili: alle 9.30 del 10 settembre, infatti, entrarono in porto anche le torpediniere tedesche TA 9 (tenente di vascello Otto Reinhardt) e TA 11 (tenente di vascello Karl-Wolf Albrand) ed il piroscafo tedesco Hans SS Carbet. Entrate con il pretesto di doversi rifornire di acqua e carburante – cui il comandante di Marina Piombino (capitano di fregata Amedeo Capuano) non aveva creduto, dovendo però infine permettere loro l’ingresso su ordine del gerarca fascista e generale Cesare De Vecchi, comandante della 215° Divisione Costiera di Massa Marittima – le unità tedesche, provenienti da Torre Annunziata, avevano in realtà il compito di porre sotto il proprio controllo il porto di Piombino, e dopo essere entrate le due torpediniere si portarono l’una (TA 9) all’estremità settentrionale del porto e l’altra (TA 11) all’estremità meridionale, tenendo così sotto tiro l’intera area portuale.
Le VAS si vennero così a ritrovare sotto la minaccia dei cannoni delle due torpediniere, virtualmente in ostaggio.
Nelle ore successive risultò evidente che stava per scatenarsi la battaglia: numerosi altri mezzi navali tedeschi con truppe a bordo entrarono nel porto per procedere all’occupazione della città, mentre a Piombino civili e militari, stanchi dell’indecisione dei comandi dell’Esercito – apparentemente preoccupati più di mantenere l’“ordine pubblico” che di respingere un evidente prossimo attacco tedesco, specie De Vecchi – provvedevano a preparare le difese.
Le VAS, impossibilitate a ripartire, si sarebbero ritrovate nel mezzo della battaglia; su ordine del Comando Marina di Piombino – non potendo le piccole unità, poco armate, in condizioni d’inefficienza e per giunta tenute sotto tiro dalle navi tedesche, contribuire al combattimento – gli equipaggi delle quattro VAS sabotarono le loro unità, per poi allontanarsi un po’ per volta, furtivamente, prima del tramonto.
Calato il buio, alle 21.15 scoppiò la battaglia tra le unità della Kriegsmarine impegnate nello sbarco a Piombino e civili e militari italiani che reagirono all’attacco. I combattimenti infuriarono per tutta la notte, e costarono 4 morti e parecchi feriti da parte italiana e 120 morti e 300 prigionieri da parte tedesca; le batterie costiere italiane di Montecaselli, di Villa Serini e del Semaforo, cui poi si unirono anche dei carri armati aprirono il fuoco sul naviglio tedesco presente nel porto, affondandovi la TA 11, sette motozattere, le chiatte Mainz e Meise e sei tra motolance e motobattelli della Luftwaffe (Fl.B.429, Fl.B.538, Fl.C.3046, Fl.C.3099, Fl.C.504 e Fl.C.528) e danneggiando gravemente la TA 9, il Carbet ed il piroscafo Capitano Sauro, in mano tedesca (Carbet e Sauro vennero poi autoaffondati per via dei danni).
Durante la battaglia, una delle quattro VAS fu colpita da un proiettile che la incendiò; dai suoi serbatoi fuoriuscì gasolio in fiamme che avvolse anche le altre unità vicine nonché la TA 11, contribuendo al suo affondamento. La VAS 208 e le sue tre gemelle furono tutte colpite nel combattimento ed affondate nelle acque del porto. Ebbe così termine la breve storia della V Squadriglia Vedette Antisom.
Non vi furono perdite tra gli equipaggi delle VAS; radunati nella frazione di Salivoli, gli uomini della V Squadriglia riuscirono a lasciare Piombino prima che la città venisse occupata dalle forze tedesche. Alcuni giovani ufficiali, tra varie peripezie, riuscirono a raggiungere il Suditalia ed a tornare nei ranghi della Regia Marina.
Quanto restava della VAS 208 e delle gemelle venne ripescato nel 1947 e smantellato.


Le vicende armistiziali nel Tirreno settentrionale

giovedì 23 aprile 2015

Bolsena

Il Bolsena (da “Trasporti marittimi di linea – Volume V – Dallo smoking alla divisa – La Marina Mercantile dal 1932 al 1945” di Francesco Ogliari, via Guglielmo Lepre)

Piroscafo da carico di 2384 tsl, 1324 tsn e 2890 tpl, lungo 86,87 m, largo 12,73 e pescante 5,79, con velocità di 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, immatricolato con matricola 365 al Compartimento Marittimo di Trieste, nominativo internazionale IBOE, nome in codice «Tre».

Breve e parziale cronologia.

Maggio 1918
Completato nei cantieri Osbourne, Graham & Co. Ltd. di North Hylton (Sunderland) come piroscafo da carico (carboniera) del tipo standard «War A – War B» (per la costruzione bellica in serie) con il nome di War Battery. Di proprietà dello Shipping Controller ed in gestione a Balls & Stansfield. Stazza lorda originaria 2352 tsl.
1919
Venduto alla Società Italiana di Servizi Marittimi, con sede a Genova, e ribattezzato Bolsena.
1932
Venduto al Lloyd Triestino.
1937
Acquistato dalla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia.
Utilizzato sulla linea n. 57 Adriatico-Siria (capolinea a Trieste).
4 giugno 1937
Entra in collisione, nelle acque di Porto Said, con la nave cisterna britannica British Valour; entrambe le navi riportano danni.
Agosto 1939
Cessa il servizio di linea ed inizia ad essere impiegato in viaggi straordinari alle dipendenze del governo.
18 dicembre 1939
Viene dirottato a Malta e sottoposto a controllo da parte delle autorità britanniche.
3 gennaio 1940
Giunge a Trieste; vi stazionerà inattivo per oltre un anno, sino al febbraio 1941.
3 novembre 1940
Salpa da Durazzo scarico, alle 20.30, insieme alle motonavi Verdi e Puccini, con la scorta del piccolo incrociatore ausiliario Lago Zuai e della torpediniera Generale Marcello Prestinari.
4 novembre 1940
Il convoglio giunge a Bari alle 7.30.
17 gennaio 1941
Salpa da Bari alle 22, in servizio civile, insieme ai piroscafi Diana e Monstella, che trasportano invece truppe e rifornimenti (151 uomini, 900 quadrupedi e 78 tonnellate di materiali), e con la scorta della vecchia torpediniera Calatafimi.
18 gennaio 1941
Il convoglio arriva a Durazzo alle 11.15.
Febbraio 1941
Noleggiato dalla Regia Marina.
13 marzo 1941
Il Bolsena, scarico, lascia Durazzo alle 5.30 in convoglio con le motonavi Maria (scarica), Città di Bastia e Città di Tripoli (aventi a bordo, tra tutt’e due, 497 feriti) e la scorta della torpediniera Solferino. Il convoglio giunge a Bari alle 19.30.
25 marzo 1941
Parte da Bari alle 20.30 insieme al piroscafo Laura C. ed alla motonave Riv (il carico dei tre mercantili assomma in tutto a 233 veicoli, 1780 tonnellate di munizioni e 1494 tonnellate di altri materiali, oltre a 61 uomini).
26 marzo 1941
Le navi arrivano a Durazzo alle 10.50.
4 aprile 1941
Lascia Durazzo per Bari all’una di notte, insieme al piroscafo Perla ed alla motonave Donizetti (tutte e tre le navi sono scariche) e con la scorta della torpediniera Giacomo Medici. Il convoglio arriva a Bari alle 16.40.
23 aprile 1941
Lascia Brindisi alle 4 in convoglio con i piroscafi Nennella e Tagliamento e la torpediniera Calatafimi, trasportando foraggio ed altri rifornimenti. Le navi giungono a Durazzo alle 15.30.
21 luglio 1941
Trasporta truppe e materiali delle forze tedesche da Patrasso a Taranto, insieme al piroscafo tedesco Tinos e con la scorta dell’incrociatore ausiliario Egitto.
3 agosto 1941
Trasporta personale e rifornimenti della Wehrmacht da Catania a Patrasso, in convoglio con i piroscafi tedeschi Procida, Trapani e Tinos e la scorta dell’Egitto.
30 agosto 1941
Compie un viaggio da Patrasso a Brindisi insieme al piroscafo tedesco Castellon e con la scorta dell’incrociatore ausiliario Attilio Deffenu.
25 settembre 1941
Requisito dalla Regia Marina a Trieste, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
20 ottobre 1941
Parte da Brindisi alle 13.50 in convoglio con il piroscafo Iseo, scortato dal cacciatorpediniere Strale.
22 ottobre 1941
Il convoglio viene dirottato a Navarino, dove giunge alle 10.50, per allarme navale: il giorno precedente la ricognizione aerea ha infatti avvistato la Forza K britannica – incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively – in arrivo a Malta, e Supermarina ha disposto per misura precauzionale la temporanea sospensione del traffico da e per la Libia.
23 ottobre 1941
Dato che la rotta Brindisi-Bengasi passa ad oltre 300 miglia da Malta, rendendo fortemente improbabile che una formazione navale possa attaccare le navi su quella rotta senza essere prima avvistata, Supermarina dispone la ripresa dei collegamenti con Bengasi. Il Bolsena riparte alle 20.50 diretto a Bengasi con Iseo e Strale.
25 ottobre 1941
Il convoglio giunge a Bengasi alle 13.30.
1° novembre 1941
Bolsena ed Iseo lasciano Bengasi alle 18.30 per tornare a Brindisi, scortati dalla torpediniera Procione.
4 novembre 1941
Il convoglio arriva a Brindisi alle 12.45.
16 novembre 1941
Nel momento più duro della battaglia dei convogli, il Bolsena ed il piroscafo tedesco Tinos, scortati dalla torpediniera Orione (tenente di vascello Gambetta), lasciano Brindisi alle 17 diretti a Bengasi. Sul Bolsena si trovano 341 tonnellate di provviste e materiali Commissariato, 395 tonnellate di munizioni, 140 tonnellate di provviste e materiali per enti civili, 330 tonnellate di materiali vari e munizioni per l’Afrika Korps e cinque tra autoveicoli e rimorchi.
17 novembre 1941
Alle 11.25 le navi vengono avvistate dal sommergibile britannico Upright (tenente di vascello John Somerton Wraith), avvicinatosi dopo aver notato, un quarto d’ora prima, fumo ed un aereo verso nord. Alle 11.40 l’Upright, tornato a quota periscopica dopo essere momentaneamente sceso in profondità (avendo notato che il convoglio sembra stare allontanandosi fino ad uscire dalla propria portata), vede che il convoglio ha virato verso di lui, dunque inizia l’attacco; alle 11.50 le navi virano però di nuovo, tornando sulla rotta precedente, ed alle 12.05, nel punto 38°09’ N e 19°29’ E (una cinquantina di miglia ad ovest di Cefalonia) il sommergibile lancia quattro siluri (due per ciascun mercantile) da 4570 metri. Nessuna nave viene colpita, e l’attacco passa anzi inosservato.
Alle 12.25 il convoglio viene avvistato a 8 miglia per 300° dal sommergibile britannico Urge (capitano di corvetta Edward Philip Tomkinson), che alle 13.02, in posizione 37°57’ N e 19°47’ E (40 miglia ad ovest di Cefalonia), lancia tre siluri al mercantile di coda, da una distanza di circa 4570 metri. Nessuna delle navi viene colpita, e dopo il lancio di quattro bombe di profondità (alle 13.10) le navi proseguono.
Alle 15 il convoglio viene pesantemente attaccato da bombardieri, che danneggiano leggermente i due piroscafi, costringendoli a riparare a Navarino, dove giungeranno alle 7.40 del 18.
21 novembre 1941
Bolsena e Tinos ripartono da Navarino alle 19, scortati ora anche dal cacciatorpediniere Strale (capitano di corvetta Goretti) quale rinforzo.
Alle 23.38 il sommergibile polacco Sokol (che alle 15.39 di quel giorno ha già infruttuosamente attaccato lo Strale con quattro siluri, nel Golfo di Navarino), nel punto 36°35’ N e 21°28’ E (ancora nel Golfo di Navarino), lancia tre siluri contro il Tinos, che viene mancato.
23 novembre 1941
I due mercantili arrivano a Bengasi alle 8.15 senza aver incontrato ulteriori problemi.
A causa delle distruzioni causate dalla guerra nelle strutture portuali di Bengasi, tuttavia, la discarica dei rifornimenti richiede parecchi giorni.
26 novembre 1941
Bolsena e Tinos stanno ancora sbarcando i loro carichi quando Bengasi viene pesantemente bombardata da aerei nemici: mentre il Tinos viene affondato, il Bolsena rimane pressoché indenne e può terminare la discarica dei materiali che ha a bordo.
30 novembre 1941
Finito di scaricare, il Bolsena lascia Bengasi alle 18.15, diretto a Tripoli con la scorta della torpediniera Centauro.
1° dicembre 1941
Giunge a Tripoli alle 15.
15 dicembre 1941
Lascia Tripoli alle 15, scortato dalla torpediniera Calliope, per tornare a Bengasi.
17 dicembre 1941
Arriva a Bengasi alle 8.30.
21 dicembre 1941
Tre giorni prima che Bengasi cada in mano alle forze britanniche in avanzata – è in corso l’operazione britannica «Crusader» –, il Bolsena lascia Bengasi alle 18.30 alla volta di Tripoli, in convoglio con il piroscafo tedesco Brook ed i motovelieri Rita, Delfino, Nicolò Padre e Fanum Fortunae. Si tratta di uno dei convogli organizzati per lo sgombero di Bengasi nell’imminenza della sua caduta; il Bolsena e le altre navi evacuano personale militare e 400 prigionieri. La scorta è costituita dai cacciasommergibili Cotugno e Garibaldi.
24 dicembre 1941
Il convoglio giunge a Tripoli a mezzogiorno.
5 gennaio 1942
Salpa alle 11 da Tripoli, diretto a Tunisi senza scorta.
7 gennaio 1942
Arriva a Tunisi alle 16.
5 febbraio 1942
Lascia Tunisi alle quattro del mattino, di nuovo privo di scorta, alla volta di Tripoli.
6 febbraio 1942
Alle 14.31 il Bolsena, in posizione 33°07’ N e 12°03’ E (al largo di Zuara), viene avvistato da cinque miglia di distanza – mentre procede a zig zag, scortato da aerei, su rotta 090° – dal sommergibile britannico P 31 (tenente di vascello John Bertram de Betham Kershaw). Il battello si avvicina ad alta velocità, ed alle 14.59 lancia tre siluri da 4570 iarde, mancando il bersaglio; il Bolsena accosta poi in direzione della costa, e l’aereo della scorta impedisce al P 31 di restare ancora in osservazione o di emergere per attaccare con il cannone.
7 febbraio 1942
Giunge a Tripoli alle nove del mattino.
21 febbraio 1942
Lascia Tripoli alle 15 diretto a Bengasi, che è stata riconquistata dalle forze dell’Asse. Non ha scorta.
24 febbraio 1942
Arriva a Bengasi alle undici.
6 marzo 1942
Lascia Bengasi alle 19.50 per Tripoli, scortato dal cacciatorpediniere Saetta.
9 marzo 1942
Arriva a destinazione alle nove del mattino.
9 maggio 1942
Lascia Taranto alle 22 per Bengasi, scortato dal cacciatorpediniere Saetta.
12 maggio 1942
Alle 6.30, all’uscita dello stretto di Messina, il Bolsena ed il Saetta si uniscono ai piroscafi Orsa e Menes, provenienti rispettivamente da Brindisi e Napoli il primo senza scorta ed il secondo scortato dal cacciatorpediniere Folgore, e vanno a formare il convoglio «L». Tale convoglio viene avvistato da ricognitori nemici ed attaccato da aerei alcune volte durante la notte, ma non si registrano danni.
Tutte le navi giungeranno a Bengasi alle 11.30 del giorno seguente.

L’affondamento

Alle 20.05 (19.30 per altra fonte) del 17 maggio 1942 il Bolsena, al comando del capitano Costantino Di Bartolo e con un equipaggio di 86 uomini (38 civili, 26 militari dell’Esercito, 19 militari della Regia Marina e tre carabinieri), salpò da Bengasi diretto a Taranto in convoglio con il piroscafo Iseo e con la scorta della torpediniera Pegaso (tenente di vascello Acton).
Dopo lo sbarco del pilota, il convoglio si dispose in linea di fila, con la Pegaso in testa, l’Iseo al centro ed il Bolsena in coda, procedendo a dieci nodi (secondo il rapporto del primo ufficiale del Bolsena, Dario Guerin; non più di 7-8 nodi secondo il volume “La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1941 al 30 settembre 1942” dell’USMM, che rileva la discrepanza con la velocità indicata da Guerin, ma afferma che date la posizione del siluramento e le rotte seguite la velocità non poteva essere stata superiore agli otto nodi).
Del passaggio del convoglio, tuttavia, era già stato informato il sommergibile britannico Turbulent, al comando del capitano di fregata John Wallace Linton. Ancora una volta, il “merito” dell’agguato andava all’organizzazione britannica «ULTRA», che il 17 maggio, sulla base di quanto ricavato da messaggi italiani intercettati e decifrati, comunicò che Bolsena ed Iseo avrebbero lasciato Bengasi alle 19.30 di quello stesso giorno, scortati dalla Pegaso, diretti l’uno a Taranto e l’altro a Brindisi. ULTRA indicò anche la velocità prevista: dieci nodi.
Il Turbulent si era portato in posizione idonea all’attacco già alle 23.20 del 17 maggio, e nove minuti dopo, nel punto 32°02’ N e 19°30’ E, avvistò le tre navi italiane in avvicinamento (con rotta 260°, poi cambiata in 335° da un’accostata, e velocità 10 nodi), che identificò come due mercantili di 4000 tsl ed un cacciatorpediniere di scorta, iniziando l’attacco.
All’1.40 del 18 (ora di bordo del Turbulent, 00.40 per l’orario italiano), dopo aver lungamente manovrato per portarsi in una posizione favorevole all’attacco, il sommergibile accostò per lanciare contro il piroscafo di coda, il Bolsena, ma Winton rilevò che la distanza era maggiore di quanto in precedenza avesse stimato, perciò assunse rotta parallela al convoglio e si rimise all’inseguimento. Alle due di notte (l’una per l’orario italiano) il battello britannico accostò di nuovo per lanciare contro il Bolsena, ed alle 2.10 (1.10 ora italiana), nel punto 32°16’ N e 19°16’ E, lanciò tre siluri da 1830 metri.
All’1.12 (ora italiana) del 18 maggio, improvvisamente, il Bolsena venne colpito in rapida successione da due siluri: il primo colpì in corrispondenza della stiva numero 3, sul lato di dritta, il secondo, dopo pochi secondi, sotto la plancia, all’altezza delle caldaie. (I siluri colpirono sul lato di dritta secondo il rapporto del primo ufficiale Guerin; il comandante Acton della Pegaso, invece, scrisse nel proprio rapporto che il Bolsena fu colpito da due siluri sul lato sinistro, dei quali si udirono le potenti esplosioni).
Il Bolsena affondò in pochissimo tempo – non più di mezzo minuto dallo scoppio del primo siluro al momento in cui la nave si fu completamente inabissata – nel punto 32°36’ N e 19°16’ E (o 32°26’ N e 19°15’ E, o 32°47’ N e 18°51’ E, o 32°21.9' N e 19°18' E; 45-50 miglia a nordovest di Bengasi o 55 miglia a nord della stessa città), trascinando sott’acqua, con il proprio risucchio, l’intero equipaggio. Meno della metà degli uomini, dopo qualche secondo, venne ributtata bruscamente in superficie insieme a due zattere (le scialuppe non poterono invece essere calate, stante la fulmineità dell’affondamento, e s’inabissarono con la nave); alcuni dei naufraghi si arrampicarono a bordo delle zattere, altri si aggrapparono ai rottami che galleggiavano nel mare.
La Pegaso, dopo aver visto la sagoma del Bolsena colpito sparire in una manciata di secondi per lasciare il posto solo a pochi segnali luminosi dei mezzi di salvataggio, raggiunse il probabile punto del lancio dei siluri e lanciò alcune bombe di profondità a scopo intimidatorio, non riuscendo a localizzare il sommergibile attaccante con l’ecogoniometro.
La torpediniera non si fermò a raccogliere i superstiti, dovendo scortare l’Iseo, ma proseguì all’1.50 dopo aver lanciato il segnale di scoperta e comunicato per radiosegnalatore a Bengasi (distante circa 50 miglia) la posizione dell’affondamento e la richiesta di mandare mezzi di soccorso per salvare i sopravvissuti (Iseo e Pegaso arrivarono a Taranto alle 15.30 del 20 maggio). Da Bengasi salparono alle cinque del mattino due motodragamine tedeschi, l’R 11 e l’R 16 della 6.Räumboots-Flotille, e Marina Bengasi dirottò sul luogo dell’affondamento anche l’anziana torpediniera Generale Marcello Prestinari, che era in mare.
I naufraghi rimasero in acqua per tutta la notte, finché non vennero avvistati da un aereo della Croce Rossa Italiana. Solo verso le 9.15 del mattino (secondo il resoconto del primo ufficiale Guerin) i superstiti del Bolsena vennero recuperati dai due dragamine tedeschi: erano 9 civili e 29 militari (secondo il primo ufficiale Guerin, mentre R 11 e R 16 riferirono di aver recuperato 36 sopravvissuti: 17 l’R 11, 19 l’R 16). Altri quarantotto uomini erano affondati con la nave o scomparsi in mare prima dell’arrivo dei soccorsi.
La Prestinari arrivò anch’essa poco più tardi (secondo il volume dell’USMM, alle 9.10, ma ciò è in disaccordo con quanto affermato dal primo ufficiale Guerin), ma solo per constatare che l’R 11 e l’R 16 avevano già recuperato tutti i superstiti ancora in vita.
I naufraghi vennero sbarcati a Bengasi; qui due dei civili recuperati spirarono nell’ospedale della città, portando il numero delle vittime a 50: trentatré membri dell’equipaggio civile, tra cui il comandante Di Bartolo ed il direttore di macchina, cinque militari della Regia Marina, tra cui il Regio Commissario, e 12 militari del Regio Esercito che erano a bordo di passaggio.

Le vittime tra l’equipaggio civile:
(si ringraziano Carlo Di Nitto, Michele Strazzeri e Giancarlo Covolo)
 
Vincenzo Amadei, marinaio, da Livorno
Amedeo Apollonio, carbonaio, da Monte Marciano
Epremio Arsenio, fuochista, da Brindisi
Francesco Augustoni, ufficiale di coperta
Augusto Bavdaz o Ravdaz, garzone di cucina, da Gorizia
Matteo Bazzarini, nocchiero, da Rovigno
Guido Bin, meccanico, da Trieste
Giuseppe Buetti, garzone di cucina
Bruno Cantarutti, ufficiale radiotelegrafista
Marcello Dagri, carpentiere, da Isola d’Ischia
Augusto Delfino o Dolfin, fuochista, da Chioggia
Nicola Del Re, marinaio, da Mola di Bari
Costantino Di Bartolo, comandante, da Palermo
Domenico Flego, marittimo, da Pirano
Giuliano Flego, carbonaio, da Trieste
Giuseppe Fontana, fuochista, da Orsera
Giovanni Gargiulli, ufficiale di macchina, da Civitavecchia
Alfredo Gianbenedetti, fuochista, da Ancona
Fortunato Giani o Gianni, cambusiere/dispensiere, da Capodistria
Giovanni Kobald, dispensiere, da Stans (Austria)
Daniele Liuba, marinaio, da Slarin (Croazia)
Paolo Menga, fuochista, da Mola di Bari
Giovanni Minervini, marinaio, da Molfetta
Francesco Orofino, carbonaio, da Catania
Marcello Rabas, fuochista, da Trieste
Andrea Rade o Rode, fuochista, da Trieste
Pietro Ratti, ufficiale di macchina, da Monfalcone
Bruno Rismondo, marinaio, da Rovigno
Mario Rizzardi, ufficiale di macchina, da Trieste
Giuseppe Robertovich, fuochista, da Eso Grande (Croazia)
Dante Semi, maestro di camera, da Trieste
Teodoro Tortorella, fuochista, da Brindisi
Enrico Urbani, cameriere, da Villa Santina
 
Personale della Regia Marina morto sul Bolsena:
 
Gherardo Bogi, tenente del Genio Navale, da Calci
Elio Ceccarelli, marinaio, da Monte San Vito
Mauro Orlando, marinaio segnalatore, da Guardiagrele
Umberto Pezzini, marinaio cannoniere, da Predore
Sergio Sortini, marinaio cannoniere, da Ferrara

Giuseppe Pressendo, nato ad Este il 3 giugno 1920, in una foto scattata all’età di 102 anni. Capopezzo delle mitragliere Breda 20/65 mm imbarcate sul Bolsena per la difesa contraerea, fu l’unico superstite tra il personale delle due mitragliere prodiere (g.c. Roberto Bobbio)

L’affondamento del Bolsena nel giornale di bordo del Turbulent (da Uboat.net):

17 May 1942
2320 hours - Arrived in the patrol position ordered to intercept the expected convoy.
2329 hours - Sighted three ships and a minute later heard their HE. These were two merchant ships, of about 4000 tons each [Iseo e Bolsena], and one escorting destroyer [la Pegaso]. Started attack.
18 May 1942
0140 hours - After a lot of manoeuvring to get into a favourable attack position, turned in to fire at the rear ship [il Bolsena]. It turned out that the range was greater then was thought. Turned to a parallel course and started to catch up again.
0200 hours - Turned in again to fire at the rear ship.
0210 hours - Fired three torpedoes from 2000 yards resulting in two hits. Dived. The torpedoed ship was heard to be breaking up shortly afterwards.”


Il Bolsena su Lemairesoft