mercoledì 25 settembre 2019

Gazzella

La Gazzella nel febbraio 1943 (Coll. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net)

Corvetta della serie Antilope della classe Gabbiano (640 tonnellate di dislocamento in carico normale, 740 a pieno carico). Portava la sigla C 20.
Trascorse tutta la sua brevissima vita operativa nelle acque della Sardegna; prima della sua perdita fece in tempo ad effettuare 63 missioni, perlopiù di scorta convogli (16) e di caccia antisommergibili (20), tutte in Mar Tirreno, percorrendo complessivamente 8847 miglia nautiche e trascorrendo 38 giorni in mare.

Breve e parziale cronologia.

20 gennaio 1942
Impostazione nei cantieri Odero Terni Orlando di Livorno (numero di costruzione 207 o 229).

La Gazzella in costruzione (Coll. Achille Rastelli)

9 maggio 1942
Varo nei cantieri Odero Terni Orlando di Livorno.


Sopra, il varo; sotto, la Gazzella durante l’allestimento (Coll. Achille Rastelli)


6 febbraio 1943
Entrata in servizio.
Assegnata alla I Squadriglia Corvette, viene inviata a La Spezia per la fase di addestramento iniziale.
11 aprile 1943
La Gazzella salpa da Messina alle 4.50, insieme alla gemella Driade (tenente di vascello Oscar Gran), scortando la motonave Carbonello ed il rimorchiatore di salvataggio Salvatore Primo.
Successivamente, il piccolo convoglio si scinde: la Carbonello, diretta in Tunisia, prosegue verso sud con la scorta della Driade; Gazzella e Salvatore Primo, diretti a La Maddalena – dove il rimorchiatore dovrà prendere a rimorchio l’incrociatore pesante Gorizia, gravemente danneggiato da un bombardamento aereo il giorno precedente e destinato ad essere trasferito urgentemente a La Spezia –, fanno invece rotta per la Sardegna.
12 aprile 1943
Giunta a La Maddalena, la Gazzella ne riparte alle 23.30 insieme al Salvatore Primo, ad un altro rimorchiatore, alle gemelle Minerva e Danaide, ai cacciatorpediniere Camicia Nera e Vincenzo Gioberti ed alla cannoniera Zagabria, scortando il Gorizia che lascia la base sarda alle 23.30 per trasferirsi a La Spezia. L’incrociatore, per quanto malconcio, procede con i propri mezzi: quattro caldaie sono in funzione, e le due motrici riescono a sviluppare la velocità di 15 nodi. I due rimorchiatori sono aggregati alla formazione soltanto per intervenire in caso di necessità.
13 aprile 1943
La traversata avviene a 15 nodi, con la seguente formazione: il Gorizia al centro, preceduto da uno dei cacciatorpediniere e seguito dall’altro; le tre corvette e la Zagabria (attrezzata anche come cacciasommergibili), a maggiore distanza, formano un “quadrilatero” attorno all’incrociatore danneggiato. I due rimorchiatori procedono anch’essi uno a proravia e l’altro a poppavia del Gorizia, ma a distanza molto più ravvicinata rispetto ai cacciatorpediniere. Le navi godono inoltre di scorta aerea.
Gorizia e scorta raggiungono La Spezia alle 16.55, dopo una navigazione priva di inconvenienti (secondo altra fonte, invece, la Gazzella sarebbe entrata in collisione con la torpediniera Giuseppe Dezza, riportando alcuni danni di modesta entità).
La Gazzella torna poi a La Maddalena, assegnata alla II Squadriglia Corvette di stanza in quella base. (Secondo il ricordo del marinaio segnalatore Clementino Lutzu, la Gazzella sarebbe stata dislocata a La Maddalena in sostituzione della gemella Driade, rimasta danneggiata in quelle acque; notizia che richiede verifica).

(g.c. STORIA Militare)

19 aprile 1943
Mentre si trova a La Spezia, la Gazzella viene leggermente danneggiata durante un pesante bombardamento da parte di 170 quadrimotori della RAF, che sganciano 416 tonnellate di bombe, causando immani distruzioni nell’abitato ed affondando in porto il cacciatorpediniere Alpino.
Riparati i modesti danni subiti, la Gazzella torna a La Maddalena e riprende il servizio con la II Squadriglia Corvette.
10 giugno 1943
La Gazzella, insieme alle gemelle Folaga e Danaide, viene inviata a dare la caccia al sommergibile Safari, che ha silurato ed affondato il trasporto militare tedesco KT 12 al largo di Orosei (nel punto 40°21’ N e 09°45’ E), ed a recuperare i naufraghi della nave affondata.
Le corvette non riescono a trovare il Safari, che dopo l’attacco si è immediatamente allontanato dalla zona del siluramento, mentre traggono in salvo 39 sopravvissuti, su un totale di 66 uomini imbarcati sul KT 12.
Giugno-Luglio 1943
Esegue missioni di scorta a convogli costieri e rastrelli antisommergibili nelle acque della Sardegna, insieme ad unità gemelle tra cui Driade, Ibis, Euterpe, Persefone.
 
La Gazzella (La Nuova Sardegna)

L’affondamento

Nella notte tra il 4 ed il 5 agosto 1943 la Gazzella, al comando del tenente di vascello Arrigo Montini (31 anni, da Rimini, parente del futuro papa Paolo VI), effettuò una missione di rastrello antisommergibili nelle acque di Porto Torres, insieme alla gemella Minerva. Al termine della missione, le due corvette ricevettero dal Comando Marina della Maddalena l’autorizzazione di rientrare in quella base, seguendo le rotte costiere.
Durante la navigazione verso La Maddalena, con rotta est, la Gazzella uscì dalla rotta di sicurezza e finì in un campo minato posato appena qualche giorno prima dai posamine tedeschi Pommern e Brandenburg: alle 5.08 del 5 agosto la corvetta urtò una mina e si spezzò in due a proravia della plancia, affondando in appena un minuto nel punto 40°54’ N e 08°38’ E, al largo di Castelsardo ed a nord dell’Asinara.
Il campo "amico" sul quale era saltata la Gazzella faceva parte di una serie di sbarramenti minati posati lungo le coste sarde nell’estate 1943, per ostacolare possibili sbarchi angloamericani. In quell’infuocata estate, in previsione ed ancor più in seguito allo sbarco Alleato in Sicilia, posamine italiani e tedeschi erano stati impegnati nella posa di sbarramenti antisbarco in tutte le possibili zone dove era ritenuto possibile uno sbarco angloamericano: la Sardegna, la Corsica, l’Italia meridionale, la Grecia, le isole dell’Egeo.
Nell’ambito di questa campagna di minamento di massa in funzione antisbarco, tra l’aprile e l’agosto 1943, ben 4470 mine erano state posate lungo le coste sarde: 1543 italiane e 2983 tedesche, suddivise in 25 sbarramenti. Campi minati erano stati posati nel Golfo di Palmas, nelle acque delle isole di San Pietro e Sant’Antioco, al largo di Alghero e di Oristano, nel Golfo di Cagliari, nelle Bocche di Bonifacio ed appunto nel Golfo dell’Asinara. Ad effettuare la posa erano stati i posamine italiani Vieste, Buccari e Durazzo, il posamine ausiliario Mazara, la nave cisterna Volturno, la nave trasporto munizioni e posamine Buffoluto, il cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi e due unità tedesche, i posamine Pommern (cui sarebbe poi toccato a sua volta, nell’ottobre 1944, di affondare su una mina “amica”) e Brandenburg. Proprio questi ultimi, insieme al Mazara, avevano posato i campi minati a protezione del Golfo dell’Asinara: tre sbarramenti, per un totale di 410 mine magnetiche tedesche, tutte posate il 20 luglio 1943. Lo sbarramento più esterno e più corto, a nordest dell’Asinara, era composto da 86 mine in due spezzate; quello “intermedio”, il più esteso (ad est dell’Asinara), comprendeva 208 mine in tre spezzate e sbarrava pressoché totalmente l’accesso del Golfo da nord, interrompendosi poco prima della costa; il terzo sbarramento, quello più interno, era formato da 116 mine in due spezzate, a est/sudest dell’Asinara. Proprio su quest’ultimo sbarramento di 116 ordigni, posati da Pommern e Brandenburg, finì tragicamente la breve esistenza della Gazzella.
Secondo qualche articolo (che non sembra però trovare riscontro nel volume "La guerra di mine" dell’Ufficio Storico della Marina Militare), le unità tedesche impegnate in quel periodo nella posa di campi minati antisbarco lungo le coste della Sardegna non avrebbero riferito ai comandi italiani l’esatta posizione e degli sbarramenti che posavano, né il tipo di mine usate, covando ormai forte diffidenza nei confronti del traballante alleato, cui vennero fornite solo informazioni vaghe e limitate: ciò avrebbe contribuito alla perdita della Gazzella. Questo sembra però piuttosto strano, dal momento che Pommern e Brandenburg, in gran parte di quelle missioni di posa, operarono congiuntamente con il cacciatorpediniere italiano Vivaldi, e che altri posamine italiani – tra cui, nell’operazione condotta il 20 luglio nel Golfo dell’Asinara, il Mazara – contribuirono ampiamente alla posa di campi minati sulle coste sarde, ergo i Comandi italiani avrebbero dovuto essere al corrente della posizione degli sbarramenti. Tanto più che, se il Comando Marina della Maddalena aveva tracciato una rotta di sicurezza, che le due corvette stavano seguendo e dalla quale la Gazzella deviò, ciò presupponeva la conoscenza della posizione dei campi minati.

La Minerva accorse prontamente in soccorso dei naufraghi dell’unità gemella, ma poté recuperare soltanto 36 superstiti, meno di un terzo dell’equipaggio: gli altri erano affondati con la nave. Molti uomini, data l’ora, stavano dormendo negli alloggi al momento dell’esplosione, e non ebbero scampo; si salvò quasi esclusivamente il personale di guardia in plancia ed in coperta.
Il marinaio idrofonista Claudio Miniussi, messosi in salvo su di una zattera, lasciò per cinque volte la sicurezza di quel galleggiante per andare a soccorrere i compagni che annaspavano in mare: ogni volta, raggiunto un commilitone, lo portò con sé fino alla zattera, poi tornò in acqua per andare in soccorso di altri. Miniussi raggiunse anche il comandante Montini, che tuttavia respinse la sua offerta di portarlo in salvo, dicendogli di occuparsi degli altri naufraghi; prima di lasciarlo, comunque, Miniussi gli diede il proprio salvagente. Per il suo eroismo, Miniussi sarebbe stato in seguito decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Anche il marinaio Giuseppe Sorrenti si prodigò per aiutare e incoraggiare i compagni in difficoltà finché ebbe forze; poi, scomparve tra le onde.
In base all’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale, risulta che 79 tra ufficiali, sottufficiali e marinai persero la vita nell’affondamento della Gazzella. (Un articolo del giornale “La Nuova Sardegna” del 10 agosto 2002 afferma che vi furono 101 vittime e 29 sopravvissuti, e molti siti Internet parlano di un centinaio di vittime, ma non viene indicata alcuna fonte).
Tra i sopravvissuti era il comandante Montini, che al momento dell’esplosione stava dormendo in brandina e dunque non si trovava in plancia. Secondo quanto dichiarato dall’ormai novantenne Montini quando venne intervistato sull’accaduto nei primi anni 2000 (nel 2002 dalla Marina Militare e nel 2005 da ricercatori del "Mondo Sommerso Explorers Team" durante la realizzazione di un documentario sull’affondamento della nave), la Gazzella finì sulle mine per un errore di navigazione commesso dal comandante in seconda (anch’egli sopravvissuto), che al momento del disastro dirigeva la navigazione stando in plancia. Secondo il racconto di Montini, prima di ritirarsi a riposare in sala nautica – essendo ammalato – egli aveva tenuto una riunione in plancia insieme al comandante in seconda, all’ufficiale di rotta (guardiamarina Riccioti) ed al direttore del tiro, nella quale aveva ordinato al “secondo” di seguire le rotte di sicurezza indicate dal Comando Marina della Maddalena, che seguivano rasenti la costa. Il comandante in seconda avrebbe proposto di seguire una rotta diversa e più breve, rettilinea, “tagliando” attraverso il Golfo dell’Asinara per puntare direttamente su La Maddalena; Montini, arrabbiandosi, avrebbe ribadito l’ordine di seguire la rotta più scomoda ma “sicura”, della quale aveva sottolineato l’importanza, per poi ritirarsi a dormire. Il comandante in seconda, violando queste disposizioni (forse per la fretta di rientrare alla base) o commettendo un errore di rotta, sarebbe uscito dalla rotta di sicurezza, avvicinandosi troppo all’estremità meridionale dello sbarramento di 116 mine posato il 20 luglio da Pommern e Brandenburg, e finendo così con l’urtare uno di quegli ordigni.
Queste affermazioni andrebbero tuttavia verificate leggendo la documentazione della Commissione d’Inchiesta Speciale (C.I.S.) relativa alla perdita della Gazzella, conservata presso l’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare.
Un altro superstite fu il marinaio torpediniere Pietro Santoro, di ventun anni, da Bari: chiamato alle armi nel luglio 1942 per il servizio di leva, era imbarcato sulla Gazzella dal 16 dicembre 1942, prima ancora del suo completamento. Al momento del disastro, Santoro si trovava di guardia in coffa, sull’albero: quando la nave urtò la mina ed esplose, il giovane marinaio si sentì lanciato in aria, poi cadde in mare, perdendo i sensi. Li riprese dopo un’ora, a bordo della Minerva; sbarcato a La Maddalena con gli altri naufraghi della Gazzella, il 6 agosto venne trasferito all’Ospedale Militare Marittimo di Riserva di Arzachena, dove fu ricoverato per «ferita penetrante nella regione tibiale anteriore piede destro, ferita da taglio guancia, contusione escoriate fianco gomito sinistro». Dopo essere guarito dalle ferite, sarebbe stato imbarcato proprio sulla Minerva, la gemella che accompagnava la Gazzella al momento dell’affondamento e che ne salvò i superstiti. Congedato nel dicembre 1945, si considerò per tutta la vita un miracolato, spegnendosi nel 1999 all’età di 77 anni.

Un altro membro dell’equipaggio della Gazzella, il segnalatore Clemente Lutzu da Nuchis (Tempio Pausania), non figurava invece tra i 36 superstiti perché quel giorno non era a bordo: aveva ottenuto un permesso speciale di due giorni per vedere la famiglia. Appena diciannovenne, Lutzu non vedeva la casa da diciotto mesi; i suoi genitori non sapevano nemmeno se fosse vivo o morto, e cogliendo l’occasione della presenza della Gazzella a La Maddalena, poco distante dal suo paese natale, il 4 agosto il giovane marinaio aveva chiesto un permesso al comandante Montini, “scavalcando” il comandante in seconda (descritto da Lutzu, settant’anni più tardi, come "persona severa e rigorosamente attaccata al senso del dovere", il che per la verità renderebbe piuttosto strana la sua presunta disobbedienza agli ordini relativi alla rotta da seguire). Montini, che aveva preso Lutzu in simpatia, gli aveva chiesto se fosse sicuro di riuscire a far visita alla famiglia e tornare a bordo entro la scadenza del permesso; Lutzu aveva risposto affermativamente, ed il comandante gli aveva concesso la licenza. Trasbordato su una pirobarca, che l’aveva sbarcato a mezzanotte e dieci sulla spiaggia tra Palau e Santa Teresa di Gallura, aveva poi raggiunto Palau camminando a piedi per tutta la notte con due valigie in mano; giunto in paese alle cinque del mattino, era salito su un trenino che portava a Tempio Pausania. Aveva finalmente riabbracciato i genitori e si trovava con loro nella vigna di famiglia, quando il mattino del 5 agosto era arrivato un biglietto inviato dallo zio Francesco Rais, comandante del dragamine RD 41. Il messaggio diceva soltanto: "Tanti auguri per lo scampato pericolo. Stamane alle 4,30 la Gazzella è andata a fondo. Molti dell'equipaggio sono morti, gli altri sono in ospedale".
Precipitatosi all’ospedale di Arzachena, ospitato nella scuola del paese, dov’erano stati portati i suoi compagni sopravvissuti, Lutzu vi trovò il comandante Montini, relativamente indenne ma completamente nero per via della nafta che lo ricopriva dalla testa ai piedi. Montini gli disse semplicemente: "Lutzu, mi devi la vita".
Nel 2001, Lutzu avrebbe rincontrato per la prima volta un altro ex marinaio della Gazzella: Angelo Scuncio, da Piedimonte Malese. Era stato Scuncio ad organizzare l’incontro, inviando al suo vecchio commilitone una lettera indirizzata semplicemente a “Lutzu-Nuchis”: nonostante l’assenza di altri dettagli come il nome o l’indirizzo del destinatario, la missiva era incredibilmente giunta a destinazione. Qualche tempo dopo Lutzu incontrò anche il furiere Giuseppe Bradina, che invece era sbarcato dalla Gazzella alcuni mesi prima dell’affondamento.
Per i tanti uomini della Gazzella che non ebbero la stessa fortuna, come il marinaio Francesco Di Lucchio da Rionero in Vulture, venti anni, non ci fu nulla di più che una laconica lettera alle famiglie: "Considerato disperso, fin quando non darà notizie di sé". Dopo aver lungamente girato per porti e ministeri, cercando qualsiasi notizia sulla sorte del figlio, i genitori di Di Lucchio si rassegnarono e deposero nel cimitero del paese una lapide alla sua memoria, una tomba vuota.

Le vittime:

Francesco Paolo Alessi, marinaio cannoniere, deceduto
Salvatore Alù, marinaio cannoniere, deceduto
Rodolfo Antonello, sottotenente di vascello, deceduto
Domenico Aragno, secondo capo cannoniere, disperso
Roberto Bacci, marinaio cannoniere, disperso
Umberto Baldas, sottocapo cannoniere, disperso
Edo Boglietti, marinaio cannoniere, deceduto
Ugo Bulzamini, marinaio cannoniere, deceduto
Francesco Canepa, marinaio silurista, disperso
Alfonso Capasso, aspirante guardiamarina, disperso
Albino Carbone, sottocapo torpediniere, disperso
Antonio Ciardo, sottocapo cannoniere, disperso
Mario Coladipietro, capo elettricista di terza classe, disperso
Giovanni Colantonio, marinaio nocchiere, disperso
Saverio Contenti, marinaio infermiere, disperso
Pietro Cracchiolo, marinaio, disperso
Felice D’Ambrosio, marinaio, disperso
Amorino De Ambrosi, marinaio, disperso
Italo De Lucchi, marinaio cannoniere, disperso
Angelo De Santis, marinaio torpediniere, disperso
Giuseppe De Simone, sottocapo, disperso
Carlo Del Ghianda, marinaio motorista, disperso
Mario Di Giovanni, marinaio cannoniere, deceduto
Francesco Di Lucchio, marinaio, disperso
Antonio Esposito, marinaio fuochista, disperso
Francesco Fabozzi, marinaio cannoniere, disperso
Alfredo Fazio, sottocapo elettricista, disperso
Cirillo Fornezza, secondo capo segnalatore, disperso
Giuseppe Forno, capo cannoniere di terza classe, disperso
Francesco Francini, marinaio elettricista, disperso
Filippo Frisoni, marinaio elettricista, disperso
Girolamo Gardin, sottocapo nocchiere, disperso
Attilio Gherlone, marinaio motorista, disperso
Carlo Giliberti, secondo capo furiere, deceduto
Cosimo Ieraci, marinaio torpediniere, disperso
Pietro Magnoni, marinaio cannoniere, disperso
Remigio Marini, marinaio, deceduto
Domenico Mastrototaro, marinaio cannoniere, disperso
Mario Melis, marinaio, disperso
Celestino Modelli, sottocapo radiotelegrafista, disperso
Alfredo Morelli, marinaio cannoniere, disperso
Aurelio Mulineddu, marinaio torpediniere, disperso
Giuseppe Murgia, marinaio, disperso
Giuseppe Odoardi, marinaio, disperso
Dino Padoan, marinaio nocchiere, deceduto
Ernesto Padova, marinaio, disperso
Domenico Pagliarulo, capo silurista di terza classe, disperso
Egidio Paliaga, marinaio motorista, disperso
Eligio Parravicini, marinaio elettricista, disperso
Bruno Pasquini, marinaio, disperso
Pasquale Patrono, marinaio, disperso
Emilio Plano, marinaio cannoniere, disperso
Gaspare Purpura, marinaio radiotelegrafista, disperso
Serafino Raimondo, secondo capo motorista, disperso
Giuseppe Ridelli, marinaio cannoniere, deceduto
Vittorio Rizzo, marinaio torpediniere, disperso
Achille Rossetti, secondo capo motorista, disperso
Siro Rossi, marinaio torpediniere, disperso
Vincenzo Sardo (o Gottardo), marinaio, disperso
Francesco Scarlata, sottocapo furiere, disperso
Mario Schottler, marinaio elettricista, disperso
Mario Scimone, sottocapo furiere, disperso
Carmelo Sicuso, marinaio cannoniere, disperso
Raffaele Sinisi, sergente infermiere, disperso
Massimiliano Skarabot, capo radiotelegrafista di seconda classe, disperso
Giuseppe Sorrenti, marinaio, disperso
Luigi Sparro, marinaio elettricista, disperso
Mario Stapane, sottocapo motorista, disperso
Carlo Stoppani, marinaio elettricista, disperso
Lorenzo Supino, capo meccanico di prima classe, disperso
Vitantonio Targioni, sottotenente di vascello, deceduto
Ciro Telesio, marinaio cannoniere, disperso
Luigi Toni, tenente del Genio Navale, deceduto
Lorenzo Troiano, marinaio, disperso
Angelo Vanasia, marinaio, disperso
Federico Veneroso, marinaio, disperso
Augusto Vetuso, marinaio cannoniere, disperso
Antonio Vigorito, tenente del Genio Navale, disperso
Egidio Voltarel, sottocapo nocchiere, disperso


La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al marinaio idrofonista Claudio Miniussi:

«Marinaio imbarcato su corvetta impegnata in zona di mare di intenso contrasto aeronavale, dopo l’affondamento della sua unità, avvenuto per urto contro mina, con nobile senso di altruismo lasciava cinque volte la zattera di salvataggio per condurci i compagni che scorgeva in mare. Scorto infine il proprio comandante, si offriva di portarlo sulla zattera, ed al rifiuto di questi, gli lasciava il proprio salvagente, portandosi al soccorso di altri naufraghi.
(Acque di Porto Torres, 5 agosto 1943)».

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del sottotenente di vascello Rodolfo Antonello, nato a Milano il 15 dicembre 1916:

«Ufficiale imbarcato su Unità antisommergibile, dava in numerose circostanze – benché menomato da ferita al ginocchio — prove di non comune ardimento, di elevato spirito combattivo e di perizia. Nell'affondamento della sua Nave, per urto contro mina, scompariva in mare, dopo essersi comportato fino all'ultimo con bravura.
(Acque di Porto Torres, 5 agosto 1943)».

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del tenente del Genio Navale Direzione Macchine Luigi Toni, nato a Livorno il 24 giugno 1907:

«Ufficiale imbarcato su Unità antisommergibile, dava in numerose circostanze prova di non comune ardimento, elevata perizia e tenace spirito combattivo. Nell'affondamento della sua Nave, per urto contro mina, scompariva in mare, dopo essersi comportato fino all'ultimo con bravura.
(Acque di Porto Torres, 5 agosto 1943)».

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio Giuseppe Sorrenti, nato a Capurso (Bari) l'8 dicembre 1920:

«Marinaio disciplinato e coraggioso, chiedeva ed otteneva di seguire il proprio Comandante in numerose e rischiose operazioni di guerra. Dava così numerose prove di entusiasmo, noncuranza del pericolo e di ardore combattivo. Nell'affondamento della sua Nave, per urto contro mina, si prodigava nell'assistere ed incoraggiare i compagni in pericolo finché scompariva nei flutti, lasciando esempio di abnegazione ed alto sentimento del dovere.
(Acque di Porto Torres, 5 agosto 1943)».


Il relitto della Gazzella giace oggi nel punto 40°54'843 N e 008°34'568 E, tre miglia al largo di Castelsardo, o più precisamente a tre  miglia da Punta Tramontana (Valledoria, Golfo dell’Asinara), grosso modo equidistante dagli abitati di Castelsardo e di Sorso (altra fonte afferma che il relitto si trovi invece a 1,1 miglia dalla costa). Il ritrovamento è avvenuto nel luglio 2002 ad opera di subacquei locali del Batrokos Diving di Castelsardo (a loro volta informati della posizione della "secca della nave" dai pescatori del luogo, che conoscevano da anni la presenza del relitto perché più volte le loro reti vi si erano impigliate: i più anziani ricordavano anche l’affondamento della Gazzella ed il recupero di alcune vittime), Romano Ieran ed Antonello Sabino, che vi hanno compiuto anche la prima immersione, denunciando prontamente la presenza del relitto alle autorità competenti e descrivendo la nave, le sue condizioni, i punti d’accesso al relitto ed il suo orientamento. In seguito alla denuncia, il Nucleo SDAI della Maddalena ha compiuto un primo sopralluogo sulla nave nell’ottobre 2002.
All’epoca del ritrovamento, la Gazzella aveva ancora a bordo abbondanti quantità di munizioni, siluri e bombe di profondità, tali da richiedere un intervento di bonifica condotto dalla Marina Militare nel maggio 2004. La bonifica è stata effettuata dai reparti SDAI di Cagliari e La Maddalena con l’appoggio della nave salvataggio Anteo, mediante innumerevoli immersioni eseguite nell’arco di oltre venti giorni (tra cui una saturazione di dieci gironi consecutivi); sono state distrutte in tutto 42 bombe di profondità e due siluri Whitehead da 450 mm, avendo però cura di non danneggiare il relitto.
La nave giace su un fondale di sabbia bianca a 56 metri di profondità (la profondità massima è di 60 metri, quella minima di 45); la prua, staccata di 15-20 metri dal resto della nave, giace adagiata sul lato di dritta, mentre il troncone principale (centro-poppiero) è in assetto di navigazione. Oggi meta di immersioni, la Gazzella conserva ancora il proprio armamento ed innumerevoli altri particolari, che lo rendono a giudizio di molti subacquei uno dei relitti più suggestivi della Sardegna: la prua conserva ancora l’ancora nell’occhio di cubia ed il cannone scudato da 100/47 mm; sulla tuga centrale figurano le mitragliere binate da 20 mm, puntate oggi verso la superficie, ed ai lati i tubi lanciasiluri da 450 mm, orientati verso l’esterno con un’angolazione di circa 30°, che ancora contengono i siluri (ben visibili ma privati, nel 2004, della pericolosa testata di guerra di quasi 270 kg di tritolo, rimossa e fatta brillare dai subacquei della Marina); a poppa sono evidenti i lanciabombe per le bombe di profondità (privati delle bombe, rimosse anch’esse nel 2004) e lo scaricabombe poppiero (che invece contiene ancora una ventina di bombe di profondità, lasciate perché troppo incastrate per poterle rimuovere senza aprirlo e danneggiarlo), le eliche ed il timone, parzialmente sprofondati nella sabbia del fondale. I resti della corvetta sono colonizzati da lussureggiante flora e fauna marina: saraghi di ogni specie e dimensione, aragoste, mostelle. Un’unica rete da pesa è impigliata nel relitto, sul lato di dritta dello specchio di poppa. La zona della nave in peggiori condizioni è quella della plancia, ove avvenne l’esplosione della mina: gli alloggi dell’equipaggio – dove molti uomini, al momento dell’esplosione, stavano dormendo – sono dilaniati dalla terribile detonazione; la plancia è completamente crollata sulla tuga sottostante, mentre è ancora riconoscibile il fumaiolo.
Accessibili e ben conservati sono la sala macchine (ove sono visibili i due motori, i manometri, le bombole antincendio), il quadrato e gli alloggi degli ufficiali (dove sopravvivono mobili, bagni, scrivanie, brandine), le cucine (ove ancora pentole e stoviglie rimangono sugli scaffali), la sala carteggio. Ignoti subacquei hanno invece saccheggiato le luci di via, le lanterne e gli strumenti di navigazione dai resti della plancia.
Il carrello di una mina tedesca da ormeggio, silenzioso indice della causa dell’affondamento della nave, giace sul fondale ad appena una decina di metri dal lato sinistro del relitto.
Numerosi resti umani giacciono ancor oggi all’interno del relitto, triste ricordo dei settantanove uomini che la Gazzella portò con sé in fondo al mare in un’ormai lontana alba di agosto.




venerdì 20 settembre 2019

Sperone

Lo Sperone (da www.marina.difesa.it)

Lo Sperone era un piccolo rimorchiatore portuale militare di 87 tonnellate, costruito nel 1934 dai Cantieri Navali Riuniti di Ancona (numero di costruzione 135, vi era stato varato il 9 luglio 1934). Appartenente alla classe Passero, formata da quattro unità (Passero, Linaro, Mesco e Sperone), era lungo appena 19,50 metri, armato con una mitragliatrice da 8 mm ed aveva un equipaggio di dodici uomini; un motore diesel da 200 HP gli consentiva una velocità di otto nodi.

La sua vita fu quella di un normale rimorchiatore portuale in una grande base navale; durante il secondo conflitto mondiale prestò servizio presso la base di Taranto, dove si trovava anche all’epoca del famoso attacco aerosilurante britannico dell’11-12 novembre 1940, nel quale fu affondata la corazzata Conte di Cavour e gravemente danneggiate la Littorio e la Duilio.
Lo Sperone sarebbe probabilmente del tutto dimenticato dalla Storia, se non fosse per la tragica fine cui andò incontro nei travagliati giorni che seguirono l’armistizio dell’8 settembre 1943.

All’annuncio dell’armistizio, lo Sperone si trovava sempre a Taranto, dove continuava a svolgere la sua umile funzione di rimorchiatore portuale.
Nella città dei due mari si trovavano in quel momento le corazzate Duilio ed Andrea Doria (che formavano la V Divisione Navale, al comando dell’ammiraglio di divisione Alberto Da Zara), gli incrociatori leggeri Luigi Cadorna, Scipione Africano e Pompeo Magno (che formavano il Gruppo Incrociatori Leggeri del contrammiraglio Giovanni Galati), il cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco, diverse torpediniere (tra cui la Sirio, la Clio ed alcune vecchie "tre pipe") e varie unità minori; Taranto era sede del Dipartimento Militare Marittimo dello Ionio e Basso Adriatico, al comando dell’ammiraglio di squadra Bruto Brivonesi, mentre l’ammiraglio di divisione Giuseppe Fioravanzo aveva assunto l’incarico di comandante militare marittimo di Taranto il 1° settembre, ed era previsto che sarebbe pienamente entrato nelle sue funzioni entro il 15 settembre, terminato il passaggio di consegne dal comandante in capo e dal comandante della Piazza di Taranto, ammiraglio di divisione richiamato Guido Calleri di Sala. Quando fu ricevuto il proclama dell’armistizio, anzi, Fioravanzo stava parlando con Calleri di Sala per informarsi dell’organizzazione della Piazza Militare Marittima di cui aveva appena assunto il comando; Brivonesi, di ritorno da una riunione dei vertici della Regia Marina tenuta a Roma (indetta dal ministro della Marina, ammiraglio De Courten, per preparare i suoi sottoposti all’imminente annuncio dell’armistizio ed alla probabile reazione tedesca), arrivò a Taranto un’ora più tardi. Fioravanzo, saputo dell’armistizio, disse a Calleri di Sala di considerare ultimate le consegne, e che si assumeva immediatamente tutte le responsabilità del nuovo incarico.
Alle 21.36 dell’8 settembre l’ammiraglio Brivonesi inviò a tutti i comandi subordinati un messaggio in cui rammentava che l’armistizio non interrompeva la continuità dei compiti delle forze armate, esortava a tenersi vigili e pronti a tutto, ed ordinava ai comandanti sottoposti di spiegare tutto ciò al personale. Due ore più tardi, ordinò che il naviglio sia mercantile che militare venisse approntato alla partenza.

In termini di forze tedesche presenti nei suoi pressi, Taranto era in una situazione ben migliore di qualsiasi altra base navale e città italiana: a terra non c’erano che 250 militari tedeschi; in Mar Piccolo, ormeggiate a pacchetto presso il molo della Caserma Farinati, erano tre piccole unità della Kriegsmarine, le motosiluranti S 54 (tenente di vascello Klaus-Degenhard Schmidt) e S 61 (capo nocchiere Friedel Blömker, che sostituiva il comandante titolare, ammalatosi), appartenenti alla 3. Schnellbootflottille (3a Flottiglia Motosiluranti), e la motozattera F 478, un’unità del tipo MFP (Marinefährprahm) attrezzata per il trasporto e la posa di mine. Tutte e tre erano in condizioni tutt’altro che ottimali, ed infatti si trovavano a Taranto proprio per essere sottoposte a lavori nel locale Arsenale: le due motosiluranti avevano problemi ai motori (solo due su tre su ciascuna unità funzionavano, limitandone la velocità massima a 18 nodi), mentre la motozattera si trovava in arsenale per essere sottoposta ad un ciclo di lavori di riparazione (la sua velocità massima era ridotta ad appena nove nodi).
Con l’armistizio, le tre imbarcazioni tedesche si vennero di colpo a trovare nel bel mezzo di una base non più amica (ancorché neanche esplicitamente nemica: solo un mese più tardi l’Italia avrebbe dichiarato guerra alla Germania); sarebbe stato piuttosto semplice, da parte italiana, impadronirsi delle unità ex alleate o comunque metterle in condizione di non nuocere, ma quanto invece accadde ha dell’incredibile. Alle 21.28 dell’8 settembre il tenente di vascello Schmidt ricevette dal capitano di fregata Herbert Max Schultz, comandante della 3. Schnellbootflittille, l’ordine di lasciare Taranto il prima possibile; pertanto, poco prima di mezzanotte, chiese all’ammiraglio Brivonesi il permesso di partire durante la notte con le tre unità per trasferirsi in Grecia, spiegando di temere che altrimenti si sarebbe potuto imbattere all’alba in navi da guerra britannica nelle acque prospicienti Taranto. Schmidt chiese anche di poter spostare la S 54 e la S 61 dal Seno di Levante del Mar Piccolo, in cui si trovavano, all’isoletta di San Pietro, “per distruggere i congegni di accensione delle torpedini elettriche depositate in detta isola” dalla Kriegsmarine; e diede assicurazione all’ammiraglio Brivonesi che le sue motosiluranti “non avrebbero compiuto atti ostili entro le acque territoriali italiane”. Brivonesi diede il suo consenso, e – secondo quanto poi scrisse nella sua relazione sull’accaduto – ordinò che due motoscafi italiani accompagnassero le due Schnellboote nei loro spostamenti, onde accertarsi che non giocassero brutti scherzi. (Secondo un’altra fonte, Brivonesi ordinò che le unità tedesche venissero tenute d’occhio dal personale dei fari e delle navi presenti in porto).
Nelle prime ore del 9 settembre 1943, il sottufficiale tedesco che comandava la F 478 si presentò al pontile del deposito munizioni di Buffoluto, situato nella parte interna del Mar Piccolo, richiedendo di poter imbarcare le 24 mine da fondo TMA/B (contenenti 420 kg di esplosivo, ad attivazione elettromagnetica ed acustica, utilizzate su fondali inferiori ai 30 metri; erano fornite di congegno regolabile per ritardarne l’armamento, nonché di un altro dispositivo regolabile in modo che la carica esplodesse solo dopo un determinato numero di attivazioni), appartenenti alla Kriegsmarine, che erano state ivi depositate dalla stessa motozattera qualche giorno prima, prima di entrare in arsenale. Sulle prime i responsabili del deposito, attenendosi a quello che era puro e semplice buon senso, si rifiutarono recisamente di consegnare le mine; ma la motozattera puntò le sue armi sul personale italiano di guardia al deposito, per cui intorno alle undici di quella sera il comandante di Buffoluto interpellò l’ammiraglio Brivonesi, chiedendo come si dovesse regolare. L’ammiraglio ordinò che le mine venissero consegnate ai tedeschi, purché le tre unità della Kriegsmarine, una volta imbarcati gli ordigni, se ne andassero subito da Taranto (!).
I tedeschi non chiedevano di meglio: la F 478 caricò a bordo le 24 mine (dalla banchina del deposito di Buffoluto, e non da San Pietro come in precedenza annunciato), imbarcò un ufficiale dei corpi tecnici, il tenente di vascello Hans Winkler dell’Ispettorato Ostruzioni (per altra fonte, del Comando Servizio Minamento della Kriegsmarine; sarebbe stato proprio Winkler a recuperare le mine depositate a Buffoluto, cogliendo anche l’occasione per sabotare altre mine tedesche presenti nel deposito, impedendo che potessero essere riutilizzate dagli italiani o dagli Alleati), e poi partì intorno alle 2.30 (per altre fonti, alle tre od alle quattro del mattino) del 9 settembre, insieme alle due motosiluranti, uscendo dal Mar Piccolo. La formazione, che procedeva in linea di fila alla velocità di 9 nodi, era sotto il comando del tenente di vascello Schmidt della S 54, ufficiale più alto in grado a bordo delle tre unità.
L’allora guardiamarina (e futuro storico navale) Franco Bargoni, all’epoca in servizio all’Ufficio Cifra della Segreteria del 4° Gruppo Sommergibili (Grupson) di Taranto, si trovava quella notte presso la centrale operativa sotterranea del Comando in Capo del Dipartimento di Taranto, dove assisté agli eventi di quelle concitate ore: eventi che avrebbe così rievocato a distanza di anni: “In mezzo a quella confusione arrivò una telefonata dal deposito munizioni di Buffoluto, in cui si domandava come contenersi nei riguardi della motozattera germanica che con minacce pretendeva di reimbarcare le sue mine. Nessuno chiaramente li aveva avvisati del colloquio di Brivonesi con l’ufficiale tedesco. Il Capitano di Vascello di servizio, essendone evidentemente anche lui all’oscuro, chiamò qualcuno, chiaramente uno dei diretti superiori: o l’amm. Di divisione Fioravanzo, comandante della Base e quindi responsabile anche di Buffoluto, o l’ammiraglio Brivonesi capo del Dipartimento. Cosa gli abbiano risposto non lo so, ma il concetto era questo. “E’ roba loro, dategliele””.
All’1.15, intanto, le motosiluranti tedesche avevano ricevuto il messaggio convenzionale "Ernte" ("mietitura"), che dava il via all’esecuzione dell’operazione "Achse", con la quale le forze tedesche dovevano attaccare l’ex alleato italiano per neutralizzare le forze armate italiane ed occupare la Penisola.
A Taranto, munitissima base navale presidiata da migliaia di uomini, l’occupazione era fuori discussione: le truppe tedesche si limitavano ai già citati 250 militari (che a loro volta chiesero e ottennero da Brivonesi di poter lasciare la città, unendosi ad altri reparti tedeschi in ripiegamento presso Ginosa; in generale, le forze tedesche in tutta la Puglia erano piuttosto esigue), mentre da parte italiana la difesa della Piazza di Taranto poteva contare su 65 cannoni antinave (cinque di grosso calibro, 20 di medio calibro e 43 di piccolo calibro, a doppio scopo antinave ed antiaereo) e 138 antiaerei, 290 mitragliere contraeree, 250 ufficiali e 8000 sottufficiali e soldati addetti alle artiglierie antinave ed antiaeree (che potevano fare fuoco anche sul fronte a terra, che aveva un’estensione di una settantina di chilometri) ed altri 12.000 tra ufficiali e soldati suddivisi in otto battaglioni e cinque compagnie costiere, dodici nuclei antiparacadutisti, due compagnie mitragliatrici da posizione, tre plotoni mitraglieri mobili, una compagnia carri lanciafiamme, una compagnia di pezzi anticarro da 47 mm, due compagnie di fuciloni da 20 mm, sette compagnie lavoratori nonché reparti di carabinieri e guardie di Finanza, con a disposizione inoltre dodici obici da 149 mm e 40 tra mortai e lanciabombe. Queste erano solo le difese della piazzaforte vera e propria; in aggiunta ad esse c’erano in Puglia due intere divisioni di fanteria, la 58a "Legnano" e la 152a "Piceno", assegnate alla difesa manovrata della piazzaforte e poste alle dirette dipendenze dell’ammiraglio Fioravanzo, che superava per anzianità di grado i due generali dell’Esercito comandanti le divisioni.
Schmidt aveva però modo di recare agli italiani gravi danni, cogliendo e sfruttando ogni occasione favorevole che gli si presentava. La prima la colse subito: per tutto ringraziamento per essere stata lasciata partire indisturbata, la F 478, nell’attraversare a lento moto il Mar Grande di Taranto insieme alle due Schnellboote per uscire in mare aperto, calò silenziosamente in mare tutte le sue mine tra l’ingresso del canale navigabile – la prima mina fu gettata a poche centinaia di metri dall’imbocco del canale – ed il fanale della secca della Tarantola. Durante la posa le tre imbarcazioni tedesche, anche per non sollevare sospetti, si mantennero in linea di fila; a dirigere l’operazione fu il tenente di vascello Winkler. (Secondo il libro "Very special ships" di Arthur Nicholson, tutte e tre le unità tedesche posarono delle mine, per un totale di 30 ordigni: 22 dalla F 478, in Mar Grande, e quattro da ciascuna delle due motosiluranti, all’ingresso del porto. Nicholson aggiunge altri particolari: le mine erano dotate di congegno ritardante che ne avrebbe impedito l’attivazione prima di ventiquattr’ore dalla posa, ed erano regolate variabilmente in modo da esplodere solo dopo il secondo, terzo o quarto passaggio di una nave sulla loro verticale. Ciò sembra però strano, dal momento che la mina che affondò l’HMS Abdiel si attivò prima che fossero trascorse ventiquattr’ore dalla posa. Inoltre, Nicholson afferma che al momento della posa fosse presente su ciascuna delle tre unità tedesche un ufficiale italiano, e che per nascondere a questi l’operazione in corso, ogni volta che una mina veniva calata in mare, un marinaio tedesco ne prendeva il posto mettendosi “a quattro zampe” sotto il telone che copriva l’ordigno, cosicché ad un’osservazione superficiale, nel buio della notte, sembrasse che tutte le mine fossero ancora a bordo. Nessuna altra fonte menziona la presenza di ufficiali italiani a bordo delle unità tedesche, che peraltro sembra ben poco plausibile, date le circostanze, ed il particolare dell’espediente usato per nascondere la posa delle mine appare qui un po’ troppo improbabile. Il libro "Schnellboote: A Complete Operational History" di Lawrence Paterson afferma addirittura che le unità tedesche avrebbero posato ben 54 mine tipo TMA/TMB: 30 dalla S 54, 20 dalla F 478 e quattro dalla S 61. Sembra però probabile un errore).
Nessuno si accorse di nulla, essendo la posa avvenuta col favore del buio, nelle prime ore del 9 settembre (tra le 3.15 e le quattro del mattino); neanche quando, alle cinque del mattino (le 4.30 per altra fonte), la MFP passò attraverso il passaggio obbligato tra le ostruzioni esterne per uscire dal Mar Grande ci si accorse, da parte italiana, che sul ponte non aveva più le mine caricate qualche ora prima (non è nemmeno chiaro se il personale di guardia alle ostruzioni fosse stato informato di questo non secondario dettaglio). Anche per questo, appare poco credibile l’affermazione dell’ammiraglio Brivonesi di aver mandato di motoscafi ad accompagnare e tenere d’occhio le due motosiluranti fino a quando non fossero uscite dal Mar Grande: o quei motoscafi non c’erano, o, se c’erano, non vigilarono affatto come avrebbero dovuto.

Una volta fuori Taranto, le due motosiluranti e la motozattera iniziarono a risalire l’Adriatico in direzione di Venezia, seminando lo scompiglio e la distruzione tra le navi italiane che incontravano con rotta opposta, dirette verso sud per raggiungere qualche porto rimasto sotto controllo italiano od Alleato. La discutibile decisione dell’ammiraglio Brivonesi – se è vero che i tedeschi non erano ancora formalmente divenuti nemici, e che gli ordini armistiziali imponevano di reagire ad eventuali attacchi “da qualunque altra provenienza” e non di intraprendere azioni offensive contro gli ex alleati, sarebbe stato comunque più prudente trattenerli in attesa che la situazione si chiarisse, ma soprattutto, in ogni caso, non consegnare loro le mine su un piatto d’argento – sarebbe venuta a costare la perdita di una decina di navi e di oltre 400 vite. Prima di arrivare a Venezia, la S 54 e la S 61 (la F 478, che rallentava la formazione, fu autoaffondata in seguito all’avvistamento dell’incrociatore italiano Scipione Africano, che però non le attaccò, avendo l’ordine di raggiungere Pescara per proteggere la fuga a Brindisi della famiglia reale) avrebbero affondato il dragamine ausiliario R 240 Vulcania, la cannoniera Aurora ed il cacciatorpediniere Quintino Sella, e catturato le motonavi Leopardi e Sabaudia, il piroscafo Albatros ed i piroscafetti Pontinia e Quarnarolo. Per la questa incredibile impresa, il sottotenente di vascello Klaus-Degenhard Schmidt sarebbe stato insignito della Croce di Cavaliere della Croce di Ferro, la più alta onorificenza militare tedesca (Schmidt sarebbe morto poco più di un anno dopo, il 23 dicembre 1944, a bordo della motosilurante S 185, affondata nel Mare del Nord).
L’ammiraglio Brivonesi venne a sapere che Schmidt aveva tradito l’impegno ad astenersi da azioni ostili verso l’una del pomeriggio del 9 settembre, quando giunse notizia dell’affondamento del Vulcania, prima vittima delle motosiluranti tedesche, abbordato e poi affondato con cariche esplosive nelle acque di Gallipoli. Altre perniciose conseguenze della decisione di Brivonesi non avrebbero tardato a manifestarsi.

Alle 10.15 del 9 settembre arrivò da Supermarina l’ordine di dare applicazione al «Promemoria Ordine Pubblico n. 1» del Comando Supremo, che conteneva disposizioni circa le azioni da intraprendere contro le forze tedesche qualora queste avessero tentato di sopraffare quelle italiane (per la Marina, tra l’altro, queste norme disponevano tra l’altro che «a) unità navali da guerra e mercantili germaniche: debbono essere catturate, o, nella impossibilità, affondate o quanto meno inutilizzate, in qualsiasi porto esse si trovino, da comandi e personale della R. Marina col concorso, ove necessario, di reparti dell'Esercito. (…) c) reparti della Marina germanica dislocati presso le varie basi: i comandi di Marina, in accordo con quelli dell’Esercito li cattureranno o comunque li metteranno in condizioni di non nuocere…»); a Taranto, però, di tedeschi non c’era più traccia, dunque questa comunicazione era ormai priva di significato.
Poco prima delle cinque del pomeriggio, lasciarono Taranto le corazzate Duilio e Doria, gli incrociatori leggeri Cadorna e Pompeo Magno ed il cacciatorpediniere Da Recco, che dovevano recarsi a Malta come stabilito dalle norme armistiziali. Comandava la formazione l’ammiraglio Da Zara; il contrammiraglio Galati, rifiutatosi di partire per Malta, era stato sbarcato e messo agli arresti.
Sempre nel tardo pomeriggio del 9 settembre, entrarono a Taranto le navi britanniche che trasportavano le truppe della 1a Divisione aviotrasportata (1st Airborne Division), incaricate di prendere possesso di quella base e degli altri porti della Puglia (operazione "Slapstick"). Partite da Biserta la sera dell’8 settembre, erano in tutto sei unità, cinque delle quali erano incrociatori leggeri: uno statunitense, il Boise (avente a bordo il generale britannico George Frederick Hopkinson, comandante della 1st Airborne), e quattro britannici, ossia l’Aurora, il Penelope, il Dido ed il Sirius, tutti appartenenti al 12th Cruiser Squadron, comandato dal commodoro William Gladstone Agnew. Si trattava di vecchie conoscenze per la Marina italiana: l’Aurora ed il Penelope, al comando dello stesso Agnew, avevano formato nell’autunno del 1941 la Forza K, che era stata per un breve quanto intenso periodo un vero flagello per i convogli italiani in navigazione tra l’Italia e la Libia; il Sirius e di nuovo l’Aurora, nel dicembre del 1942, avevano fatto parte della Forza Q, che aveva replicato le funeste (per l’Asse) imprese della Forza K a distanza di un anno. La sesta nave era il posamine veloce HMS Abdiel, altra nave foriera di funeste memorie per la Regia Marina: le sue mine avevano affondato svariate navi da guerra italiane, nelle acque della Grecia nel maggio 1941 e ancor più nel Canale di Sicilia nei primi mesi del 1943.
A copertura delle navi che trasportavano le truppe della 1st Airborne era stata assegnata una poderosa forza di sostegno al comando del viceammiraglio Arthur Power, partita da Malta con le moderne corazzate Howe (nave ammiraglia di Power) e King George V ed i cacciatorpediniere Jervis, Paladin, Panther e Pathfinder della 14th Destroyer Flotilla.
L’arrivo delle navi britanniche era stato preannunciato alle 13.30 da un messaggio del generale Vittorio Ambrosio, capo di Stato Maggiore generale, consegnato da un aereo proveniente da Pescara: «Disporre che a partire dalle ore 13.00 di oggi 9 settembre pilota si trovi in posizione (…) per guidare formazione navale britannica che deve sbarcare Taranto per appoggiare nostre truppe. Batterie costiere non dico non aprire il fuoco». Mezz’ora più tardi era stato lo stesso viceammiraglio Power, con un messaggio in chiaro lanciato dalla Howe, a comunicare che «Il viceammiraglio inglese che rappresenta il Comandante in Capo navale nel Mediterraneo giunge a Taranto con lo scopo di assicurarsi che i termini dell’armistizio vengano osservati alt Il viceammiraglio richiede in primo luogo che sei piloti sicuramente qualificati siano inviati a disposizione delle navi inglesi (…) Il viceammiraglio inglese richiede inoltre che 6 rimorchiatori e 12 bettoline pontate con equipaggi completi siano subito inviate sottobordo H.M.S. Howe che alza l’insegna del viceammiraglio». L’ammiraglio Brivonesi aveva risposto: «Sarà fatto il possibile per venire incontro necessità prospettate nei limiti dei mezzi disponibili alt. Saranno inviati sotto bordo Howe quattro piloti qualificati et cinque rimorchiatori et mezzi da sbarco vari». Così era avvenuto, come disposto dal Comando Militare Marittimo per ordine di Maridipart. Poco dopo le cinque del pomeriggio, il Comando della 7a Armata ordinò a tutti i Comandi dell’Esercito e della Marina in Puglia di tenere tutti i reparti pronti all’impiego, non opporsi a sbarchi angloamericani e non provocare atti ostili da parte delle truppe tedesche, ma reagire qualora queste ultime avessero attaccato.
Gli incrociatori del commodoro Agnew entrarono per primi in Mar Grande, a partire dalle 17.30, dopo di che iniziarono a sbarcare le truppe sui moli del porto commerciale; le corazzate, nel mentre, si ancorarono in rada (ultima ad entrare, alle 18.20, fu proprio la Howe). Alle sei di sera apparvero sui cieli di Taranto, provenienti da ovest, alcuni Messerschmitt tedeschi; volando a bassa quota, gli aerei puntarono verso le navi britanniche, e vennero subito bersagliati sia dal tiro delle batterie italiane della Piazza di Taranto e delle isolette di San Pietro e San Paolo, che dalle armi contraeree delle unità della Royal Navy.
Notizie preoccupanti arrivarono intanto dal caposaldo della batteria «Toscano», vicino a Marina di Ginosa (all’estremità occidentale del perimetro della piazzaforte di Taranto): truppe tedesche si stavano avvicinando con intenzioni poco chiare. Furono pertanto inviati al caposaldo rinforzi ed unità navali per l’appoggio, ma i reparti tedeschi non compirono azioni ostili e più tardi se ne andarono.
Alle dieci di sera del 9 settembre il generale Hopkinson convocò sul Boise l’ammiraglio Fioravanzo, per concordare con questi le modalità per lo sbarco delle truppe, l’assistenza da parte italiana, la cessione ai britannici di locali in cui ospitare i comandi ed i servizi delle loro forze; Hopkinson richiese inoltre che gli venissero illustrati la consistenza e disposizione delle forze italiane e tedesche in Puglia e Basilicata, lo stato d’animo e l’orientamento politico della popolazione civile, ed anche la garanzia personale di Fioravanzo che non ci sarebbero stati disturbi originati da "spirito fascista". L’ammiraglio diede la sua garanzia, insieme alle informazioni richieste. Parteciparono al colloquio anche il generale di brigata Aroldo Lombardi, comandante delle truppe costiere della Piazza di Taranto, ed un rappresentante della Royal Navy. Fioravanzo aggiunse che pur non avendo ricevuto direttive specifiche, dopo l’affondamento della corazzata Roma da parte tedesca egli avrebbe considerato i tedeschi come nemici attaccanti "dovunque fossero e comunque si comportassero".

Mentre era in corso la riunione tra Fioravanzo e Hopkinson, quindici minuti dopo la mezzanotte del 10 settembre (per altra fonte, alle 22.30 del 9), l’Abdiel, che si era ancorato in Mar Grande a poca distanza dal canale navigabile che univa il Mar Grande al Mar Piccolo (quasi sull’allineamento dell’imbocco del canale), circa 700 metri a sud-sudovest del Castello Aragonese, e che stava sbarcando le truppe che aveva a bordo, ruotando sull’ancora finì su una mina magnetica. L’esplosione spezzò in due la nave britannica, che affondò in soli due minuti, con la morte di 149 uomini (48 membri dell’equipaggio e 101 tra ufficiali e soldati della 1st Airborne) su un totale di 665 presenti a bordo (230 di equipaggio e 435 della 1st Airborne). Altri 126 uomini rimasero feriti; i naufraghi vennero recuperati dalle numerose unità italiane rapidamente accorse sul posto, tra cui la nave ambulanza Marechiaro prontamente inviata dal Mar Piccolo, ed i feriti vennero curati negli ospedali militari e civili di Taranto.
Il mattino del 10 settembre, durante un nuovo colloquio tenuto a bordo della Howe, l’ammiraglio Brivonesi ed il suo omologo britannico Power discussero tra l’altro anche la perdita dell’Abdiel, e Power riconobbe che il posamine era stato probabilmente affondato da una mina o da una bomba angloamericana a scoppio ritardato, lanciata durante le incursioni aeree Alleate su Taranto nel periodo precedente l’armistizio. Brivonesi, probabilmente, doveva avere qualche sospetto sulla reale provenienza di quella mina, ma si guardò bene dal dirlo a Power, onde evitare una prevedibile figuraccia…
Venne immediatamente deciso di iniziare una minuziosa operazione di dragaggio di tutte le acque della base, a partire da quelle del Mar Grande, ad opera di dragamine italiani alle dipendenze del Comando Militare Marittimo e di dragamine britannici inviati come rinforzo.
Brivonesi e Power discussero anche altre questioni: l’ammiraglio britannico si fece assicurare che i mezzi navali e le installazioni della base sarebbero state completamente messe a disposizione dei britannici; chiese inoltre che tutte le unità navali, di qualsiasi dimensione, si trasferissero a Malta, ma Brivonesi, mostrando il telegramma di Supermarina con le disposizioni dell’armistizio, ottenne che rimanessero a Taranto le torpediniere e le unità minori, come indicato nel telegramma.
Siccome con l’Abdiel si erano perdute anche le artiglierie della 1st Airborne, il Comando Militare Marittimo di Taranto mise a disposizione della divisione britannica tutte le artiglierie mobili alle sue dipendenze, nonché le artiglierie anticarro ed i carri lanciafiamme. Le truppe britanniche mancavano anche di mezzi di trasporto, e nei giorni successivi ebbe luogo una vera e propria requisizione di massa di tutti gli autoveicoli presenti nell’intera provincia di Taranto, militari e civili: ufficiali, sottufficiali e soldati britannici di ogni grado presero a fermare e requisire arbitrariamente qualsiasi automezzo capitasse loro a tiro. La prima automobile ad essere requisita fu anzi quella dello stesso ammiraglio Fioravanzo, che fu sequestrata senza troppi riguardi davanti alla porta del suo Comando, costringendo l’ammiraglio a recarsi a piedi all’incontro col generale Hopkinson; anche il vescovo di Taranto venne fermato il 10 mattina sulla strada Taranto-Martina Franca e lasciato a piedi, mentre soldati britannici si impadronivano della sua automobile. Entro l’11 settembre l’intera provincia di Taranto era sostanzialmente appiedata. Seguirono altre requisizioni arbitrarie, stavolta riguardanti benzina, provviste e locali; dopo qualche giorno l’ammiraglio Fioravanzo riuscì a convincere il generale britannico Godfrey Palmer, responsabile dell’Intendenza delle truppe britanniche in Puglia, a disciplinare tale situazione, per evitare il completo collasso logistico e difensivo della base di Taranto.
Il 13 settembre arrivò a Taranto il primo convoglio di sette trasporti britannici, che sbarcarono la 3a e 4a Brigate Fanteria britanniche; da quel momento iniziò l’ininterrotto afflusso di truppe e materiali dell’VIII Armata britannica per alimentare l’avanzata verso nord.


Lo Sperone, al comando del secondo capo nocchiere Elio Cesari, era in quel periodo impiegato come “traghetto” per i collegamenti tra Taranto e le Isole Cheradi, un arcipelago di tre isolette (San Pietro, San Paolo e San Nicolicchio, quest’ultima oggi non più esistente perché distrutta durante l’ampliamento del porto commerciale) situate davanti al Mar Grande, a circa sei chilometri dal canale navigabile e dalla terraferma. San Pietro e San Paolo erano sede di importanti fortificazioni facenti parte del sistema difensivo della piazzaforte di Taranto, con caserme, batterie antinave ed altri siti d’interesse militare (su San Pietro era stata realizzata un’omonima batteria costiera, mentre su San Paolo erano state costruite la Batteria Ammiraglio Aubry ed il Forte Vittorio Emanuele II, dotato di due mastodontici cannoni Krupp da 400/25 mm in cupola corazzata), ed avevano dunque una nutrita guarnigione, composta da personale della Marina e della Milizia di Artiglieria Marittima (MILMART).
Lo Sperone collegava le due isole alla terraferma, portando materiali e viveri per la guarnigione all’andata, e personale che si recava in città in franchigia al ritorno; vari rimorchiatori si alternavano in questo servizio, partendo solitamente dalla banchina torpediniere del Mar Piccolo, facendo scalo al Castello Aragonese e poi proseguendo verso le Cheradi. Il rimorchiatore che faceva questo servizio di “traghetto” era chiamato colloquialmente “il mezzo delle isole”.
Nel primo pomeriggio del 22 settembre 1943, durante uno di questi viaggi brevi e all’apparenza privi di pericoli, lo Sperone imbarcò oltre un centinaio di “franchi” provenienti dall’isola di San Pietro, dopo di che lasciò le Cheradi per tornare a Taranto. Ma la sua traversata del Mar Grande venne interrotta bruscamente poco dopo la partenza: alle 13.50 lo Sperone saltò improvvisamente in aria, inabissandosi in pochi attimi a poca distanza dall’isola di San Paolo. Come appurò in seguito una commissione d’inchiesta, era saltato su una mina ad influenza magnetica di fabbricazione tedesca, una di quelle posate dalla F 478 nell’attraversare il Mar Grande, quando aveva lasciato Taranto.
L’esplosione venne chiaramente sentita nella vicina isola di San Paolo, il cui presidio assisté impotente al rapido svolgersi della tragedia: subito partirono dall’isola tutte le imbarcazioni disponibili, che si precipitarono sul posto in cui il mare si era rapidamente richiuso sullo Sperone. Poterono salvare soltanto 51 uomini, compreso il comandante Cesari, su un totale di 148 uomini, tra equipaggio e “passeggeri”, che si trovavano sullo Sperone: in 97 avevano perso la vita in quei pochi istanti. Tutti i superstiti erano rimasti feriti, molti dovettero subire l’amputazione di arti.
Per giorni il mare restituì corpi interi e resti umani, molte vittime non furono mai ritrovate.

Alcuni si salvarono per qualche gioco del caso, che impedì loro di salire sullo Sperone come sarebbe stata loro intenzione. Il tarantino Marcello De Giorgi, ad esempio, avrebbe ricordato nel 75° anniversario della tragedia come il padre avesse perso l’imbarco sullo Sperone perché si attardatosi a prendere un pezzo di pane prima di correre sulla banchina: "Mio padre durante la seconda guerra mondiale era lì, giovanissimo marinaio arrivato da Pola. Un pomeriggio mentre stava finendo la misera cena, il rimorchiatore che portava a Taranto i marinai in libera uscita, fischiò tre volte la sua partenza. Allora lui saltò dal tavolo rinunciando a finire quel poco che c’era, portando con sé un pezzo pane, (all’epoca mangiare era una cosa difficile se non rara, anche per chi era nelle Forze Armate). Arrivato alla banchina vide il rimorchiatore con tutti i suoi amici e colleghi marinai che lo salutavano dalla poppa del rimorchiatore perchè a causa della sua perenne fame (figlio di un preposto alle tenute di campagna di un signorotto di Lecce, il cibo era sempre e comunque un lusso) per accaparrarsi una pagnotta aveva perso la libera uscita, e per tre giorni non ce ne sarebbe stata un’altra per lui, li avrebbe dovuti trascorrere sull'isola di San Pietro. Giratosi su sé stesso, iniziò a mangiare con rabbia quel pezzo di pane che gli aveva fatto perdere la libertà. Non arrivò al terzo boccone che sentì una fortissima esplosione: una mina scaricata nottetempo da una motozattera nazista lasciata partire dal porto di Taranto aveva affondato il rimorchiatore e tutti i suoi marinai, giovani di 18-20 anni e tanti altri. I pochissimi più fortunati rimasero mutilati per tutta la vita, quasi tutti non arrivarono mai più a Taranto dalle loro famiglie e dalle loro fidanzate e mogli. Lui lo “sfortunato” vivrà fino a 84 anni, di cui 49 passati nella Marina Militare sempre in divisa, sempre perfetta e ordinata e pulita, berretto bianco candido e scarpe nere lucide. Mai, dico mai ha gettato una briciola di pane, una volta lo vidi piangere per un pezzo di pane nelle immondizie, non lo capii. Oggi lo capisco, il pane che spezzo ogni giorno non è mio, la vita che vivo ogni giorno non è mia. Spesso il mio pensiero torna a quel racconto, di fame e speranza, morte e vita, giustizia e iniquità. Perché lui no e i suoi commilitoni sì, è dura sopravvivere agli altri; il tuo dovere verso di loro è vivere ogni giorno rispettando l'uomo che incontri e il pane che hai tutti i giorni. I disegni del futuro degli uomini sono imperscrutabili e incomprensibili oggi come ieri".
Similmente per un caso ebbe salva la vita Nicola Marangione, in servizio sull’isola di San Paolo: nei momenti in cui non era in servizio, Marangione occupava il tempo pescando con le nasse, insieme ad alcuni commilitoni. Quel 22 settembre lui ed i compagni avevano fatto buona pesca: le nasse erano piene di triglie, orate e pesci pettine; però da qualche tempo si erano accorti che “qualcuno” faceva ogni volta sparire parte del pescato. Per scovare il ladro, Marangione si trattenne sull’isola più a lungo del solito, rinunciando a prendere il rimorchiatore delle 13 come era solito fare. La moglie di Marangone, Caterina, era sfollata con la famiglia fuori città, nel paese di Cristiano, per sfuggire ai bombardamenti che avevano colpito Taranto durante quell’estate: fu lì che apprese qualche ora più tardi, da un panettiere della città vecchia che si recava nelle masserie della provincia per comprare la farina (e che sapeva che Marangione era in servizio a San Paolo), che il rimorchiatore sul quale andava a terra suo marito era esploso ed affondato. Colta dal terrore, la povera donna si precipitò a Taranto col furgone del panettiere: giunse nella città vecchia tra l’agitazione generale per la tragedia da poco accaduta, sentendo dire per strada che non si era salvato nessuno; piangendo raggiunse la propria casa, ed aperta la porta, trovò davanti a sé il marito, vivo e illeso, che fumava nervosamente, stringendo ancora nella mano il secchio del pesce che lo aveva salvato. “Era vivo per miracolo. Anzi no, era vivo per il pesce”. Nicola Marangione sarebbe vissuto fino a 83 anni suonati.

Tra il 9 ed il 24 settembre, dragamine italiani e britannici setacciarono ininterrottamente il Mar Grande, recuperando o distruggendo in totale 21 tra mine e bombe. Nel corso di queste operazioni, il 24 settembre, le mine tedesche provocarono un’ultima vittima: il motodragamine britannico MMS 70, saltato con la morte di venti uomini del suo equipaggio.

Una targa commemorativa in marmo apposta dalla Marina Militare su uno dei fabbricati dell’isola di San Pietro ricorda oggi la tragedia avvenuta poco distante. Il 22 settembre 2018, la Marina Militare vi ha commemorato il 75° anniversario dell’affondamento.

Le vittime:

Enrico Aveta, marinaio, deceduto
Giuseppe Barbera, capo nocchiere di seconda classe, deceduto
Angelo Basile, marinaio, deceduto
Giovanni Berlinghieri, marinaio, deceduto
Dante Bertulessi, sottocapo elettricista, deceduto
Cosimo Boccuni, marinaio, deceduto
Vincenzo Buonuomo, marinaio cannoniere, deceduto
Angelo Cafagna, milite MILMART, disperso (*)
Nicola Camera, marinaio cannoniere, disperso
Gaetano Capasso, 1° caposquadra/sergente maggiore MILMART, deceduto (*)
Berardino Capursi, milite della MILMART, disperso
Giovanni Caradonna, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Vincenzo Caravella, milite MILMART, disperso (*)
Giacomo Carelli, secondo capo S.D.T., deceduto (*)
Gustavo Cariddi, marinaio segnalatore, deceduto
Michele Casola, milite MILMART, deceduto (*)
Antonio Confessa, marinaio, deceduto
Pietro Conti Manzini, sottocapo cannoniere, disperso
Donato Cosenza, milite della MILMART, disperso
Umberto Cosimato, marinaio cannoniere, disperso
Angelo Currò, sergente nocchiere, disperso
Giordano Dandolo, marinaio, deceduto
Giovanni Antonio D’Apote, milite MILMART, deceduto (*)
Luigi D’Arco, milite MILMART, deceduto (*)
Michele De Giosa, milite MILMART, deceduto (*)
Alfredo De Marco, marinaio cannoniere, deceduto
Giuseppe De Martino, capo torpediniere di prima classe, deceduto
Luigi De Martino, marinaio, deceduto
Giuseppe De Salvo, marinaio torpediniere, deceduto
Procolo Di Roberto, milite MILMART, deceduto (*)
Andrea Di Turi, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Francesco Ercolani, capo cannoniere di terza classe, deceduto
Giovanni Ficarra, marinaio, disperso
Antonio Fischietti, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Renato Fornasani, marinaio cannoniere, deceduto
Ezio Frapporti, marinaio cannoniere, deceduto
Ferdinando Frulio, marinaio cannoniere, disperso
Luigi Fusco, marinaio cannoniere, disperso
Antonio Galeno, marinaio cannoniere, disperso
Francesco Gelao, milite MILMART, disperso (*)
Pietro Giancipoli, 1° caposquadra/sergente maggiore MILMART, disperso (*)
Giuseppe Gramegna, marinaio, deceduto
Rocca Graziano, milite MILMART, deceduto (*)
Antonio Guglielmo, marinaio cannoniere, deceduto
Saverio Iacobbi, milite MILMART, deceduto (*)
Giovanni Imperiali, milite MILMART, deceduto (*)
Francesco Iudica, sottocapo infermiere, deceduto
Donato Lamarina, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Salvatore Langellotto, milite MILMART, disperso
Giovanni Lecci, milite MILMART, disperso (*)
Alfredo Leva, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Francesco Lippo, marinaio, deceduto
Francesco Longo, milite MILMART, disperso (*)
Umberto Lorenzetti, marinaio, deceduto
Oreste Losano, marinaio fuochista, deceduto
Domenico Macina, milite MILMART, deceduto (*)
Emanuele Maio, marinaio, deceduto
Edoardo Mantini, milite MILMART, deceduto (*)
Carlo Mariani, milite MILMART, deceduto (*)
Guerrino Marzia, marinaio cannoniere, deceduto
Nicola Maselli, milite MILMART, deceduto (*)
Giuseppe Maugeri, marinaio fuochista, deceduto
Alvisio Mazzanti, marinaio fuochista, deceduto
Nicola Monno, sottocapo elettricista, deceduto
Angelo Motta, marinaio segnalatore, disperso
Domenico Noviello, milite MILMART, disperso
Bartolomeo Papa, secondo capo nocchiere, deceduto
Ulderico Pasqualini, marinaio cannoniere, deceduto
Vincenzo Pastore, milite MILMART, disperso (*)
Oreste Pianca, secondo capo motorista, disperso
Cornelio Rezzaghi, marinaio cannoniere, deceduto
Cataldo Ricchiuti, marinaio, disperso
Dorigo Rinaldi, marinaio, disperso
Giuseppe Rizzi, milite MILMART, deceduto (*)
Rosario Rizzo, marinaio, deceduto (*)
Giovanni Ruocco, marinaio cannoniere, deceduto
Raffaele Sanseverino, milite MILMART, deceduto (*)
Giuseppe Santorsola, milite MILMART, deceduto (*)
Filippo Scafo, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Francesco Sepcich, marinaio cannoniere, deceduto
Luigi Somma, marinaio cannoniere, deceduto
Antonio Sorrentino, secondo capo cannoniere, disperso
Domenico Spadaro, marinaio, disperso
Michele Stefania, guardia di Finanza, deceduto
Domenico Stoico, marinaio, deceduto
Vito Strambelli, milite MILMART, deceduto (*)
Nicola Tamburrano, milite MILMART, disperso (*)
Michele Toccagino, vice caposquadra/caporale maggiore MILMART, deceduto (*)
Felice Torromino, marinaio, deceduto
Raffaele Vallozzi, marinaio, disperso
Giuseppe Vinci, secondo capo cannoniere, disperso
Damiano Zanna, marinaio nocchiere, deceduto

I nomi contrassegnati da un asterisco (*) non sono esplicitamente menzionati nell’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale come imbarcati sullo Sperone, a differenza degli altri; tuttavia, essi risultano in servizio presso la base di Taranto e deceduti o dispersi in data 23 settembre 1943, pertanto non vi è dubbio sul fatto che siano morti nell’affondamento di questa unità. Mancano i nomi di sei vittime.