Il Freccia a Napoli, in una foto scattata il 5 maggio 1938 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Cacciatorpediniere
della classe omonima, nota anche come classe Dardo (dislocamento di 1520 tonnellate
standard, 1690 in carico normale e 2116 o 2200 a pieno carico).
La classe Freccia,
derivata dalla classe Turbine (lo scafo dei Freccia era una versione ingrandita
di quello della classe Turbine, in modo da ricavare nuovi serbatoi laterali per
il carburante: ne risultò soprattutto una maggiore larghezza, 9,75 metri contro
i 9,20 dei Turbine), avrebbe dovuto essere composta da otto unità, anche se le
differenze tra la prima e la seconda serie inducono molti a considerare
quest’ultima come una classe a sé stante, la classe Folgore.
La Regia Marina ne
decise la costruzione con il programma navale del 1928, quattro anni dopo l’impostazione
dei Turbine, mentre questi ultimi si apprestavano ad entrare in servizio; prima
di procedere alla costruzione di nuovi cacciatorpediniere da essi derivati,
infatti, l’alto comando della Marina volle aspettare di vedere i risultati
delle prove in mare dei Turbine. Dopo che queste ebbero dato risultati
positivi, si decise dunque di impostare una nuova classe di cacciatorpediniere
che riprendesse e migliorasse le caratteristiche dei Turbine.
Il progetto avanzato
dai cantieri Odero Terni Orlando di Genova (che costruirono Dardo e Strale, mentre Freccia e Saetta furono costruiti dai Cantieri del
Tirreno di Riva Trigoso), che prevedeva delle navi più lunghe di due metri
rispetto ai Turbine (95,9 metri), con un dislocamento maggiore (oltre 2000
tonnellate a pieno carico) ed armate con quattro cannoni Ansaldo da 120/50 mm
Mod. 1926 in due impianti binati (più moderni, potenti ed efficaci dei 120/45
usati sui Turbine, ed analoghi a quelli imbarcati sui più grandi esploratori
della classe Navigatori, all’epoca in costruzione), fu scelto come miglior
proposta, subendo poi varie modifiche nel corso dei lavori, che ritardarono di
circa un anno il completamento delle navi. L’obiettivo era di ottenere delle
navi più veloci e con maggior autonomia rispetto ai Turbine (grazie ad un
apparato motore più potente), oltreché armati con cannoni più moderni; in grado
sia di operare con le navi maggiori contro forze navali nemiche (a questo scopo
occorrevano maggiori autonomia e velocità, alla pari con quelle dei nuovi
incrociatori in fase di completamento, che i Freccia avrebbero dovuto
accompagnare in battaglia: alcune fonti precisano che i Freccia avrebbero
dovuto operare insieme agli incrociatori pesanti della classe Zara, mentre
altra fonte parla di “nuovi incrociatori in grado di raggiungere i 40 nodi”,
che sembrerebbe piuttosto un riferimento agli incrociatori leggeri della serie
Condottieri), sia di partecipare ad attacchi siluranti notturni nel Canale di
Sicilia insieme alle nuove torpediniere classe Spica, allora in fase di
progettazione.
Vennero dunque
ordinati otto nuovi cacciatorpediniere, da costruire in due serie, per il 1929
ed il 1930; costo unitario di contratto 13.600.000 lire.
(g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
La più vistosa
differenza rispetto alle classi precedenti era costituita dal fumaiolo: uno
solo, per la prima volta sui cacciatorpediniere della Regia Marina, anziché
due, nel quale venivano ora convogliati tutti e tre i condotti delle caldaie.
In tal modo, sarebbe stato possibile ridurre l’ingombro delle sovrastrutture,
ottenere una migliore disposizione dell’armamento contraereo ed ampliare il
campo di tiro dei complessi da 120 mm e delle mitragliere contraeree. Mentre
fino ai Freccia tutti i cacciatorpediniere italiani avevano avuto due o più
fumaioli (e nelle fasi iniziali anche il progetto dei Freccia prevedeva due
fumaioli: fu modificato durante la costruzione), dopo i Freccia tutte le classi
costruite per la Regia Marina furono caratterizzate da un unico, tozzo fumaiolo,
caratteristica distintiva delle siluranti italiane rispetto a quelle delle
altre principali Marine dell’epoca. Secondo una fonte, i Freccia sarebbero anzi
stati i primi cacciatorpediniere al mondo ad essere dotati di un unico
fumaiolo.
I Freccia furono
inoltre caratterizzati da una plancia piuttosto ampia, di forma diversa
rispetto a quella della precedente classe Turbine, e da una stazione di
direzione del tiro secondaria situata sopra una piccola tuga tra gli impianti
lanciasiluri. L’armamento contraereo consisteva in due mitragliere singole da
40/39 mm e quattro Breda da 13,2 mm, sostituite nel 1939-1940 con 5 o 6 più
moderne mitragliere da 20/65 mm (al contempo, vennero installati due
lanciabombe per bombe di profondità). L’armamento silurante era composto da sei
tubi lanciasiluri da 533 mm in due impianti trinati (analogamente ai Turbine);
per la direzione del tiro, i Freccia erano muniti di torretta telemetrica
“Duplex” prodotta dalle officine San Giorgio.
Il Freccia in una foto aerea scattata a fine 1931, quando ancora era privo degli scudi dei cannoni (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net). Questa foto fu poi modificata, dai fotografi dell’epoca, per “ricavarne” fotografie dei gemelli del Freccia, vendute come cartoline. |
Durante la
costruzione venne deciso di modificare il dritto di prua rendendolo più arcuato,
“a clipper” (o “a schooner”), per rendere il ponte di prua meno esposto agli
spruzzi delle onde, ma tale modifica poté essere apportata soltanto su Freccia e Saetta, perché Dardo e Strale si trovavano già in fase di
costruzione troppo avanzata per poterlo fare, e mantennero dunque una prua con
taglio sub-verticale (ne conseguì una differente lunghezza fuori tutto, 96,2
metri su Freccia e Saetta contro 94,1 su Dardo e Strale, a fronte di una lunghezza tra le perpendicolari di 92,2
metri su tutti e quattro). Il dritto di prora “a schooner” divenne poi una
caratteristica costante delle successive classi di cacciatorpediniere italiani.
L’apparato motore,
più potente rispetto alle classi precedenti, consisteva in due gruppi
turboriduttori Parsons della potenza di 44.000 HP (con un aumento di 4000 HP rispetto
ai Turbine, per sviluppare la maggior velocità necessaria a “tenere il passo”
degli incrociatori), alimentati da tre caldaie Thornycroft. Durante le prove in
mare vennero raggiunte velocità notevolissime, dell’ordine di 38-39 nodi (fu
proprio il Freccia a raggiungere la
velocità massima della classe, 39,43 nodi con 46.000 HP), ma – com’era uso
comune nella Regia Marina – in condizioni di carico leggerissimo, e dunque
inverosimili: in condizioni operative la velocità massima si assestò su un più
ordinario valore di 30-31 nodi. Con una riserva di 640 tonnellate di nafta,
l’autonomia risultò di 4600 miglia a 12 nodi, 2000 a 20 e 680 a 32 nodi.
Le prove in mare,
tuttavia, rivelarono che i Freccia risentivano di seri problemi di stabilità
trasversale, e più in generale di tenuta del mare, derivanti dall’aggiunta dei
serbatoi laterali e dal maggior peso dell’armamento e degli apparati per la
direzione del tiro. Ciò costrinse ad intervenire già poco dopo il completamento
con l’imbarco di 90 tonnellate di zavorra (60 sotto i locali caldaie e 30 sotto
le turbine poppiere) nelle alette antirollio, che per questo scopo dovettero
essere allargate di una decina di centimetri, e con la riduzione dei pesi
situati nei livelli superiori delle sovrastrutture. Quest’ultimo provvedimento
incluse l’eliminazione di due delle tre ‘gambe’ dell’albero a tripode,
l’abbassamento del fumaiolo, lo spostamento delle due mitragliere da 40 mm dal
cielo della tuga (a poppavia del fumaiolo) al ponte di coperta ai lati della
tuga stessa (il che però andò a ridurre i vantaggi derivanti dall’adozione di
un singolo fumaiolo) e lo sbarco dei proiettori (oppure l’abbassamento il
proiettore principale, che fu spostato più in basso sopra la timoniera), anche
se quest’ultimo provvedimento non fu effettuato su tutte le navi. Venne altresì
modificata la disposizione di alcuni depositi di nafta.
(Secondo "Destroyers
of World War Two: An International Encyclopedia" di M. J. Whitley, i Freccia
ebbero anche problemi di affidabilità dell’apparato motore).
L’aggiunta della
zavorra (per un peso pari al 7,3 % del dislocamento standard originario), che
fece salire il dislocamento standard dalle originarie 1225 tonnellate ad oltre
1400, andò però ad influire negativamente sulla velocità massima, che a pieno
carico risultò inferiore a quella dei Turbine; ed i problemi di stabilità non
furono mai del tutto risolti, come dimostrato dal tragico incidente del Dardo che, nel settembre 1941, si
capovolse in porto a Palermo dopo essere stato alleggerito prima di entrare in
bacino per dei lavori. I problemi di stabilità risultavano particolarmente
gravi quando i serbatoi laterali erano vuoti o quasi, il che costrinse a
ridurre il consumo di carburante, durante la navigazione, lasciando sempre una
parte della nafta nei serbatoi, con la conseguenza di ridurre l’autonomia
rispetto a quella che sarebbe stata consentita dal pieno sfruttamento delle
riserve di nafta. Successivamente si passò ad immettere acqua di mare nei
serbatoi della nafta man mano che questa si esauriva, in modo da mantenere il
peso, ma tale provvedimento portò alla contaminazione del carburante da parte
dell’acqua di mare, deteriorando la qualità della nafta.
In definitiva, le
navi della classe Freccia non soddisfecero appieno le aspettative iniziali, e
continuarono ad avere una eccessiva tendenza al rollio per tutta la loro vita
operativa, anche se rispetto ai Turbine rappresentarono un miglioramento in
termini di autonomia e manovrabilità. “Frutto
di troppi compromessi e ripensamenti”, risultarono delle unità deludenti,
ma furono quanto meno un’utile esperienza per la progettazione delle successive
classi di cacciatorpediniere, che a partire dai Maestrale (modificati durante
la costruzione, che fu per questo prolungata, proprio in seguito ai risultati
delle prime prove in mare dei Freccia) eliminarono i difetti dei Freccia (scarsa
robustezza, stabilità e qualità marine) mantenendone invece i vantaggi (eccellente
manovrabilità, equilibrata distribuzione dell'armamento, robustezza della
costruzione).
Il Freccia con altre unità della sua classe (Naval History and Heritage Command, via g.c. Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
Dalla classe Freccia
venne derivata la classe Hydra di quattro unità, costruita nei cantieri OTO di
Livorno nel 1930-1932 per la Marina ellenica: queste unità si distinguevano dai
Freccia soprattutto per la diversa disposizione dei pezzi da 120 mm, in
impianti singoli anziché binati. Anche la Marina sovietica basò sui Freccia due
classi di suoi cacciatorpediniere, i ‘Progetto 7’ (o classe Gnevny) ed i ‘Progetto
7U’ (o classe Storozhevoy), e quella turca fece costruire in Italia la classe Tinaztepe,
anch’essa derivata dai Freccia con varie modifiche (a partire dai fumaioli, che
erano due anziché uno).
La classe sembra
essere variabilmente chiamata Dardo o Freccia, probabilmente perché il Dardo fu la prima unità ad essere
impostata (23 gennaio 1929), ma il Freccia
(terzo ad essere impostato) fu la prima ad essere varata (3 agosto 1930) e ad
entrare in servizio (2 ottobre 1931, mentre le altre tre unità entrarono in
servizio nel 1932), il che genera un po’ di confusione su quale dei due debba essere
considerato capoclasse.
Le unità delle classi
Freccia e Folgore sono considerate come la tappa finale dell’evoluzione dei
cacciatorpediniere italiani negli anni Venti, dopo la quale non era più
possibile un ulteriore miglioramento; i successivi Maestrale furono infatti una
classe del tutto diversa.
Nel 1938-1939 le
unità della classe Folgore e poi anche quelle della classe Freccia vennero
modificate con lo spostamento delle cubie delle ancore al montante del castello
dalla loro posizione originaria, situata più in basso. Contemporaneamente, i Freccia
ricevettero un’"unghia" sul fumaiolo, uguale a quello che i quasi
gemelli della classe Folgore avevano fin dalla costruzione, allo scopo di
impedire al fumo di disturbare l’equipaggio al centro ed a poppa: provvedimento
reso necessario dal precedente abbassamento del fumaiolo, effettuato per
ridurre i problemi di stabilità.
Freccia e Dardo, ultimi
superstiti della classe, sbarcarono a inizio 1943 uno dei due impianti
lanciasiluri trinati, quello poppiero, che venne sostituito con una plancetta
con due mitragliere contraeree singole Breda da 37/54 mm (vennero altresì
installate altre tre mitragliere binate da 20 mm).
Nella seconda metà
degli anni Trenta si progettò di allargare lo scafo dei Freccia per migliorarne
autonomia e stabilità, come fatto sui Navigatori, ma la loro continua attività
(prima durante la crisi etiopica del 1935 e poi durante la guerra civile
spagnola) portò a procrastinare questo intervento per anni, e lo scoppio della
seconda guerra mondiale pose definitivamente fine a questo progetto.
Il Freccia (secondo da sinistra) a Gaeta nel 1935 insieme a Strale, Fulmine, Lampo, Folgore e Baleno (Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
Tra la fine degli
anni Trenta ed i primi mesi di guerra i Freccia furono impiegati con la squadra
navale ma, data la loro limitata velocità massima (ormai, anche per via del
logorio derivante da otto anni di servizio, stentavano a raggiungere i 30 nodi),
poterono soltanto operare con le corazzate più lente (Cesare e Cavour); la loro
non grande autonomia, la non eccezionale tenuta del mare e le frequenti avarie
di macchina, ad ogni modo, portarono ben presto alla loro totale esclusione
dall’attività di squadra, destinandoli entro la fine del 1940 esclusivamente a
compiti di scorta convogli (benché privi di ecogoniometro e dotati di un
armamento antiaerei ed antisommergibili piuttosto modesto, che risultava difficile
potenziare perché l’aggiunta di pesi – ovvia conseguenza dell’imbarco di
ulteriori armi – ne riduceva la sempre delicata stabilità). I problemi di
stabilità ne preclusero invece ogni impiego per compiti di posa mine.
Nonostante le loro non
eccelse qualità, i cacciatorpediniere di questa classe svolsero dunque un
intensissimo servizio sia in pace che in guerra, e furono tra i più attivi
sulle rotte nordafricane, tanto che metà dei Freccia e tutti i Folgore andarono
perduti in quelle acque tra il 1941 ed il 1943; Freccia e Dardo furono
gli unici superstiti di quella rotta, ma la loro esistenza fu prolungata
soltanto di pochi mesi.
Distintivo del Freccia (g.c. Carlo Di Nitto, via www.naviearmatori.net) |
Durante la seconda
guerra mondiale il Freccia eseguì 167
missioni di guerra (87 di scorta convogli, 6 di ricerca del nemico, 9 di caccia
antisommergibili, due di trasporto, undici per esercitazioni, 34 di
trasferimento, 18 di altro tipo), una di meno del Saetta, percorrendo complessivamente 49.114 (per altra fonte 68.062)
miglia nautiche e passando 4867 ore in mare e 214 (o 344) giorni ai lavori. (Altra
fonte invece afferma che il Freccia
avrebbe svolto 165 missioni di guerra – 92 di scorta convogli, 7 di squadra, 5
di caccia antisommergibili, una di trasporto, 16 per esercitazioni, 44 di
trasferimento o di altro tipo – ed il Saetta
163, il che farebbe del Freccia la
nave più attiva della sua classe).
Il motto del Freccia, tratto da una canzone di
Gabriele D’Annunzio, era “deliberata di toccare il segno”.
Breve e parziale cronologia.
20 febbraio 1929
Impostazione presso i
Cantieri Navali del Tirreno di Riva Trigoso (Genova) (numero di costruzione
107).
3 agosto 1930
Varo presso i
Cantieri Navali del Tirreno di Riva Trigoso.
Durante le prove in
mare raggiunge una velocità massima di 39,43 nodi, così risultando la nave più
veloce della classe. Tale velocità, comunque, non sarà mai raggiunta in normali
condizioni operative.
Quattro
immagini del varo del Freccia (sopra:
da www.marina.difesa.it e da
www3.comune.sestri-levante.ge; sotto: cartoline fotografiche dei cantieri di
Riva Trigoso, via Nedo B. Gonzales e www.naviearmatori.net)
2 o 21 ottobre 1931
Entrata in servizio.
1932
Il Freccia forma con i gemelli Dardo, Saetta e Strale, appena
entrati in servizio, la VII Squadriglia Cacciatorpediniere, della quale è
caposquadriglia.
Freccia (a destra), Dardo (al centro) e Saetta (a sinistra) sotto accostata durante un’esercitazione nel Golfo di Gaeta, nella prima decade del luglio 1933 (g.c. Carlo Di Nitto, via www.naviearmatori.net) |
25 giugno 1933
Riceve a Porto Santo
Stefano la bandiera di combattimento, offerta dalla provincia di Grosseto.
Il Freccia a Montecarlo a metà anni Trenta
(Coll. Francesco Bucca e Maurizio Brescia via www.associazione-venus.it)
1934
Il Freccia fa parte della I
Squadriglia Cacciatorpediniere con i gemelli Dardo, Saetta e Strale. La I Squadriglia, insieme alla
II (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno) forma
la 1a Flottiglia Cacciatorpediniere (conduttore
l’esploratore Antonio Pigafetta),
inquadrata nella 1a Squadra Navale.
Freccia e Saetta (sulla sinistra) a Gaeta nel 1935-1936; sulla destra si distinguono gli incrociatori pesanti Trento, Gorizia, Trieste e Fiume (Coll. Massimo Coccoloni, via www.associazione-venus.it) |
Febbraio 1935
Imbarca sul Freccia, come palombaro della flottiglia,
il marinaio palombaro Mario Marino, futura Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Marino resterà sul Freccia per un
anno.
In questo perido è
comandante del Freccia e della VII
Squadriglia Cacciatorpediniere il capitano di vascello Giuseppe Fioravanzo.
Giuseppe Fioravanzo in divisa da ammiraglio (USMM) |
1° novembre 1936
Tre mesi dopo lo
scoppio della guerra civile spagnola, il Freccia
ed il resto della VII Squadriglia Cacciatorpediniere, che esso
(caposquadriglia) forma insieme a Dardo,
Saetta e Strale, vengono trasferiti a Trapani su ordine dell’Ufficio di Stato
Maggiore della Marina, nel quadro dei provvedimenti presi dall’Italia per
provvedere alla sorvegliaza aeronavale nel Canale di Sicilia contro il naviglio
sovietico che dal Mar Nero trasporta rinforzi e rifornimenti destinati alla
Spagna repubblicana. Il 27 ottobre lo Stato Maggiore della Regia Marina ha
ordinato al Comando Marina di Messina di dare inizio ad una serie di crociere
nel Canale di Sicilia, con l’obiettivo di controllare l’eventuale passaggio di
mercantili diretti in porti repubblicani con carichi di materiale bellico.
Tale decisione è
stata presa dai vertici della Marina italiana dopo la notizia, diffusa da
un’agenzia internazionale, della partenza dal Mar Nero di 27 trasporti con a
bordo un corpo di spedizione di 20.000 soldati sovietici completamente
equipaggiati, diretti in Spagna per appoggiare le forze repubblicane. La
notizia, che si rivelerà essere del tutto falsa, sembra essere confermata dalle
voci che girano in campo repubblicano e da informazioni ricevute dalle autorità
britanniche di Gibilterra; il 29 ottobre generale Francisco Franco, uno dei
principali capi della fazione nazionalista, scrive ai governi italiano e
tedesco che "Questo corpo esercito
russo per arrivare Spagna attraverso Mediterraneo, deve passare per gli stretti
del sud Italia, dove può essere fermato dalla squadra italiana di mare et aria,
obbligandolo ritornare indietro. Perciò est necessario et molto urgente
ottenere l’aiuto marittimo italiano per evitare l’arrivo di materiali da guerra
nei nostri [sic] porti e, ciò che est
più importante et efficace, lo sbarco di eserciti organizzati. Ritardo nella
prestazione quest’aiuto marittimo permetterebbe arrivo, in breve tempo, di gran
numero di truppe et di materiali da guerra con tutte le sue possibili
gravissime conseguenze. Di fronte questi fatti, in parte già consumati [sic],
occorre conoscere fino a che punto
arriverà l’aiuto della nazione italiana poiché le nostre [possibilità], non si estendono alla lotta contro
l’esercito russo in massa, che nel mare può essere facilmente battuto e che,
sbarcato crea un gravissimo problema. Conviene segnalare l’estrema urgenza di
queste notizie perché a Codesto Governo certo non sfugge che se questi vapori
[?] dovessero dare luogo ad una lotta
aperta et dichiarata contro la Russia, non conviene permettere che detta
nazione prenda dei vantaggi et collochi strategicamente i suoi corpi di
esercito et armate aeree, facendo uso, tra le altre, di una base tanto forte et
bene difesa come Cartagena, luogo fino ad ora preferito dai Russi per lo sbarco
loro materiale da guerra. Si prega una urgente risposta". Per la
verità, né il generale Mario Roatta (capo della missione militare italiana in
Spagna e latore del messaggio di Fanco) né lo stesso Franco sono
particolarmente convinti della veridicità della notizia sull’invio in Spagna di
un corpo di spedizione sovietico, ma Franco ritiene che l’URSS sia “troppo direttamente interessata”
all’esito della guerra civile in Spagna, fino al punto di “compiere atti normalmente incredibili” per consentire una vittoria
repubblicana, anche “costo di provocare
una grande guerra”.
Questi provvedimenti
rappresentano di fatto la prima misura concreta adottata dall’Italia fascista a
favore della fazione nazionalista nella guerra civile. Durante queste missioni
di vigilanza, vari cacciatorpediniere italiani avvisteranno effettivamente
diverse navi di varie nazionalità in navigazione verso ovest, compresi alcuni
piroscafi sovietici che in coperta portano cassoni che sembrano contenere
materiale militare.
26 novembre 1936
Il Freccia partecipa ad una rivista navale
tenuta nel Golfo Napoli in onore del reggente d’Ungheria, ammiraglio Miklós
Horthy.
Il Freccia durante la rivista navale del 26 novembre 1936 (Archivio Luce) |
Fine maggio 1937
Freccia, Dardo, Saetta e Strale (che formano la VII Squadriglia Cacciatorpediniere) scortano
a Palma di Maiorca l’incrocitore pesante Bolzano,
inviato nell’isola per recuperare le salme di sei ufficiali dell’incrociatore
ausiliario Barletta, uccisi da un
bombardamento aereo repubblicano mentre la loro nave si trovava in quel porto
(ov’era stata dislocata per agire contro il traffico repubblicano) il 25
maggio. Le salme saranno poi trasportate a Napoli, dove riceveranno solenni
funerali.
Agosto-Settembre 1937
Durante la guerra
civile spagnola, il Freccia partecipa,
con altre unità (incrociatori leggeri Luigi
Cadorna ed Armando Diaz,
cacciatorpediniere Dardo, Saetta, Strale, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea,
torpediniere Cigno, Climene, Centauro, Castore, Altair, Aldebaran, Andromeda, Antares) al blocco del Canale di
Sicilia, per impedire l’invio di rifornimenti dall’Unione Sovietica (Mar Nero)
alle forze repubblicane spagnole. Mussolini ha preso tale decisione a seguito
di richieste da parte dei comandi spagnoli nazionalisti, i quali sostengono,
esagerando di molto, che l’Unione Sovietica stia per rifornire le forze repubblicane
spagnole con oltre 2500 carri armati, 3000 “mitragliatrici motorizzate” e 300
aerei. Il 3 agosto Francisco Franco ha chiesto urgentemente a Mussolini di
usare la sua flotta per fermare un grosso “convoglio” sovietico appena partito
da Odessa e diretto nei porti repubblicani; sulle prime era previsto il solo
impiego di sommergibili, ma Franco è riuscito a convincere Mussolini ad
impiegare anche le navi di superficie. Nel suo telegramma Franco afferma: «Tutte le informazioni degli ultimi giorni concordano nell’annunciare un aiuto
possente della Russia ai rossi, consistente in carri armati, dei quali 10
pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri (sic),
3 000 mitragliatrici motorizzate, 300 aerei e alcune decine di mitragliatrici
leggere, il tutto accompagnato da personale e organi del comando rosso.
L’informazione sembra esagerata, poiché le cifre devono superare la possibilità
di aiuto di una sola nazione. Ma se l’informazione trovasse conferma,
bisognerebbe agire d’urgenza e arrestare i trasporti al loro passaggio nello
stretto a sud dell’Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna. Per far ciò,
bisogna, o che la Spagna sia provvista del numero necessario di navi o che la
flotta italiana intervenga ella stessa. Un certo numero di cacciatorpediniere
operanti davanti ai porti e alle coste dell’Italia potrebbe sbarrare la rotta
del Mediterraneo ai rinforzi rossi: la cattura potrebbe essere effettuata da
navi battenti apertamente bandiera italiana, aventi a bordo un ufficiale e
qualche soldato spagnolo, che isserebbero la bandiera nazionalista spagnola al
momento stesso della cattura. Invierò d’urgenza un rappresentante a Roma per
negoziare questo importante affare. Nell’intervallo, e per impedire l’invio
delle navi che saranno già in rotta per la Spagna, prego il governo italiano di
sorvegliare e segnalare la posizione e la rotta delle navi russe e spagnole che
lasciano Odessa. Queste navi devono essere sorvegliate e perquisite da
cacciatorpediniere italiani che segnaleranno la loro posizione alla nostra
flotta. Vogliate trasmettere in tutta urgenza al Duce e a Ciano l’informazione
di cui sopra e la nostra richiesta, unita all’assicurazione dell’indefettibile
amicizia e della riconoscenza del generalissimo alla nazione italiana».
Il blocco navale,
mirato ad intercettare nel Canale di Sicilia il traffico mercantile diretto nei
porti repubblicani della Spagna, viene ordinato da Roma il 7 agosto ed ha
inizio due giorni più tardi; oltre ai sommergibili, inviati sia al largo dei
Dardanelli che lungo le coste della Spagna, prendono inizialmente il mare gli
incrociatori Diaz e Cadorna, otto cacciatorpediniere (i
quattro della VII Squadriglia, di cui è caposquadriglia il Freccia, ed i quattro della Squadriglia "Zeffiro") ed
altrettante torpediniere (quattro della Squadriglia "Cigno" e quattro della Squadriglia "Altair") che si
posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le coste del Nordafrica francese. In
termini di aree sottoposte a sorveglianza aeronavale, questa operazione è molto
più vasta rispetto al precedente blocco intrapreso tra la fine del 1936 e
l’inizio del 1937, in quanto va a coprire tutte le zone obbligate di passaggio
del traffico marittimo nel Mediterraneo: non si vuole colpire soltanto il
traffico proveniente dal Mar Nero, ma anche quello dal Nordafrica francese e da
porti extra-mediterranei. L’ordine è di attaccare col siluro i mercantili
riconosciuti sicuramente come repubblicani o sovietici, il che risulta spesso
difficile in quanto molte delle navi impiegate nel traffico verso la Spagna
repubblicana usano bandiere “neutrali”, specie quella britannica. Cacciatorpediniere
e torpediniere operano in cooperazione con quattro sommergibili ed un sistema
di esplorazione aerea a maglie strette (idrovolanti dell’83° Gruppo
Ricognizione Marittima, di base ad Augusta) e sono alle dipendenze
dell’ammiraglio di divisione Riccardo Paladini, comandante militare marittimo
della Sicilia; successivamente verranno avvicendati da altre siluranti e dalla
IV Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando Diaz, Alberto Di
Giussano, Luigi Cadorna, Bartolomeo Colleoni, al comando
dell’ammiraglio Pietro Barone). Sono complessivamente ben 40 le navi mobilitate
per il blocco: i quattro incrociatori della IV Divisione, l’esploratore Aquila, dieci cacciatorpediniere tra cui
il Freccia (gli altri sono Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Lampo, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea), 24
torpediniere (Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La Masa, Generale Carlo Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare
Abba, Generale Achille Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe Missori
e Monfalcone) e la nave
coloniale Eritrea; l’arrivo di
queste unità permette di intensificare il servizio di pattugliamento e di estenderlo
anche ad est del Canale di Sicilia e lungo le coste nordafricane. Altre due
navi, gli incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta, camuffati da spagnoli Lago e Rio, hanno l’incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati
dalle navi da guerra in crociera.
Il dispositivo di
blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all’Alto
Comando Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di
operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle
in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all’uscita dei
Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono
segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di
Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche
questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali)
troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della
Tunisia e dell’Algeria, tra La Galite e Capo Tenes. Infine, come ultima
barriera per i bastimenti che riuscissero ad eludere anche tale minaccia, altri
sommergibili sono in agguato lungo le coste della Spagna. Nei primi giorni del
blocco sono molto attivi i cacciatorpediniere di base ad Augusta.
In base all’ordine
generale d’operazioni numero 1, gli incrociatori, l’Eritrea e parte dei cacciatorpediniere devono compiere esplorazione
pendolare sul meridiano 16° E, cooperando con gli aerei da ricognizione che
conducono esplorazione sistematica per parallelo; altri cacciatorpediniere
formano uno sbarramento esplorativo tra Lampedusa e le propaggini meridionali
del banco di Kerkennah (nei pressi di Sfax), mentre le torpediniere conducono
esplorazione a rastrello tra Pantelleria e Malta, lungo l’asse del Canale di
Sicilia. Adriatico/Lago e Barletta/Rio compiono
esplorazione a triangolo presso Capo Bon; Aquila,
Fabrizi, Missori, Montanari, Monfalcone, Nievo, Papa e La Masa compiono vigilanza sistematica
nello stretto di Messina.
Il blocco si protrae
dal 7 agosto al 12 settembre con intensità variabile; nel periodo di maggiore
attività sono contemporaneamente in mare nel Canale di Sicilia 12 navi di
superficie, 5 sommergibili e 6 aerei. Gli ordini per le navi di superficie sono
di avvicinare e riconoscere tutti i mercantili avvistati, specialmente quelli
privi di bandiera (e che non la issano subito dopo averne ricevuto
l’intimazione dalle unità italiane), quelli che di notte procedono a luci
spente, quelli con bandiera sovietica o spagnola repubblicana, quelli che hanno
in coperta carichi di natura palesemente militare, e quelli che sono stati
specificamente indicati per nome dal Comando Centrale. Se un mercantile viene
riconosciuto come al servizio della Spagna repubblicana, la nave italiana che
l’ha avvistato deve seguirlo e segnalarlo al sommergibile più vicino, che dovrà
poi procedere ad affondarlo. Se quest’ultimo fosse impossibilitato a farlo,
spetterebbe alla nave di superficie il compito di seguire il mercantile fino a
notte, tenendosi in contatto visivo, per poi silurarlo una volta calata
l’oscurità. I piroscafi identificati come “contrabbandieri” di notte devono
invece essere subito affondati. Se venisse incontrato un mercantile
repubblicano a grande distanza dalle acque territoriali della Tunisia, la nave
che lo avvista deve chiamare sul posto uno tra Rio e Lago oppure una
nave da guerra spagnola nazionalista (parecchie di queste sono appositamente
dislocate nel Mediterraneo centrale) che provvederanno a catturarlo. Ordini
tassativi sono emanati per evitare interferenze o incidenti con bastimenti
neutrali (il che talvolta obbliga a seguire un mercantile “sospetto” per tutto
il giorno al fine di identificarlo, dato che talvolta quelli diretti nei porti
repubblicani usano bandiere false), e questo, insieme all’intensità del
traffico navale nel Canale di Sicilia, rende piuttosto complessa e delicata la
missione delle navi che partecipano al blocco.
Il Freccia, che batte l’insegna del
capitano di vascello Ernesto Pacchiarotti (comandante della VII Squadriglia
Cacciatorpediniere), opera dalla base di Augusta; le disposizioni emanate il 7
agosto dal Comando Militare Marittimo della Sicilia prescrivono tra l’altro che
«Il C.T. Freccia la VII Squadr. CC.TT. e
la II Squadr. CC.TT. dislocate ad Augusta assicureranno il servizio di
esplorazione di sbarramento nei tratti di mare compresi: fra l’estremo Nord-Est
del Banco di Kerkenah e Lampedusa; (…) Recandosi
alle basi alle zone di vigilanza e rientrando, le Unità si mantengano
per quanto possibile lontane dalle zone di agguato dei Smg. (…) La crociera delle Unità di superficie sia mantenuta a luci accese. (…) I Comandanti del C.T. Freccia e della Torp. Cigno assumeranno la direzione del servizio stesso, rispettivamente per le Unità dislocate ad Augusta e Trapani».
per quanto possibile lontane dalle zone di agguato dei Smg. (…) La crociera delle Unità di superficie sia mantenuta a luci accese. (…) I Comandanti del C.T. Freccia e della Torp. Cigno assumeranno la direzione del servizio stesso, rispettivamente per le Unità dislocate ad Augusta e Trapani».
Nei primi giorni del
blocco sono particolarmente attivi proprio i cacciatorpediniere di base ad
Augusta. Dopo i primi successi, però, ci si rende conto che il sistema di
vigilanza nel Canale di Sicilia non funziona come dovrebbe: diversi piroscafi
al servizio dei repubblicani lo aggirano avvicinandosi di giorno ai settori in
cui incrociano le navi italiane, aspettando il buio per entrare nelle acque
territoriali della Tunisia e poi attraversare la zona di maggior pericolo
seguendo la costa, o sostando nei porti francesi in attesa dell’alba. Di
conseguenza, il Comando della Regia Marina dispone delle crociere di
cacciatorpediniere nella fascia costiera compresa tra 10 e 30 miglia dalla
costa tunisina tra Capo Tenes e La Galite, per completare il dispositivo
esistente.
Il blocco navale così
organizzato (del tutto illegale, dato che l’Italia non è formalmente in guerra
con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi
effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche, l’elevato
rischio comportato dalla traversata a causa del blocco italiano porta in breve
tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica
alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera
britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche
navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona
col favore della notte. Entro settembre, l’invio di mercantili con rifornimenti
per i repubblicani dall’Unione Sovietica attraverso il Bosforo è praticamente
cessato, tanto che i comandi italiani si possono ormai permettere di ridurre di
molto il numero di navi in mare per la vigilanza, essendo quest’ultima sempre
meno necessaria e non volendo provare troppo le navi in una zona dove c’è spesso
maltempo con mare grosso. Ad ogni modo, le navi assegnate al blocco vengono
mantenute nelle basi siciliane, pronte a riprendere il mare qualora dovesse
manifestarsi una ripresa nel traffico verso la Spagna.
Oltre alla grave
crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si verifica proprio nel
momento cruciale della conquista nazionalista dei Paesi Baschi (principale
centro di produzione di armi tra le regioni in mano repubblicana), il blocco ha
un impatto notevole anche sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione
civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di procurarsi beni di
prima necessità) quanto nei vertici politico-militari, che si rendono conto di
come, mentre i nazionalisti ricevono dall’Italia supporto incondizionato,
persino sfacciato, con largo dispiego di mezzi, Francia e Regno Unito non
sembrano disposte a fare molto più che parlare in aiuto alla causa repubblicana
(in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte manifestazioni contro
queste due nazioni, da cui i repubblicani si sentono abbandonati).
Il blocco italiano
impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani, ma scatena anche gravi
tensioni internazionali (specie col Regno Unito) e feroci proteste sulla stampa
spagnola repubblicana ed internazionale, con accuse di pirateria – essendo,
come detto, un’operazione in totale violazione di ogni legge internazionale –
nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston Churchill. Il
governo britannico, invece, evita di accusare apertamente l’Italia, dato che il
primo ministro Neville Chamberlain intende condurre una politica di
“riavvicinamento” verso l’Italia per allontanarla dalla Germania; anche questo
fa infuriare i repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del
coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono già, dato
che l’Operational Intelligence Center dell’Ammiragliato intercetta e decifra
svariate comunicazioni italiane relative alle missioni “spagnole”), solo per
vedere questi ultimi fingere di attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti
spagnoli.
Nel settembre 1937
Francia e Regno Unito organizzeranno la Conferenza di Nyon per contrastare la
“pirateria sottomarina”: gli occhi di tutti sono puntati sull’Italia, anche se
questa non viene accusata direttamente (tranne che dall’Unione Sovietica,
ragion per cui l’Italia, sebbene invitata, rifiuta di partecipare alla
conferenza). Se ufficialmente i britannici non parlano apertamente di
coinvolgimento italiano, attraverso i canali diplomatici questi fanno pervenire
al ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, l’irritazione per alcuni
incidenti che hanno coinvolto proprio navi britanniche (il cacciatorpediniere
HMS Havock è stato attaccato,
ancorché senza risultato, dal sommergibile italiano Iride), ragion per cui il 12 settembre si decide di sospendere il
blocco per non incrinare le relazioni con il Regno Unito. Nel periodo 7
agosto-12 settembre, le navi italiane hanno avvicinato e identificato ben 1070
bastimenti mercantili, di svariate nazionalità. Da questo momento, sarà
incombenza unicamente della Marina franchista impedire che altri rifornimenti
raggiungano i porti repubblicani.
Il Freccia a metà anni Trenta (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it) |
14 agosto 1937
In mattinata il Freccia (capitano di vascello Ernesto
Pacchiarotti), in pendolamento nell’area assegnata nell’ambito del succitato
dispositivo di blocco navale contro il traffico diretto nei porti repubblicani
della Spagna, intercetta una grossa nave cisterna battente bandiera panamense,
che il comandante Pacchiarotti identifica erroneamente come la petroliera spagnola
Campeador. Di conseguenza, il Freccia inizia a seguirla, tenendosi
comunque ad una certa distanza, informandone altresì i Comandi a terra.
In realtà la Campeador è stata affondata tre giorni
prima dal Saetta: la nave avvistata
dal Freccia è invece la Geo W. McKnight (menzionata da varie
fonti anche come George W. McKnight), una grande e moderna motonave
cisterna di ben 11.231 tsl di proprietà della Panama Transport Company, con
bandiera panamense, ma equipaggio ed agenti tedeschi: costruita in Germania,
appartenenva originariamente alla compagnia Baltisch-Amerikanische
Petroleum-Import-GmbH/WARIED Tankschiff-Reederei di Danzica, una sussidiaria
tedesca della Esso (la Waried Tankschiff-Reederei è nota infatti anche come
Esso tedesca), la cui flotta nel 1935 – dinanzi alla presa del potere in
Germania da parte del partito nazista ed alla conseguente precarizzazione della
posizione di Danzica, sede della compagnia – è passata per intero alla neocostituita
Panama Transport Company, avente sede a Panama ma sempre controllata dalla Esso.
Carica di 8000
tonnellate di nafta (per altra fonte, benzina; in un articolo dell’epoca il suo
comandante parla di 17.000 tonnellate di carburante), la Geo W. McKnight è in navigazione da Tripoli di Siria a Le Havre, in
Francia. Il suo equipaggio, di 38 uomini, è quasi interamente composto da
marittimi tedeschi, con l’eccezione di uno statunitense e del comandante, che è
britannico.
Considerati i porti
di partenza e di destinazione, il viaggio della McKnight non ha niente a che fare con la guerra civile in Spagna:
ma il comandante Pacchiarotti ritiene erroneamente che stia battendo bandiera falsa,
e che il suo carico sia in realtà destinato alla Spagna repubblicana
(sembrerebbe che fino al momento del siluramento, Pacchiarotti rimase convinto
che la nave da lui seguita ed attaccata fosse la Campeador, e che questa battesse abusivamente bandiera panamense).
Il Freccia comunica a Marina Messina di
stare pedinando la “Campeador” che
batte bandiera panamense, ed alle dieci del mattino Marina Messina ne informa a
sua volta il Comando della Regia Marina a Roma. Alle 15.50 l’ammiraglio
Riccardo Paladini, comandante di Marina Messina e del Comando Militare
Marittimo Autonomo della Sicilia, fa uscire da Favignana gli incrociatori
ausiliari Mallorca e Puchol della Marina spagnola
nazionalista, che qui hanno base, affinché questi possano intercettare e
catturare la grossa petroliera ed il suo prezioso carico di nafta. Intanto,
dalle 10.25, anche la torpediniera Cigno
si è unita al pedinamento della motocisterna.
Nel frattempo,
l’equipaggio della McKnight si è
accorto di essere seguito: verso le dieci del mattino, nelle acque tra
Pantelleria e Malta, il suo comandante, capitano Robert Huss, ha avvistato in
lontananza un "cacciatorpediniere" italiano recante le lettere
identificative "C G" sulla prua (cioè la Cigno), in avvicinamento. La petroliera, ben più lenta della nave
da guerra, non può far nulla per scrollarsi di dosso l’inseguitore, cui nel
pomeriggio si aggiunge anche un secondo cacciatorpediniere (è possibile che
questo fosse il Freccia) ed in serata
anche un terzo (forse l’Astore?
vedasi più avanti).
L’intercettazione
della presunta Campeador da parte di Mallorca e Puchol è prevista per le 17 circa, ma così non avviene; calato il
buio, e ritenendo ormai impossibile che le due navi nazionaliste possano
riuscire ad intercettarla, viene allora dato ordine al Freccia di affondarla. (Una fonte spagnola fornisce una versione
diversa: nel primo mattino del 14 agosto, la torpediniera Astore sarebbe giunta a Favignana recando l’ordine per gli
incrociatori ausiliari nazionalisti ivi dislocati di prendere il mare per
partecipare alla cattura della nave cisterna che in quel momento si credeva
ancora essere la Campeador. L’ordine,
consegnato dall’Astore al locale
Comando Marina italiano, venne poi portato a bordo degli incrociatori ausiliari
per mezzo del piroscafo spagnolo Mina
Piquera, adibito al loro rifornimento; a prendere il mare, poco prima di
mezzogiorno, non sarebbero stati il Mallorca
ed il Puchol, bensì il Mallorca ed il Lazaro, terzo incrociatore ausiliario nazionalista di base a
Favignana, mentre il Puchol sarebbe
rimasto in porto a causa di problemi alle macchine. L’Astore guidò Mallorca e Lazaro verso Capo Bon, con l’intenzione
di tagliare la rotta alla “Campeador”/McKnight; le tre navi erano dirette in
un punto equidistante dalla rotta seguita dalla petroliera e da quella del Freccia, che seguiva quest’ultima a
distanza prudenziale. Giunte le tre navi nel punto, l’Astore, che comandava il gruppo, diresse con il Puchol per intercettare la nave
cisterna, ed ordinò al Mallorca di
fare rotta da solo verso Capo Bon per tagliare la via di fuga alla McKnight se questa avesse tentato di
cercare rifugio in un porto tunisino. Verso le quattro del pomeriggio, Astore e Lazaro si trovavano a circa 34 miglia da Capo Bon quando il Lazaro avvistò una colonna di fumo al
traverso a sinistra: la colonna andava progressivamente ingrandendosi, e dopo
poco l’equipaggio spagnolo riuscì a distinguere la sagoma di una nave cisterna
in fiamme. Secondo questa fonte spagnola, il Freccia avrebbe attaccato la petroliera prematuramente,
disattendendo le istruzioni ricevute e vanificando l’intervento di Astore, Mallorca e Lazaro. A
questo punto le tre navi fecero rotta verso Favignana, dove giunsero nelle
prime ore del 15 agosto. Questa versione presenta però una grossa falla:
l’attacco del Freccia viene indicato
come avvenuto verso le quattro del pomeriggio, mentre le fonti sia italiane che
britanniche sono concordi nell’affermare che esso ebbe inizio molto più tardi,
dopo le nove di sera).
Alle 21.13, pertanto,
il Freccia lancia un primo siluro da
533 mm contro la Geo W. McKnight a
nord/nordovest di Pantelleria, ma non riesce a colpirla; allora continua ad
inseguirla e lancia altri quattro siluri da 533 mm, dei quali l’ultimo va
finalmente a segno colpendo la petroliera a poppa, nella cisterna numero 6,
quando la nave si trova venti miglia a nordovest di Capo Bon (Tunisia; un altro
articolo dell’epoca afferma invece che l’attacco sarebbe avvenuto 12 miglia a
nord del Capo). Nonostante i danni, tuttavia, la Geo W. McKnight rimane a galla, pertanto il Freccia apre il fuoco con i cannoni da 120 mm per finirla: vengono
sparati in tutto 53 colpi da 120, 24 dirompenti e 29 perforanti, incendiando la
petroliera, dopo di che il cacciatorpediniere cessa il fuoco alle 21.37 e se ne
va, giudicando la sua vittima – ormai avvolta dalle fiamme – come spacciata. Il
Freccia comunica poi all’Ufficio
Piani di Operazioni dello Stato Maggiore della Regia Marina (Maristat), che
riceve il messaggio alle 23, "Noto
piroscafo in rogo ore 22.00. L’ho dovuto finire con artiglieria". Allo
stesso tempo, il Comando della Regia Marina intercetta anche degli S.O.S.
lanciati a partire dalle 21.13 (ora del lancio del primo siluro da parte del Freccia) da una nave che si chiama “Knight” (tali S.O.S. vengono ricevuti
anche dalla stazione radio di Land’s End, nel Regno Unito). L’ammiraglio
Domenico Cavagnari, capo di Stato Maggiore della Marina (nome di copertura
“NAVE SAVOIA”), ne viene tempestivamente messo al corrente. Il Freccia rientra ad Augusta.
Intanto,
contrariamente all’apprezzamento del comandante del Freccia, la Geo W. McKnight
non sta affondando: neanche le cannonate sparate sono state sufficienti a
causare danni fatali. Dopo aver lanciato a più riprese degli S.O.S. a partire
dalle 21.13, l’intero equipaggio della petroliera abbandona la nave sulla lance;
la nave cisterna britannica British
Commodore, in navigazione nelle vicinanze ed accorsa sul posto dopo aver
intercettato l’S.O.S. della nave panamese, provvede al salvataggio dei 38
uomini dell’equipaggio della Geo W.
McKnight (non vi sono vittime, soltanto cinque feriti lievi) e li porta a La
Goletta, vicino a Tunisi (per altra fonte a Biserta), dove li sbarca il 16
agosto. L’ultimo messaggio trasmesso dalla McKnight
riferisce: “Ora al sicuro. Tutto
l’equipaggio recuperato sano e salvo dalla pirocisterna britannica British
Commodore. La nave è ancora in fiamme; non si può farci niente” ("Now cleared. All hands picked up safe by
British tank steamer British Commodore. Ship still burning; nothing can be done
about it").
I naufraghi non hanno
dubbi sulla nazionalità del loro aggressore, mentre sono più confusi circa la
natura dell’attacco subito: dichiarano infatti di essere stati seguiti per
tutto il giorno da un cacciatorpediniere italiano recante le lettere
identificative "CG" (ossia la Cigno)
e da altre due unità, ma di essere poi stati silurati da un (inesistente)
sommergibile, che sarebbe emerso a circa 400 metri dalla loro nave per poi
spararle contro una ventina di cannonate.
L’ormai deserta
petroliera, abbandonata in fiamme in posizione 36°10’ N e 12°52’ E, brucia per
due giorni senza affondare; poi giunge sul posto il rimorchiatore di salvataggio
italiano Hercules (capitano Ottone
Debelli), uscito da Messina alle 17 del 13 agosto e giunto in quelle acque per
rimorchiare in salvo la Campeador,
che anch’essa era stata abbandonata alla deriva in fiamme dopo essere stata
silurata dal Saetta. Giunto sul luogo
del siluramento della Campeador, al
largo di Kelibia, nelle prime ore del 14 agosto, l’Hercules non ha trovato la petroliera spagnola, che è già
affondata; ha dunque invertito la rotta per rientrare a Messina, ma durante la
navigazione ha intercettato un segnale di soccorso relativo alla Geo W. McKnight, trasmesso dalla
stazione radio di Biserta ma non corredato dalla posizione della petroliera
incendiata. Il 15 gosto, ricevuta notizia di quanto accaduto alla Geo W. McKnight, l’Hercules si dirige verso la petroliera danneggiata, che è ancora a
galla: giunto sul posto, vi trova la British
Commodore, che dopo aver sbarcato i naufraghi a Biserta è tornata dalla McKnight ed ha riportato a bordo il suo
comandante, capitano Richard Huss, che ha issato la bandiera britannica sul
relitto e vi è rimasto a bordo per mantenerne il possesso. La British Commodore, inoltre, ha preso a
rimorchio l’immobilizzata Geo W. McKnight
per cercare di portarla a Biserta. Con l’arrivo dell’Hercules si genera una situazione piuttosto assurda: dopo che la McKnight è stata silurata ed incendiata
da una nave italiana, un’altra nave italiana si offre di prenderla a rimorchio;
ben conoscendo la nazionalità dei suoi aggressori, il capitano Sloan rifiuta il
soccorso dell’Hercules, arrivando a
dichiarare al comandante italiano che ormai la sua nave è spacciata per i gravi
e vistosi danni causati dal siluro e dalle cannonate, come mostra anche il
denso fumo nero che fuoriesce dalla cisterna numero 5. Dopo diverse ore,
tuttavia, quando diventa evidente che la British
Commodore non è in grado di rimorchiare in salvo la McKnight e che questa rischia davvero di andare perduta, Sloan
cambia idea ed accetta l’offerta dell’Hercules,
stipulando anche un contratto di recupero con gli armatori della società
triestina Tripcovich (proprietaria del rimorchiatore) e restando poi a bordo
per sorvegliare le operazioni.
La danneggiata Geo W. McKnight, al centro, assistita dall’Hercules (a sinistra) e dalla British Commodore (a destra) (da un saggio di Francesco Mattesini pubblicato su www.academia.edu) |
Il rimorchio verso
Biserta si fa sempre più difficile, per via delle difficoltà di manovra e degli
incendi non ancora estinti a bordo della Geo
W. McKnight; ma alla fine l’Hercules
riesce a portare la petroliera danneggiata presso Capo Farina e l’isola Piana,
vicino a Biserta, dove la McKnight
trasborda il carico di nafta sulla British
Commodore (che lo porterà a Le Havre) e dove il capitano Sloan rinuncia ad
ogni pretesa sulla petroliera, la cui proprietà viene così ceduta alla società
Tripcovich. Gli uomini dell’Hercules,
raggiunti in un secondo momento anche dal rimorchiatore Gladiator (anch’esso di proprietà della Tripcovich), riusciranno a
mettere in sicurezza la McKnight ed a
rimorchiarla a Trieste tra il 27 ed il 31 agosto. Nei mesi seguenti la
Tripcovich provvederà a riparare la petroliera e poi la rivenderà alla Anglo-American
Oil Company di Londra.
Il siluramento della Geo W. McKnight avrà ampia risonanza
sulla stampa internazionale; i Lloyd’s di Londra divulgheranno la notizia del
ricevimento di un messaggio (trasmesso da una stazione radio tunisina e
comunicato ai Lloyd’s per tramite del piroscafo britannico Mostyn) secondo cui la nave è stata attaccata e incendiata in
Mediterraneo da una nave da guerra “di nazionalità sconosciuta”, e nei giorni
successivi i giornali di mezzo mondo riferiranno la notizia con ulteriori
particolari. Il giornale olandese “Leidsch Dagblad”, ad esempio, scriverà che “L’equipaggio della Macknight (…) ha dichiarato all’arrivo a Tunisi che la
nave era stata seguita da tre cacciatorpediniere italiani. Alle nove e un
quarto della sera l’equipaggio aveva notato che una massa scura, che fu
ritenuta essere di un sommergibile, era apparsa in superficie a 400 metri di
distanza. Venti cannonate furono sparate e cinque uomini rimasero feriti, ma
non gravemente. La Macknight andò alla deriva in fiamme verso Capo Bon ed
infine affondò [quest’ultima affermazione, come visto, era errata]. In conseguenza degli incidenti che si sono
verificati nel Mediterraneo, l’ammiragliato di Biserta ha deciso di proteggere
le navi mercantili riunendole in convogli scortati da navi da guerra ed aerei”.
Il “Gazette” di Montreal, in Canada, parla invece di "bombardamento"
da parte di "torpediniere non identificate" (“set afire by bombardment from two unidentified torpedo boats”): “L’equipaggio di 39 uomini della motonave
cisterna panamense George W. McKnight è stato sbarcato oggi a Goletta, sulla
costa tunisina, dopo aver abbandonato la propria nave in fiamme, incendiata da
due torpediniere non identificate. Dispacci ai Lloyd’s dicevano che la
petroliera è stata attaccata 20 miglia a nordovest di Capo Bon e si è presto
ritrovata in fiamme. La nave cisterna britannica British Commodore ha preso a
bordo l’equipaggio e l’ha portato a terra. (…) Dispacci a Parigi dicevano che due uomini dell’equipaggio della McKnight
erano stati lievemente feriti. La nave stava affondando lentamente, continuando
a bruciare. Molti equipaggi si rifiutano ora di lasciare i porti tunisini senza
una scorta di navi da guerra (…)”. Lo statunitense “Marysville
Journal-Tribune” riferisce che i naufraghi hanno raccontato che la nave è stata
colpita da un sommergibile dopo essere stata seguita per tutto il giorno da un
cacciatorpediniere italiano con sigla "CO" e da altre due unità; il
“Brooklyn Daily Eagle” specifica a sua volta che “L’equipaggio ha detto che la propria nave è stata attaccata da un
sommergibile dopo essere stata seguita per tutto il giorno da un
cacciatorpediniere contrassegnato “CO”. Membri dell’equipaggio hanno riferito
che il cacciatorpediniere si è avvicinato alla George W. McKnight nelle prime
ore di sabato e l’ha seguita tutto il giorno, venendo raggiunto più tardi da
altri due cacciatorpediniere. Intorno alle nove di sera i cacciatorpediniere
hanno accostato e se ne sono andati, ed un sommergibile è emerso vicino alla
cisterna. Sono stati sparati diciannove colpi, dei quali gli ultimi due hanno
causato un’esplosione, ha detto l’equipaggio della petroliera. La nave cisterna
è presto diventata una massa di fiamme. L’equipaggio, con cinque feriti, l’ha
abbandonata sulle scialuppe. Poco dopo la [British] Commodore ha raccolto gli uomini, mentre la George W. McKnight andava
alla deriva verso Capo Bon”.
Particolare degno di
nota, tutti gli articoli, che parlino di attacco da parte di nave da guerra di
superficie o di sommergibile (rigorosamente “non identificato”, per quanto si
riferisca al contempo che la McKnight
è stata seguita per tutto il giorno, fino a poco prima dell’attacco, da
cacciatorpediniere italiani, il che di fatto lascia pochi dubbi sulla
nazionalità dell’aggressore), affermano che i danni e l’incendio della
petroliera sarebbero stati causati da cannoneggiamento: nessuno parla di
siluri.
Articoli di simile
tenore appaiono anche sui quotidiani neozelandesi “Auckland Star” ed “Evening
Star”, sugli australiani “Sydney Morning Herald” e “Canberra Times” (che
ripetono tutti la versione dell’equipaggio secondo cui la McKnight sarebbe stata cannoneggiata da un sommergibile), sui
canadesi “Winnipeg Tribune” e “Winnipeg Free Press”, sugli statunitensi “Sarasota
Herald”, “Palm Beach Post”, “Valley Morning Star”, “Morning News”, “Post-Gazette”,
“Western Daily News” e “Times from Hammond”, sul britannico “Daily Telegraph”, sull’estone
“Postimees”, e su innumerevoli altri giornali. Il “Daily News” di New York
parla di “tiro d’artiglieria da parte di
una nave misteriosa”; anche il “Kingston Gleaner” di Kingston (Giamaica)
afferma che la McKnight sarebbe stata
“bombardata da una nave non identificata
al largo di Tunisi”. Il “Daily Herald”, più ardito o smaliziato di altri giornali, fa presente che la Marina
nazionalista spagnola possiede un solo sommergibile operativo, dunque è
evidente che le forze di Franco sono aiutate dall’Italia sul mare, visto che in
due settimane si sono verificati ben nove attacchi contro navi di ogni
nazionalità, tra cui la McKnight. La
rivista statunitense “Life” includerà l’attacco alla Geo W. McKnight (“George McKnight,
a British tanker fro Syria, was half-sunk and burned by two unidentified
torpedo boats off Tunis on Aug 15. The whole crew rescued by British Commodore”)
nel suo reportage «Inflammatory incidents»
relativo agli attacchi al naviglio mercantile in Mediterraneo – tra gli episodi
citati, anche il siluramento della Campeador,
che viene correttamente menzionato come opera di un cacciatorpediniere
italiano, nonché il siluramento del mercantile repubblicano Armuru da parte di un sommergibile
“sconosciuto” (l’italiano Ferraris) –
ed ai preparativi della Royal Navy ad un possibile conflitto con l’Italia.
Un mese dopo
l’attacco, il comandante Huss descriverà l’accaduto in un’intervista al “Daily
Telegraph”, ribadendo ancora una volta che l’attacco sarebbe avvenuto ad opera
di un sommergibile: “…I tre
cacciatorpediniere hanno circondato la nostra nave. Alle 9.25 ho visto un
sommergibile emergere dall’acqua. Pochi momenti più tardi c’è stato un lampo,
seguito da una forte detonazione. Subito dopo il primo colpo ho ordinato
all’equipaggio di andare alle scialuppe. L’abbiamo fatto appena in tempo, perché
subito dopo che ci eravamo imbarcati sulle lance due proiettili sono esplosi
nella nave, dando fuoco alle 17.000 tonnellate di carburante, che sono
avvampate verso il cielo. Il bombardamento è durato venticinque minuti. Cinque
colpi sono stati sparati verso le nostre scialuppe, e cinque uomini
dell’equipaggio sono rimasti leggermente feriti. Alle undici di sera la British
Commodore, che era accorsa verso di noi a tutta velocità, ci ha raccolti. Entro
quel tempo le navi da guerra erano scomparse”.
La
notizia dell’attacco alla Geo W. McKnight
sul “Brandon Daily Sun”, sopra, e sul “Canberra Times”, sotto.
Diverse fonti
affermano erroneamente che la Geo W.
McKnight sarebbe stata portata all’incaglio dopo essere stata abbandonata
dall’equipaggio, o persino che sarebbe stata affondata in seguito ai danni
causati dall’attacco del Freccia. Ad
esempio, "La marina mercante y el tràfico maritimo en la guerra
civil" di Rafael Gonzàlez Echegaray (1977) scrive: “Geo W. Mcknicht [sic], band.
panamense, 12.442 grt, 1933, armatore Waried Tankschiff, petroliera, silurata
nel Canale di Sicilia il 15.8.1937 dal cacciatorpediniere FRECCIA.
Incendiata, affondò presso la costa di Tunisi”. Anche il volume USMM
"L’impegno Navale Italiano durante la Guerra Civile Spagnola (1936-1939)",
scritto dallo storico Franco Bargoni, perpetua questo errore (insieme ai già
citati errori di valutazione del comandante del Freccia): “Ct. Freccia (comandante C.V. Ernesto Picchiarotti)
14/8 – Giunto in zona inizio pendolamento. Avvistata nave cisterna inglese
George M.C. Knight di 6.213 t che batteva abusivamente bandiera panamense e
trasportava 8.000 tonnellate di nafta per i repubblicani, la seguì ad una certa
distanza fino a Nord Ovest di Pantelleria. Calata la notte e giudicato
impossibile l’intercettamente dell’unità da parte di navi nazionaliste, il
comandante C.V. Ernesto Pacchiarotti alle ore 21,15 ordinò il lancio di un
primo siluro da 533 mm, sbagliando il bersaglio. La caccia continuò per
un’altra mezz’ora, con il lancio di altri tre siluri da 533 mm, di cui solo
l’ultimo colpiva la cisterna immobilizzandola presso l’isola di Tenedos [sic] in acque Tunisine. La nave però non
affondava; per accelerarne la fine furono armati i pezzi da 120/50 mm e sparati
29 proietti perforanti e 24 dirompenti. La petroliera si
incendiò, mentre il cacciatorpediniere si allontanava, rientrando ad Augusta il
15 agosto 1937. La George M.C. Knight, alla deriva, continuò a bruciare
per due giorni consecutivi, finché affondò nelle vicinanze di Tunisi”.
In realtà, come
detto, la petroliera fu soccorsa, rimorchiata a Trieste e riparata. Non solo,
essa si rivelerà essere una nave molto resiliente: dopo essere sopravvissuta al
siluramento e cannoneggiamento da parte del Freccia,
sopravviverà anche ad un secondo siluramento e cannoneggiamento durante la
seconda guerra mondiale, il 3 maggio 1942, ad opera del sommergibile tedesco U 66 (dopo essere già scampata ad un
attacco da parte di un altro U-Boot nell’aprile 1941), e ad una gravissima
collisione con conseguente incendio il 14 ottobre 1944. Navigherà fino al 1954,
quando sarà demolita dopo aver cambiato nome in Esso Edinburgh.
Lo storico Francesco
Mattesini nota che alla fine della guerra di Spagna, mentre gli altri
comandanti di unità italiane che avevano affondato o danneggiato navi impegnate
nel traffico a favore della Repubblica sarenno tutti proposti per decorazioni,
non ne riceverà alcuna proprio il comandante Pacchiarotti del Freccia, forse proprio per non essere
riuscito ad affondare la McKnight,
per non essersi accertato del suo affondamento prima di andarsene, e/o per non
aver meglio verificato, prima di attaccare, che questa fosse effettivamente
diretta nei porti repubblicani della Spagna.
15 agosto 1937
Il Freccia giunge ad Augusta.
Due foto “di
massa” risalenti al 1938: sopra, il Freccia
(all’estrema destra) insieme a Saetta,
Strale, Nembo, Ostro, Folgore, Fulmine (da destra verso sinistra) ed altri due cacciatorpediniere
classe Turbine; sotto, il Freccia (ottavo
da sinistra) insieme alle torpediniere Antonio
Mosto e Francesco Stocco ed ai
cacciatorpediniere Folgore, Baleno, Lampo, Fulmine e Saetta (da sinistra verso destra) (Naval
History and Heritage Command)
1938
Il Freccia è caposquadriglia della VII
Squadriglia Cacciatorpediniere (che forma con i gemelli Dardo, Saetta e Strale: tale Squadriglia è infatti
chiamata anche Squadriglia «Freccia») e capoflottiglia della Flottiglia
Cacciatorpediniere composta dalla VII e VIII Squadriglia (la VIII Squadriglia è
formata da Folgore, Fulmine, Lampo e Baleno).
5 maggio 1938
Il Freccia, insieme al resto della VII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Dardo,
Saetta e Strale, al comando del capitano di vascello Lorenzo Gasparri),
partecipa alla rivista navale "H" organizzata nel Golfo di Napoli per
la visita in Italia di Adolf Hitler.
Partecipa alla
rivista la maggior parte della flotta italiana: le corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, i sette incrociatori
pesanti della I e III Divisione, gli undici incrociatori leggeri della II, IV,
VII e VIII Divisione, sette “esploratori leggeri” classe Navigatori, 18
cacciatorpediniere (le Squadriglie VII, VIII, IX e X, più il Borea e lo Zeffiro), 30 torpediniere (le
Squadriglie IX, X, XI e XII, più le vecchie Audace, Castelfidardo, Curtatone, Francesco Stocco, Nicola
Fabrizi e Giuseppe La
Masa ed i quattro “avvisi scorta” della classe Orsa), 85
sommergibili e 24 MAS (Squadriglie IV, V, VIII, IX, X e XI), nonché le navi
scuola Cristoforo Colombo ed Amerigo Vespucci, il panfilo di Benito
Mussolini, l’Aurora, la nave
reale Savoia e la nave
bersaglio San Marco.
La VII Squadriglia
Cacciatorpediniere, insieme alle Squadriglie VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno) e IX (Vittorio
Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) ed alle Divisioni Navali V (corazzate Cesare e Cavour, al comando dell’ammiraglio Arturo Riccardi), I
(incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia, al
comando dell’ammiraglio Angelo Iachino) e VIII (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi, al comando
dell’ammiraglio Giotto Maraghini), forma la 1a Squadra Navale, al
comando dell’ammiraglio Riccardi.
Il Freccia a Napoli il 5 maggio 1938; lo segue il Dardo, mentre sullo sfondo si riconosce il Fulmine (Istituto Luce via Naval History and Heritage Command) |
Il Freccia ed altri cacciatorpediniere ormeggiati a Napoli durante la rivista "H", il 5 maggio 1938 (Naval History and Heritage Command) |
Sullo sfondo di questa fotografia, che mostra la corazzata Conte di Cavour durante la rivista "H", sono visibili in lontananza i cacciatorpediniere delle classi Freccia e Folgore (Istituto Luce, via Maurizio Brescia e www.betasom.it) |
14-16 maggio 1938
Il Freccia ed il resto della squa
squadriglia sono tra le unità della Regia Marina che a Genova, nell’ambito di
una grande rivista navale organizzata dal regime, sono “aperte al pubblico” e
vengono visitate dalla popolazione civile.
L’evento è
organizzato in occasione di una visita ufficiale a Genova di Benito Mussolini,
la prima da dodici anni: gran parte della flotta (che appena pochi giorni prima
ha partecipato a Napoli alla rivista "H", organizzata in occasione
della visita in Italia di Adolf Hitler) è radunata nel capoluogo ligure, con
diverse navi liberamente visitabili dai civili. Nel suo discorso ai genovesi
del 14 maggio, Mussolini dichiara: "…Le
direttive della nostra politica sono chiare: noi vogliamo la pace, la pace con
tutti. (…) Ma la pace, per essere
sicura, deve essere armata. Ecco perché io ho voluto che a Genova si
raccogliesse tutta la flotta: per mostrare a voi e agli Italiani delle due
regioni più continentali, che sono il Piemonte e la Lombardia, quale è la
nostra effettiva forza sul mare. Noi vogliamo la pace, ma dobbiamo esser pronti
con tutte le nostre forze a difenderla, specie quando si odono discorsi, sia
pure d'oltre Oceano, sui quali dobbiamo riflettere. È forse da escludere che le
cosiddette grandi democrazie si preparino veramente ad una guerra di dottrine.
Comunque, è bene che si sappia che, in questo caso, gli Stati totalitari
faranno immediatamente blocco e marceranno fino in fondo".
Freccia, Dardo e Strale a Genova nel 1938-1939 (Coll. Marco Ghiglino, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
1938-1939
In seguito a nuovi
lavori viene installata un’“unghia” sopra al fumaiolo, per impedire al fumo di
recare disturbo all’equipaggio.
6-7 marzo 1939
In seguito alla
notizia – giunta il mattino del 6 marzo tramite gli aerei di base nelle
Baleari, che hanno avvistato e seguito le navi repubblicane – che il giorno
precedente la flotta spagnola repubblicana (composta dagli incrociatori Miguel de Cervantes, Méndez Nuñez e Libertad, dai cacciatorpediniere Ulloa, Escano, Gravina, Almirante Antequera, Almirante Miranda, Lepanto, Almirante Valdés
e Jorge Juan e dai sommergibili C.2 e C.4) è salpata dalla sua base di Cartagena (dov’è scoppiata
un’insurrezione filofranchista, scatenata dal tradimento di alcuni ufficiali
dell’Esercito repubblicano che hanno tentato un colpo di Stato contro il loro
governo), nella fase conclusiva della guerra civile spagnola (il conflitto
terminerà di lì a meno di un mese), lo Stato Maggiore della Regia Marina,
sospettando che questa possa essere diretta in Mar Nero per consegnarsi
all’Unione Sovietica, organizza un vasto dispositivo di esplorazione e
sorveglianza aeronavale volta a sbarrare la fuga alle navi repubblicane. In
primo luogo, l’alba del 6 marzo, vengono inviate tra la Sardegna e le coste del
Nordafrica le torpediniere Orsa, Procione, Spica ed Orione, che
setacciano quelle acque in cooperazione con aerei decollati dalla base
cagliaritana di Elmas, e nel Canale di Sicilia la X Squadriglia Cacciatorpediniere
(Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco) che fa lo stesso tra Capo
Granitola, Pantelleria e la Tunisia, anch’essa in cooperazione con aerei.
Il mattino del 7
marzo prende il mare anche la Divisione Scuola Comando (ammiraglio Angelo Iachino),
formata dall’incrociatore leggero Giovanni
delle Bande Nere, dal
cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco
e da 16 torpediniere (Climene, Cantore, Centauro, Cigno, Libra, Lira, Lupo, Lince, Andromeda, Antares, Aldebaran, Airone, Alcione, Aretusa, Ariel e Altair,
appartenenti alle Squadriglie Torpediniere I, VIII, XI e XII), che si posiziona
ad est del Canale di Sicilia e si mette alla ricerca della flotta spagnola
nelle acque comprese tra la Sicilia, Malta e Tripoli. L’ordine è di localizzare
le navi repubblicane e, una volta trovate, di mantenere il contatto, senza
attaccare: si vuole infatti dirottare la flotta repubblicana ad Augusta, non
affondarla. A questo scopo, vengono trasferite da Taranto ad Augusta la I
Divisione Navale dell’ammiraglio Ettore Sportiello (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia più i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo
Gioberti e Giosuè Carducci della
IX Squadriglia) e da Taranto a Messina la V Divisione Navale, composta dalle
corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour e dalla VII Squadriglia
Cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta, Strale). A
Messina il comandante della 1a Squadra Navale, ammiraglio Arturo
Riccardi, assume la direzione delle operazioni; l’ordine è di ricorrere alle
armi soltanto se le navi repubblicane opporranno resistenza.
In realtà, tuttavia,
la flotta repubblicana non ha nessuna intenzione di andare in Unione Sovietica.
La loro destinazione è il Nordafrica francese: lasciata Cartagena, dapprima le
navi repubblicane si presentano davanti ad Orano, in Algeria, dove l’ammiraglio
Miguel Buiza Fernández-Palacios (comandante della flotta repubblicana) chiede
alle autorità francesi il permesso di entrare in porto e farvisi internare;
queste ultime, tuttavia, respingono la richiesta e dicono a Buiza di
raggiungere Biserta, in Tunisia. Qui le navi spagnole – sempre pedinate dagli
aerei italiani durante il loro trasferimento – possono finalmente entrare; le
autorità francesi provvedono immediatamente a sequestrarle, sbarcandone gli
equipaggi ed internandoli in un campo di concentramento vicino a Maknassy. Quando
il Comando della Regia Marina viene a sapere, lo stesso 7 marzo, che la flotta
repubblicana è entrata a Biserta e che il locale Comando navale francese l’ha
fatta disarmare, le misure messe in atto per intercettare la flotta
repubblicana vengono annullate, non essendo più necessarie. Tre settimane più
tardi le navi repubblicane, prese in consegna da equipaggi franchisti, saranno
consegnate alla Marina nazionalista spagnola, mentre parte degli equipaggi
repubblicani sceglieranno l’esilio in terra francese.
7-9 aprile 1939
Il Freccia, inquadrato nel IV Gruppo Navale
dell’ammiraglio di divisione Oscar Di Giamberardino, partecipa all’occupazione
di Santi Quaranta durante l’invasione dell’Albania (Operazione "Oltre Mare
Tirana", OMT).
Il IV Gruppo Navale,
oltre al Freccia, comprende il
cacciatorpediniere Baleno, gli
incrociatori leggeri Luigi di Savoia
Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi (aventi a bordo 600 uomini del Regio Esercito), le
torpediniere Alcione, Airone, Aretusa ed Ariel,
le navi cisterna e da sbarco Scrivia e Sesia, la nave cisterna Garda, il trasporto militare Asmara (con a bordo 800 uomini del
Regio Esercito) e la motonave requisita Marin Sanudo (con a bordo 54 carri armati nonché materiale
militare).
La colonna che deve
sbarcare a Santi Quaranta, al comando del colonnello Mario Carasi, è composta
dal XX Battaglione Bersaglieri (3° Reggimento Bersaglieri), dal XXIII
Battaglione Bersaglieri (12° Reggimento Bersaglieri), dal III Gruppo Squadroni
Carri Veloci L3/35 "San Giorgio" e da due compagnie del Battaglione
"San Marco". Freccia e Baleno hanno a bordo 160 uomini del
Battaglione "San Marco".
Lo sbarco a Santi
Quaranta ha inizio alle 6.30 circa; non vi è alcuna sorpresa, tanto che la popolazione
locale lascia la cittadina prima ancora che lo sbarco abbia inizio. I marinai
italiani vengono accolti da "nutrito" fuoco di fucileria, soprattutto
da parte di reparti della gendarmeria, ma con l’aiuto determinante del tiro di
supporto delle navi da guerra le truppe da sbarco superano in breve questa
resistenza. Freccia e Baleno sbarcano gli uomini del
"San Marco" sotto la protezione degli incrociatori; i fanti di
Marina, che prendono terra con la prima ondata, hanno un ruolo centrale nel
travolgere la (debole) resistenza albanese (alcune stime da parte italiana
ritengono che in tutto Santi Quaranta sia difesa da circa 200 armati). Alcuni
civili armati aprono il fuoco verso le truppe italiane, ma rientrano nelle loro
case dopo che uno degli incrociatori ha sparato qualche cannonata nella loro
direzione.
Dopo alcune
scaramucce con gli uomini del "San Marco", le poche truppe albanesi
si ritirano, e Santi Quaranta passa in mano italiana. Alle 7.30, un’ora dopo
l’inizio dello sbarco, ogni resistenza è cessata. Da qui la colonna del
colonnello Carasi punterà poi su Delvino e Argirocastro.
4 luglio 1939
Il Freccia ed i similari Dardo, Strale, Folgore, Fulmine, Lampo e Baleno, insieme
agli incrociatori leggeri Luigi di Savoia
Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi al comando dell’ammiraglio Oscar Di Giamberardino, compie una
crociera a Porto Mahon, nell’isola di Minorca, tre mesi dopo la conclusione
della guerra civile spagnola, finita con la vittoria delle forze falangiste di
Francisco Franco appoggiate dall’Italia di Mussolini.
1939
Assume il comando del
Freccia, e della VII Squadriglia
Cacciatorpediniere, il capitano di fregata Amleto Baldo.
Il capitano di fregata Amleto Baldo (La Spezia 1899-Roma 1960) (USMM) |
1939-1940 (o 1940-1941)
Lavori di modifica
dell’armamento: vengono eliminate le due mitragliere singole Vickers-Terni da
40/39 mm, le due binate Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm presenti sulle alette di
plancia e gli obici illuminanti da 120 mm, mentre vengono installate 5 o 6
mitragliere singole da 20/65 mm Breda Mod. 1939-1940 (per altra fonte Breda
1935 da 20/65 mm, due in impianti singoli – quelle installate al posto delle
Breda da 13,2 mm – e quattro in impianti binati – quelle imbarcate al posto
degli obici illuminanti –) e da due scaricabombe per bombe di profondità.
(Secondo altra fonte,
invece, le due mitragliere da 40/39 mm sarebbero state sbarcate a fine
1941/inizio 1942, epoca in cui sarebbe stato installata un’ulteriore
mitragliera binata da 20 mm sulla tuga centrale, tra i due impianti
lanciasiluri, avente un ottimo campo di tiro grazie anche all’eliminazione
dell’alberetto poppiero, così portando il totale delle mitragliere da 20 mm ad
otto. Nella stessa occasione le due tramogge per bombe di profondità sarebbero
state sostituite con altre due, di tipo più moderno).
5 febbraio 1940
Il Freccia ed il resto della sua
squadriglia (Dardo, Saetta e Strale) salpano da Taranto alle 3.30 per un’esercitazione con la
squadra navale.
Durante
l’esercitazione si rischia un grave incidente. La VIII Squadriglia
Cacciatorpediniere «Folgore», che nell’esercitazione rappresenta il nemico,
taglia la rotta alla VII Squadriglia passando a proravia del Freccia (che procede in testa alla linea
di fila: lo seguono nell’ordine Strale,
Dardo e Saetta), per costringere quest’ultima ad accostare, liberandola
dalla sventagliata dei suoi siluri. All’improvviso, durante la manovra (che
avviene alla velocità di 26 nodi), il Saetta
accosta e taglia la rotta allo Strale;
quest’ultimo accosta a dritta per evitare di speronarlo, ma allo stesso tempo
il Dardo accosta a sinistra, così assumendo
rotta di collisione con lo Strale. Il
comandante di quest’ultimo ordina dapprima macchine indietro tutta, e subito
dopo macchine avanti tutta e tutta la barra a sinistra; in tal modo lo Strale evita di pochi metri di essere
speronato dal Dardo.
Alle 18.30 le navi
rientrano a Taranto.
23-24 maggio 1940
Freccia e Saetta rilevano
a Messina i cacciatorpediniere Lanciere e Corazziere nella scorta alla
nuovissima corazzata Littorio,
appena completata ed ora in trasferimento da La Spezia a Taranto. La corazzata
entra a Taranto il mattino del 24 maggio.
10 giugno 1940
Alla data
dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Freccia (capitano di fregata Amleto
Baldo) è sempre caposquadriglia della VII Squadriglia Cacciatorpediniere, che
forma insieme a Dardo, Saetta e Strale.
La VII Squadriglia,
avente base a Taranto, è assegnata alla scorta della V Divisione Navale,
formata dalle corazzate Giulio Cesare
e Conte di Cavour (uniche corazzate
italiane operative allo scoppio della guerra), inquadrata nella 1a
Squadra Navale.
13 giugno 1940
In serata il Freccia ed il resto della VII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Dardo, Saetta, Strale) salpano per effettuare un rastrello antisommergibili lungo
la costa occidentale del Golfo di Taranto, dopo che la I Divisione Navale,
uscita nel Golfo di Taranto il giorno precedente, ha segnalato ben cinque
presunti avvistamenti di sommergibili al largo della costa calabrese (dovuti
verosimilmente alla presenza in zona del sommergibile britannico Odin, poi affondato, anche se è
probabile che uno o più di essi fossero falsi allarmi, dovuti alle vedette
sovreccitate dopo la recentissima entrata in guerra). Insieme alla VII
Squadriglia escono in mare anche l’VIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Folgore, Fulmine, Lampo e Baleno), incaricata di condurre un
analogo rastrello sulla costa orientale del Golfo, e la XV Squadriglia
Cacciatorpediniere (Antonio Pigafetta,
Lanzerotto Malocello, Giovanni Da Verrazzano, Nicolò Zeno) che deve fare lo stesso in
un settore a sud della congiungente Capo Colonne-Santa Maria di Leuca.
Alle 23.21 lo Strale avvista un grosso
sommergibile emerso in posizione 39°42’ N e 17°33’ E (a circa quaranta miglia
da Taranto) e lo attacca lanciando un siluro, sparando una salva coi quattro
pezzi da 120 mm e poi lanciando anche nove bombe di profondità, mentre il
sommergibile reagisce lanciando a sua volta un siluro; all’1.57 del 14 giugno
anche il Baleno avvista un
sommergibile e lo attacca con bombe di profondità. È possibile che il
sommergibile britannico Odin (capitano
di corvetta Kenneth Maciver Woods) sia stato affondato da questi due attacchi,
ma è anche possibile che questi sia in realtà sopravvissuto e sia andato
perduto sui campi minati della zona qualche giorno più tardi.
14 giugno 1940
La VII Squadriglia
rientra a Taranto nelle prime ore del mattino.
16 giugno 1940
In serata la VII
Squadriglia Cacciatorpediniere, insieme alla VIII Squadriglia, prende
nuovamente il mare per un altro rastrello antisommergibili nel Golfo di
Taranto. Alle 23.38, a 30-40 miglia da Taranto, il Dardo avvista le scie di due siluri e reagisce con bombe di
profondità, mentre alle 23.45 è il Folgore ad
avvistare scie di siluri (in posizione 40°07'50" N e 17°39'10" E) e
gettare a sua volta cariche di profondità, seguito dal Fulmine che segnala anch’esso scie
di siluri e risponde lanciando ulteriori bombe di profondità. Alle 23.57
il Folgore avvista altre
scie di siluri e getta altre bombe.
17 giugno 1940
Alle 00.43 è il Freccia ad avvistare una scia di
siluro, che lo manca, ed a reagire con sei bombe di profondità, senza tuttavia
osservare alcun segno tangibile del danneggiamento di un sommergibile, mentre
all’1.18 il Folgore avvista
la torretta di un sommergibile e lo attacca con cannone, siluro e poi bombe di
profondità. All’1.27, infine, il Saetta è
l’ultimo tra i cacciatorpediniere ad osservare la scia di un siluro e quella
che sembra una “bolla di lancio”, reagendo col lancio di una singola bomba di
profondità.
Complessivamente, nel
corso della notte si sono verificati ben otto presunti lanci di siluri contro i
cacciatorpediniere della VII e VIII Squadriglia, i quali hanno reagito con il
lancio in totale di 38 bombe di profondità ed un siluro, oltre a tiro
d’artiglieria.
Tutti i
cacciatorpediniere rientrano in porto di prima mattina. Il sommergibile
avvistato da tutti potrebbe essere stato l’Odin,
se sopravvissuto all’attacco di tre giorni prima, ma potrebbe anche non esservi
stato alcun sommergibile: gli avvistamenti, tutti avvenuti di notte, potrebbero
essere stati il risultato di illusione ottica (o più semplicemente, marinai
nervosi potrebbero aver scambiato le scie di focene per quelle di siluri
nell’oscurità) rafforzata dal convincimento della presenza in zona di un’unità
subacquea nemica.
7 luglio 1940
Il Freccia (capitano di fregata Amleto
Baldo, caposquadriglia della VII Squadriglia Cacciatorpediniere) salpa da
Taranto alle 14.10 insieme al resto della VII Squadriglia (Saetta, Dardo e Strale), alla VIII Squadriglia
Cacciatorpediniere (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno) ed alle
corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, nonché alle Divisioni
Navali IV (incrociatori leggeri Alberico
Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna, Armando Diaz) e VIII (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), ed alle Squadriglie
Cacciatorpediniere XV (Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno, Antoniotto Usodimare),
ossia all’intera 1a Squadra Navale, per fornire sostegno a distanza
ad un convoglio di quattro mercantili salpati da Napoli alle 19.45 del 6 e
diretti a Bengasi.
Il convoglio, formato
dai trasporti truppe Esperia e Calitea e dalle moderne motonavi da
carico Marco Foscarini, Vettor Pisani e Francesco Barbaro, trasporta
complessivamente 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari, 5720
tonnellate di carburante e 2190 uomini, ed ha la scorta diretta della II
Divisione Navale (incrociatori leggeri Giovanni
delle Bande Nere e Bartolomeo
Colleoni), della X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco) e di sei torpediniere (le moderne Orsa, Procione, Orione e Pegaso della IV Squadriglia e le
vetuste Rosolino Pilo e Giuseppe Cesare Abba) e la scorta a
distanza dell’incrociatore pesante Pola,
delle Divisioni Navali I, III e VII e delle Squadriglie Cacciatorpediniere IX,
XI, XII e XIII (la 2a Squadra Navale, al comando
dell’ammiraglio di squadra Riccardo Paladini, imbarcato sul Pola), partite da Augusta, Palermo e
Messina.
Comandante superiore
in mare è l’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, con bandiera sulla Cesare.
8 luglio 1940
Il mattino dell’8
luglio – probabilmente tra le 6.45 e le 8, anche se l’orario esatto non è noto
a causa del successivo affondamento del Phoenix;
una fonte indica invece l’orario nelle 5.15 – il sommergibile britannico Phoenix (capitano di corvetta
Gilbert Hugh Nowell) lancia alcuni siluri contro Cesare e Cavour scortate
da Freccia, Dardo, Saetta e Strale, in posizione 35°36’ N e 18°28’ E
(o 35°40’ N e 18°20’E; circa duecento miglia ad est di Malta). L’attacco
avviene da grande distanza; le armi mancano i loro bersagli e non vengono
nemmeno avvistate, sebbene il Phoenix,
in un messaggio trasmesso al suo comando di flottiglia (in cui riferisce di
aver attaccato due corazzate scortate da quattro cacciatorpediniere), rivendichi
un possibile siluro a segno.
L’operazione va a
buon fine (il convoglio raggiunge Bengasi tra le 18 e le 22 dell’8), ed alle
14.30 le navi delle due squadra navali iniziano la navigazione di rientro.
Ma alle 15.20, a
seguito dell’avvistamento di una formazione britannica – anche la Mediterranean
Fleet, infatti, è in mare a protezione di convogli – la 1a e la
2a Squadra Navale dirigono per intercettare le navi nemiche
(che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in
combattimento almeno un’ora prima del tramonto. La flotta britannica in mare,
al comando dell’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, consiste in tre corazzate
(Warspite, Malaya e Royal
Sovereign), una portaerei (la Eagle),
cinque incrociatori leggeri (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool, Gloucester) e 16 cacciatorpediniere (Nubian, Mohawk, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Stuart, Decoy, Hostile, Hyperion, Ilex, Dainty, Defender, Janus, Juno, Vampire e Voyager).
Alle 19.20, però, in
seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a
differenza dell’ammiraglio Campioni ha avuto modo di apprendere, tramite la
crittografia, la reale consistenza e finalità dei movimenti britannici) la
flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle basi, con l’ordine di non
impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi vengono attaccate da alcuni
velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. Le
bombe cadono vicine agli incrociatori, ma non causano danni.
9 luglio 1940
La navigazione
notturna di rientro si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due
fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione.
Già dalle 22 dell’8,
però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet
intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina
alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a
sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio.
Verso le 4.30, la XV
Squadriglia Cacciatorpediniere avvista delle grosse ombre verso est, il lato da
cui si prevede che possa essere il nemico, e lo comunica all’ammiraglio
Campioni. Si tratta degli incrociatori pesanti della III Divisione (Trento, Trieste e Bolzano)
che stanno passando ad est del gruppo «Cesare» a seguito di un ordine
dell’ammiraglio Paladini, ma Campioni, che Paladini – ritenendo che questi
avesse intercettato l’ordine, inviato a mezzo radiosegnalatore – non ha
informato dell’ordine alla III Divisione di proseguire verso nord (che
contrasta con quanto ordinato in precedenza da Campioni), ritiene che siano
navi nemiche e manda la XV Squadriglia ad attaccarle (questa lancia due siluri,
per fortuna senza colpire), e poco dopo impartisce analogo ordine anche alla
VIII Squadriglia. Quest’ultima riconosce però il profilo delle navi “nemiche”
come quello di incrociatori classe Trento,
e permette così di chiarire l’equivoco senza danni.
Nel corso della
mattinata, il numero dei cacciatorpediniere nella flotta italiana subisce una
drastica riduzione: tra le 10.30 e le 12.30, infatti, sia il Dardo che lo Strale vengono colti da avarie di
macchina e sono costretti a rientrare a Taranto, dimezzando la consistenza
numerica della VII Squadriglia; sempre durante il mattino, l’ammiraglio
Campioni autorizza le Squadriglie Cacciatorpediniere VIII, XIII, XV e XVI (in
totale tredici unità), a corto di carburante, a raggiungere le basi della
Sicilia orientale per rifornirsi rapidamente di nafta e poi ricongiungesi con
la flotta alle 14 o, al più tardi, alle 16. In realtà, nessuna di queste
squadriglie riuscirà a riunirsi alla flotta prima che la battaglia abbia luogo:
nelle ore successive, Freccia e
Saetta si ritrovano così ad essere
gli unici cacciatorpediniere di scorta alle due corazzate della V Divisione,
dal momento che l’ammiraglio Campioni – in seguito alle avarie di Dardo e Strale ed al mancato arrivo della VIII e XV Squadriglia
Cacciatorpediniere – ha ordinato alla IX Squadriglia, facente parte della 2a
Squadra Navale, di unirsi all’VIII Divisione.
Verso le 13, dopo una
mattinata di infruttuosi voli di ricognizione, un velivolo italiano avvista la
Mediterranean Fleet 80 miglia a nordest della V Divisione, ossia molto più a
nord di quanto previsto, ed in posizione adatta ad interporsi tra la flotta
italiana e la base di Taranto: l’ammiraglio Campioni inverte allora la rotta,
ed ordina a Paladini, che si trova più a sud e sta dirigendo per
ovest-sud-ovest, di fare altrettanto, accostando ad un tempo per riunire più
rapidamente le due Squadre.
Verso le 13 la 1a e
2a Squadra, ormai riunite, si dispongono su quattro colonne,
distanziate di cinque miglia l’una dall’altra: la dimezzata VII Squadriglia
Cacciatorpediniere, con Freccia
e Saetta, forma la terza colonna
della formazione insieme alle corazzate Giulio Cesare e Conte
di Cavour, mentre tre miglia più ad ovest si trova la seconda colonna
(quella di dritta) formata dal Pola,
dalla I e III Divisione incrociatori e dalla XI e XII Squadriglia
Cacciatorpediniere; la prima colonna, ancora più ad ovest, è costituita dalla
VII Divisione con la XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, mentre la quarta
colonna (quella di sinistra), ad est della V Divisione, è formata dalle
Divisioni IV e VIII e dai cacciatorpediniere della IX e XIV Squadriglia
(quest’ultima mandata da Taranto in sostituzione dei cacciatorpediniere inviatati
a rifornirsi e non ancora tornati). La V Divisione e la VII Squadriglia
dirigono per 168° a 18 nodi, verso il punto di riunione delle 14.
Poco prima delle
13.30 vengono avvistate per rilevamento 210° tre navi che vengono inizialmente
ritenute tre corazzate nemiche: in realtà sono gli incrociatori della VII
Divisione. La flotta italiana assume rotta 270° con le tre colonne schierate
per 292°, ma alle 13.30 un ricognitore indica l’avvistamento di due corazzate e
otto cacciatorpediniere con rotta 330° e velocità 22 nodi, un’ottantina di
miglia a nordest della flotta italiana, così aiutando a chiarire l’equivoco;
l’ammiraglio Campioni inverte immediatamente la rotta, dirigendo per 30°.
Alle 14.05 ha inizio
l’avvicinamento alla flotta britannica; la flotta italiana, su tre colonne con
la V Divisione al centro, IV e VIII Divisione cinque miglia più ad est e gruppo
«Pola» tre miglia ad ovest delle corazzate, assume rotta 010°. Alle 14.45 uno
degli idroricognitori catapultati dalle navi italiane segnala che il nemico
dista una trentina di miglia, e tra le 14.50 e le 15.10 le due flotte si
avvistano reciprocamente.
Alle 15.15 gli
incrociatori aprirono il fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate, che
al contempo, insieme al gruppo «Pola», accostano a un tempo di 60° a dritta
(verso il nemico) e così si spostano ad est/nordest insieme agli incrociatori
pesanti per supportare gli incrociatori leggeri, i primi ad essere impegnati in
combattimento.
Incrociatori e
corazzate cessano poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per
poi riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15
(incrociatori). Nel frattempo, Campioni ordina di assumere orientamento 10° per
l’asse del dispositivo di combattimento, ed alle 15.40 dispone lo spiegamento
sulla sinistra.
Fino alle 15.52, Freccia e Saetta evoluiscono a poppavia della V Divisione, ma quando ha
inizio lo scontro tra i grossi calibri delle opposte corazzate, le due navi
della VII Squadriglia si spostano sulla sinistra, per portarsi fuori tiro
rispetto alla portata dei cannoni delle corazzate britanniche, i cui colpi, se
dovessero colpire i piccoli cacciatorpediniere, provocherebbero danni
catastrofici.
Nella seconda fase,
la 2a Squadra manovra per avvicinarsi alle unità avversarie, e
tra le 15.50 e le 16 i suoi incrociatori pesanti, su ordine dell’ammiraglio
Paladini, aprono il fuoco da 20.000-25.000 metri contro gli incrociatori
leggeri britannici del viceammiraglio John Tovey (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool e Gloucester),
che rispondono al fuoco con granata perforante e tiro raccolto ma poco
efficace. Durante questa fase, in cui gli opposti schieramenti si scambiano
cannonate da grande distanza senza costrutto, la VII Squadriglia non ha parte
rilevante (ma alle 15.59 un tenente di vascello del Freccia, che in quel momento si trova poco a proravia della V
Divisione, vede alcuni colpi sparati dalle corazzate italiane cadere vicino
alla Warspite, e poi una “fumata
bluastra” sollevarsi da questa corazzata: tale avvistamento darà vita a teorie,
mai dimostrate, secondo cui l’ammiraglia britannica sarebbe stata colpita da un
proiettile sparato da Cesare o Cavour).
Alle 15.59, però,
la Cesare, la nave ammiraglia,
viene danneggiata da un proiettile da 381 mm sparato dalla Warspite, che la costringe ridurre la
velocità prima a 20 e poi a 18 nodi. A seguito di questo evento l’ammiraglio
Inigo Campioni, comandante superiore in mare delle forze italiane, decide di
rompere il contatto (accostando per 270°) per rientrare alle basi, ed alle
16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie di cacciatorpediniere di
attaccare con il siluro le navi della Mediterranean Fleet, in modo da
facilitare lo sganciamento delle navi maggiori. Nelle intenzioni di Campioni il
bersaglio principale di questi attacchi dovrebbero essere le corazzate nemiche,
ma di fatto i cacciatorpediniere finiranno col lanciare più o meno tutti contro
la 7th Cruiser Division, che procede in testa alla formazione
britannica.
La posizione
precedentemente assunta da Freccia e
Saetta si rivela ideale per iniziare
subito a stendere una cortina fumogena allo scopo di occultare la
danneggiata Cesare: e non appena
le due corazzate della V Divisione accostano per rompere il contatto, infatti,
i due cacciatorpediniere cominciano subito ad emettere una cortina fumogena per
coprirle, dirigendo per nordest. Tale rotta è perfetta anche per portarsi in
posizione idonea a lanciare i siluri, per cui, una volta ricevuto l’ordine di
attacco silurante, la VII Squadriglia la mantiene e prosegue verso nordest fino
alle 16.18, quando Freccia e Saetta lanciano dieci siluri da 8500
metri di distanza, contro gli incrociatori dell’ammiraglio Tovey. Nell’andare
all’attacco, non appena giunti a distanza utile dal nemico per poter aprire il
fuoco con i pezzi da 120 mm, i due cacciatorpediniere iniziarono a sparare
contro le navi britanniche, proseguendo il tiro fino al momento del lancio dei
siluri; da parte britannica non vi è reazione, perché le unità britanniche sono
già impegnate con gli incrociatori e con i cacciatorpediniere della IX
Squadriglia (che è stata la prima ad attaccare, mentre la seconda è proprio la
VII Squadriglia). Il Saetta ritiene
erroneamente che uno dei siluri abbia colpito un incrociatore britannico (sarà,
con ogni probabilità, questo errato apprezzamento a far sì che nel bollettino
straordinario n. 37 dell’EIAR, trasmesso dopo la battaglia, si dica che: «…Nonostante la contromanovra delle unità
nemiche, rivolta a frustrare l'attacco e a evitare i siluri, uno di questi,
lanciato dalla squadriglia Freccia, raggiungeva un incrociatore nemico»; il
bollettino affermerà anche che «Durante
la manovra di avvicinamento, questa squadriglia di nostri cacciatorpediniere
abbatteva inoltre tre velivoli inglesi»).
Eseguito il lancio, i
due cacciatorpediniere della VII Squadriglia si rifugiano nella densa cortina
fumogena stesa in precedenza dalla IX Squadriglia.
Successivamente,
nella fase di allontanamento, Freccia e
Saetta vengono bersagliati da intenso
tiro proveniente da quattro cacciatorpediniere britannici, avvistati a
sudovest.
Il marinaio
carpentiere Bruno Temperoni, imbarcato su un cacciatorpediniere della VII
Squadriglia, descrive così nelle sue memorie ("Voce di prora")
l’attacco silurante al termine della battaglia di Punta Stilo: “…la nostra plancia ricevette un ordine secco
e inesorabile: "Squadriglia Freccia, all'attacco". E l'epopea ebbe
inizio. Finché vivrò, non dimenticherò mai più quel momento. Sul pennone del Freccia
salì un segnale: "Bandiera da combattimento al picco". Velocemente i
segnalatori tirarono fuori la bandiera di seta dal cofanetto (…) e ammainata quella ‘di tutti i giorni’, la
fecero rapidamente salire al picco. Poi... poi il tempo si é fermato. I nostri
quattro Caccia affiancati: Freccia, Strale, Dardo e Saetta [per la verità,
come detto più sopra, risulta che vi fossero soltanto Freccia e Saetta] come se si fossero tramutati nei loro
sinonimi, sembravano scoccati da un gigantesco arco che li scagliava contro il
nemico. SFrecciavamo sul mare mentre tutto intorno esplodeva l'Apocalisse. Tra
le battaglie navali, ci sono tante regole che possono variare, ha secondo delle
circostanze e dell'estro degli ammiragli; ma ce ne sono anche di quelle fisse e
quella che stavamo mettendo in pratica, era una di queste. Gli inglesi si
aspettavano l'attacco delle siluranti e si erano preparati ad accoglierci con
tutti gli onori. Con i grossi calibri sparavano contro la flotta che si eravamo
lasciati alle spalle. Sentivamo il rumore dei proiettili che lo sorvolavano,
lacerando l'aria con un prolungando ronzio pieno di vibrazioni, mentre tutte le
altre batterie erano concentrato contro di noi con uno spaventoso tiro di
sbarramento. Il tempo non passava mai, le distanze sembravano allungarsi,
anziché accorciarsi. Presto! Fare presto! Ancora più veloce! (…) Tutta la nave era tesa allo spasimo (…) I colpi ci piovevano dall’alto e di fronte
facendosi sempre più precisi. (…) Diecimila
metri! Settemila! Enormi fontane sorgevano intorno a noi, riversando cascate di
acqua a bordo. (…)
La lunga falce turbinava sopra di noi,
pronta a ghermirci. Non si poteva andare più oltre, i cannoni nemici ci
avrebbero sparato con alzo zero. (…) Ansimando
per il violento vento che mi mozzava il fiato dissi al signor Gennari: "Ma
che intenzioni hanno? Di farci speronare la flotta inglese"? (…) "Ecco il segnale dal Freccia".
"Pronti per l'accostata". (…) Una
squadriglia di Cacciatorpediniere inglese comincia ad avvolgere la loro squadra
con cortine fumogene. Non credevamo che c'e l'avremmo fatta.
"ACCOSTARE". Il Freccia si piega nella più spettacolare accostata, il
fumaiolo quasi sfiora l'acqua. (…)
"SILURI FUORI". (…)
Sentimmo due boati seguiti da due fiammate. Il Cesare era salvo. E pure noi.
Tre aerei sono stati abbattuti dalle mitragliere dí tutta la squadriglia e due
siluri hanno fatto centro [in realtà, come detto, non fu così,
contrariamente alle impressioni di chi era a bordo]. La battaglia fini così loro da una parte e noi dall'altra”.
Tra le 16.19 e le
16.30 tre squadriglie di cacciatorpediniere britannici (2th, 10th e
14th Flotilla) aprono il fuoco contro quelli italiani da
11.250-12.500 metri, appoggiati tra le 16.39 e le 16.41 dal tiro dei pezzi
secondari da 152 mm delle corazzate Warspite e Malaya. Alle 16.49 la “mischia” tra
cacciatorpediniere, svoltasi a grande distanza, ha termine senza che nessuna
unità sia stata colpita.
Terminata la
battaglia, la flotta italiana si avvia alle proprie basi con direttrice di
marcia 230°, passando a sud della Calabria; ma durante il rientro, tra le 16.20
e le 19.30, diviene oggetto anche dell'attacco da parte degli stessi
bombardieri della Regia Aeronautica (una cinquantina, su circa 126 inviati in
totale ad attaccare le forze britanniche), che le attaccano e bombardano
pesantemente per errore di identificazione e malintesi (tra il comando delle
due Squadre Navali e quello della II Squadra Aerea, cui appartengono i
bombardieri) circa la posizione della flotta italiana e di quella britannica.
Le insensate disposizioni vigenti in materia di comunicazioni tra Marina ed
Aeronautica, che non contemplano la possibilità di comunicazioni dirette tra
navi e aerei, impediranno alle prime di segnalare ai secondi l'errore; le
stesse navi, non potendo distinguere la nazionalità degli aerei attaccanti,
apriranno un intenso fuoco con proprie armi contraeree, rafforzando nei piloti
l'impressione di stare attaccando navi nemiche. Alcune delle navi ed alcuni
degli aerei, rispettivamente, cesseranno il fuoco e rinunceranno all'attacco
riconoscendo all'ultimo momento la vera nazionalità del "nemico", ma
alla fine gli attacchi ai danni delle navi italiane eguaglieranno, in
intensità, quelli condotti contemporaneamente contro la vera Mediterranean
Fleet. Nessuna nave italiana sarà, fortunatamente, colpita, mentre un bombardiere Savoia Marchetti S. 79 della
257a Squadriglia (XXXVI Stormo da Bombardamento Terrestre)
finirà abbattuto dal "fuoco amico" delle navi. L’ammiraglio Campioni,
per tentare di chiarire equivoco, ordina di stendere bandiere italiane sul
cielo delle torri e di emettere fumo rosso dai fumaioli poppieri, pratica
convenzionale, nelle esercitazioni in tempo di pace, per segnalare il gruppo
“amico”.
L'incidente sarà poi
fonte di aspre polemiche tra Marina e Aeronautica, ma per lo meno servirà a
dare l'impulso ad un migliore sviluppo della collaborazione aeronavale, che
però raggiungerà risultati soddisfacenti solo nel 1942.
Mentre il grosso
della flotta italiana fa rotta su Augusta, Freccia e
Saetta ricevono ordine di scortare a
Messina l’incrociatore leggero Luigi
Cadorna, afflitto da un’avaria all’apparato motore che ha costretto a
distaccarlo dalla formazione prima della battaglia.
Anche la Cesare e la III Divisione dirigono
per Messina, dove entrano verso le 21.
Dalle memorie, già
citate, di Bruno Temperoni si apprende anche di quale fosse l’umore sulle navi
della VII Squadriglia dopo la battaglia: “Il
giornale radio sta comuniCando il bollettino delle Forze Armate, su quella che
è stata definita 'BATTAGLIA AERO-NAVALE di PUNTA STILO'. Riuniti sottocastello,
ascoltavamo con interesse, ma rotti dalla stanchezza e con gli occhi che quasi
ci si chiudevano per il sonno arretrato. A un certo punto la nostra attenzione
fu galvanizzata dalle parole che uscivano dall'altoparlante. La stanchezza ci
passò di colpo e scattammo tutti in piedi urlando e abbracciandoci in preda al
più vivo entusiasmo. Proseguendo nella lettura del Bollettino, l'annunciatore
aveva citato la nostra squadriglia: "... Si è particolarmente distinta la
SQUADRIGLIA FRECCIA, per aggressività e per essersi lanciata all'attacco sotto
il fuoco nemico, colpendo di siluro e abbattendo tre aerei nemici ...".
Nemmeno l'intervento dell'ufficiale in seconda è valso a calmare il nostro
entusiasmo, gridando come matti, ci siamo riversati al centro trascinando con
noi l'ufficiale che come scorse un varco ci si tuffò dentro e filò a poppa.
Dalle Torpediniere affiancate a noi e che non avevano preso parte alla
battaglia, venivano grida di (…) "VIVA
LA SQUADRIGLIA FRECCIA". Poi scendendo dalle loro navi e riversandosi in
banchina, schiere di marinai son saliti a bordo per abbracciarci e gridare con
noi la nostra gioia. (…) I cannonieri
e i siluristi avevano issato sulle loro spalle il capocannoniere e il capo
silurisra che poveretti cercavano di fare la voce grossa per farsi mettere giù,
ma si vedeva che avevano gli occhi lustri dalla commozione”.
Sul Freccia, tuttavia, l’atmosfera non è
altrettanto lieta a causa di un grave lutto: durante la battaglia, il 9 luglio,
il marinaio cannoniere puntatore mitragliere Nello Navone, di 21 anni, da
Villanova di Albenga, è scomparso in mare, trascinato fuori bordo da una
violenta onda. Alla sua memoria sarà conferita la Medaglia d’Argento al Valor
Militare, con motivazione «Puntatore di
mitragliera di un cacciatorpediniere durante un combattimento aeronavale, con
grande sprezzo del pericolo si manteneva al suo posto reso periglioso dalle
rollate della nave. Dopo aver contribuito ad abbattere un aereo nemico che
mitragliava da bassa quota la squadriglia, travolto da un'ondata più forte
delle altre scompariva in mare. Esempio di virtù militari e di attaccamento al
dovere».
15 luglio 1940
Il Freccia rientra a Taranto scortando la Cavour.
Il Freccia rientra a Taranto scortando la Cavour.
(Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
20 luglio 1940
Secondo il già citato
"Voce di prora" di Bruno Temperoni, in questa data l’VII Squadriglia
Cacciatorpediniere avrebbe scortato gli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi in una missione di
protezione a distanza dei convogli diretti in Africa Settentrionale, durante la
quale il Freccia ed il Dardo avrebbero localizzato e bombardato
con cariche di profondità un sommergibile nemico. Tuttavia ciò non risulta
dalla storia ufficiale dell’USMM ("La difesa del traffico con l’Africa
Settentrionale dal 10 giugno 1940 al 30 settembre 1941"), secondo cui Duca degli Abruzzi e Garibaldi sarebbero effettivamente
usciti in mare per una missione del genere in tale data, ma scortati dalla X
Squadriglia Cacciatorpediniere anziché dalla VII.
1-2 settembre 1940
Partecipa all’uscita
in mare della flotta a contrasto dell’operazione britannica «Hats» (consistente
in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad Alessandria, per
rinforzare la Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant, della portaerei Illustrious e
degli incrociatori Calcutta e Coventry; invio di un convoglio da
Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said; bombardamenti su basi
italiane in Sardegna e nell’Egeo): Supermarina ha infatti saputo che sia la
Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite
in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con
le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e
sommergibili
La VII Squadriglia
cui il Freccia appartiene (con Dardo, Saetta e Strale)
parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio, nave di
bandiera dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione
(corazzate Duilio, Conte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi
solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori
pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia),
all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli
Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi) ed ad alle Squadriglie Cacciatorpediniere VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino),
XV (Antonio Pigafetta, Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno, Antoniotto Usodimare).
Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e
Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III, VII e VIII Divisione e 39
cacciatorpediniere.
Le due Squadre Navali
italiane (la 1a Squadra è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX
e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a
Squadra dal Pola, dalle
Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII),
riunite, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono
però uscite in mare troppo tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro
notturno ed hanno una velocità troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di
cambiare rotta e raggiungere il centro del Golfo di Taranto se non riusciranno
ad entrare in contatto con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò
impedisce alle forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16
Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla 2a
Squadra, che si trova in posizione più avanzata della 1a, di
proseguire verso le forze nemiche (l’ammiraglio Iachino, comandante la 2a
Squadra, ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere
contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120
miglia di distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene
annullata; comunque la 2a Squadra non sarebbe egualmente
riuscita a raggiungere le unità avversarie). Alle 17.27 la 2a
Squadra riceve l’ordine d’invertire la rotta ed assumere rotta 335° e velocità
20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle 22.30 la
formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le
forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante,
dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere
contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la congiungente
Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già in aumento
dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da nordovest forza
9, che verso le 13 costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i
cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le
necessità operative (non potendo restare in formazione né usare l’armamento).
Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle
rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle
sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare. Le
navi verranno tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma
non si concretizzerà alcuna nuova occasione.
11 ottobre 1940
Alle 19.30 il Freccia (caposquadriglia, capitano di
fregata Amleto Baldo) ed il resto della VII Squadriglia Cacciatorpediniere (Dardo, Saetta, Strale) salpano
da Palermo per svolgere una ricerca notturna a rastrello nel Canale di Sicilia,
sulla congiungente Marettimo-Zembra (al largo di Capo Bon in Tunisia). Dopo la
partenza, la VII Squadriglia dirige a 14 nodi in una zona di mare situata a sud
di Marettimo.
Tale missione è stata
decisa dopo che, alle 8.45 dell’11 ottobre, un aereo di linea italiano ha
avvistato 20 unità britanniche (15 navi da guerra e 5 di tipo imprecisato) con
rotta 220° (ma all’arrivo dell’aereo hanno virato di 90° a dritta) in posizione
35°20’ N e 15°40’ O, a 65 miglia per 115° da (ad est-sudest di) Malta.
Supermarina, informata da Superaereo un’ora più tardi, non è in grado di fare
uscire in mare le forze navali maggiori prima del giorno seguente, pertanto ha
ordinato al Comando Militare Marittimo della Sicilia (ammiraglio di divisione
Pietro Barone, con sede a Messina) di organizzare una ricerca offensiva
notturna con l’utilizzo di aerei per la ricognizione e di unità sottili
(cacciatorpediniere, torpediniere e MAS) per la ricerca del contatto e
l’eventuale attacco. Sono state quindi disposte ricognizioni con aerei, l’invio
dei MAS 512, 513 e 517 in agguato notturno al largo della Valletta,
l’approntamento in tre ore delle due squadre navali, la messa in allarme delle
difese di Taranto, della Sicilia e della Libia, e l’interruzione del traffico
tra Italia e Libia; inoltre si è deliberato di inviare numerose siluranti a
verificare la presenza di navi nemiche e, in caso affermativo, ad attaccare col
favore della notte. Entro ventiquattr’ore sarebbe possibile fare uscire le
forze da battaglia da Taranto, Augusta e Messina, per appoggiare l’azione
notturna delle siluranti, o sfruttarne gli eventuali risultati positivi.
A trovarsi in mare è
l’intera Mediterranean Fleet, con le corazzate Valiant, Warspite, Ramillies e Malaya, le portaerei Eagle ed Illustrious, l’incrociatore pesante York, gli incrociatori leggeri Ajax, Orion, Sydney, Liverpool e Gloucester ed
i cacciatorpediniere Havock, Hasty, Hyperion, Hero, Hereward, Ilex, Jervis, Janus, Juno, Dainty, Defender, Decoy, Nubian, Vampire e Vendetta: tale poderosa formazione è uscita in mare l’8 ottobre per
dare scorta a distanza al convoglio «M.F. 3» diretto a Malta, ed ora, dopo che
i mercantili sono giunti a destinazione l’11 ottobre, attende di assumere la
scorta di tre piroscafi scarichi (Aphis, Plumleaf e Volo, del convoglio «M.F. 4») di ritorno
ad Alessandria d’Egitto.
L’ammiraglio Andrew
Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, ha creato a nord del
grosso della flotta uno ‘schermo’ di incrociatori e cacciatorpediniere, con
compiti di ricognizione, l’ultimo dei quali (il più a nord) è l’incrociatore
leggero Ajax, al comando del
capitano di vascello Eward Desmond Bewley McCarthy, il quale avanza a 17 nodi
procedendo a zig zag, una settantina di miglia a nord del grosso della
Mediterranean Fleet ed ad altrettante miglia da Malta. Le altre unità dello
schermo sono l’incrociatore pesante York,
gli incrociatori leggeri Orion e Sydney (che con l’Ajax formano
il 7th Cruiser Squadron) ed i cacciatorpediniere Nubian e Mohawk; le navi procedono in linea di rilevamento, a notevole
distanza l’una dall’altra.
I primi ricognitori
italiani, degli idrovolanti CANT Z. 501 delle Squadriglie 144a (di
base a Stagnone), 184a, 186a (di base entrambe ad
Augusta) e 189a (di base a Siracusa) della Regia Aeronautica,
decollano nel primo pomeriggio dell’11 ottobre, quando il cielo – fino ad
allora coperto dalle nuvole, con scariche elettriche, forti raffiche di vento e
visibilità molto limitata, a causa di una perturbazione sul Mediterraneo
centrale iniziata il 9 ottobre – inizia a rasserenarsi, permettendo un
progressivo miglioramento della visibilità. Il CANT Z. 501 decollato per primo
da Stagnone esplora il settore più occidentale (tra il meridiano di Capo Bon ed
il 13° meridiano) ma non trova nulla; altri due idrovolanti sono decollati da
Augusta sempre nel primo pomeriggio dell’11 e conducono una ricerca
(distanziati di 30 miglia e con percorsi paralleli ed opposti) che va da Malta
al meridiano 22° E, ma di nuovo senza risultati; un quarto CANT Z. 501,
decollato da Siracusa ed assegnato all’esplorazione di un settore a sud ed ad
est di Malta, non vede nulla.
La VII Squadriglia si
dispone dunque alla sua ricerca: è stata però inviata per mero scrupolo, nella
zona dove il passaggio delle forze nemiche è meno probabile, per il caso che le
forze nemiche possano passare ad ovest di Malta (più che altro si pensa
all’eventualità di qualche altro movimento di navi britanniche da e per Malta
indipendente da quelli segnalati dagli aerei ad est di tale isola, non
correlati o correlabili ai primi). Ad ogni modo, a Palermo la IV Divisione (incrociatori
leggeri Alberto Di Giussano ed Armando Diaz) è tenuta pronta a salpare
in tre ore per uscire in mare a sostegno della VII Squadriglia, qualora ciò si
rivelasse necessario.
Nella zona dov’è
ritenuto più probabile il passaggio delle forze nemiche, a levante di Malta,
sono state invece inviate la I Squadriglia Torpediniere (Alcione, Airone, Ariel) e la XI Squadriglia
Cacciatorpediniere (Aviere, Artigliere, Geniere, Camicia Nera).
12 ottobre 1940
Alle due di notte la
VII Squadriglia giunge nell’area assegnata per il pattugliamento, a sud di
Marettimo, ed inizia il rastrello con rotta verso Capo Bon, con velocità media
oscillante tra 14 e 16 nodi.
Alle sei del mattino
la Squadriglia inverte la rotta e dirige per Palermo, dove arriva alle due del
pomeriggio.
Mentre la VII
Squadriglia non ha avvistato nulla durante la sua missione notturna, sono state
proprio la XI Squadriglia Cacciatorpediniere e la I Squadriglia Torpediniere ad
imbattersi nel nemico: ne è scaturito un combattimento nel quale sono affondati
il cacciatorpediniere Artigliere e
le torpediniere Airone ed Ariel.
(Coll. Nicola Ceragioli, via Flickr) |
22 ottobre 1940
Freccia (caposquadriglia della VII Squadriglia Cacciatorpediniere,
nonché caposcorta), Saetta, Dardo e Strale salpano da Palermo sostituendo le torpediniere Clio e Calliope nella scorta dei trasporti truppe Esperia e Marco Polo, provenienti da Napoli e diretti a Tripoli. Alle 17
lo Strale, per avarie di
macchina, deve raggiungere Trapani; riparata l’avaria, ne riparte l’indomani
alle 13.
23 ottobre 1940
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 14.40.
24 ottobre 1940
Freccia (caposcorta), Saetta, Dardo e Strale ripartono da Tripoli alle 9.15, sempre scortando Esperia e Marco Polo, ora diretti a Bengasi.
25 ottobre 1940
Il convoglio arriva a
Bengasi alle 9.30, e riparte per tornare a Tripoli alle 17, dopo che i
piroscafi hanno sbarcato le truppe.
26 ottobre 1940
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 16.
27 ottobre 1940
Esperia e Marco Polo,
sempre scortati dalla VII Squadriglia (col Freccia
sempre come caposcorta), ripartono da Tripoli alle 21 per tornare in Italia.
28 ottobre 1940
La VII Squadriglia
lascia la scorta alle 18.15, in prossimità di Trapani, venendo sostituita dalla
torpediniera Alcione, che
accompagna i due piroscafi nell’ultimo tratto di navigazione (fino a Napoli).
11-12 novembre 1940
Il Freccia si trova ormeggiato in Mar
Piccolo a Taranto (in banchina, insieme agli incrociatori pesanti Pola e Trento, agli incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Garibaldi,
ai cacciatorpediniere Saetta, Dardo, Strale, Maestrale, Libeccio, Grecale, Scirocco, Camicia Nera, Carabiniere, Corazziere, Ascari, Lanciere, Geniere, Da Recco, Pessagno ed Usodimare,
alle torpediniere Pallade, Polluce, Partenope e Pleiadi,
alla portaidrovolanti Giuseppe
Miraglia, al posamine Vieste ed
al rimorchiatore di salvataggio Teseo),
quando la base viene attaccata da aerosiluranti britannici che affondano la
corazzata Conte di Cavour e
pongono fuori uso la Littorio e
la Duilio.
Mentre gli
aerosiluranti attaccano le corazzate, cinque bombardieri attaccano a più
riprese le unità presenti in Mar Piccolo, a scopo diversivo, sganciando
complessivamente una sessantina di bombe.
Alle 23.15 dell’11 le
navi in Mar Piccolo aprono il fuoco contro alcuni aerei che sganciano bombe da
una quota valutata in 500 metri; gli ordigni inquadrano i posti d’ormeggio dei
cacciatorpediniere, ma solo uno va a segno, senza esplodere (sul Libeccio, che riporta solo lievi danni).
(Secondo le memorie
del sottoCapo Armarolo Guido
Bellocci, imbarcato sulla Cavour, il Freccia sarebbe stato colpito dal tiro
contraereo della mitragliere della Cavour
stessa – pur senza riportare danni di rilievo – dal momento che la corazzata,
per colpire gli aerosiluranti che volavano a bassissima quota, sparava con alzo
zero).
Successivamente a
questo attacco, il Freccia ed il
resto della VII Squadriglia Cacciatorpediniere si trasferiscono da Taranto a
Napoli, al pari del grosso della flotta.
26 novembre 1940
Tra le 11.50 e le
12.30 (per una fonte, a mezzogiorno) il Freccia lascia Napoli unitamente al Dardo ed al Saetta (la
VII Squadriglia è al comando del capitano di fregata Amleto Baldo, imbarcato
sul Freccia), alla XIII Squadriglia
Cacciatorpediniere (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino)
ed alle corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare, per intercettare un
convoglio britannico diretto a Malta.
Tale convoglio,
entrato in Mediterraneo il 24 novembre, è composto dai mercantili New Zealand
Star, Clan Forbes e Clan Fraser, con la scorta diretta
dell’incrociatore leggero Despatch,
dei cacciatorpediniere Duncan, Wishart ed Hotspur e delle corvette Hyacinth, Peony, Salvia e Gloxinia. La Forza F di protezione
ravvicinata (ammiraglio Lancelot Holland) comprende gli incrociatori
leggeri Manchester, Sheffield e Southampton, mentre come forza di
copertura a distanza è uscita da Gibilterra la Forza H (ammiraglio James
Somerville) con l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark
Royal e sette cacciatorpediniere (Kelvin, Jaguar, Encounter, Faulknor, Firedrake, Fury, Forester). La
Forza H ha raggiunto il convoglio il mattino del 25 dopo che questo, nella
notte precedente, è entrato in Mediterraneo; ad essa dovrà unirsi la formazione
salpata da Alessandria, demominata Forza D (composta dalla corazzata Ramillies, dall’incrociatore pesante Berwick, dall’incrociatore leggero Newcastle, dall’incrociatore antiaerei Coventry e dai cacciatorpediniere Gallant, Greyhound, Griffin, Diamond, Defender e Hereward), che
ha preso il mare nel pomeriggio del 24 novembre. La Ramillies con Griffin, Greyhound ed Hereward dovrà unirsi alla Forza H, Berwick e Newcastle alla
Forza F, mentre Gallant e Coventry rinforzeranno la scorta diretta
del convoglio.
Supermarina ha saputo
per la prima volta dell’intensa attività navale nemica il mattino del 25,
quando informatori attivi a Gibilterra hanno comunicato che alle 8.25 la Forza
H è partita con rotta verso est; successivamente l’alto Comando della Regia
Marina ha appreso anche dell’uscita in mare di forze navali britanniche dalla
base di Alessandria.
Da Napoli, oltre al
gruppo che comprende il Freccia e le
corazzate, prendono il mare anche l’incrociatore pesante Pola, la I Divisione con due unità
(incrociatori pesanti Fiume e Gorizia) e la IX Squadriglia
Cacciatorpediniere con Vittorio Alfieri,
Alfredo Orani, Vincenzo Gioberti e Giosuè
Carducci; da Messina salpano alle
12.30 la III Divisione Navale (incrociatori pesanti Trento, Trieste e Bolzano, al comando dell’ammiraglio
Luigi Sansonetti) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Lanciere, Ascari, Corazziere e Libeccio).
I tre gruppi si
riuniscono 70 miglia a sud di Capri (nel punto 39°20’ N e 14°20’ E) alle 18.00,
assumendo poi rotta 260° e velocità 16 nodi, per intercettare la squadra
britannica proveniente da Gibilterra. VII e XIII Squadriglia scortano le due
corazzate (così formando la 1a Squadra). Comandante della 1a
Squadra è l’ammiraglio Inigo Campioni, con bandiera sulla Vittorio Veneto; comandante della 2a Squadra è
l’ammiraglio Angelo Iachino, imbarcato sul Pola.
27 novembre 1940
Alle otto del
mattino, la formazione italiana procede nel seguente ordine: in testa sono
il Pola, nave ammiraglia della 2a Squadra
(che è formata dalla I e dalla III Divisione), e la I Divisione, con rotta 250°
e velocità 16 nodi; la III Divisione procede a cinque miglia per 180° dal gruppo Pola-I Divisione; la 1a Squadra
(le due corazzate ed i cacciatorpediniere della VII e della XIII Squadriglia,
al comando dell’ammiraglio Campioni) è più a poppavia.
La formazione
italiana ha rotta 260°, verso la Sardegna, ed il mattino del 27 incrocia nove
miglia a sud di Capo Spartivento Sardo, per intercettare uno dei due gruppi
britannici in mare (uno partito da Alessandria ed uno da Gibilterra) prima che
possano riunirsi.
Tra le 8.30 e le 9.10
la 1a Squadra, rimanendo indietro rispetto agli incrociatori (che
formano la 2a Squadra), a poppavia dei quali sta procedendo,
accelera a 17 e poi a 18 nodi per ridurre la distanza.
Le flotte
contrapposte si trovano in quel momento a non grande distanza l’una dall’altra,
ma nessuna conosce con esattezza la posizione dell’avversario; il primo a
sapere con certezza della presenza nei pressi di una potente formazione nemica
è l’ammiraglio Somerville, che di conseguenza, dopo essersi congiunto con la
Forza D (il che fa sì che le forze ai suoi ordini divengano leggermente più
potenti di quelle italiane, mentre Supermarina pianificava uno scontro in
condizioni di superiorità, con la sola Forza H), ordina al convoglio di
proseguire con la protezione di tre cacciatorpediniere e dell’incrociatore
antiaerei Coventry, mentre il resto
della flotta britannica si appresta a fronteggiare quella italiana.
Alle 9.50 le
corazzate italiane avvistano un ricognitore britannico Bristol Blenheim, contro
cui aprono il fuoco alle 10.05 (il velivolo si allontana). Alle 9.45, intanto,
il gruppo britannico proveniente da Alessandria viene avvistato da un
idroricognitore lanciato dal Bolzano alle
7.55, che comunica che una corazzata, due incrociatori e quattro
cacciatorpediniere si trovano a 26 miglia per 20° da Cap de Fer, con rotta 90°
e velocità 16 nodi. Il messaggio del ricognitore viene ricevuto alle 10.05
dall’ammiraglio Iachino e dieci minuti dopo dall’ammiraglio Campioni. Poco dopo
il velivolo aggiunge che si mantiene in contatto visivo con le navi nemiche;
continuerà a tenere il contatto fino alle 10.40.
Sebbene la posizione
indicata sia piuttosto lontana dal vero (troppo ad ovest), questo avvistamento
è il primo concreto segnale, per il comandante superiore in mare, della
presenza delle forze nemiche.
A questo punto, la
formazione italiana dirige per sudest, in modo da intercettare il gruppo nemico
e tagliargli la rotta.
Alle 11 la formazione
inverte la rotta ed aumenta la velocità da 16 a 18 nodi, ed alle 11.28 assume
rotta 135°, per intercettare la formazione britannica che (dalle segnalazioni
dei ricognitori) risulta avere posizione differente da quella prevista. Alle
11.35 Campioni l’ammiraglio Campioni ordina a Iachino di portarsi su
rilevamento 195° rispetto alla sua nave ammiraglia (la Vittorio Veneto), in modo che la
formazione divenga perpendicolare alla probabile direzione d’avvicinamento
della squadra britannica.
Alle 11.55 Campioni viene
informato della presenza del convoglio e di una seconda corazzata, accompagnata
da alcuni incrociatori, non lontano dalla Forza H. Alle 12.07, in seguito alla
constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana
(i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità)
l’ammiraglio Campioni ordina di assumere rotta 90° per rientrare alle basi
senza ingaggiare il combattimento, e di aumentare la velocità.
Alle 12.15, tuttavia,
le unità della 2a Squadra avvistano improvvisamente quattro
cacciatorpediniere britannici, diretti verso gli incrociatori italiani: le
siluranti nemiche spariscono subito, avendo apparentemente invertito la rotta,
ma poco dopo vengono avvistati altri cacciatorpediniere, incrociatori,
corazzate: è la squadra britannica, che comprende le corazzate Renown e Ramillies, la portaerei Ark
Royal e gli incrociatori Berwick (pesante), Sheffield, Southampton, Newcastle e Manchester (leggeri), oltre a
numerosi cacciatorpediniere. L’ammiraglio Campioni ordina pertanto di
incrementare ancora la velocità (che è di 25 nodi per la 1a Squadra
e di 28 per la 2a Squadra, che deve riunirsi alla 1a essendo
più indietro): inizia così la battaglia di Capo Teulada.
Alle 12.20 gli
incrociatori della 2a Squadra aprono il fuoco da 21.500-22.000
metri. Subito gli incrociatori britannici (uno, il Manchester, viene mancato dalla prima salva italiana, sparata dal Trieste o dal Trento, scartata lateralmente di circa
90 metri) rispondono al fuoco; Berwick, Manchester, Sheffield e Newcastle
concentrano il loro tiro contro le unità della III Divisione. Gli incrociatori
italiani della 2a Squadra, in linea di fila, sono in posizione
favorevole (da “taglio del T”) per sparare con tutte le artiglierie su quelli
britannici, che si trovano invece in linea di fronte e possono usare solo le
torri prodiere, ma per via dell’ordine di Campioni di disimpegnarsi devono
accostare verso nordest.
Per avvicinarsi
rapidamente alla 2a Squadra, alle 12.27 la 1a Squadra
inverte la rotta ad un tempo sulla dritta, ed alle 12.35 inverte nuovamente la
rotta, sempre a dritta; poco dopo un gruppo di aerosiluranti britannici,
decollati dalla portaerei Ark Royal,
si porta a 650 metri dalle corazzate (tra queste ed i cacciatorpediniere della
scorta) e lancia infruttuosamente i propri siluri, undici, tutti evitati con la
manovra. I cacciatorpediniere rispondono con un intenso tiro delle mitragliere
contraeree, così come le corazzate (con i loro pezzi da 90 ed anche da 152 mm
oltre alle mitragliere).
Il tiro degli
incrociatori italiani è intenso dall’apertura del fuoco fino alle 12.42, poi
diventa intermittente tra le 12.42 e le 12.49 a causa di ripetute accostate
necessarie a disturbare l’attacco di aerosiluranti britannici frattanto
apparsi, poi nuovamente intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi, a causa
dell’aumento delle distanze e del fumo (causato soprattutto dalla combustione
forzata delle caldaie, in particolare sulle navi della III Divisione), il ritmo
di tiro deve di nuovo calare, fino a cessare alle 13.15, quando la distanza è
diventata di 26.000 metri.
Due salve da 203 mm
degli incrociatori italiani colpiscono, alle 12.22 ed alle 12.35, l’incrociatore
pesante britannico Berwick: la
prima uccide sette uomini, ne ferisce nove e mette fuori uso la terza torre da
203 dell’unità britannica, la seconda danneggia il quadrato ufficiali ed i
locali adiacenti, ma il Berwick continua
a fare fuoco con le torri rimaste funzionanti. Nello schieramento italiano, tra
le 12.33 e le 12.40 tre colpi sparati da un incrociatore britannico colpiscono
in sala macchine il cacciatorpediniere Lanciere,
che rimane immobilizzato e verrà successivamente preso a rimorchio dal
gemello Ascari.
Fino alle 12.40 le
navi britanniche (soprattutto gli incrociatori) sparano intensamente contro la
III Divisione, poi spostano il tiro sulla I Divisione, che è divenuta più
vicina (ma il loro tiro è disturbato dal fumo prodotto dalle navi italiane). Le
corazzate britanniche intervengono solo sporadicamente, trovandosi più indietro
rispetto agli incrociatori, senza comunque colpire nulla.
Alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da
poco meno di 29.000 metri, ma le unità britanniche subito accostano a dritta e
la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare il
fuoco già alle 13.10. Alle 13.15, essendo la distanza (della 2a
Squadra dalle forze britanniche) salita a 26.000 metri, il tiro viene cessato
anche dagli incrociatori, viene rotto il contatto. Ha così fine l’inconclusiva
battaglia di Capo Teulada. Alle 21 del 27 novembre le navi italiane assumono
rotta nord a 15 nodi e procedono sino alle 00.30, poi dirigono verso est fino
alle 7.30 del 28, dopo di che seguono le rotte costiere.
Il Freccia in porto nel 1940 (da Wikipedia, utente Edozio) |
28 novembre 1940
La flotta italiana
arriva a Napoli tra le 13.25 e le 14.40.
15 dicembre 1940
Intorno alle 17 il Freccia ed il resto della VII
Squadriglia, insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri) e XIII (Granatiere), alle corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto ed agli
incrociatori pesanti Zara e Gorizia, lasciano Napoli per trasferirsi
a La Maddalena.
Il trasferimento
della squadra in Sardegna, a carattere temporaneo, è stato deciso da
Supermarina per sottrarre le navi ad ulteriori attacchi aerei britannici, dopo
che un bombardamento britannico di Napoli, verificatosi la notte precedente, ha
gravemente danneggiato l’incrociatore Pola.
Le unità rimangono a
La Maddalena, porto non molto più al sicuro di Napoli dagli attacchi aerei,
solo per i pochi giorni necessari all’approntamento a Napoli di adeguate
contromisure contro i bombardamenti (tra cui impianti per l’annebbiamento del
porto); dopo di che, ultimati tali lavori, la squadra rientra a Napoli già il
20 dicembre.
31 dicembre 1940
Il secondo capo
meccanico Ferdinando Belli, di 26 anni, da Foligno, muore a bordo del Freccia nel Mediterraneo centrale.
9 gennaio 1941
In seguito ad un
nuovo bombardamento su Napoli, verificatosi la notte precedente, nel quale è
stata danneggiata (in modo non grave) la corazzata Giulio Cesare, Supermarina decide di trasferire in Liguria la Cesare stessa e la Vittorio Veneto – che dopo la “notte di Taranto” ed il
danneggiamento della Cesare, con la Doria ancora in addestramento a La
Spezia, è rimasta l’unica corazzata in condizioni di efficienza – per
sottoporre la prima alle necessarie riparazioni e per non esporre la seconda ad
ulteriori attacchi aerei. Alle cinque del pomeriggio, pertanto, Cesare e Vittorio Veneto lasciano Napoli con la scorta della VII Squadriglia
Cacciatorpediniere (caposquadriglia è appunto il Freccia) e della XIII Squadriglia Cacciatorpediniere
(caposquadriglia il Granatiere),
trasferendosi a La Spezia. La Cesare
si sposterà poi a Genova per essere sottoposta alle riparazioni nei cantieri di
quella città.
Inverno 1940-1941
Il Freccia partecipa, con altre unità
(incrociatori leggeri Eugenio di
Savoia, Duca d’Aosta, Attendolo e Montecuccoli della VII Divisione,
incrociatori leggeri Duca degli
Abruzzi e Garibaldi dell’VIII
Divisione, cacciatorpediniere Folgore, Fulmine, Lampo e Baleno della
VIII Squadriglia nonché i suoi compagni di squadriglia Dardo, Saetta e Strale),
a crociere notturne nel Canale d’Otranto (tra i paralleli 39°45’ N e 40°18’ N)
a protezione indiretta dei convogli che trasportano in Albania i rifornimenti
per le truppe italiane impegnate sul fronte greco-albanese, nonché ad azioni di
bombardamento navale a supporto delle stesse operazioni.
In totale vengono
eseguite dieci crociere notturne, con l’impiego di due incrociatori ed una
squadriglia di cacciatorpediniere ogni volta.
11-12 gennaio 1941
Il Freccia, insieme al Saetta, alla X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
e ad una sezione della XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere ed Alpino), parte da La Spezia alle 4
dell’11 gennaio, scortando le corazzate Andrea Doria e Vittorio
Veneto (nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino)
inviate ad intercettare e finire la portaerei britannica Illustrious, che è stata gravemente
danneggiata dalla Luftwaffe, nel canale di Sicilia (cioè a più di un giorno di
navigazione da La Spezia). Le navi dirigono verso sud a 20 nodi, ma alle 14.30
Supermarina, informata che l’Illustrious ha
già raggiunto Malta nella notte precedente, ordina a Iachino, che si trova in
quel momento nelle aque delle Isole Pontine, di tornare indietro. Durante il
rientro alla base le navi effettuano una serie di esercitazioni di tiro e di
manovra, per poi giungere a La Spezia alle 9 del 12 gennaio.
22 gennaio 1941
Freccia (caposcorta) e Saetta
partono da Napoli alle 19 scortando i trasporti truppe Esperia, Conte Rosso, Marco Polo e Victoria, diretti a Tripoli.
A Trapani le due
unità vengono sostituite nella scorta dai cacciatorpediniere Luca Tarigo, Ugolino Vivaldi (caposcorta), Lanzerotto Malocello ed Antonio
Da Noli della XIV Squadriglia.
25 gennaio 1941
Freccia (caposcorta), Saetta
ed il cacciatorpediniere Luca Tarigo partono
da Tripoli alle 19 scortando Esperia, Victoria, Conte Rosso e Marco
Polo.
26 gennaio 1941
All’1.25 il
sommergibile britannico Upholder (tenente
di vascello Malcolm David Wanklyn), in agguato presso la boa n. 4 delle
Kerkennah, sente su rilevamento 090° i rumori del convoglio in avvicinamento, del
cui arrivo è stato preavvisato; all’1.30, dopo aver virato verso sinistra per
seguire lo spostamento in quella direzione della fonte sonora, Wanklyn avvista
un mercantile ed un cacciatorpediniere in posizione 35°41’ N e 11°50’ E (ad est
delle Kerkennah). All’1.35 l’Upholder lancia
due siluri contro il mercantile, che dista 2300 metri, e dopo un minuto accosta
in fuori per evitare il cacciatorpediniere; così facendo avvista altri due
mercantili a poppavia del primo, contro uno dei quali (il più poppiero) lancia
altri due siluri, da 2750 metri, all’1.47, per poi immergersi ed allontanarsi
all’1.49. Nessuna nave viene colpita.
27 gennaio 1941
Il convoglio giunge a
Napoli alle 10.
Febbraio 1941
Il comandante Baldo
viene promosso a capitano di vascello.
5 febbraio 1941
Freccia (caposcorta), Saetta
e Tarigo partono da Napoli
alle 18.30 (o 19), scortando un convoglio veloce formato Esperia, Conte Rosso, Marco Polo e Calitea. I quattro mercantili
trasportano truppe e materiali della 132a Divisione corazzata
"Ariete", in corso di trasferimento in Libia.
6 febbraio 1941
A causa del mare
burrascoso, i tre cacciatorpediniere della scorta sono costretti a rifugiarsi a
Palermo, dove giungono alle 15; deve allora sostituirli nella scorta ai
trasporti truppe l’incrociatore Bande
Nere (ammiraglio di divisione Alberto Marenco di Moriondo, inviato da
Palermo), che li raggiunge nei pressi di Marettimo (fin dove il convoglio,
sotto il comando del contrammiraglio Luigi Aiello, è proseguito senza scorta).
Passato il maltempo e
giunto il convoglio a destinazione, i cacciatorpediniere vengono inviati a
Tripoli per scortare i trasporti nel viaggio di ritorno (alle 17.10 dell’8
febbraio incontrano proprio il Bande Nere,
che sta rientrando in Italia scortando la motonave Calino).
9 febbraio 1941
Freccia (caposcorta, capitano di vascello Amleto Baldo), Saetta, Tarigo, Malocello e
la torpediniera Aldebaran partono
da Tripoli alle 18.30 scortando Esperia, Conte Rosso, Marco Polo e Calitea,
che hanno imbarcato 5000 profughi civili (2000 per altra versione) in fuga
dall’avanzata delle forze britanniche (sta terminando l’operazione «Compass»:
le forze britanniche hanno conquistato l’intera Cirenaica ed annientato la X
Armata italiana, e si teme una loro avanzata anche in Tripolitania).
Durante la
navigazione, Calitea ed Aldebaran si separano dal resto del
convoglio, per raggiungere Palermo.
Alle 19.36 il
sommergibile britannico Usk (capitano
di corvetta Peter Ronald Ward) avvista verso sudovest due unità del convoglio
(“due grandi navi mercantili” aventi
rotta verso nord) a 3200-3660 metri di distanza, a nord di Tripoli, e cinque
minuti dopo lancia due siluri contro la nave di testa, il Conte Rosso. I siluri hanno corsa irregolare e mancano il
bersaglio; l’Usk s’immerge poco
dopo.
Poche ore dopo, alle
22.20, è un altro sommergibile britannico, il Truant (capitano di corvetta Hugh Alfred Vernon Haggard), ad
avvistare il convoglio italiano, in posizione 33°41’ N e 13°51’ E (una
sessantina di miglia a nordest di Tripoli), mentre procede su rotta 350° (verso
sud), a 7-8 miglia di distanza. Alle 23 il battello britannico lancia sei
siluri, tre contro un trasporto truppe e tre contro un altro (probabilmente l’Esperia ed il Marco Polo), ma nessuno di essi raggiunge il bersaglio, e le navi
del convoglio non si accorgono neanche dell’attacco.
(da www.naviecapitani.it) |
11 febbraio 1941
Esperia, Conte Rosso, Marco Polo ed i cacciatorpediniere
arrivano a Napoli alle cinque. Calitea ed
Aldebaran vi giungeranno un
giorno più tardi.
17 febbraio 1941
Freccia (caposcorta) e Saetta
salpano da Napoli per Tripoli all’una di notte, scortando i piroscafi
tedeschi Maritza, Menes, Arta ed Heraklea.
A Palermo la scorta viene rinforzata dal cacciatorpediniere Turbine.
19 febbraio 1941
Alle 23.10, in
posizione 32°52’ N e 12°48’ E (ad ovest di Tripoli ed a sudest del Golfo di
Gabes), il sommergibile britannico Upholder (capitano
di corvetta Malcolm David Wanklyn) avvista il convoglio di cui fa parte il Freccia, avente rotta 095°, e ne stima
la composizione in “tre navi mercantili
scortate da altrettante torpediniere o cacciatorpediniere, posizionate una a
proravia del convoglio e le altre due sui lati”, dei quali l’unità di testa
viene erroneamente identificata come una torpediniera classe Spica. Alle 23.26 l’Upholder lancia due siluri da 1370 metri
contro l’Heraklea, mercantile di testa,
per poi scendere a 55 metri di profondità. L’Heraklea avvista le scie dei siluri e riesce ad evitarli con
una brusca accostata a dritta.
20 febbraio 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 6.
21 febbraio 1941
Freccia (caposcorta, capitano di vascello Amleto Baldo), Saetta (capitano di corvetta Carlo
Unger di Löwenberg) e Turbine (capitano
di corvetta Enrico Marano) ripartono da Tripoli alle 8 scortando Maritza, Menes ed Heraklea che
rientrano scarichi.
Alle 13.55 il
sommergibile britannico Regent (capitano
di corvetta Hugh Christopher Browne) avvista in posizione 33°39’ N e 12°51’ E
(o 33°41’ N e 12°48’ E) il convoglio di cui fa parte il Freccia, ed alle 14.26 lancia due siluri
contro il piroscafo di testa, il più grande, da una distanza di 2300 metri.
Alle 14.30 il Menes viene colpito a centro nave
da un siluro. Heraklea e Maritza accostano rispettivamente in
fuori a sinistra ed a dritta, per poi riunirsi ed allontanarsi dalla zona
pericolosa, mentre il Saetta si
dirige verso il Menes, che sta
calando le proprie scialuppe; il piroscafo è immobilizzato, ma galleggia
ancora. Al contempo, il Saetta
segnala al Freccia, col
radiosegnalatore, la rotta vera di provenienza dei siluri, che ha rilevato alla
bussola.
Il Turbine (che ha avvistato la scia
del siluro, ma troppo tardi per poter evitare che andasse a segno) e poi anche
il Freccia si portano sul
punto di lancio del siluro ed attaccano ripetutamente il sommergibile con bombe
di profondità; alle 14.35, in seguito all’affioramento di grosse chiazze di
nafta, il Turbine segnala al Freccia «forse ho affondato il sommergibile». Poi attacca di nuovo, finché –
alle 14.38 – emergono in superficie altre chiazze di nafta, bolle e per un
attimo anche quello che sembra essere lo scafo del sommergibile. Anche
dal Saetta viene visto uno
scafo capovolto tondeggiante affiorare in superficie per pochi secondi a
poppavia del Freccia, per poi
sparire subito tra la schiuma che ribolle sul mare; il Turbine spara due colpi da 120 mm, e
vengono sentiti altri scoppi di bombe di profondità. È questo l’avvenimento che
induce la scorta, erroneamente, a credere che il sommergibile sia stato
affondato: infatti alle 14.39 il Freccia comunica
per radiosegnalatore al Saetta che «Il sommergibile è stato affondato»,
tanto che il comandante Baldo riceverà una Medaglia di Bronzo al Valor Militare
per la distruzione dell’unità nemica. In realtà, il Regent è stato soltanto danneggiato (secondo una fonte, dalle
bombe di profondità lanciate dal Freccia).
Dopo aver lanciato
alcune bombe di profondità contro il sommergibile, il Freccia prosegue e raggiunge il Saetta
vicino al Menes.
Alle 14.50 giunge
sul Saetta la prima
scialuppa del Menes, con quattro
feriti; cinque minuti dopo, vedendo in mare altre lance di salvataggio, personale
del Saetta arma scialuppa vuota con
marinai del Saetta e prende
a rimorchio le altre imbarcazioni. Vengono così recuperati tutti i naufraghi
del Menes, in numero di 69,
quattro dei quali feriti (uno in modo grave, tre meno gravemente); due uomini
del piroscafo risultano dispersi.
Il comandante del Saetta si consulta poi col comandante
del Menes e con l’ufficiale di
collegamento della Regia Marina su quel piroscafo e giunge alla conclusione che
il bastimento possa continuare a galleggiare e sia rimorchiabile, opinione che
comunica al Freccia alle
15.17. Tre minuti dopo, il Freccia ordina
pertanto al Saetta di
prendere a rimorchio il Menes e
di portarlo a Tripoli, che dista solo tre miglia e mezzo.
Nel frattempo, Maritza ed Heraklea sono tornati sulla rotta e
si stanno allontanando dirigendo Kerkennah, guidati e scortati dal Turbine; alle 15.40 anche il Freccia lascia il luogo del
siluramento per ricongiungersi col convoglio, lasciando il Saetta a provvedere al rimorchio
del Menes. Il piroscafo
danneggiato raggiungerà Tripoli il mattino del 22 febbraio.
23 febbraio 1941
Freccia e Maritza arrivano a
Napoli alle 11. Turbine ed Heraklea vi giungerano invece soltanto
ventiquattr’ore più tardi.
3 marzo 1941
Il Freccia, il Tarigo (caposcorta) e la torpediniera Castore partono da Napoli per
Tripoli alle 18, scortando i piroscafi tedeschi Arta, Adana ed Aegina (per una fonte anche un quarto,
l’Heraklea) e l’italiano Sabaudia, carichi di rifornimenti per
l’Afrika Korps.
6 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 20.30 (o 20.45).
14 marzo 1941
Il Freccia, il Tarigo (caposcorta) e le anziane torpediniere Rosolino Pilo, Giuseppe Missori e Giuseppe La Farina salpano da
Napoli per Tripoli alle 20.30, scortando i piroscafi tedeschi Adana, Aegina, Heraklea e Galilea e l’italiano Beatrice Costa, con truppe e materiali
dell’Afrika Korps.
18 marzo 1941
Il convoglio
raggiunge Tripoli all’una.
19 marzo 1941
Freccia, Tarigo (caposcorta),
Missori e Pilo ripartono da Tripoli per
Napoli alle 7.30, scortando Adana, Aegina, Heraklea e Galilea che
ritornano scarichi.
21 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Napoli alle 20.
Aprile 1941
Il capitano di
vascello Amleto Baldo, destinato a Supermarina, lascia il comando del Freccia e della VII Squadriglia
Cacciatorpediniere, che viene assunto dal parigrado Giorgio Ghè.
24 maggio 1941
Il Freccia (caposcorta, capitano di
fregata Giorgio Ghè) salpa da Napoli alle 4.30 (o 4.40) insieme alle
torpediniere Pegaso, Orsa e Procione per scortare a Tripoli un convoglio veloce formato dai
trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria,
aventi a bordo in tutto 8500 soldati diretti in Libia. Capoconvoglio è il
contrammiraglio Francesco Canzoneri, imbarcato sul Conte Rosso. Il convoglio segue a 17-18 nodi (velocità massima che
i trasporti truppe possono raggiungere) la rotta che passa per lo stretto di
Messina e ad est di Malta e della Sicilia.
Tra le 8 e le 9, come
preavvisato da Marina Napoli, Esperia e Conte Rosso vengono sottoposti ad
attacchi simulati da parte di aerosiluranti italiani, per addestrare sia questi
ultimi (ad attaccare) che le navi stesse (a difendersi da simili attacchi).
Alle 15.15 le navi
imboccano lo stretto di Messina; da quest’ultima città escono le
torpediniere Calliope, Perseo e Calatafimi, che raggiungono il convoglio all’altezza di Messina per
rafforzare la vigilanza antisommergibili fino al parallelo di Riposto, per
ordine di Marina Messina. Alle 15.36 aerei da caccia, bombardieri ed
idrovolanti 83° Gruppo della Regia Aeronautica) raggiungono il convoglio ed
iniziano ad esercitare un servizio di scorta che proseguirà fino al tramonto;
alle 16 salpa da Messina anche la III Divisione Navale (ammiraglio di divisione
Bruno Brivonesi), con gli incrociatori pesanti Trieste e Bolzano ed
i cacciatorpediniere Ascari, Lanciere e Corazziere, che fornirà al convoglio
scorta indiretta (procedendo circa 3 km a poppavia dello stesso) contro
eventuali attacchi di unità di superficie.
Nel frattempo –
subito dopo aver attraversato lo stretto (il che avviene tra le 15.15 e le
17.30) – il convoglio assume la formazione in colonna doppia; Esperia e Conte Rosso sono i capi colonna, rispettivamente a dritta ed a
sinistra (l’Esperia è seguito
dalla Victoria, il Conte Rosso dal Marco Polo). Il comandante Ghè ordina
all’Orsa di precedere il
convoglio e lanciare bombe di profondità a scopo intimidatorio per un paio
d’ore dopo il parallelo di Reggio Calabria (quindi nelle acque di Capo
dell’Armi); alle 16.34 e 16.53 anche il Freccia lancia due bombe, sempre a scopo intimidatorio. Alle
19.10, raggiunto il parallelo di Riposto, Calliope,
Perseo e Calatafimi lasciano il convoglio per rientrare in porto.
Poi, Freccia e Pegaso si dispongono in colonna sul lato sinistro del convoglio (Freccia più avanti, all’altezza
del Conte Rosso; Pegaso più indietro, a poppavia
del Marco Polo), in posizione di
scorta ravvicinata a sinistra (verso il mare aperto: il Freccia è così capofila della colonna esterna); Orsa e Procione sul lato dritto (l’Orsa in posizione più avanzata, all’altezza dell’Esperia, e la Procione più indietro, a poppavia della Victoria). Trieste e Bolzano seguono
incolonnati a tre chilometri, preceduti da Ascari (a dritta), Lanciere (a
sinistra) e Corazziere (al
centro) che procedono in linea di fronte. Il convoglio procede quindi a zig zag
su quattro colonne (due di trasporti e due di siluranti, con due navi in ogni
colonna), con rotta 171° e velocità 18 nodi.
Il mare è calmo,
forza 1-2 senza cresta d’onda, non un alito di vento; la visibilità verso est è
ottima, il tramonto, particolarmente luminoso, rende le sagome delle navi – che
si stagliano nettamente contro il cielo ancora chiarissimo – molto visibili da
ovest.
Alle 20.15 gli ultimi
velivoli della scorta aerea, due idrovolanti CANT Z. 501, lasciano il convoglio
per tornare alle basi di Augusta e Taranto.
Alle 20.30 il convoglio
viene avvistato nel punto 36°48’ N (o 36°41’ N) e 15°42’ E (una decina di
miglia ad est di Siracusa e a 10 miglia per 83° da Capo Murro di Porco) dal
sommergibile britannico Upholder (tenente
di vascello Malcolm David Wanklyn). Wanklyn stima che il convoglio abbia una
rotta di 215°, nota tre grossi trasporti truppe a due fumaioli, e si avvicina
per attaccare; durante la manovra di avvicinamento, il comandante britannico
nota che ci sono almeno quattro cacciatorpediniere di scorta, più probabilmente
sei.
Proprio alle 20.40,
le navi smettono di zigzagare, per fare il punto sul faro di Capo Murro di
Porco. La velocità è in quel momento di 18 nodi.
Alle 20.43, prima di
scendere a 45 metri e ripiegare verso est, l’Upholder lancia due siluri – gli ultimi che gli sono rimasti –
contro il Conte Rosso, la nave
più grande del convoglio.
Alle 20.41 (secondo
l’orario italiano, con una discrepanza di qualche minuto rispetto a quello
britannico), in posizione 36°38’ N e 15°40’ E, il Freccia – che in quel momento si trova in fase di zigzagamento
quasi parallela alla rotta ordinata, sulla sinistra del Conte Rosso, mentre i piroscafi hanno appena finito di zigzagare –
avvista i siluri dell’Upholder pochi
secondi prima che essi attraversino la sua rotta. Il comandante Ghè scriverà
nel rapporto: «Mi trovo sull’ala di
plancia di sinistra col Direttore di tiro. Un grido delle vedette in
controplancia mi fa girare la testa verso poppa e scorgo un siluro affiorante
che mi passa di poppa di circa 40 m». Ghè ordina subito di mettere tutta la
barra a sinistra, accostando rapidamente verso la direzione in cui sono
avvistati i siluri (in modo da risalirne la scia), e di lanciare un razzo Very
verde, segnale convenzionale d’allarme e di manovra d’emergenza (significa
“siluro a sinistra”); con tale pronta accostata in fuori il Freccia evita un secondo siluro,
anch’esso proveniente da sinistra, che però passa invece una decina di metri a
dritta della prua del cacciatorpediniere. Pochi secondi dopo, gli uomini del Freccia vedono due detonazioni sul Conte Rosso: il trasporto truppe, nave
più grande del convoglio, è stato colpito. (La storia ufficiale dell’USMM
osserva che quando le scie dei siluri vennero avvistate dal Freccia, questi distavano ancora circa
mille metri dal Conte Rosso: ma «non furono evitati dal mercantile perché
l’allarme dato dal FRECCIA con i sistemi tradizionali, venne probabilmente
interpretato con qualche istante di ritardo, quel tanto che bastò per rendere
vana la manovra difensiva. E, sempre nella stessa occasione (…) silurato il CONTE ROSSO, gli altri
transatlantici del convoglio, ai quali non fu possibile far pervenire
tempestivamente gli ordini del capo scorta, si sbandarono pericolosamente»).
Alle 20.46 Ghè
comunica pertanto al Comando della III Divisione che la nave colpita è il Conte Rosso e che, salvo ordini in senso
contrario, il resto del convoglio proseguirà con Freccia ed Orsa; alle
20.50 ordina a Procione e Pegaso – come aveva già stabilito, prima
della partenza, nell’ordine di operazioni – di occuparsi del salvataggio dei
naufraghi, ed all’Orsa di proseguire
insieme al convoglio (ma quest’ultima torpediniera risponderà, per
radiosegnalatore, solo alle 21.15). Il Freccia,
da parte sua, si incarica di rispondere all’attacco.
Non potendo vedere le
scie dei siluri a causa dell’oscurità ormai quasi completa, il comandante Ghè
dirige col Freccia sul loro probabile
punto di provenienza sulla base del beta stimato; giunto nel punto in cui
presume trovarsi il sommergibile attaccante, esegue tre corse con lancio di
bombe di profondità fino alle 21, lanciando in totale 17 bombe torpedini da
getto (le cui esplosioni vanno però ad investire anche i naufraghi in acqua:
uno dei superstiti del Conte Rosso
ricorderà poi “le bombe di profondità,
che il nostro caccia che si era fermato (...) lanciava nel tentativo di neutralizzare o colpire il sommergibile; ad
ogni bomba una martellata sull’addome! Per fortuna finì presto”). Durante
la terza corsa, verso le 21, l’equipaggio del Freccia assiste all’affondamento del Conte Rosso, che s’inabissa di prua con la poppa sollevata quasi
verticalmente nel cielo. Il punto dell’affondamento è una decina di miglia ad
est di Capo Murro di Porco.
Il Freccia cerca anche di contattare per
radiosegnalatore gli altri trasporti truppe, ma – benché sia stato stabilito
che su ognuno di essi si debba effettuare servizio continuo di ascolto dalle 21
in poi, e sempre in caso di allarme – nessuno di essi risponde. Alle 20.55 il
Comando della III Divisione ordina a Lanciere
e Corazziere di prendere parte alla
caccia contro il sommergibile e poi al salvataggio dei naufraghi.
Sull’Upholder il comandante Wanklyn, in
un’ultima “occhiata” data al periscopio subito dopo aver lanciato i siluri, si
è accorto che il Freccia
(identificato erroneamente come un cacciatorpediniere “classe Grecale”,
distante appena 365 metri al momento del lancio) gli sta venendo addosso,
minacciando di speronarlo: pertanto ha ordinato l’immersione rapida a 45 metri,
ritirandosi verso est. La caccia da parte di Freccia, Lanciere e Corazziere si protrae dalle 20.47 alle
21.07 con il lancio di 37 cariche di profondità: il sommergibile non subisce
danni, anche
se molte bombe (specialmente le ultime quattro, alle 21.07) esplodono molto vicine,
al punto da mettere “seriamente a repentaglio” la sopravvivenza del battello
(secondo la storia ufficiale dell’USMM, "è molto probabile che se le unità di scorta avessero insistito nella
caccia antisom avrebbero finita l’unità subacquea. Però (…) dopo il siluramento (…) i Ct. furono talmente impegnati nel
salvataggio dei naufraghi e nella protezione degli altri mercantili, sbandatisi
sotto l’attacco, che non ebbero né modo né tempo di perseverare a lungo nella
caccia al sommergibile"). Specialmente le ultime quattro bombe
esplodono vicinissime e causano una crisi di panico in un marinaio dell’Upholder, che tenta di aprire un
portello per uscire dal sommergibile e dev’essere bloccato dai compagni.
Alle 21 il Freccia lancia il segnale di scoperta
regolamentare e manovra per riunirsi al resto del convoglio, non prima di
essersi sincerato che sul luogo dell’affondamento si trovino effettivamente Procione, Pegaso, Lanciere e Corazziere. Quanto ai superstiti
trasporti truppe, dopo il lancio del razzo verde da parte del Freccia hanno eseguito la prescritta
manovra di disimpegno (Esperia e Victoria accostando di 90° a
dritta, Marco Polo a
sinistra), ma il comandante Ghè non li vede più a causa del buio frattanto
rapidamente calato: solo alle 21.20 riesce ad avvistarne uno, il Marco Polo, che riferisce al comandante
Ghè di aver perso il contatto con gli altri e di aver messo la prua su Messina
in attesa di ordini. Ghè gli ordina di seguirlo sulla rotta 171°, quella
stabilita dall’ordine d’operazione. Poi, tra le 21.30 e le 21.44 ordina all’Orsa di raggiungerlo col convoglio
indicandogli le rotte da seguire; ma alle 22.16 l’Orsa comunica al Freccia
di non riuscire a vederlo: Ghè le ordina allora di proseguire sulla rotta
prevista e la informa della velocità del Freccia,
ritenendo sconsigliabile continuare a tentare di ricomporre il convoglio
durante la notte. D’altra parte, da una comunicazione ricevuta dal Comando
della III Divisione alle 21.10 ha appreso che Orsa, Esperia e Victoria si trovano appunto insieme alla
III Divisione, e dunque è piuttosto tranquillo circa la loro sorte. Alle 21.49
riferisce al Comando della III Divisione di essere insieme al Marco Polo e di proseguire lungo la
rotta prestabilita; alle 22.15 (o 21.15?) il Comando di Divisione comunica di
proseguire con Esperia e Victoria su rotta vera 170°, velocità 16
nodi. Ghè decide di non impartire alla Procione
disposizioni specifiche sull’inoltro dei naufraghi, sapendo che presso di essa
si trova già il Corazziere,
caposquadriglia della XII Squadriglia Torpediniere. (In questa fase, tutte le
comunicazioni tra le navi della scorta diretta avvengono mediante
radiosegnalatore, e tutte quelle col Comando della III Divisione mediante radio
ad onde ultracorte. L’ammiraglio Brivonesi lamenterà nel suo rapporto che «in pratica le comunicazioni tra l’Ammiraglio
Comandante delle Unità Navali di scorta e il convoglio sono lente e difficili
se non addirittura impossibili. Si è potuto solo comunicare per mezzo del rds
al FRECCIA che a sua volta segnalava ai piroscafi con la trapPola o con segnali
a bandiera convenzionali ed ignoti. Il sistema, oltre ad essere lento, è poco
sicuro. In particolare i segnali ottici luminosi fra scorta e piroscafi sono
pericolosi»). (Secondo Sadkovich, Brivonesi sottolineò che il Freccia aveva fatto segnalazioni al Conte Rosso prima di essere colpito).
In definitiva, i
trasporti truppe superstiti proseguono verso Tripoli con la scorta diretta di Freccia ed Orsa e la protezione a distanza della III Divisione. Lanciere, Corazziere, Procione e Pegaso, insieme ad altre unità giunte
successivamente per partecipare ai soccorsi (le torpediniere Cigno, Pallade e Clio,
inviate da Messina, e le navi ospedale Arno e Sicilia), salveranno in tutto 1432 dei
2729 uomini imbarcati sul Conte Rosso;
le vittime saranno 1297.
(da www.regiamarina.net) |
25 maggio 1941
Dato che l’affondamento
del Conte Rosso, con l’invio di
quattro unità per recupero dei naufraghi, ha eccessivamente ridotto le
siluranti di scorta ai tre mercantili che proseguono verso Tripoli (solo Freccia ed Orsa) ed alla stessa III Divisione (il
solo Ascari) in acque pericolosamente
infestate dai sommergibili, Supermarina ordina che da Tripoli prendano il mare
le torpediniere Climene e Generale Carlo Montanari, per andare a
rinforzare la scorta; richiede inoltre una consistente scorta aerea alle prime
luci dell’alba. La richiesta viene soddisfatta.
Durante il tratto
finale di navigazione, la Climene (che
ha già raggiunto il convoglio e si è posizionata a dritta dei trasporti)
avvista una chiazza di nafta e la bombarda con cariche di profondità, sino a
ritenere – a torto – di aver affondato un sommergibile.
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 17.30; Esperia, Victoria e Marco Polo scaricano rapidamente i
quasi 6000 militari che hanno a bordo ed i materiali che trasportano (qualche
migliaio di tonnellate).
La III Divisione
rientra a Messina, dove giungerà alle 20.
27 maggio 1941
Il Freccia e le torpediniere Orsa, Procione e Pegaso salpano
da Tripoli a mezzogiorno per scortare a Napoli Marco Polo, Esperia e Victoria, che ritornano vuoti. Il
convoglio segue la rotta che passa ad est di Malta per poi imboccare lo stretto
di Messina.
Alle 16.40 il
convoglio «Freccia» incontra il convoglio «Vivaldi» (motonavi Andrea Gritti, Barbarigo, Rialto, Sebastiano Venier ed Ankara, cacciatorpediniere Vivaldi, Saetta e Da Noli,
torpediniere Pallade, Castore, Procione, Cigno e Pegaso), in arrivo dall’Italia con la
protezione a distanza della III Divisione Navale; quest’ultima lascia allora la
protezione del convoglio «Vivaldi» ed assume quella del convoglio «Freccia»
nella parte centrale della traversata. Il Lanciere
viene distaccato dalla III Divisione per rinforzare la scorta diretta dei
trasporti truppe.
29 maggio 1941
Il convoglio giunge a
Napoli all’1.30.
7 giugno 1941
Il Freccia (caposcorta), insieme ai
cacciatorpediniere Saetta, Strale e Vincenzo Gioberti, salpa da Napoli alle 2.50 per scortare a Tripoli
i trasporti truppe Esperia, Victoria e Marco Polo.
Tra l’8 ed il 9
giugno il convoglio (che procede sulla rotta di levante di Malta) fruisce anche
della scorta a distanza degli incrociatori pesanti Trieste e Bolzano (III
Divisione Navale) e dei cacciatorpediniere Ascari, Lanciere e Corazziere.
9 giugno 1941
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 15.
12 giugno 1941
Freccia (caposcorta), Saetta, Strale e Gioberti ripartono da Tripoli per Napoli alle 15,
scortando Esperia, Marco Polo e Victoria che tornano scarichi.
14 giugno 1941
Il convoglio giunge a
Napoli alle 2.30.
30 giugno 1941
Freccia (caposcorta), Strale, Dardo e Turbine salpano da Napoli alle 18 per scortare a Tripoli le
motonavi Andrea Gritti, Francesco Barbaro, Sebastiano Venier, Barbarigo,
Rialto ed Ankara (quest’ultima tedesca).
Il mare è mosso; il
viaggio procede tranquillamente alla velocità di 16 nodi, senza alcun allarme.
2 luglio 1941
Il convoglio
raggiunge Tripoli alle 18.
27 luglio 1941
Alle 13.45 Freccia (caposcorta), Dardo e Strale partono da Napoli per scortare a Tripoli i piroscafi Bainsizza, Spezia (tedesco) ed Amsterdam e
la motonave Col di Lana, carichi
di rifornimenti per l’Afrika Korps.
In mare, per coprire
questo ed altri convogli, si trovano (fino alle 19 del 28) gli incrociatori
leggeri Raimondo Montecuccoli e Giuseppe Garibaldi ed i cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XII Squadriglia. Il mare
non è molto mosso.
28 luglio 1941
Alle 3.40 si unisce
alla scorta anche il cacciatorpediniere Turbine.
Durante la notte, nel
Canale di Sicilia, il convoglio viene attaccato da aerei: per prima cosa alcuni
ricognitori lo illuminano a giorno col lancio di una quarantina di bengala; la
scorta reagisce emettendo fumo ed aprendo il fuoco contro i ricognitori. Poi,
si scatena l’attacco degli aerosiluranti, che s’insinuano tra i mercantili
volando a bassissima quota: ne scaturisce una grande confusione, dato che i
mercantili si difendono sparando rabbiosamente con il loro armamento contraereo
e, siccome gli aerei volano bassissimi ed i piroscafi sparano con alzo zero per
colpirli, molti proiettili finiscono sulle unità della scorta, per fortuna
senza conseguenze. È una vera baraonda tra fumo, bengala e traccianti; gli
aerosiluranti lanciano i loro siluri da varie direzioni, ma non colpiscono
niente.
Terminato l’attacco,
rimane un solo ricognitore che pedina il convoglio per un’altra mezz’ora, poi
se ne va a sua volta.
29 luglio 1941
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 19.15.
Nei giorni seguenti
il porto viene ripetutamente bombardato.
4 agosto 1941
Il Freccia (caposcorta, capitano di
fregata Giorgio Ghè), insieme ai cacciatorpediniere Dardo, Turbine, Strale e Lanzerotto Malocello ed alla torpediniera Pegaso, parte da Tripoli alle 8 (o 9.30) scortando i
piroscafi Amsterdam, Bainsizza e Maddalena Odero e la motonave Col di Lana (convoglio «Amsterdam»,
con velocità 10 nodi).
Il Freccia di scorta ad un convoglio di motonavi veloci nel 1941 (g.c. STORIA militare) |
5-6 agosto 1941
Nella notte sul 6
agosto, al largo di Pantelleria, il convoglio viene attaccato da aerei. Il
caposcorta ordina l’emissione di nebbia artificiale, ma tale provvedimento si
rivela inefficace, perché rende più visibile la posizione del convoglio;
risulta inutile accostare verso i bengala, perché gli aerei ne lanciano su
entrambi i lati del convoglio. Ad ogni modo, nessuna nave viene colpita.
Il comandante Ghè
scriverà poi nel suo rapporto: «Ho
provato a fare nebbia ma non la ritengo molto efficace perché precisa meglio la
posizione del convoglio, e perché per poter essere di utilità effettiva,
occorrerebbe fosse fatta dalle unità di scorta non zig-zaganti ma poste in
posizione molto ravvicinata ad una formazione compatta dei piroscafi che in
pratica non si ottiene mai. Ritengo quindi che la manovra più efficace potrebbe
essere la seguente: 1) Zigzagare con i piroscafi di almeno 40° per parte al
primo delinearsi della minaccia aerea. Occorrerebbe però poter realizzare un
sistema rapido e sicuro per ordinare la manovra dei piroscafi. 2) Al primo
allarme le unità di scorta devono serrare il più possibile sotto i piroscafi e
mettersi a fare nebbia. Ritengo inutile eseguire tiro di sbarramento con le
mitragliere ma solamente tiro puntato. Ritengo anche inutile accostare con la
formazione verso i bengala perché si è constatato che in pratica l’avversario
ne lancia ai due lati della formazione».
7 agosto 1941
Il convoglio
raggiunge Napoli alle 2.30 (o 7.30).
16 agosto 1941
Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè), Dardo, il cacciatorpediniere Euro e le torpediniere Procione e Pegaso salpano da Napoli per Tripoli alle 00.30, scortando un
convoglio composto dai piroscafi Nicolò
Odero, Maddalena Odero e Caffaro, dalla nave cisterna Minatitlan e dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo (convoglio «Odero», o 40. Seetransportstaffel).
Alle 9.13 il
sommergibile olandese O 23 (tenente
di vascello Gerardus Bernardus Michael Van Erkel) avvista il convoglio, che
procede con rotta 212° a dieci nodi di velocità, a 10 miglia di distanza su
rilevamento 057°. Il comandante olandese ne apprezza la composizione in “almeno sei navi mercantili e quattro
cacciatorpediniere”, più due aerei in volo nel suo cielo; l’O 23 manovra dunque per attaccare, ma
non riesce ad avvicinarsi a più di 9 km, pertanto si prepara ad un lancio da
lunga distanza ed alle 10.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a 74 miglia per
211°, cioè a sudovest, di Capri, secondo la posizione comunicata poco dopo dal Freccia), lancia due siluri da cinque
miglia di distanza, per poi scendere subito a 40 metri di profondità.
Nessuna delle armi
colpisce, sebbene a bordo dell’O 23
vengano sentite due esplosioni dopo undici minuti dai lanci (probabilmente i
siluri sono esplosi a fine corsa); un idrovolante CANT Z. 501 della 182a
Squadriglia, facente parte della scorta aerea, avvista le scie dei siluri ed attacca
il sommergibile con due bombe di profondità, mentre il Freccia lancia l’allarme (alle 11.15). Subito dopo, alcune unità
della scorta passano al contrattacco e lanciano, fino alle 13.30, un centinaio
di bombe di profondità. L’O 23 evita
danni scendendo a 95 metri; terminato il bombardamento, alcune unità italiane continuano
a lanciare una carica di profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
In serata, la scorta
viene rinforzata dalla torpediniera Giuseppe
Sirtori, appositamente uscita da Palermo alle 16.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio
il convoglio viene avvistato da ricognitori nemici mentre procede a 9 nodi a
sud di Pantelleria.
Alle 20.45, 17 minuti
dopo che la scorta aerea ha lasciato le navi per rientrare alle basi, il
convoglio viene attaccato da aerosiluranti britannici al largo di Lampedusa:
due sezioni di due aerei ciascuna, provenienti dai fianchi, appaiono ai lati
del convoglio, defilando lungo i mercantili e sganciando i loro siluri da poca
distanza. Le navi della scorta reagiscono con opportune manovre, l’apertura del
fuoco (sia con i cannoni che con le mitragliere) e l’emissione di cortine
nebbiogene per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro
siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche all’azione della scorta (e
soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che disorientano gli ultimi
aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero alle 20.47, immobilizzandolo. Il piroscafo
danneggiato dev’essere preso a rimorchio della Pegaso, assistito dalla Sirtori;
viene portato fino in un’insenatura sulla costa di Lampedusa, ma qui il
piroscafo, colpito ancora da bombe d’aereo, esplode e trascina nella sua fine
anche la cannoniera Maggiore Macchi della
Guardia di Finanza, inviata a prestargli assistenza.
Il resto del
convoglio prosegue per Tripoli. Nel suo rapporto il comandante Ghè scriverà: «Ho l’impressione che la nebbia (fatta dalle
unità di scorta) abbia contribuito a far fallire la seconda parte dell’attacco
aereo. Converrà quindi ordinare la emissione di nebbia a scopo preventivo a
crepuscolo avanzato e al primo avvistamento di razzi illuminanti (…) Alcuni dei piroscafi si sono troppo
allontanati dalla direttrice di marcia. Questo inconveniente, oltre a rendere
più difficile il riordinamento della formazione dopo l’attacco, diminuisce
molto la possibilità di protezione da parte delle unità di scorta (…) Ritengo sia assolutamente necessario dotare
ciascun piroscafo di un radiosegnalatore per eventuali segnali di emergenza
durante allarmi o per eventuali notturni intesi ad ordinare manovre per le
quali non convenga impiegare la radio principale (…) e la segnalazione luminosa diventa troppo lunga e troppo pericolosa per
avvistamenti».
Gli attacchi notturni
di aerosiluranti sono ancora una novità: scrive la storia ufficiale dell’USMM:
“…i capiscorta sono ancora alla ricerca
della tattica più idonea per frustrare l’aggressività nemica. Hanno però già
individuato molto chiaramente qual è la strada da seguire. Ora si tratta di far
codificare il loro punto di vista in una direttiva diramata ufficialmente a
tutti dallo Stato Maggiore della Marina e di farla assimilare dai comandanti di
piroscafi i quali, sotto l’attacco di qualsiasi genere, avevano istintivamente
la tendenza a sbandarsi rendendo così molto difficile, o addirittura inattuabile,
il compito delle siluranti di scorta”.
18 agosto 1941
Verso le 15.30 il
sommergibile britannico P 32 (tenente
di vascello David Anthony Bail Abdy), in agguato a quota periscopica fuori
Tripoli, avvista il convoglio di cui fa parte il Freccia, che si accinge ad imboccare la rotta di sicurezza.
Il P 32 scende a 15 metri e
si avvicina ad elevata velocità, preparandosi ad attaccare, ma verso le 15.40,
mentre sta tornando a quota periscopica, il sommergibile viene scosso da
un’esplosione ed affonda, adagiandosi sul fondale a 60 metri di profondità.
L’esplosione viene
notata anche dalle navi del convoglio italiano, ormai in arrivo a Tripoli. Un
MAS inviato sul posto dalla base libica recupera due sopravvissuti (gli unici
superstiti su 34 membri dell’equipaggio), che sono fuoriusciti dal relitto del
sommergibile attraverso il portello della torretta: uno dei due è il comandante
Abdy. Un terzo membro dell’equipaggio è annegato nel tentativo di fuoriuscire,
mentre di parecchi altri uomini del P
32, che hanno tentato la fuoriuscita dal portello d’emergenza del locale
motori, non si saprà più nulla.
Sul momento si
ritiene che il P 32 sia
saltato sulle mine dei campi minati posti a difesa del porto, mentre un
successivo esame del relitto mostrerà che probabilmente il battello è rimasto
vittima dell’esplosione accidentale di uno dei suoi stessi siluri.
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 17 (o 17.30).
19 agosto 1941
Alle 15 Freccia (caposcorta), Dardo, Procione ed Euro
ripartono da Tripoli per scortare in Italia le motonavi Rialto, Gritti, Barbaro, Pisani e Venier.
21 agosto 1941
Alle due di
notte Euro e Rialto, separatisi dal resto del
convoglio, entrano a Palermo. Le altre navi raggiungono Napoli alle 8.
1° settembre 1941
Il Freccia salpa da Napoli alle 22 (per
altra fonte alle 24), insieme ai cacciatorpediniere Folgore, Dardo, Strale e Nicoloso Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao
Esposito), per scortare a Tripoli le motonavi Andrea Gritti, Francesco
Barbaro, Vettor Pisani, Rialto e Sebastiano Venier (convoglio «Gritti»).
Il convoglio
attraversa lo Stretto di Messina ed imbocca la rotta di levante, per tenersi il
più possibile al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta.
2 settembre 1941
Durante la notte sul
2 settembre, nel Tirreno, il convoglio, informato della probabile presenza di
un sommergibile nemico, devia dalla rotta, manovra che lo farà passare nello
stretto di Messina con tre ore di ritardo.
Secondo il diario del
sottonocchiere Alessandro Caldara (pubblicato sotto il titolo "Quelli di
sottocastello"), imbarcato sul Freccia
appena poche ore prima in seguito ad un cambio di destinazione (era stato in
precedenza imbarcato sul gemello Dardo),
prima di imboccare lo stretto di Messina il convoglio sosta per dare la
precedenza a due transatlantici francesi carichi di reduci provenienti dalla
Siria (la sosta si rende necessaria perché la rotta di sicurezza attraverso lo
stretto è una sola, e circondata da campi minati). Il mare è calmo, fino a sera
non si verifica alcunché di strano.
Passato lo stretto,
il convoglio si divide in due colonne, con Rialto e Pisani a
dritta, Barbaro e Gritti a sinistra, Venier più a poppavia, tra le due
colonne, e la scorta tutt’intorno (Da
Recco in testa, Freccia e Strale a dritta, Folgore e Dardo a sinistra). La deviazione compiuta in precedenza fa
però sì che il convoglio si trovi in acque pericolose – nel raggio d’azione
degli aerei britannici di base a Malta – in acque notturne (senza cioè poter
fruire della scorta aerea italiana, che vi è solo di giorno), contrariamente
alle previsioni iniziali. Al calare della notte, come al solito, la scorta
aerea se ne va.
3 settembre 1941
Non appena in
franchia dello stretto di Messina, il convoglio assume rotta 116° (mettendo la
prua sulla Morea), cioè verso est, per uscire dal cerchio di raggio 160 miglia
con centro su Malta (che corrisponde al raggio d’azione dei suoi aerei, che
possono colpire nella zona dello stretto e fino a sud di Capo Spartivento, ma
non più ad est) prima di assumere rotta sud. Il ritardo accumulato nello
stretto di Messina fa sì che il convoglio si trovi nella zona pericolosa (entro
il raggio d’azione degli aerei di Malta) nelle ore notturne, quando non è
disponibile la scorta aerea.
Alle
00.25-00.30, a circa 26 miglia per 140° (a sud-sudest) di Capo
Spartivento Calabro (nel punto 37°33’ N e 16°26 E), cioè mentre ancora si trova
– per poche miglia – entro il raggio d’azione degli aerei di Malta, il
convoglio viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey Swordfish dell’830th Squadron
F.A.A. decollati da Malta.
Gli aerei,
provenienti dal lato sinistro, nonostante la reazione delle artiglierie
contraeree delle navi (il Folgore abbatte
un aerosilurante), colpiscono Gritti e Barbaro con un siluro ciascuna: la Barbaro rimane immobilizzata (il siluro l’ha
colpita a poppa estrema, mettendo fuori uso gli apparati di governo e di
propulsione), mentre molto peggio va alla Gritti,
che salta in aria, lasciando soltanto due superstiti su 349 uomini presenti a
bordo.
Alessandro Caldara
descrive così l’attacco notturno e l’affondamento della Gritti: “Nella notte, quando
siamo circa all’altezza dell’isola di Malta, poco dopo la mezzanotte, il cielo
viene improvvisamente illuminato da decine di bengala che piovono da tutte le
parti: allarme! Siamo attaccati in grande stile; tutto il convoglio è
illuminato a giorno e, nonostante i nostri fumogeni e il tiro di sbarramento di
tutte le mitragliere, gli aerosiluranti riescono a passare e si scagliano sulle
motonavi. A un tratto si vede un’enorme fiammata Saettare verso il cielo,
mentre uno scoppio assordante per poco non ci rompe i timpani. Sembra che il
cielo abbia preso fuoco. Tutto è orrendamente arrossato: il Gritti, carico di
munizioni, è saltato in aria; il Barbaro è immobilizzato da un siluro che gli
ha asportato eliche e timone. Della nave saltata in aria non rimane nulla; solo
per puro miracolo vengono trovati in mare due uomini gravemente feriti che al
momento dello scoppio si trovavano sull’estrema prora, sulla plancetta della
mitragliera antiaerea e sono stati lanciati fuori bordo dallo spostamento
d’aria”.
Il caposcorta
distacca il Dardo e lo Strale per prestare assistenza alla
danneggiata Barbaro, mentre il resto
del convoglio prosegue per Tripoli. La Barbaro,
presa a rimorchio dal Dardo e dai
rimorchiatori Titano e Porto Recanati e scortata dai
cacciatorpediniere Ascari, Lanciere e Carabiniere e dal cacciasommergibili Albatros, appositamente inviati sul posto, riuscirà a raggiungere
Messina la sera dello stesso 3 settembre.
4 settembre 1941
Alle 18.30 il Freccia, il resto della scorta e le tre
motonavi rimaste indenni raggiungono Tripoli.
5 settembre 1941
Freccia, Folgore, Da Recco (caposcorta, capitano di
vascello Stanislao Esposito) e Strale partono
da Tripoli alle 14 per scortare un convoglio formato dal piroscafo Ernesto, dalla nave cisterna Poza Rica e dalla motonave Col di Lana, dirette a Napoli.
6 settembre 1941
A partire dalle
23.55, il convoglio inizia ad essere sottoposto ad attacchi di aerosiluranti. I
cacciatorpediniere eseguono manovre elusive ed occultano i mercantili con
cortine nebbiogene; Poza Rica e Col di Lana riescono ad evitare i
siluri, ma non l’Ernesto, che viene
colpito a prua, 20 miglia a nord di Pantelleria ed al largo di Trapani. Lo
Strale (capitano di corvetta
Angelotti) viene distaccato per prestargli assistenza; raggiunto
successivamente dalla torpediniera Circe
e ceduto il rimorchio ad alcuni rimorchiatori (Costante, Marsigli e Montecristo), riuscirà a condurre il
piroscafo in salvo a Trapani.
8 settembre 1941
Il Freccia ed il resto del convoglio
arrivano a Napoli alle quattro (o cinque) del mattino.
17 settembre 1941
Il Freccia (caposcorta) lascia Napoli
alle cinque del mattino, insieme ad Euro, Folgore e Dardo, per scortare a Tripoli un convoglio («Caterina») formato dal
piroscafo Caterina, dalle
motonavi Marin Sanudo e Col di Lana e dalla nave
cisterna Minatitlan. Il
convoglio segue la rotta che passa ad ovest di Malta; fin nelle acque della
Sicilia la navigazione è tranquilla.
18 settembre 1941
Alle quattro del
mattino il convoglio, mentre naviga sulle rotte interne di Favignana, viene
attaccato da aerosiluranti britannici a tre miglia da Marsala. Secondo il
diario di Alessandro Caldara, il convoglio sarebbe stato scoperto per caso,
perché passato sottocosta davanti a Trapani mentre era in corso un
bombardamento su questa città: parte dei bengala lanciati dagli aerei su
Trapani illuminano anche il mare antistante, e permettono così ai velivoli
britannici di accorgersi della presenza delle navi del convoglio, che stanno
navigando a ridottissima distanza dalla costa. Poco dopo, infatti, un
ricognitore britannico giunge sul cielo del convoglio ed inizia a lanciare
bengala anche su di esso.
Le navi della scorta,
come al solito, cercano di nascondere i mercantili con cortine nebbiogene ed
aprono il fuoco con l’armamento contraereo; data la vicinanza della costa,
anche le batterie contraeree di Trapani sparano contro gli aerei (e, secondo
Caldara, ad alzo zero: tanto che molti proiettili cadono in mare in mezzo alle
navi od anche a bordo delle navi stesse). Uno degli attaccanti viene abbattuto
dal rabbioso tiro della scorta, ma un siluro colpisce la Col di Lana, che viene rimorchiata a
Trapani dai rimorchiatori Liguria e Montecristo, scortati dal Dardo. Le altre navi, Freccia compreso, proseguono verso
Tripoli.
In serata, il
convoglio viene nuovamente attaccato da aerosiluranti, decollati a Malta dopo
il tramonto; questa volta, però, le abbondanti cortine nebbiogene emesse dalle
navi scorta e la reazione delle loro armi contraeree riescono a frustrare
l’attacco.
19 settembre 1941
In mattinata si
unisce alla scorta il cacciatorpediniere Vincenzo Gioberti, proveniente da Tripoli. Qui il convoglio giunge
alle 12.30 (o 17.30).
I mercantili del
convoglio «Caterina» sono stati i primi bastimenti da carico, nella guerra dei
convogli libici, ad essere muniti di radiosegnalatori per le comunicazioni
radio all’interno della formazione; un significativo progresso
nell’organizzazione dei convogli.
Nel suo rapporto, il
comandante Ghè osserverà che «Resta ancora
una volta confermato che la migliore difesa contro un attacco aereo notturno è
la pronta distesa di cortine di nebbia. Se la notte è illune conviene iniziarla
all’accensione del primo bengala perché il bianco della nebbia non faciliti la
scoperta. Le unità di scorta debbono rapidamente sistemarsi o, meglio ancora
essere già sistemate in opportuna posizione rispetto alla direzione del vento.
È conveniente tenere sempre almeno un’unità sottovento perché la cortina
distesa sottovento contribuisce ad ingannare l’attaccante sulla direzione del
convoglio e sulla estensione in profondità. Dove possibile, è senz’altro
conveniente modificare la rotta, pur di permettere che la nebbia possa venire
efficacemente distesa. Da evitare nei limiti del possibile rotte con forte
vento di poppa. Impiego delle mitragliere: l’impiego delle mitragliere da parte
delle unità di scorta si è dimostrato decisamente efficace se condotto con
criterio di tiro puntato. I piroscafi di solito hanno eseguito un disordinato
tiro di sbarramento che molte volte era diretto verso le unità di scorta.
Nebbia preventiva al crepuscolo: la nebbia eseguita al crepuscolo dei giorni
18-21, per la direzione del vento, non occultava totalmente il convoglio. È
però servita lo stesso come lo ha dimostrato la sera del 20 permettendo ad un
solo bombardiere di eseguire l’attacco. La nebbia eseguita al crepuscolo del
22, con vento fresco circa a 40° della prora a dritta ed emessa per circa
un’ora, sarebbe stata certamente efficacissima per la protezione del convoglio.
Servizio R.D.S. dei piroscafi: i piroscafi del convoglio sono stati i primi
piroscafi da carico forniti di R.D.S. (…) In complesso le comunicazioni con i piroscafi si sono svolte
regolarmente e con facilità, attenendosi alle “Norme per il servizio del
radiosegnalatore a bordo dei P.fi in convoglio scortati” di Maristat. L’aver
messo al R.D.S. un operatore pratico di tale servizio, è stato indubbiamente il
fattore principale della buona riuscita delle segnalazioni». (Secondo lo
storico James Sadkovich, inoltre, il comandante Ghè propose di armare i
mercantili con mitragliere da 20 mm, invece che da 13,2 mm, e di addestrarne
meglio gli equipaggi nel loro uso, nonché di adottare radiosegnalatori di
miglior qualità, dato il buon funzionamento di tali apparati durante questa
missione).
20 settembre 1941
Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè), Folgore, Euro e Gioberti lasciano
Tripoli per Napoli alle 20.20, scortando i piroscafi Tembien, Giulia, Nirvo e Bainsizza, seguendo ancora la rotta di ponente.
21 settembre 1941
Alle 19.45, dopo il
tramonto, il convoglio viene attaccato a sorpresa da due bombardieri che volano
a bassa quota; nonostante l’immediata reazione contraerea delle navi di scorta,
il Tembien viene colpito da tre
bombe in una stiva, e segnala al Freccia
di avere numerosi feriti gravi a bordo, compreso anche il comandante. Il Freccia ordina all’Euro di avvicinarsi alla nave danneggiata per prestarle assistenza,
mentre il resto del convoglio prosegue.
22 settembre 1941
Alle 00.06 Euro e Tembien raggiungono il convoglio, ed il Tembien riassume il suo posto in
formazione. Alle 7.30, su ordine del caposcorta, il Tembien lascia nuovamente il convoglio, sempre scortato dall’Euro (per ordine del caposcorta), e
dirige verso Pantelleria. In prossimità del porto dell’isola, l’Euro trasborda sul Tembien i naufraghi illesi
recuperati in precedenza, poi sbarca a Pantelleria i naufraghi feriti e poi riprende
subito il mare per ricongiungersi al convoglio, mentre ad assumere la scorta
del Tembien (che arriverà a
Trapani alle 17) è il Gioberti.
(Per altra fonte
il Tembien sarebbe invece
giunto a Napoli con le altre navi, alle 17.30 del 23 settembre).
23 settembre 1941
Alle 16 il convoglio
viene nuovamente attaccato da aerei, che però stavolta non colpiscono niente.
Il lancio – secondo il diario di Caldara – di un’ottantina di bengala è
vanificato dalla fitta cortina fumogena stesa dalle navi di scorta; gli aerei
tentano lo stesso di attaccare, ma le mitragliere delle navi ne scompaginano la
formazione, determinando il fallimento dell’attacco.
Il Freccia ed il resto del convoglio
giungono a Napoli alle 17.30.
Dopo questa missione,
il Freccia entra in Arsenale per
lavori di manutenzione della durata di alcuni giorni.
5 ottobre 1941
Il capitano di fregata
Giorgio Ghè lascia il comando del Freccia
e della VII Squadriglia Cacciatorpediniere, venendo sostituito dal parigrado
Alvise Minio Paluello, veneziano, di quarantuno anni. La cerimonia è così
descritta da Alessandro Caldara: “Alle
ore 12 tutto l’equipaggio è schierato a poppa per la cerimonia del cambio di
comando. Subito dopo batte posto di manovra. Alle ore 13.00 siamo pronti alla
partenza; il comandante Ghè ci parla ancora una volta dicendo che ci stiamo
dirigendo verso una zona che presenta seri pericoli, ma che è sicuro della
gente del Freccia, che se la caverà con onore. Alle 13.30 sbarca; noi ritiriamo
la passerella e cominciamo a filare i cavi di poppa. Allora, come un sol grido,
scoppia un potente «Viva il comandante Ghè!» ripetuto per tre volte. Vediamo
chiaramente che il comandante è commosso; dalla banchina ci saluta ancora. Per
tanto tempo siamo stati come suoi figli. Ora partiamo per nuovi destini senza
la sua sicura guida; quando molliamo i cavi e le eliche danno i primi giri
gridiamo ancora una volta, e vediamo il comandante che con il dorso della mano
si asciuga una lacrima (verità sacrosanta); saluta ancora una volta, poi si
gira e se ne va. È sempre stato un ottimo comandante sotto tutti gli aspetti, e
– più importante per noi – si è sempre interessato personalmente
dell’equipaggio, e nei limiti delle sue possibilità non ci ha mai fatto mancare
nulla”. Molto diverso è il giudizio di Caldara su Minio Paluello: “Del nuovo comandante è meglio dir poco:
viene da una nave grande (la Cavour) e crede di poter applicare la stessa
disciplina a noi dei caccia. Il risultato (ce ne accorgeremo in breve) sarà una
vita da galera, una totale incomprensione; mancanza di fiducia di lui verso di
noi e di noi verso di lui, il che, in navigazione di guerra, è poco simpatico”.
Lasciata Napoli, il Freccia naviga da solo con mare “né
buono né cattivo”, superando lo stretto di Messina e facendo poi rotta per
Brindisi, dove va ad ormeggiarsi in fondo al porto, rimanendo a disposizione
per nuove missioni di scorta.
9 ottobre 1941
Il Freccia parte da Brindisi alle 19.30,
scortando i piroscafi Pomona (carico
di benzina tedesca e munizioni) e Capo
Arma diretti a Bengasi; subito fuori dal porto, tuttavia, i due mercantili
entrano in collisione: il Pomona
dev’essere portato a poggiare su un bassifondali, ed il Capo Arma, danneggiato, dev’essere rimorchiato nuovamente in porto.
L’increscioso
episodio è così descritto da Alessandro Caldara: “Verso sera si salpa e si procede verso l’uscita. Passando davanti al
porto mercantile vediamo due carrette che stanno salpando: senz’altro uno dei
soliti convogli lenti. Questa volta, per giunta, lo scortiamo da soli.
Oltrepassiamo le ostruzioni di Forte a Mare e ci mettiamo sulla rotta di
sicurezza; le due carrette ci seguono lentamente. La notte è di un buio
profondo; siamo fuori già da mezz’ora e non scorgiamo ancora i piroscafi. A un
tratto vediamo a poppavia delle segnalazioni luminose a lampada blu: stanno
trasmettendo S.O.S.! Sorpresa di tutti: che cosa può essere successo? La luce
insiste nel chiamare soccorso. Il comandante comincia a dubitare che i
piroscafi siano stati silurati, eppure non abbiamo visto né udito nulla di
sospetto; ad ogni modo prepariamo le bombe di profondità e ritorniamo indietro
verso la luce. Quando siamo vicini scorgiamo le sagome dei due piroscafi
immobili; con i segnali luminosi chiediamo a nostra volta che cosa sia
accaduto; ci rispondono che durante un’accostata sono entrati in collisione fra
di loro; uno ha la prora squarciata e l’altro un fianco aperto, tanto che sta
affondando lentamente. Ci avviciniamo al piroscafo che imbarca acqua (è il Pomona)
e ci disponiamo per il rimorchio, senza badare alle grida della gente che è in
mare sulle imbarcazioni. Riusciamo a passare il cavo di rimorchio dopo molte difficoltà,
data anche l’oscurità più assoluta, e nel frattempo cominciamo a ricuperare la
gente dalle barche che si fanno sotto: in tutto 60 persone. Iniziamo il
rimorchio, ma a causa del forte sbandamento del Pomona, tutto inclinato su un
fianco, non facciamo altro che girare in cerchio sempre sullo stesso posto.
Vista l’impossibilità di portarlo a terra da soli, si segnala al semaforo di
Brindisi chiedendo dei rimorchiatori. Questi arrivano dopo ben due ore. Si
lascia a loro il rimorchio, e dopo quattro ore di fatiche si riesce a portare
la carretta in secca dentro la rada: giusto in tempo. (…) Fra i naufraghi recuperati vi sono due
novellini tenenti del Regio Esercito che, quando si sentono al sicuro sulla
nostra nave, hanno il coraggio di reclamare circa il sistema di salvataggio,
che giudicano tardivo dato che li abbiamo lasciati oltre mezz’ora in mare senza
curarci delle loro urla. Il fatto è che erano all’asciutto e al sicuro dentro
le lance, non lontani da terra, per cui era logico che si tentasse, da parte
nostra, di portare in secca il piroscafo. Del resto li avevamo invitati a
vogare verso terra, ma loro hanno preferito rimanere presso di noi,
intralciandoci nelle manovre di passaggio del cavo fino a che, finalmente, li
abbiamo tirati su”.
Il giorno seguente, è
proprio Caldara a recarsi sul Pomona,
con la motolancia del Freccia, per
recuperare il cavo di rimorchio: a bordo del piroscafo semiaffondato trova
proprio “i due tenentini”, che
proibiscono severamente a lui ed ai compagni di prelevare qualche bottiglia di
liquore da delle cassette semisfasciate ammucchiate vicino all’albero di
carico. “Evidentemente si dimenticano che
solo ieri sera tremavano dalla fifa e ci supplicavano di prenderli a bordo…
Comunque, nonostante la loro sorveglianza, riusciamo a far sparire più di dieci
bottiglie una volta a bordo del caccia
le beviamo in comunità… alla salute”. Su Brindisi, Caldara ritiene che “vista con l’occhio di noi marinai (…) se la usiamo come base (…) penso che non ci troveremo bene come a
Napoli”.
11 ottobre 1941
Il Freccia (capitano di fregata Alvise
Minio Paluello) riparte da Brindisi alle 14.15 (o 14) per scortare altri due
mercantili diretti a Bengasi in un convoglio lento: stavolta si tratta
dell’italiano Capo Orso e del tedesco
Tinos.
Il mare è un po’
mosso, e superata Corfù diviene tempestoso: nelle parole di Caldara, “facciamo salti fantastici (…) siamo sotto un vero diluvio che si abbatte
di continuo sulla nostra nave; i piroscafi procedono a stento, tuttavia si
continua in rotta”. Il maltempo costringe a ridurre la velocità, già
modestissima, di sei nodi ad appena quattro.
12 ottobre 1941
In seguito al suo
avvistamento da parte di ricognitori nemici, alle 19 il convoglio – che in quel
momento si trova all’altezza di Zante – riceve ordine di entrare ad Argostoli.
13 ottobre 1941
Le navi raggiungono
Argostoli alle 13.30, dando fondo in rada.
15 ottobre 1941
Alle 10 il
convoglietto lascia Argostoli, riprendendo la sua traversata e compiendo uno
scalo intermedio a Patrasso.
Il mare sembra
essersi calmato, ma durante la notte peggiora rapidamente.
16 ottobre 1941
Entro mezzogiorno il
convoglio si trova in mezzo ad una vera e propria tempesta. Ancora Caldara: “…mare forza 9. Facciamo salti e tuffi
giganteschi; la navigazione prosegue più sott’acqua che in superficie; siamo
letteralmente avvolti da montagne d’acqua che si abbattono con furore sulla
nostra nave, sconquassando tutto. A tratti riusciamo a vedere i piroscafi che
si arrampicano su queste montagne per precipitare poi in un mare di schiuma; le
loro eliche, al pari delle nostre, battono più l’aria che l’acqua; le macchine
girano con velocità 5 nodi, ma in realtà ne facciamo appena 2, e a volte
nemmeno uno. Abbiamo degli sbandamenti preoccupanti (…) Da quando siamo partiti non abbiamo più
mangiato (e ormai sono trascorse ventiquattr’ore dalla partenza da Cefalonia),
ma credo che pochi pensino al rancio in questo momento. Qui si tratta di
salvare la pelle. In questi casi si può comprendere l’attaccamento del marinaio
alla propria nave; infatti solo a bordo di essa può esserci salvezza. Se un
uomo cade in mare adesso non lo salva più nessuno. Comincia a fare sera (…)
Nell’oscurità della notte il mare ci
appare ancora più terribile (…) Le
onde si abbattono con fracasso su di noi sommergendo la nave che subito si
rialza scrollandosele di dosso, scricchiolando e gemendo tutta per lo sforzo.
In coperta non vi è più nessuno. Nemmeno le vedette possono stare al loro
posto. Il servizio si svolge tutto dall’interno della plancia, che sebbene sia
chiusa è già mezzo allagata; sotto, nei locali, vi è già un palmo d’acqua;
acqua entra anche dalle prese d’aria dei ventilatori della sala macchine e
caldaie (…) e i poveri fuochisti sono
continuamente investiti da potenti getti d’acqua gelata (e lavorano a torso nudo
per il caldo del locale). Se poi consideriamo che si trovano in locali sotto
coperta e chiusi, e che in caso di inabissamento essi sono senz’altro i primi a
lasciarci la pelle, vien da pensare in che condizioni d’animo si trovino. Il
resto dell’equipaggio sta sdraiato nei locali senza curarsi dell’acqua che ad
ogni sbandamento scorre di qua e di là bagnando tutti. Siamo sfiniti, buttati
lì a pagliolo come cose morte, con una rassegnazione fantastica, incuranti di
tutto. Ogni tanto riesce ad arrivare fino a noi qualcuno della plancia o delle
macchine, e chiede di essere rilevato; sveglia il compagno di turno, che
automaticamente si alza e come un automa, senza dire una parola, aggrappandosi
a tutti gli appigli va a raggiungere il suo posto, mentre l’altro che è
smontato si abbatte giù di colpo a pagliolo in mezzo all’acqua; non per dormire
e nemmeno per riposare, tanto è sfinito, ma per averne l’illusione: chiude gli
occhi e rimane lì, continuamente sballottato dai movimenti della nave (e, me ne
ricordo bene, si rimane lì in uno stato tutto speciale, con la mente bianca,
senza avere la forza di pensare a una qualsiasi cosa: niente di niente, come se
non si esistesse). Questo inferno dura ancora per tutta la notte e il giorno
seguente”. Per cercare di aumentare la stabilità della nave, si provvede a
pompare la nafta da alcuni dei serbatoi semivuoti agli altri, in modo da avere
alcuni serbatoi completamente pieni ed altri completamente vuoti; dopo di che
questi ultimi vengono riempiti con acqua di mare, così da appesantire la nave
in basso. Allo stesso scopo, proiettili da 120 mm, munizioni delle mitragliere
ed altro materiale pesante vengono portati nei locali inferiori. Su ordine del
comandante, viene mandato in sala radio un radiotelegrafista in più del solito,
con il compito specifico di tenersi pronto a lanciare l’S.O.S. se si rendesse
necessario.
17 ottobre 1941
Durante la notte lo
stato del mare comincia gradualmente a migliorare; “non tanto, ma abbastanza per permetterci di mettere un po’ di galletta
sotto i denti”.
Raggiunto anche dalla
torpediniera Centauro, uscita da
Bengasi per recarglisi incontro, il convoglio entra a Bengasi alle 15, senza
aver subito alcun attacco.
18 ottobre 1941
Dopo essersi
rifornito, il Freccia lascia Bengasi alle
19.30 per scortare a Brindisi la nave cisterna Alberto Fassio ed il piroscafo Bravo.
Mare “non buono, ma non tanto cattivo”,
navigazione faticosa ma senza storia.
21 ottobre 1941
Alle 9.30 il
convoglietto entra ad Argostoli, dove il Freccia
effettua alcune riparazioni di modesta entità per alcune lievi avarie.
22 ottobre 1941
Freccia, Alberto Fassio e Bravo lasciano Argostoli per Brindisi
alle sette del mattino.
23 ottobre 1941
Alle 9.30 le navi
arrivano a Brindisi, dove il Freccia
riceve riparazioni più estese per i danni causati dal mare.
I lavori si
protraggono per quasi un mese, durante il quale Brindisi viene colpita più
volte – l’8, 9, 11, 16, 19 e 20 novembre – da pesanti incursioni aeree notturne
(particolarmente disastrosa quella dell’8 novembre, che causa ingenti danni in
gran parte della città e 107 morti tra la popolazione, il più alto numero di
vittime civili causato da un bombardamento aereo su una città italiana fino a
quel momento); “la città viene mezzo
distrutta, mentre il porto non è colpito”, scrive Alessandro Caldara.
21 novembre 1941
Intorno alle 18 il Freccia imbarca 27 marinai da
trasportare in parte in Grecia ed in parte a Bengasi, ed alle 23 parte da
Brindisi con rotta verso la Grecia, navigando a 13 nodi con mare “quasi buono”.
22 novembre 1941
In mattinata il Freccia arriva a Patrasso, dove sbarca
il personale destinato in Grecia e sosta per qualche ora. Successivamente fa
rotta per Bengasi a 22 nodi; giunto all’uscita di Zante all’imbrunire,
tuttavia, non riesce a decifrare i segnali luminosi di uscita dallo stretto e
si deve arrestare, incrociando per tutta la notte nei paraggi a bassa velocità.
23 novembre 1941
Giunto il mattino, il
Freccia scopre che è stato un segnale
collocato in modo errato ad impedire di trovare l’uscita. A questo punto, finalmente
uscito dallo stretto, il cacciatorpediniere fa rotta per Bengasi.
24 novembre 1941
Alle 10.05 (per altra
fonte, probabilmente erronea, nel pomeriggio) il Freccia riceve l’ordine dal centro radiotelegrafico di Roma un
telegramma PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute) in cui
Supermarina gli ordina di invertire la rotta e di entrare a Navarino in seguito
all’avvistamento in mare della Forza K britannica, uscita a caccia di convogli
nel Mediterraneo orientale.
Il Freccia era infatti uscito da Patrasso
con l’ordine di rilevare le torpediniere Lupo
(capitano di fregata Francesco Mimbelli) e Cassiopea
nella scorta a due piroscafi tedeschi carichi di carburante e rifornimenti, Maritza e Procida, in navigazione dal Pireo a Bengasi: in base agli ordini inizialmente
ricevuti, il Freccia avrebbe dovuto
incontrare il convoglio (denominato «Maritza») nel punto 34°53’ N e 20°51’ E (nel
Canale di Cerigotto, 24 miglia a sud di tale isola e ad ovest di Creta), alle
sette del mattino del 24 novembre, sostituendo Lupo e Cassiopea (che
sarebbero poi rientrate al Pireo) nella navigazione fino a Bengasi.
Successivamente, l’orario dell’incontro tra il Freccia ed il convoglio «Maritza» era stato rinviato di diverse ore
a causa del ritardo accumulato dal cacciatorpediniere nel passaggio notturno
tra Zante e Cefalonia, cui si è accennato più sopra; Marisudest ne aveva
informato la Lupo la sera del 23, ed
il caposcorta Mimbelli aveva calcolato che l’incontro col Freccia non sarebbe avvenuto prima del pomeriggio del 24. In
seguito all’avvistamento della Forza K da parte del sommergibile Settembrini, Supermarina ha ordinato al Freccia di raggiungere Navarino ed al
convoglio «Maritza» di entrare a Suda (Creta), con l’intento di farli
proseguire dopo ventiquattr’ore, quando la minaccia rappresentata dalla
formazione britannica sarà venuta meno. Tuttavia, il convoglio «Maritza», a
differenza del Freccia, non riceverà
mai l’ordine di dirottamento, perché la caposcorta Lupo ha la radio sintonizzata su una frequenza sbagliata (la Lupo intercetta invece il messaggio
inviato da Roma al Freccia alle
10.05, ma non riuscirà a decifrarlo perché cifrato in un codice non in uso
sulle torpediniere): il risultato sarà che il convoglio finirà nelle grinfie
della Forza K, che affonderà Maritza
e Procida nonostante la difesa da
parte delle due torpediniere.
A Navarino il Freccia sosta due giorni, restando
ormeggiato con la poppa a 50 metri dalla testata del molo.
26 novembre 1941
In serata, siccome
Marina Bengasi continua a riferire della presenza di una formazione navale
britannica nelle acque della Cirenaica (questo secondo il diario di Alessandro
Caldara: ma forse è più verosimile che tale ordine sia stato impartito in
seguito alla distruzione del convoglio «Maritza», che vanificava la sua
missione), il Freccia lascia Navarino
e rientra a Brindisi, dove sbarca i marinai che erano diretti a Bengasi. “E così per questa volta gli inglesi ci hanno
sbarrato la strada; oppure noi non abbiamo cercato di passare”.
Il Freccia a Brindisi il 5 dicembre 1941 (foto tratta dal libro “Quelli di sottocastello” di Alessandro Caldara) |
6 dicembre 1941
Verso le 18 il Freccia, che si trova ormeggiato in
fondo al porto militare di Brindisi, riceve ordine di accendere le caldaie per
una nuova missione di scorta; alle 23 viene ordinato il posto di manovra ed
alle 23.30 la nave molla gli ormeggi. Uscito dal porto, il Freccia attende la motonave Calitea,
carica di truppe (283 militari tra italiani e tedeschi) e merci varie (circa
900 tonnellate), che deve scortare a Bengasi; dopo un po’ anche la Calitea esce dal porto e le due navi, Freccia in testa, imboccano la rotta di
sicurezza verso il mare aperto, ma ad un certo punto il semaforo di Forte a
Mare segnala “Freccia, rientrate
subito in porto e dirigetevi al solito ormeggio”. Le due navi, pertanto,
invertono la rotta e rientrano in porto, dove il Freccia si ormeggia di poppa alla banchina con i soli cavi sottili,
pronto a muovere. Le caldaie vengono spente.
7 dicembre 1941
Nel pomeriggio giunge
l’ordine di accendere di nuovo le caldaie, ed alle 20.10 il Freccia parte nuovamente da Brindisi,
sempre per scortare a Bengasi la Calitea.
Quest’ultima, uscita a sua volta dal porto, si mette nella scia del Freccia; dopo tre quarti d’ora il
convoglietto è fuori dalla rotta di sicurezza.
Le due navi navigano
in linea di fila, Freccia in testa e Calitea che lo segue a 16 nodi.
Alessandro Caldara così descrive la Calitea:
“una magnifica nave, (…) di forme svelte e buona camminatrice”.
La notte trascorre tranquilla.
8 dicembre 1941
Intorno alle dieci
del mattino, il tenente di vascello di guardia sull’aletta di plancia del Freccia nota che la Calitea sta gradualmente rimanendo indietro rispetto al
cacciatorpediniere: la motonave sta rallentando, e poco dopo alza i segnali di
avaria di macchina e contatta il Freccia
riferendo di avere subito un’avaria alla motrice di dritta, e di dover proseguire
col solo motore di sinistra a 9 nodi. “Siamo
proprio sfortunati: una volta tanto che ci capita una nave veloce che ci
promette una missione rapida e sicura; siamo invece in piena scalogna”. Il Freccia comunica l’accaduto al Comando
Marina, che – siccome le due navi si trovano al largo di Cefalonia – gli ordina
di entrare ad Argostoli con la Calitea
e di attendervi fino a che la motonave non avrà riparato l’avaria.
Il convoglio entra
nella rada di Argostoli alle 12.30; la Calitea
dà fondo sottocosta, mentre il Freccia
si avvicina il più possibile all’abitato ed infine dà fondo a 300 metri da riva
(di più non ci si può avvicinare, a causa dei bassi fondali).
9 dicembre 1941
In mattinata il
comandante Minio Paluello si reca a terra e parla col comandante di Marina
Argostoli, ottenendo di ormeggiare il Freccia
in banchina.
10 settembre 1941
In serata, avendo la Calitea finalmente riparato l’avaria,
sul Freccia vengono accese le
caldaie, preparandosi a salpare.
11 dicembre 1941
Freccia e Calitea ripartono da
Argostoli alle quattro del mattino, facendo rotta su Bengasi a ben 18 nodi. C’è
mare lungo (vento teso con mare agitato da nordovest); per tutta la notte ed il
mattino la navigazione si svolge senza intoppi, su rotta 191°.
Intorno a
mezzogiorno, tuttavia, Marina Brindisi ordina al convoglietto di dirigere
subito per Navarino: una divisione navale britannica è stata avvistata sulla
sua rotta. Freccia e Calitea accostano dunque a sinistra di
90° e fanno rotta su Navarino (a tale scopo, alle 12.40 il Freccia ordina alla Calitea
di assumere rotta 72°); tale nuova rotta passerà attraverso una zona in cui la
ricognizione aerea tedesca ha segnalato la presenza di un sommergibile in
agguato, dunque il comandante Minio Paluello dà ordine di lanciare bombe di
profondità a scopo preventivo durante l’attraversamento di tale area,
avvertendone la Calitea perché non si
allarmi. Viene comunicato che il lancio inizierà alle 16.30.
Ma proprio alle 16,
mentre i marinai del Freccia si
apprestano a poppa ad iniziare il lancio delle bombe di profondità, l’ufficiale
di guardia sull’aletta di plancia si precipita all’interno gridando al
comandante Minio Paluello che “la
motonave è saltata”. Quest’ultimo ordina subito di mettere tutta la barra a
dritta e portare la velocità a 20 nodi; il Freccia
sbanda sotto la brusca accostata, ed intanto Minio Paluello ordina anche di
iniziare a lanciare le bombe di profondità. Al timone è proprio Alessandro
Caldara, che così descrive la scena presentatasi ai suoi occhi: “Io metto tutta la barra a dritta (…) appena la nave ha compiuto il mezzo giro, mi
si presenta davanti agli occhi uno spettacolo impressionante. Abituato a vedere
l’imponente massa della motonave, ora trovo il nulla: dev’essersi squarciata in
due per sparire così, all’istante, e per provocare tanti rottami. Sembra che le
stive si siano svuotate e che tutto il galleggiabile sia venuto su. Davanti a
noi vediamo rottami, zattere, battelli sfasciati, e molto materiale. Vedremo
poi moltissimi panettoni e sacchi di caffè (con ogni probabilità destinati alle
truppe in Africa per il Natale) e, in mezzo a tutto questo guazzabuglio,
moltissima gente che urla”.
Ciò che è successo è
che la Calitea è stata colpita da due
siluri lanciati dal sommergibile britannico Talisman
(capitano di corvetta Michael Willmott), che aveva avvistato Freccia e Calitea alle 16.15, su rilevamento verde 40°, dopo aver sentito il
rumore prodotto dai loro motori. Willmott ha stimato la rotta delle due navi,
che in quel momento si trovavano a sei chilometri di distanza in posizione
36°33’ N e 20°34’ E, come 090°; alle 16.22 il Talisman ha lanciato quattro siluri contro la Calitea (la cui stazza è stata fortemente sovrastimata in 15.000
tsl, giudicando che avesse sagoma “simile
a quella della Vulcania”) da 2100 metri di distanza, più un quinto siluro
lanciato per errore. Colpita da almeno tre delle armi, la Calitea è affondata in appena 80 secondi nel punto 36°23’ N e
20°33’ E, quaranta miglia ad ovest dell’isola di Sapienza, 60 miglia ad
ovest-sud-ovest dell’isola di Schiza e 90 miglia a sud di Capo Matapan
Il Freccia compie due giri intorno al punto
in cui si è inabissata la Calitea,
lanciando continuamente bombe di profondità (da bordo del Talisman ne vengono contate quindici, lanciate in un lasso di tempo
piuttosto ridotto) per cercare di danneggiare il sommergibile o per lo meno di
indurlo ad allontanarsi. “Chissà a quanta
gente, immersa nell’acqua, le nostre bombe, con la potente vibrazione trasmessa
dallo scoppio, avranno rotto la spina dorsale!”. Concluso il secondo giro,
il Freccia rallenta e si dirige in
mezzo al gruppo dei naufraghi; il mare grosso ed il forte vento rendono però
difficile restare sul posto, perché il Freccia
scarroccia più velocemente dei rottami. Non è possibile azionare le eliche,
perché si finirebbe con l’uccidere altri naufraghi. Scrive Caldara: “Io smonto dal servizio al timone e vado a
poppa per iniziare il recupero. Preparo subito cime e biscagline (…) Io mi prodigo in tutti i modi per tirar su
gente, ma in special modo per lanciare ai più lontani il sacchetto: una lunga
sagola di lancio con palla di piombo all’estremità (…) molta gente scompare sotto i miei occhi”. Vengono messi a mare il
battello a remi e la motolancia, che si dirigono verso i naufraghi più
distanti; il salvataggio è intralciato dal mare grosso e bisogna fare presto,
prima che i naufraghi soccombano all’ipotermia nel freddo mare di dicembre.
Quando i naufraghi arrivano sottobordo, come se non bastasse, su un lato le
onde li sbattono contro lo scafo, e gli uomini del Freccia faticano molto per afferrarli e tirarli a bordo; e
sull’altro lato, il mare allontana i naufraghi dalla nave.
Un capitano di
fanteria si aggrappa alla cima lanciata da Caldara, ma quando questi ed i
compagni stanno per issarlo a bordo, l’ufficiale si accorge che vicino a lui ci
sono due soldati tedeschi semistrangolati dai loro salvagente: “i maledetti salvagenti a grossi quadri di
sughero, che si infilano per il collo e poi si devono legare bene con fettucce
a vita: e disgraziato chi non se le lega a dovere, perché la forza dell’acqua
spinge in su i grossi blocchi, che soffocano o strangolano le persone”. Il
capitano fa allora cenno ai suoi soccorritori di occuparsi prima dei due
soldati tedeschi; questi ultimi, in preda al panico, dopo essersi aggrappati
alla cima salgono con i piedi sulle spalle del capitano per aiutarsi a salire a
bordo. Il generoso ufficiale scompare sotto il bordo del Freccia: non verrà più rivisto. Altri naufraghi, seduti o sdraiati
su rottami, cercano di remare verso il Freccia
con dei pezzi di legno, ma il mare li spinge invece sempre più lontano;
inutilmente chiedono aiuto. Quando a poppa vengono esaurite le cime, Caldara ed
altri due uomini si calano sul paraeliche, sistemandovisi a cavalcioni, ed
iniziano ad afferrare per i vestiti i naufraghi che capitano loro a tiro, ormai
già troppo indeboliti dal freddo anche solo per tendere loro la mano. Lavoro
pericoloso (i tre uomini sono parzialmente immersi in acqua e completamente
esposti alle onde: un movimento sbagliato rischierebbe di farli finire a loro
volta in mare) e faticosissimo, non sempre coronato da successo. I naufraghi,
oltre che sfiniti e semiassiderati, sono pesantissimi perché ancora
completamente vestiti ed ormai zuppi d’acqua; la nafta viscida e scivolosa che
li ricopre rende molto difficile afferrarli, in qualche caso non si riesce ad
ottenere la presa necessaria ad issarli neanche con le unghie. Con questo
sistema, Caldara ed i compani riescono ad issare a bordo una decina di uomini,
uno dei quali è già annegato. Caldara vede un altro capitano dell’Esercito, con
ancora in testa il berretto del tipo “imperiale” con i tre galloni d’oro,
passare ad una quarantina di metri seduto su un rottame semisommerso; usa un
pezzo di legno per remare, e quando Caldara gli fa segno di tenersi pronto ad
afferrare la sagola che sta per lanciargli, l’ufficiale fa cenno di no,
indicando gli altri uomini in acqua. Quando Caldara, che ha rivolto la sua
attenzione agli altri uomini indicati dall’ufficiale, li ha ormai tratti tutti
in salvo e può nuovamente occuparsi del capitano, questi è stato portato dal
vento troppo lontano, al di là della portata della sagola: “i nostri sguardi si incontrarono ancora e
lui alzando in alto una mano e agitandola, mi salutò; ciò che più mi colpì e mi
impressionò in quel momento fu la sua compostezza”. Poi, l’ufficiale
scompare alla vista.
In tutto, il Freccia recupera 230 sopravvissuti, tra
cui il comandante civile della Calitea
(capitano di lungo corso Gaspare Lauro), restando fermo per circa tre ore e
mezzo sul luogo dell’affondamento. Intanto è calato il buio: si sentono ancora
alcune grida lontane, ma non si riesce più ad individuare nessuno, e la
presenza del sommergibile sconsiglia di accendere le luci di ricerca, per non
farsi silurare. Prima di andarsene, il Freccia
abbandona in mare due zatteroni carichi di viveri, nel caso che qualche
naufrago disperso possa riuscire a salirvi a bordo. Caldara, tornato al timone,
scrive: “Mentre stiamo per andarcene,
sentiamo sulla nostra sinistra delle grida provenienti dal mare; il comandante,
quasi che volesse giustificarsi con noi della plancia, dice che bisogna avere
il cuore duro e che non si può rischiare oltre la nave per tentare
l’improbabile recupero di poche persone”. La posizione dell’affondamento
viene comunicata dal Freccia alla
nave ospedale Arno, affinché provveda
ad ulteriori ricerche. Saranno 155, alla fine, i dispersi tra il personale
imbarcato sulla Calitea: 33 uomini
dell’equipaggio civile, 6 dell’equipaggio militare e 116 passeggeri.
Il Freccia fa rotta su Navarino a 16 nodi,
incontrando mare grosso; a bordo si provvede a medicare i molti naufraghi
feriti, non pochi dei quali in gravi condizioni. Gli incolumi, vestiti con
indumenti asciutti prestati dagli uomini del Freccia, scendono a scaldarsi nei locali caldaie; l’equipaggio del
cacciatorpediniere assiste i naufraghi in ogni modo, fornendo loro cibo, cognac
e sigarette. “Ognuno di noi trova un
compaesano e automaticamente questo diventa il suo protetto, cui cerca di non
far mancare niente. Sfasciamo anche le nostre brande e diamo loro materassi e
coperte. E qui un episodio assurdo: durante la notte trovano morte a bordo due
persone. Morte, e non so come sia andata. Il fatto è che le filano a mare senza
identificarle… Parecchio tempo dopo, a Napoli, verrà svolta una piccola
inchiesta, per vedere se qualcuno di noi è in grado di dare informazioni su
quei due”.
I naufraghi
raccontano che la Calitea aveva a
bordo, oltre alle truppe, generi di conforto per il Natale delle truppe
operanti in Africa: caffè, zucchero, tabacco, dolci, panettoni, salumi,
liquori; e che è stata colpita da due siluri, uno a prua e l’altro, subito
dopo, a centro nave, che l’ha spezzata in due e fatta affondare in pochi
secondi.
A mezzanotte il Freccia giunge davanti a Navarino, ma
non trova l’ingresso della rada a causa del buio e della totale assenza di
segnali: deve pertanto incrociare davanti alla costa fino al mattino.
12 dicembre 1941
Alle prime luci
dell’alba, l’imboccatura della rada diviene visibile, ed il Freccia vi può finalmente entrare; il
basso fondale costringe la nave ad ormeggiarsi a 50 metri dalla banchina, alle
otto del mattino, ed a traghettare i naufraghi a terra mediante i battelli, il
che risulta molto disagevole per i feriti. Dapprima vengono sbarcati soltanto
questi ultimi, ma successivamente giunge l’ordine di sbarcare tutti i naufraghi
militari, italiani e tedeschi, trattenendo a bordo soltanto 35 superstiti
dell’equipaggio civile della Calitea,
compreso il comandante Lauro.
La vicenda della Calitea avrà un seguito a 36 anni di
distanza, per opera proprio di Alessandro Caldara: dopo aver assistito una
sera, guardando la trasmissione televisiva “Portobello” di Enzo Tortora, ad un
appello lanciato dal reduce di Russia Giulio Bedeschi che cercava un Alpino incontrato durante la ritirata,
Caldara avrà l’idea di scrivere ad Enzo Tortora per chiedere di poter lanciare
anch’egli un appello simile, per poter finalmente scoprire quale sia stata la
sorte del capitano dell’Esercito da lui visto sul rottame alla deriva dopo l’affondamento
della Calitea: pur avendo salvato
tanti uomini dal mare, ed avendone visti tanti altri scomparire, Caldara non è
mai riuscito a dimenticare l’altruismo e la compostezza di quell’ignoto
ufficiale. La sua richiesta sarà esaudita e l’ormai non più giovane marinaio,
invitato negli studi milanesi di “Portobello”, avrà modo di rievocare davanti a
milioni di telespettatori, con le lacrime agli occhi, il tragico affondamento
della Calitea e l’episodio del
capitano senza nome.
L’appello di Caldara
produrrà un inaspettato afflusso di testimonianze sull’episodio: dapprima, già
durante la trasmissione, due telefonate da parte, la prima, di un motorista di
una base dalla quale erano decollati degli aerei che avevano partecipato alle
ricerche dei naufraghi, e la seconda del commissario di bordo della nave
ospedale Arno (che rievocherà le
ricerche parlando al telefono con lo stesso Caldara, entrambi in lacrime per la
commozione); poi, nei giorni seguenti, una vera marea di lettere. Alcune da
parte di superstiti della Calitea
(tra di essi l’allora tenente di cavalleria Tonino Costantini, del Reggimento
"Cavalleggeri di Saluzzo", ora maggiore in congedo, nonché gli ormai ex
ufficiali del Regio Esercito Roaldo Blancato e Filippo Basile, ed ancora Renato
Perticaroli), altri da parte di parenti di dispersi, non solo della Calitea ma anche di altre navi
affondate, che chiedono se Caldara possa dar loro informazioni sui loro cari; uno
di essi, il dottor Andrea Legori da Milano, invece di chiedere informazioni
racconta la storia del proprio fratello Libero, tenente del Regio Esercito, una
delle vittime del disastro. Saltato in mare insieme ad un amico, un capitano
dell’Esercito originario di Melegnano, Legori era rimasto in mare per due o
forse anche tre ore prima di essere raccolto dal Freccia insieme al compagno di sventura: mentre questi era ancora
in vita, sebbene svenuto per il freddo e la stanchezza (era stato lui, infatti,
a raccontare l’accaduto alla famiglia dell’amico), Legori era già morto quando
era stato issato a bordo del Freccia.
Altre lettere ancora
provengono da altri reduci del Freccia,
che ricordavano anche loro i tragici momenti dell’affondamento della Calitea ed il loro vecchio commilitone
Caldara: tra di essi il secondo capo cannoniere Domenico Chirco da Pegli (“ti ricorderai certamente di me e delle
avventure passate insieme. Non ho mai dimenticato l’affondamento della nave Calitea
di cui hai rievocato la tragedia. Confesso che mi è sembrato di riviverla in
tutta la sua drammaticità”), il capo S.D.T. Franco Salerno da Pontecchio
Marconi (“anch’io ero sul Freccia e ho
visto la Calitea inabissarsi di prua come un sommergibile”), il marinaio
Bernardo Calcagno da Arenzano (“rientrato
dai Caraibi (ho sempre, infatti, navigato) mi hanno detto del Freccia e di come
ne hai parlato alla televisione. Avrei piacere che me ne scrivessi”), il
motorista Dino Ongari da Mantova (coetaneo di Caldara; “ricordo benissimo quella notte del naufragio della nave Calitea”),
l’ufficiale di rotta Vittorio De Blasi da Venezia (che ricorda il “bravo nocchiere Caldara” ed aggiunge “…una cosa posso dirgli con animo da marinaio:
qualunque sia stato il destino del generoso ufficiale questi poté cogliere
negli occhi di chi intendeva soccorrerlo la calda luce di una fratellanza che
il mondo tutto invoca, oggi, in particolare…”), il nocchiere Domenico
Metlika da Trieste (“nocchiere sulla Vespucci, poi sul caccia Freccia,
ho partecipato al salvataggio dei naufraghi in quel giorno del siluramento
della nave Calitea ricevendo per quella azione un encomio solenne”), il
capo meccanico Belfiore Belfiori, da Chiaravalle (“…tramite il tuo racconto ho potuto rivivere in ogni suo particolare il
tragico affondamento della motonave Calitea (…) Ricordo benissimo il fatto perché ne fui testimone oculare…”), il
motorista navale Giacomo Bollati, da Villafalletto (“…ero con un marinaio del Freccia sul parabordo sinistro di poppa.
Abbiamo preso a bordo alcuni uomini, credo per la maggior parte tedeschi.
Quando era ormai notte e il Freccia stava allontanandosi sentii molto
distintamente alcune grida di aiuto che mi parvero essere di un giovanissimo;
mi dissero infatti alcuni superstiti della Calitea che con tutta probabilità si
trattava di un mozzo veramente giovane…”), il nostromo William Bunazza, da
La Spezia (“grazie per il bel ricordo del
vecchio Freccia: è stato un cacciatorpediniere che ha sempre avuto un magnifico
equipaggio”). Nessuna delle lettere, però, contiene notizie sul misterioso
capitano; ma dopo una settimana il colpo di scena: Caldara viene nuovamente
chiamato a Milano, negli studi di “Portobello”, per incontrare il dottor
Attilio Morgia, romano, che nel 1941 era imbarcato sul Freccia come sottufficiale di macchina. Anche Morgia aveva redatto
e conservato un diario, ormai ingiallito dal tempo, nel quale aveva descritto
nei dettagli anche l’affondamento della Calitea:
a Caldara spiegherà di essere stato proprio lui a recuperare dal mare il
capitano, quando il Freccia,
compiendo un secondo giro di ricerca, l’aveva avvistato di prua. Morgia era
riuscito ad afferrare l’ufficiale vicino ai paranchi della motobarca e ad
issarlo a bordo, mentre Caldara, trovandosi a poppa, non aveva assistito al
salvataggio, né lo aveva poi riconosciuto durante la navigazione verso la
Grecia (del resto, i naufraghi erano più di duecento, in numero superiore allo
stesso equipaggio del Freccia). Al
momento del salvataggio, secondo Morgia, l’ufficiale era seduto a cavalcioni di
un barile semidistrutto, era in divisa ed indossava il berretto da capitano:
proprio come se lo ricordava Caldara. Dopo essere stato issato a bordo,
l’ufficiale aveva raccontato al suo salvatore di essere il commissario di bordo
della Calitea e di trovarsi al suo
terzo affondamento, ma non aveva rivelato il suo nome.
Inizialmente
soddisfatto di aver finalmente scoperto la sorte del capitano, Caldara
ringrazierà Morgia e Tortora, ma dopo qualche tempo deciderà di tentare di
scoprire anche l’identità dell’ufficiale, e se sia ancora in vita: essendo
pensionato ed avendo tutto il tempo necessario, intraprenderà allora un viaggio
attraverso tutta l’Italia, da nord a sud, facendo visita a tutti coloro che gli
avevano scritto – reduci del Freccia
e sopravvissuti della Calitea – e
rievocando con essi le tante avventure vissute insieme: “molti del Freccia non mi riconoscevano, erano passati troppi anni, ma
nel parlare, nel riandare indietro con i ricordi saltavano fuori gli episodi
che ci permettevano di riconoscerci. Qualcuno di loro semrbava ancora in
perfetta efficienza, molti (come me) accusavano gli acciacchi dell’età; ma
fummo tutti contenti di rivederci. Con i naufraghi del Calitea ci fu molta più
commozione e trovai che la maggior parte di loro era schiva nel rammentare
l’episodio; ancora dopo tanti anni aveva lasciato in loro un segno profondo”.
Mentre neanche questo viaggio porterà a scoprire quale sia il nome
dell’ufficiale misterioso, Caldara otterrà da uno dei superstiti della Calitea, il maggiore in congedo Filippo
Basile da Caserta (sottotenente all’epoca dei fatti), l’elenco degli ufficiali
imbarcati sulla motonave, con la sorte, il grado e l’indirizzo di ciascuno (ma
riferito al 1941), oltre ad una foto scattata dai sopravvissuti a bordo del Freccia il giorno seguente. Ciò
permetterà a Caldara di restringere il campo di ricerca: i capitani nell’elenco
sono soltanto quattro; il passo successivo sarà quello di scrivere al Ministero
della Marina per sapere chi fosse il commissario di bordo della Calitea. Il contrammiraglio Renato
Fadda, capo dell’Ufficio Documentazione e Propaganda dello Stato Maggiore della
Marina, esaudirà la richiesta e comunicherà a Caldara il noome dell’ufficiale,
capitano Aurelio Massari da Forlì, che infatti è uno dei quattro capitani
presenti nell’elenco fornito da Basile.
Giunto finalmente
all’ultimo passo di questa incredibile ricerca, Caldara si procurerà un elenco
telefonico di Forlì e telefonerà all’unica persona che vi figura con il cognome
di Massari, una donna: questa spiegherà di non essere parente del capitano
Massari ma, sentita la storia di Caldara, deciderà di aiutarlo e di compiere
per proprio conto delle ricerche in città. Dalle ricerche emergerà, come
prevedibile, che la casa all’indirizzo di Massari indicato nell’elenco del 1941
non esiste più; tuttavia, la signora riuscirà a rintracciare una nipote del
capitano, della quale fornirà il nome e numero di telefono a Caldara. Con
quest’ultima telefonata Caldara apprenderà finalmente, dalla viva voce della
nipote del capitano, la storia di Aurelio Massari.
Capitano degli
autieri, sopravvissuto a tre affondamenti (l’ultimo era stato appunto quello
della Calitea), Massari non era un
ufficiale di carriera, ma di complemento: da civile, prima della guerra, era
insegnante di musica, ed aveva lungamente diretto il liceo musicale di Forlì.
Tra i suoi allievi di violino, in gioventù, c’era stato anche lo stesso Benito
Mussolini, suo conterraneo. Massari non si era mai iscritto al partito
fascista, ragion per cui era stato rimproverato da Mussolini quando, durante la
guerra, lo aveva incontrato per caso in Sardegna: al dittatore questi aveva
risposto di essere un artista, e “che l’arte non aveva niente a che fare con la
politica”. Ciononostante, dopo l’8 settembre 1943 si era arruolato volontario
nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, ritenendo che suo dovere
fosse quello di continuare la guerra contro gli Alleati; era scomparso nella
sua Emilia negli ultimi giorni del conflitto, a fine aprile del 1945, il suo
corpo non era mai stato ritrovato. “Per
me questa storia aveva dell’assurdo; un uomo di quello stampo (e di che stampo
fosse lo vidi, quando in acqua e nel massimo pericolo rifiutò il primo
salvataggio a favore di altri, vidi la sua calma, la sua faccia che sorrideva
al mio stupore), un uomo così, che cos’è che lo aveva spinto ad andare a morire
in quel modo?” La sua vedova, malata, vivacchiava con una modesta pensione.
Qualche giorno più
tardi, la nipote di Massari invierà a Caldara anche una fotografia del capitano
in uniforme, datata 1941, che permetterà al vecchio marinaio di riconoscere una
volta per tutte, e senza ombra di dubbio, quell’ufficiale che tanto lo aveva
colpito trentasei anni prima. Ora conoscendone, finalmente, tutta la storia.
Qualche tempo dopo, su richiesta della nipote e degli altri famigliari del
defunto capitano, Caldara tornerà in televisione ancora una volta, l’ultima,
per raccontare a tutti la storia di Aurelio Massari.
Ufficiali supersiti della Calitea a poppa del Freccia, in rada a Navarino, il giorno dopo l’affondamento (da “Quelli di sottocastello”) |
13 dicembre 1941
In mattinata, dopo
essersi rifornito d’acqua, il Freccia
lascia Navarino per tornare in Italia. Giunto al largo di Cefalonia, riceve
ordine di entrare nel porto di Argostoli; così fa e, giunto in rada, dà fondo e
trasferisce i 35 naufraghi dell’equipaggio civile sul cacciatorpediniere Turbine, che li porta in Italia.
14 dicembre 1941
Il Freccia lascia Cefalonia e rientra a
Brindisi, ormeggiandosi nel porto militare. Scrive Caldara: “È strano, ma tutte le volte che rientriamo a
Brindisi, i marinai della base ci guardano con stupore e immancabilmente ci
dicono: ma noi vi credevamo affondati. Cosa che noi ci affrettiamo a smentire
con le… corna di rito”.
20 dicembre 1941
Alle 20 il Freccia lascia Brindisi diretto da
Taranto, navigando da solo alla velocità di 18 nodi.
21 dicembre 1941
Arriva a Taranto in
mattinata e si va ad ormeggiare alla banchina nafta.
22 dicembre 1941
Il Freccia, il cacciatorpediniere Sebenico e la torpediniera Aretusa lasciano Taranto per scortare a Trieste la corazzata Conte di Cavour, recuperata dopo il suo
affondamento del novembre 1940 ad opera di aerosiluranti britannici, che nel
capoluogo giuliano dovrà essere sottoposta ai lavori di ricostruzione. La
corazzata, privata dei cannoni del calibro principale per alleggerirla nel
corso delle operazioni di recupero, può difendersi soltanto con le mitragliere
contraeree; le macchine invece sembrano perfettamente funzionanti, tanto che la
nave può navigare a tutta forza ed il Freccia,
per tenere la sua velocità, procede a 30 nodi. Addirittura la velocità è tale
che al largo di Bari l’Aretusa è
colta da un’avaria causata dall’eccessivo sforzo delle macchine, e deve entrare
in porto. Freccia, Cavour e Sebenico proseguono verso Trieste.
23 dicembre 1941
Cavour e scorta arrivano a Trieste
in mattinata, senza ulteriori inconvenienti. Il Freccia si ormeggia in banchina vicino al centro cittadino; gran
parte dell’equipaggio scende a terra in franchigia (e qualcuno anche senza). Si
spera di trascorrere il Natale a Trieste,
ma non sarà così.
24 dicembre 1941
Alle otto del mattino
il Freccia lascia Trieste scortando la nuovissima motonave
Gino Allegri, appena uscita dai CRDA
di Monfalcone. L’Allegri è alla sua prima
navigazione: può sviluppare una velocità di 17 nodi.
Durante la notte, il
personale del Freccia non di guardia
si raduna nel locale radio per ascoltare la messa di Natale alla radio. Così
Alessandro Caldara descrive quel Natale di guerra, trascorso in mare: “A mezzanotte io sono ancora di servizio al
timone in plancia. Dal portavoce si sente chiamare il comandante. Lui si
avvicina e si mette in ascolto, e si odono queste parole: «Signor comandante,
da parte di tutto l’equipaggio vi auguriamo buon Natale». Il comandante
ringrazia e contraccambia a tutti, e comincia la sfilza di scambi di auguri fra
gli ufficiali presenti in plancia. Finito il mio turno, scendo giù nei locali,
appena in tempo per sentire una voce alla radio che augura buon Natale a tutti
i combattenti. Siamo tutti tristi. Ognuno di noi pensa alla sua famiglia
lontana, poi qualcuno dà un giro alla manoPola della radio e si capta musica
leggera. Si comincia anche il giro di auguri presso i sottufficiali, e ad ogni
augurio a loro è un bicchierino per noi; io ne sorbisco quattro o cinque, poi
preferisco dimenticare nel sonno”.
25 dicembre 1941
Freccia ed Allegri giungono a
Brindisi, dove la motonave inizia a caricare rifornimenti.
28 dicembre 1941
In serata il Freccia lascia Brindisi per una nuova
missione: deve andare incontro ad un piroscafo, in arrivo con la scorta del Sebenico, ed assumerne la scorta. Mare
tempestoso, con vento gelido e scrosci di nevischio misto a pioggia. “Il posto di manovra per la partenza è fonte
di sofferenza. Mani nude sui ferri gelati e sui cavi bagnati d’acqua salsa, che
ci causano screPolature alle mani. E il vento freddo s’infila nei cappotti, ci
fa rabbrividire, mentre il nevischio (per il gelo è simile a ghiaietta) ci
martoria la faccia. Cerchiamo di affrettarci il più possibile, ma il forte
vento ostacola la manovra e fa scarrocciare la nave, tanto che impieghiamo più
di un’ora per toglierci dall’ormeggio e metterci in linea per l’uscita (…) Appena mettiamo la prora fuori da Forte a
Mare comincia il bello. Salti, strappi, scossoni, diluvi d’acqua gelata: un
vero caos. Segnaliamo al semaforo di Brindisi che ci è impossibile andare
avanti, ma da Marina Brindisi arriva l’ordine di proseguire (…) Proseguiamo. Il mare è tremendo, una vera
furia di vento e ondate gigantesche. La nostra piccola nave sembra in balia di
mille diavoli”. Quando il Freccia
è all’altezza di Bari, arriva l’ordine di rientrare (“gli accidenti non si contano”, scrive Caldara), e tra mille
difficoltà e sbandamenti paurosi, il cacciatorpediniere ritorna a Brindisi.
Durante la manovra d’ormeggio, il vento lo spinge con la poppa sull’ancoraggio
di una petroliera, e si rende necessario manovrare sull’ancora per cercare si
sfilarsi senza muovere le eliche. In tal modo il Freccia avanza per circa trenta metri, poi mette in moto: ma la
catena dell’ancora della petroliera rimane impigliata nelle eliche.
L’equipaggio lavora per tutta la notte, tra vento e nevischio, per liberare la
nave, ma soltanto l’arrivo al mattino di un pontone gru e dei palombari riesce
a risolvere la situazione.
3 gennaio 1942
Il Freccia e la torpediniera Procione salpano da Brindisi alle
13.15 per scortare a Tripoli proprio la Gino
Allegri, carica di 4175 tonnellate di rifornimenti, 92 veicoli, 33 carri
armati e 97 soldati, nell’ambito dell’operazione di rifornimento «M. 43».
Nell’ambito di questa
operazione, Freccia, Procione ed Allegri compongono il convoglio
numero 3; la «M. 43» prevede in tutto l’invio in Libia di cinque grandi
motonavi da carico ed una petroliera, tutte veloci (almeno 14 nodi) e di
recente costruzione, con una scorta poderosa: oltre alle siluranti di scorta di
ciascun convoglio, vi sono una forza di «scorta diretta incorporata nel
convoglio» (ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, con il compito di respingere
eventuali attacchi di formazioni leggere di superficie come la Forza K)
composta dalla corazzata Duilio con
gli incrociatori leggeri Emanuele
Filiberto Duca d’Aosta, Raimondo
Montecuccoli, Muzio Attendolo e Giuseppe Garibaldi ed i
cacciatorpediniere Maestrale, Scirocco, Alfredo Oriani e Vincenzo
Gioberti, ed un gruppo d’appoggio a distanza (ammiraglio di squadra Angelo
Iachino, con l’incarico di proteggere il convoglio da un eventuale attacco in
forze della Mediterranean Fleet) formato dalle corazzate Littorio, Giulio Cesare ed Andrea
Doria, dagli incrociatori pesanti Trento e Gorizia e dai
cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Carabiniere, Alpino, Camicia Nera, Ascari, Antonio
Pigafetta ed Antonio Da
Noli. Alla scorta aerea concorrono la Regia Aeronautica (Armata Aerea e
Ricognizione Marittima) e la Luftwaffe (II Corpo Aereo Tedesco e X Corpo Aereo
Tedesco, di base l’uno in Sicilia e l’altro in Grecia) per effettuare
ricognizione sul porto della Valletta (Malta) e nelle acque di Alessandria,
bombardamenti preventivi sugli aeroporti maltesi e scorta di caccia,
antiaerosilurante ed antisommergibile sui cieli del convoglio nonché a
protezione delle navi impegnate nello scarico una volta giunte a Tripoli.
Completa il dispositivo di difesa la dislocazione di undici sommergibili sulle
probabili rotte che una ipotetica forza navale nemica dovrebbe percorrere per
attaccare il convoglio.
Il mare è mosso e la
visibilità molto ridotta, anche a causa della nebbia.
4 gennaio 1942
Tra le 4 e le 11,
come previsto, il convoglio «Allegri» si unisce ai convogli 1 (motonavi Monginevro, Lerici e Nino Bixio,
cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi, Nicoloso Da Recco, Antoniotto Usodimare, Bersagliere e Fuciliere) e 2 (motonave Monviso, motocisterna Giulio Giordani, torpediniere Orsa, Aretusa, Castore ed Antares), partiti rispettivamente da
Messina e Taranto; si forma così un unico grande convoglio, il cui caposcorta è
il contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone, sul Vivaldi. Mentre il convoglio «Allegri» si unisce al Gruppo «Duilio»,
la III Divisione Navale (Trento e Gorizia) del gruppo d’appoggio viene
avvistata da un ricognitore britannico; da Malta decolla una formazione aerea
per attaccare, ma deve rientrare senza essere riuscita a trovare il convoglio.
Al tramonto il gruppo «Duilio», avvistato da bordo del Freccia fin da mezzogiorno, s’incorpora nella formazione del
convoglio, che durante la notte mette la prua su Tripoli.
5 gennaio 1942
Il mare aumenta di
forza, e ad una cinquantina di miglia da Tripoli il convoglio incappa in mare
lungo con vento fortissimo: il Freccia
sbanda a tal punto che l’inclinometro in plancia raggiunge ripetutamente il
limite di sicurezza. Scrive Alessandro Caldara: “Il mare è ancora in aumento e forma degli avvallamenti giganteschi,
dove noi scivoliamo di fianco con enormi sbandamenti. (…) A volte gli sbandamenti durano di più del
solito; allora ci sembra che la nave non si debba più raddrizzare e che la
prossima onda ci debba rovesciare per sempre (…) nessuno dell’equipaggio è rimasto nei locali; tutta la gente è in
coperta (salvo gli indispensabili di servizio in macchina o in caldaia). Ognuno
è pronto a gettarsi in mare nel caso che la nave si spacchi in due o sparisca
sotto per non tornare più a galla… In mare, ora, siamo rimasti solo noi con
altri due caccia. Ad osservarli molto spesso vediamo le loro chiglie fuori
dell’acqua; le eliche vanno a scatti, dando forti scossoni alla nave quando
fanno di nuovo presa in acqua”. Si rende necessario riempire tutti i
depositi e doppifondi con acqua di mare, per zavorrare la nave; ad un certo
punto la costa appare alla vista, ma poco dopo il Freccia riceve ordine di tornare indietro per cercare un altro dei
cacciatorpediniere, il Gioberti, che
non è più visibile. Dopo aver navigato per mezz’ora col mare in prora, il Freccia riesce effettivamente ad
avvistare il ‘collega’ in difficoltà; poco dopo viene avvistato nel cavo di
un’onda, a ridottissima distanza, anche un battello capovolto circondato da
alcuni corpi che galleggiano a faccia in giù, aggrovigliati tra cavi e rottami;
forse naufraghi di una nave affondata, o di un peschereccio sorpreso dalla
tempesta. “Non possiamo fare
assolutamente nulla per loro, neppure tentare il recupero delle salme; è già un
miracolo se riusciamo a salvare noi stessi”.
Quando mancano
soltanto venti miglia alla destinazione il gruppo «Duilio» lascia il convoglio,
che giunge indenne a Tripoli alle 12.30 senza aver subito alcun attacco. Complessivamente
l’operazione «M. 43» porta in Libia 2417 tonnellate di munizioni, 15.379
tonnellate di carburante, 10.242 tonnellate di materiali vari, 144 carri
armati, 520 automezzi e 901 tra ufficiali, sottufficiali e soldati.
(Secondo il diario di
Alessandro Caldara, il Freccia
avrebbe avuto inizialmente l’ordine di lasciare il convoglio e seguire il
gruppo «Duilio», ma non appena mise la prua sulla nuova rotta, si ritrovò in
difficoltà a causa del mare mosso; i tentativi di portare la velocità a 16
nodi, come ordinato dal Comando del gruppo «Duilio», fecero prendere al Freccia violente incappellate che misero
seriamente a repentaglio la sicurezza della nave, costringendo a ridurre a 10
nodi. Dopo varie prove il Freccia
comunicò di non poter mantenere tale velocità, e ricevette risposta di tornare
indietro e riunirsi al convoglio).
Il Freccia, intanto, ha raggiunto il Gioberti e si è messo a navigare di
conserva con esso: dopo una faticosa giornata caratterizzata da innumerevoli
paurose sbandate i due cacciatorpediniere arrivano sottocosta e danno fondo in
un punto in cui la violenza del mare è minore, rimanendovi poi all’ancora per
tutta la notte.
6 gennaio 1942
In mattinata Freccia e Gioberti entrano a Tripoli. Qualche ora dopo il Freccia riparte con altre navi, diretto
in Sicilia. C’è mare lungo, ma la navigazione procede tranquilla.
8 gennaio 1942
Il Freccia arriva a Palermo e vi resta per
qualche giorno, provvedendo alle riparazioni dei danni causati dalla tempesta.
“L’equipaggio ne approfitta per
rassettare il vestiario, che è tutto marcio d’acqua, e per fare finalmente
solenni dormite e mangiate”.
12 gennaio 1942
In mattinata il Freccia lascia Palermo e si trasferisce
a Napoli, navigando con mare grosso.
Alle 20 dello stesso
giorno il Freccia (caposcorta) e la
torpediniera Generale Achille Papa
salpano da Napoli per scortare a Tripoli il piroscafo Giovanni Battista. Mare ancora grosso, la navigazione procede con
difficoltà.
A Trapani la Papa lascia la scorta, mentre a
Pantelleria si aggrega la torpediniera Calliope.
17 gennaio 1942
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 14.30, dopo una navigazione priva di eventi di rilievo.
18 gennaio 1942
Il Freccia lascia Tripoli alle 17 per
scortare a Brindisi la motonave Nino
Bixio.
Nonostante il mare
grosso, il Freccia riesce a mantenere
una velocità di 15 nodi.
21 gennaio 1942
Dopo aver sostato a
Trapani, le due navi raggiungono Brindisi alle 3.15. Durante il viaggio non si
è verificato alcun inconveniente.
14 febbraio 1942
Il Freccia, insieme a Folgore e Saetta (che formano la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere), alla
XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Carabiniere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino),
alla VII Divisione (Montecuccoli e Duca d’Aosta) ed alla corazzata Duilio, lascia Taranto per partecipare
all’operazione «M.F. 5» a contrasto dell’invio di un convoglio britannico
(convoglio «M.W. 9») da Alessandria a Malta.
La VIII Squadriglia,
in particolare, parte per prima da Taranto alle 18.40 del 14, scortando
la Duilio; già alle 19.55,
tuttavia, la Duilio e la
VIII Squadriglia ricevono ordine di rientrare in porto. Supermarina, infatti,
ha appurato che non ci sono corazzate britanniche in mare (difatti la
Mediterranean Fleet non ha più una sola corazzata efficiente da dicembre,
quando le ultime due sono state poste fuori uso ad Alessandria dagli incursori
della X MAS), pertanto l’impiego della Duilio è
ritenuto superfluo.
21 febbraio 1942
In serata il Freccia lascia Napoli per scortare a
Palermo la motonave Gino Allegri.
22 febbraio 1942
Dopo una navigazione
tranquilla nonostante il mare grosso, Freccia
ed Allegri entrano a Palermo in
serata.
Freccia ed Allegri rimangono
poi a Palermo per oltre una settimana, mentre il porto si va sempre più
riempiendo di navi mercantili e militari: corre voce che Tripoli sia
sovraffollata di navi sotto scarico e non possa, per il momento, riceverne
altre. “E così, giorno per giorno, il
porto è diventato una grossa torta infarcita di navi”, scrive Alessandro
Caldara.
Tra i bastimenti che
entrano a Palermo nei giorni seguenti vi è anche la motonave tedesca Cuma, carica di 480 tonnellate di
carburante nonché carri armati, bombe d’aereo, fusti di benzina, parti di
ricambio, automezzi e munizioni, che va ad ormeggiarsi proprio accanto all’Allegri.
28 febbraio 1942
Nel pomeriggio un
ricognitore britannico sorvola il porto di Palermo ad alta quota, indisturbato
dal pur furioso tiro della contraerea. Anche alcuni aerei da caccia si levano
in volo, ma non riescono ad intercettarlo.
1° marzo 1942
Il ricognitore si
ripresenta sul cielo di Palermo e di nuovo riesce ad osservare il porto e le
navi ormeggiate senza che la reazione di contraerea e caccia riescano ad
impedirglielo.
2 marzo 1942
Il ricognitore torna
su Palermo per la terza volta: stavolta, secondo Alessandro Caldara, la
contraerea non apre il fuoco in modo da consentire alla caccia di decollare
subito, ma il ricognitore fa perdere le proprie tracce nascondendosi fra le
nubi.
Alle 22.30 suonano le
sirene dell’allarme aereo, e le batterie contraeree iniziano subito un fitto
fuoco di sbarramento; entrano in funzione anche gli apparati nebbiogeni, che
avvolgono il porto in una fitta cortina di nebbia artificiale per impedire agli
aerei di individuare i bersagli (Alessandro Caldara, che si trova a terra,
scriverà poi che la nebbia artificiale era così fitta da non permettergli
neanche di vedere ad un palmo di distanza, oltre a “pizzicare” terribilmente la
gola e costringerlo a tapparsi la bocca con un fazzoletto per non tossire).
Caldara, rientrato precipitosamente (e clandestinamente, arrampicandosi fin sul
castello lungo i cavi d’ormeggio) a bordo perché in ritardo rispetto all’orario
di conclusione della franchigia (l’assenza in combattimento equivarrebbe a
diserzione), descrive così quei momenti: “In
questo momento tutto è in silenzio assoluto; tutti sono in ascolto pronti a
sparare al minimo ronzio. La nebbia è sempre più fitta (…) ricomincia la sparatoria. Sino a questo
momento non è stata sganciata nessuna bomba. A un tratto, una dopo l’altra, ne
arrivano quattro: si odono gli scoppi laceranti, e la nave ha un sussulto.
Saranno cadute a 500 m da noi. Subito dopo inizia una furiosa sparatoria di
pochi minuti, poi silenzio totale per dieci minuti. Si ode il rumore di un
aereo e la contraerea apre un fuoco indiavolato. Quello scarica le sue bombe e
se ne va. I bombardieri si sono messi senz’altro in circuito: ne entra uno ogni
dieci minuti sul porto, sempre che il circuito non sia addirittura da Malta a
Palermo (…) Noi dei caccia, a causa
del fitto nebbiogeno, si spara solo quando sentiamo cadere le bombe, oppure
poco prima se sentiamo il rumore dell’apparecchio”.
Questo bombardamento,
il più violento tra quelli subiti da Palermo tra la fine del 1941 e gli inizi
del 1943 (quando l’arrivo dell’USAAF segnerà l’inizio di un crescendo di morte
e distruzione senza precedenti), è stato deciso dai britannici dopo che un volo
di ricognizione condotto il 2 marzo dal capitano Adrian Warburton – uno dei più
celebri piloti della RAF di base a Malta – ha rilevato la presenza in porto di
alcune grosse navi mercantili cariche, presumibilmente, di rifornimenti diretti
in Nordafrica. Warburton, che ha compiuto il suo volo tra le 13 e le 13.45 a
bordo di un Bristol Beaufighter del 22nd Squadron del Coastal
Command della RAF (in precedenza, il mattino 1° marzo, già un altro Beaufighter
aveva compiuto un primo volo di ricognizione su Palermo, senza incontrare
opposizione; Warburton è invece stato bersagliato per alcuni minuti dalla
contraerea, ma non ha subito danni ed è riuscito anche a sfuggire al caccia
mandato ad intercettarlo), ha scattato varie foto del porto e delle navi
presenti, e dopo averle esaminate i Comandi di Malta hanno pianificato una
missione di entità considerevole in rapporto alle magre forze aeree stanziate a
Malta in quel periodo (l’isola si trova infatti sotto pesantissimo
martellamento da parte dei bombardieri dell’Asse, che ne riducono fortemente le
capacità offensive). Contro Palermo sono stati inviati in tutto 16 bimotori
Vickers Wellington del 37th Squadron della Royal Air Force
(decollati dalla base maltese di Luqa), i quali, privi di scorta di caccia,
conducono l’attacco in due ondate, da una quota di 3000 metri, provenendo dal
mare. La prima ondata, di dieci aerei, arriva su Palermo alle 22.35 del 2 marzo
(secondo altra fonte, poco prima di mezzanotte) e sgancia 26 bombe sull’area
portuale (per complessive 27 tonnellate di esplosivo): i bombardieri attaccano
singolarmente od in coppia, ad intervalli di una decina di minuti l’uno
dall’altro, sorvolando il porto da nord verso sud. Dopo aver colpito il porto,
i dieci Wellington lanciano un’altra sessantina tra bombe dirompenti e spezzoni
incendiari sulla città; la prima ondata termina il suo attacco alle due di
notte del 3 marzo, e già alle 2.14 arriva la seconda, composta da sei
Wellington, che sganciano un’altra cinquantina di bombe.
Alcune bombe della
seconda ondata iniziano a cadere proprio vicino al Freccia: due esplodono sul molo al quale il cacciatorpediniere è
attraccato, scuotendo violentemente tutta la nave e crivellandola di scheggie,
che feriscono cinque mitraglieri ed uccidono nella sua cuccetta un
sottufficiale di passaggio, il secondo capo cannoniere Silvio Bampi, di 28
anni, da Ala. “Al sentire lo scoppio
lacerante di queste bombe sembra il finimondo”. Le bombe della terza ondata
colpiscono la Cuma: i marinai
tedeschi si tuffano nelle acque del porto, ed il comandante in seconda del Freccia, sentendone le grida di aiuto,
manda una motobarca per recuperarli approfittando di una pausa nel
bombardamento. La barca è condotta proprio da Alessandro Caldara, il quale
però, dopo aver percorso circa trecento metri, non riesce più a capire dove si
trovi a causa della nebbia artificiale, e tenta di tornare indietro: ma la
nebbia è così fitta che non riesce neanche più a ritrovare la strada percorsa
all’andata, e va a sbattere con la motobarca contro un altro
cacciatorpediniere, ormeggiato in tutt’altro punto del porto. L’equipaggio di
quest’ultimo indica a Caldara la direzione da seguire per tornare sul Freccia, che questi riesce a raggiungere
quando è da poco ripreso il tiro delle armi contraeree. “Intanto, attraverso la nebbia, vediamo il fuoco della nave colpita [la
Cuma] e si odono gli scoppi delle cassette di piccole munizioni. Esplodendo
tracciano scie di fuoco nella caligine. La situazione diventa preoccupante per
la durata dell’attacco e la terribile regolarità degli sganci. Le batterie
della diga sparano ormai rarissimi colpi, ma quando l’aereo è sopra il porto
allora sparano tutti i cacciatorpediniere, e questo è per noi l’annuncio che
stanno per cadere le bombe. È una cosa terribile aspettare la sequenza delle
quattro bombe con il pensiero che una di quelle sia la nostra. Sentiamo la
prima scoppiare a mille metri, la seconda più vicino, la terza e la quarta
sulla banchina o a cavallo della nostra nave, e queste scrollano regolarmente
tutto il bastimento”. Gli incendi scatenati dalle ondate precedenti, e
specialmente quello che divampa sulla Cuma,
permettono ora ai bombardieri di individuare gli obiettivi con maggiore
facilità, a dispetto della nebbia artificiale; come se non bastasse, sulla Cuma stanno iniziando a scoppiare anche
munizioni di maggiore potenza, e si teme che l’intero, pericolosissimo carico
della motonave tedesca possa saltare in aria con conseguenze disastrose per il
porto e le navi ormeggiate nei pressi. L’Allegri,
che è la più vicina e dunque la più a rischio (del suo carico fanno parte tra
l’altro munizioni di grosso calibro), taglia gli ormeggi, scosta dalla Cuma e si avvicina al Freccia, andandosi ad ormeggiare in
testata allo stesso molo cui è attraccato il cacciatorpediniere; nelle pause
tra una scarica di bombe e l’altra anche i marinai del Freccia scendono a terra per aiutare l’Allegri ad ormeggiarsi. Una nave cisterna, ormeggiata anch’essa
accanto alla Cuma, viene
autoaffondata dall’equipaggio per evitare una possibile esplosione.
3 marzo 1942
Il bombardamento ha
finalmente termine alle 5.30. Non appena viene dato il cessato allarme, gli
uomini del Freccia scendono sul molo
e lo trovano completamente sottosopra: sconvolto e danneggiato un po’
dappertutto, coperto di schegge e di rottami. Il Freccia presenta innumerevoli fori da schegge, così come il Folgore, che ha avuto due uomini uccisi
e numerosi feriti. La Cuma è ancora a
galla ma continua a bruciare, sempre più minacciosa: il Freccia si tiene pronto ad uscire dal porto, con le caldaie accese,
mentre l’Allegri è ancora ormeggiata
in testata, ad appena trecento metri dalla nave tedesca. Infine, alle 7.25 del
mattino, la catastrofe tanto temuta: la Cuma
salta in aria. Di nuovo la parola ad Alessandro Caldara: “…sono a poppa e osservo lo scudo dei cannoni che è tutto sforacchiato
dalle schegge (e questa volta è stata una fortuna per me, perché ne sono stato
protetto), quando improvvisamente il cielo si infiamma: uno scoppio colossale,
tremendo, seguito da uno spostamento d’aria che mi scaraventa sotto lo scudo e
mi fa rimanere senza respiro per parecchi secondi, il tutto accompagnato da una
vera pioggia di rottami, proietti, lamiere! Appena terminata questa pioggia
infernale, mi alzo e di corsa mi precipito sottocastello, ma mi scontro con una
marea di gente che ne sta uscendo. Gridano che si è incendiato il mare… Mi
precipito fuori e vedo la gente delle altre navi che fugge a terra
terrorizzata. Un’occhiata alla motonave saltata basta a convincermi che non c’è
tempo da perdere: la benzina in fiamme sull’acqua dilaga verso la Gino Allegri
e verso di noi. Il nostro caccia, per effetto delle grosse ondate provocate
dallo scoppio, ha rotto gli ormeggi e si sta allontanando dalla banchina; la
passerella sta già per cadere in mare, quando viene dato l’ordine di
abbandonare la nave. Con un salto balzo a terra e fuggo con gli altri verso il
centro della città. Gli scoppi ci inseguono, si susseguono senza tregua. Ci
ritroviamo infine tutti in una piazza del centro, e di là osserviamo le alte
colonne di fuoco e di fumo che si innalzano dal porto. Nello stesso tempo tutti
i quartieri vicini alla zona portuale vengono sgomberati in fretta dalla poPolazione
perché se salta l’altra motonave, salta Palermo. Fortuna e coraggio del
comandante del Gino Allegri, che riesce a scongiurare questa catastrofe.
Manovrando la grossa nave in mezzo alle fiamme riesce a portarla fuori
pericolo, mettendo al sicuro la nave stessa e la città. (…) Nel frattempo (altra fortuna!) è anche
cambiato il vento, e le fiamme non sono più spinte verso la nostra nave, che
peraltro è stata sommariamente ormeggiata da pochi uomini i quali non avevano
fatto in tempo a saltare a terra”. Il nostromo viene spedito in bicicletta
tra le vie di Palermo per radunare l’equipaggio; mentre ancora buona parte del
porto è in fiamme, gli uomini del Freccia
tornano a bordo e riaccendono le caldaie, tenendosi pronti a partire non appena
l’uscita del porto sarà sgombra dalle fiamme. L’incendio, però, non potrà
essere estinto prima di sera. Lo scenario circostante è apocalittico: “Della motonave saltata non rimane che un
troncone emergente dalle acque in mezzo al porto. Le banchine e i rioni
prospicienti il porto sono letteralmente coperti di rottami, lamiere e proietti
inesplosi. In piazza Politeama c’è un enorme pezzo di lamiera… La nostra nave è
ridotta a un setaccio. Oltre ai fori disseminati ovunque, è stato divelto anche
l’apparecchio di punteria e sono state strappate le antenne radio”.
L’esplosione della Cuma ha danneggiato le altre navi
ormeggiate nei suoi pressi e lanciato rottami metallici di ogni dimensione –
alcuni grandi anche diversi metri quadrati – a distanza anche di due
chilometri, fino al Foro Italico ed a Piazza Politeama; come descritto da
Caldara, un’enorme onda di fuoco, alimentata dal carburante sparsosi sulla
superficie del mare, ha preso ad avanzare verso le altre navi ormeggiate e
verso la città, ed è stato solo l’improvviso cambio di direzione del vento a
salvare le altre navi e Palermo stessa da maggiori distruzioni. Per il porto ed
il centro abitato, l’esplosione della Cuma
è risultata più distruttiva che non il bombardamento stesso.
Le vittime, tra
civili e militari, sono diverse decine: sul Freccia,
leggermente danneggiato dalle schegge di due bombe esplose vicine, ci sono
stati un morto e cinque feriti; inoltre si registrano 36 tra morti e dispersi
sulla Gino Allegri, 19 morti e 10
feriti sulla torpediniera Partenope
(colpita da bombe mentre è in bacino di carenaggio), due morti e dieci feriti
sul piroscafo Assunta De Gregori
(colpito da schegge), alcuni feriti sul cacciatorpediniere Folgore (che subisce danni da schegge alle sovrastrutture) e sulla
nave officina Antonio Pacinotti
(anch’essa lievemente danneggiata da schegge), oltre ad un imprecisato numero
di vittime tra l’equipaggio della Cuma.
In totale i feriti tra i militari sono 127; tra la popolazione civile
palermitana, le vittime sono 6 ed i feriti 98.
Le navi affondate
sono quattro, tutte tra quelle che erano ormeggiate alla testata del Molo Nord:
la Cuma (completamente distrutta,
ovviamente), i piroscafi Securitas e Le Tre Marie (entrambi successivamente
recuperati e riparati) e la piccola nave cisterna Tricolore (anch’essa poi recuperata), oltre alla bettolina militare
G.R. 42. Oltre alle navi citate più
sopra, subiscono danni i piroscafi tedeschi Salvador
e Ruhr, il cacciatorpediniere Strale, la torpediniera Giuseppe Cesare Abba e la cisterna
militare Marte, che tuttavia non
lamentano perdite tra gli equipaggi, ed altre 28 imbarcazioni di ogni tipo e
dimensioni.
A terra, Villa
Lampedusa, l’Opera Pia Collegio di Maria Immacolata al Borgo, lo scalo
d’alaggio Sicari, uno stabilimento per la lavorazione del sommacco e numerose
abitazioni (nelle vie XX Settembre, Siracusa, Trapani, dello Speziale,
Collegio, Ruffino, Vicolo della Cera, E. Amari, La Marmora, Vicolo Fiammetta al
Borgo) sono danneggiate o distrutte dalle bombe; ben 85 edifici lamentano danni
di varia entità per effetto dell’esplosione della Cuma (tra gli altri, un edificio viene gravemente danneggiato da
una lamiera del peso di 400 kg), che ha inoltre scardinato migliaia di infissi
in tutta la città. I Vigili del Fuoco eseguiranno ben 147 interventi.
In serata Freccia ed Allegri possono finalmente lasciare Palermo, facendo rotta su
Messina; una volta giunti nella città dello Stretto, la motonave vi rimane, mentre
il Freccia prosegue per Reggio
Calabria, ma poco dopo torna a Messina per ricevere le prime riparazioni dei
danni causati dal bombardamento.
10 marzo 1942
11 marzo 1942
Alle sette circa del
mattino il Freccia arriva davanti a
Palermo: dopo una mezz’ora escono dal porto due rimorchiatori che trainano il
relitto svuotato del Dardo,
recuperato dopo il suo drammatico capovolgimento, verificatosi proprio a
Palermo sei mesi prima. I rimorchiatori mollano il rimorchio, ed il Freccia passa al Dardo i suoi cavi per prenderlo a rimorchio; poi inizia la
navigazione, alla velocità di otto nodi (i giri delle turbine del Freccia corrisponderebbero a 12 nodi, ma
il rimorchio riduce la velocità effettiva ad otto), con la scorta della
torpediniera Polluce e di un
rimorchiatore d’altura. Il mare è calmo. Alle 14 è proprio il rimorchiatore
d’altura ad essere colto da un’avaria di macchina: così che il Freccia deve fermarsi e prendere
anch’esso a rimorchio, assicurandolo con un cavo alla poppa del Dardo. A poppa del Freccia alcuni marinai si tengono pronti a recidere il cavo di
rimorchio in caso di attacco nemico, ma per fortuna non accade niente e
l’insolito convoglio raggiunge indenne Napoli, dove il Freccia si trattiene per qualche giorno.
21 marzo 1942
In serata Freccia e Dardo lasciano nuovamente Napoli, diretti ora a Genova, dove il Dardo dovrà essere sottoposto a grandi
lavori di riparazione. Di nuovo, il Freccia
precede il Dardo fuori dal porto;
quest’ultimo viene condotto fuori da dei rimorchiatori, dopo di che il Freccia passa al gemello il suo cavo di
rimorchio. C’è ancora il rimorchiatore della traversata precedente, sempre in
avaria ed a rimorchio del Freccia. La
scorta è ora costituita dall’incrociatore ausiliario Città di Genova.
Il convoglio naviga
rasentando la costa, a distanza tanto ridotta che gli uomini del Freccia possono osservare al binocolo
gli abitanti dei paesi costieri in giro per le vie. Poco dopo aver superato
Civitavecchia, i cavi del rimorchiatore si rompono, costringendo il Freccia a fermarsi e passargliene di
nuovi; la navigazione riprende per un’ora ma poi i cavi si spezano di nuovo,
costringendo ad una nuova sosta e passare ancora altri cavi al rimorchiatore,
con grande perdita di tempo. Al largo di Piombino le navi incontrano maltempo,
che però non causa troppi problemi.
22 marzo 1942
Giunto davanti a
Rapallo, per recuperare il ritardo accumulato, il Freccia accelera, ma l’eccessivo sforzo che ne consegue fa rompere
la catena di rimorchio che lo unisce al Dardo.
Il Freccia non ha più catene
disponibili, dunque deve passare il rimorchio del Dardo al rimorchiatore, che però – avendo una sola motrice
funzionante – procede con una lentezza esasperante. Comunque sia, intorno alle
sei di sera il bizzarro convoglio raggiunge Genova, dove il Freccia si ormeggia alla Stazione
Marittima.
25 marzo 1942
Alle 9 il Freccia lascia Genova diretto a La
Spezia, navigando sottocosta a 18 nodi, con mare calmissimo; nel pomeriggio
entra a La Spezia e si ormeggia al molo Lagora.
27 marzo 1942
Nella prima mattina
il Freccia esce da La Spezia insieme
al cacciatorpediniere Legionario,
fresco di cantiere, che deve compiere delle esercitazioni tattiche fuori dal
Golfo, insieme al Freccia, per
regolare su di esso i propri apparati di punteria.
Conclusa
l’esercitazione, mentre il Legionario
torna a La Spezia, il Freccia fa
rotta su Piombino a 20 nodi. Giunto davanti a Livorno, assume la scorta di una
nave cisterna diretta a Napoli. Poco dopo Livorno un errore di rotta rischia di
mandare il Freccia ad incagliarsi, ma
il pericolo viene evitato.
28 marzo 1942
Alle 14.30 il Freccia e la nave cisterna arrivano a
Napoli, dove il cacciatorpediniere si ormeggia al molo Luigi Razza.
30 marzo 1942
In serata il Freccia salpa da Napoli scortando la Gino Allegri (che l’equipaggio del Freccia considera ormai la “propria”
motonave, perché, come spiega Alessandro Caldara, “la prima uscita in mare l’ha fatta con noi, quando l’abbiamo prelevata
nuova di zecca dai cantieri navali di Trieste”). Rotta per la Sicilia, a 15
nodi, con un po’ di difficoltà causate dal mare lungo in poppa.
1° aprile 1942
Al largo di Stromboli
due torpediniere si recano incontro a Freccia
ed Allegri, che accompagneranno fin
dopo lo stretto di Messina: nelle vicinanze, infatti, un ricognitore ha
segnalato un sommergibile in agguato. Anche il Freccia raddoppia le vedette, ma non accade niente. Durante la
notte il convoglietto entra ad Augusta; il Freccia
si ormeggia ad una boa, mentre l’Allegri
si ancora in rada. La partenza per Tripoli, prevista per la sera stessa, viene
rimandata di ventiquattr’ore all’ultimo momento.
3 aprile 1942
Il Freccia ed il cacciatorpediniere Nicolò Zeno partono da Augusta alle due
di notte per scortare a Tripoli le motonavi Gino
Allegri e Monreale nell’ambito
dell’operazione di traffico «Lupo», che prevede l’invio in Libia di 6 moderne
motonavi cariche di rifornimenti. Il mare è leggermente mosso; le navi
procedono a 15 nodi.
Al tramonto il
convoglio «Allegri» si aggrega ad un più grande convoglio formato dalle
motonavi Nino Bixio, Monviso, Lerici ed Unione scortate
dai cacciatorpediniere Antonio
Pigafetta (caposcorta), Antonio
Da Noli, Emanuele Pessagno, Euro e Folgore e dalle torpediniere Pallade e Centauro,
a sua volta frutto dell’unione di due convogli partiti da Taranto e Messina.
Forniscono scorta a
distanza l’incrociatore leggero Eugenio
di Savoia (nave ammiraglia dell’ammiraglio di divisione Alberto Da Zara) ed
i cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi e Mitragliere, che raggiungono il
convoglio intorno a mezzogiorno, mentre la scorta aerea è assicurata da 17
velivoli di vari tipi.
Nel pomeriggio viene
avvistato fumo di prua, seguito poco dopo dall’apparizione della sagoma di una
nave; non essendo previsti incontri con altre navi italiane, l’ammiraglio Da Zara
ordina a tutte le navi del convoglio il posto di combattimento per allarme
navale. Dopo un po’, tuttavia, la nave sconosciuta si rivela essere la nave
ospedale italiana Aquileia.
Prima di notte, il
gruppo di protezione indiretta lascia il convoglio per rientrare alla base.
4 aprile 1942
Alle cinque del
mattino il convoglio viene avvistato da ricognitori nemici; nonostante
reiterati attacchi aerei, tutte le navi – il cui carico complessivo assomma a
6190 tonnellate di carburante, 14.955 tonnellate di munizioni ed altri
rifornimenti, 769 tra automezzi e rimorchi, 82 carri armati e 327 uomini – giungono
indenni a Tripoli in mattinata. Solo i mercantili, però, entrano nel porto; il Freccia e gli altri cacciatorpediniere
invertono subito la rotta per tornare in Italia, navigando a ben 22 nodi.
Vengono avvistate mine alla deriva, ma non si verificano incidenti.
6 aprile 1942
Il Freccia arriva a Taranto.
8 aprile 1942
Uscito in rada nel
pomeriggio, durante la notte il Freccia
esegue tiri notturni con proiettili illuminanti, restando ormeggiato alle boe e
sparando contro un bersaglio rimorchiato da un rimorchiatore che procede fuori
dalla diga.
9 aprile 1942
Dopo aver imbarcato
l’ammiraglio comandante del gruppo di cacciatorpediniere di scorta di Taranto,
il Freccia esce in mare insieme al
nuovo cacciatorpediniere Mitragliere;
le due unità eseguono tiri diurni d’esercitazione contro un bersaglio
rimorchiato ed il Freccia, sebbene
privo di apparecchio di punteria generale, ottiene eccellenti risultati.
Tornato in rada alle 17.30, il Freccia
esce nuovamente in mare alle 20 per effettuare delle esercitazioni di lancio
siluri: calato il buio, dovrà avvistare una torpediniera e lanciarle un siluro
(con testata d’esercizio: priva di carica esplosiva e munita invece di un
dispositivo luminoso che permette di osservarne la corsa), mentre quest’ultima
tenterà di fare lo stesso. L’esercitazione viene svolta ottimamente, tanto che
l’ammiraglio è entusiasta dei buoni lanci eseguiti dal Freccia. A mezzanotte il cacciatorpediniere rientra in Mar Piccolo
e si ormeggia alla Banchina Torpediniere.
13 aprile 1942
Il Freccia salpa da Taranto alle 12.15 per
scortare a Tripoli, insieme al cacciatorpediniere Turbine, la motonave Ravello,
nell’ambito dell’operazione di traffico «Aprilia». Le navi procedono a 15 nodi,
con condizioni meteomarine favorevoli.
Durante la notte un
ricognitore britannico lancia un bengala proprio sulla verticale del convoglio,
ma poi se ne va senza che si materializzi alcun attacco.
14 aprile 1942
Ad est della Sicilia,
in mattinata, il convoglio che comprende il Freccia si
congiunge con altri due, provenienti da Napoli (motonavi Vettor Pisani e Reichenfels,
cacciatorpediniere Antonio Pigafetta
e Nicolò Zeno, torpediniera Pegaso) e da Brindisi (motonave Reginaldo Giuliani,
cacciatorpediniere Mitragliere,
torpediniera Aretusa,
quest’ultima rientrata in porto il 14 mattina), formando un unico convoglio
diretto a Tripoli (caposcorta è il Pigafetta).
Sempre in mattinata,
un velivolo tedesco della scorta aerea cade in mare; lo Zeno ne recupera l’equipaggio.
Il 14 aprile “ULTRA”
intercetta dei messaggi relativi al convoglio; due idroricognitori Martin
Maryland del 203rd Squadron vengono inviati da Bu Amud, in
Cirenaica, alla ricerca del convoglio, e lo trovano. Alle 7.30 anche un
Beaufort del 22nd Squadron (sergente S. E. Howroyd), dotato di
radar ASV (Air to Surface Vessel), viene inviato a rintracciarlo.
A mezzogiorno
decollano da Bu Amud otto aerosiluranti britannici Bristol Beaufort (in realtà
nove, ma uno, del 39th Squadron, deve rientrare poco dopo), due
del 22nd Squadron e sei del 39th Squadron (201st Group),
guidati dal capitano John M. Lander e scortati da quattro caccia Bristol
Beaufighter del 272nd Squadron (maggiore W. Riley, sottotenente
Stephenson, tenente Derek Hammond, sergente J. S. France; gli aerei, non avendo
abbastanza autonomia per tornare in Cirenaica dopo l’attacco, dovranno poi
raggiungere Malta). Nel pomeriggio, un Martin Maryland che sta tallonando il
convoglio (tenente James Bruce Halbert) viene abbattuto da un velivolo tedesco
della scorta; anche il Beaufort con radar ASV, dopo aver localizzato il
convoglio e comunicato la sua posizione, viene danneggiato da dei Messerschmitt
Bf 109 tedeschi mentre cerca di atterrare a Malta, e si schianta al suolo. Il
suo messaggio non viene però ricevuto dagli aerei inviati ad attaccare il
convoglio, che anzi superano la rotta da esso percorsa senza notare nulla.
Giunti gli aerei in
un punto 70 miglia a sudest di Malta, il capitano Lander si rende conto che
devono aver già oltrepassato il convoglio ed ordina quindi di virare verso
sudovest, ponendosi alla ricerca del convoglio. Dopo venti minuti i Beaufighter
dopo avvistano un gruppo di Me 110 e Ju 88 tedeschi della scorta aerea, che
ingaggiano, abbattendo un cacciabombardiere
Dornier Do 17 e danneggiano un caccia Messerschmitt Bf 110 ed un bombardiere Junkers Ju 88. Dopo questo
primo scontro tra aerei, a qualche miglio di distanza dalle navi, i caccia
britannici avvistano anche il convoglio. Si verifica qui, però, un errore che
salverà le navi dell’Asse: i Beaufighter della scorta, ritenendo che anche i
Beaufort debbano aver avvistato il convoglio, si allontanano in direzione di
Malta, come previsto dai loro piani (i Beaufighter, infatti, avendo minore
autonomia dei Beaufort, avevano il solo compito di accompagnare i Beaufort
sull’obiettivo e localizzare il convoglio, per permettere agli aerosiluranti di
attaccare, dopo di che avrebbero dovuto subito fare rotta per Malta, per non
esaurire il carburante; che peraltro è già notevolmente diminuito a causa dello
scontro con gli aerei tedeschi), senza avvisare gli aerosiluranti della
presenza delle navi dell’Asse. In realtà i Beaufort, che volano a meno di
quindici metri (per eludere i radar), più bassi dei Beaufighter (questi ultimi,
essendo più veloci, dovevano procedere a zig zag sulla loro verticale, per non
lasciare indietro i Beaufort: anche questo ha aumentato i loro consumi),
avvistano le navi solo mezz’ora più tardi, alle 15.47, e passano all’attacco
prendendo di mira la Giuliani ed
il Reichenfels, che sono le navi
più grosse del convoglio: ma con loro sorpresa vedono pararsi dinanzi a sé ben
15-20 (per altra fonte, oltre 25) caccia Messerschmitt Bf 109 (appartenenti al
JG. 53), sei Bf 110 e parecchi Ju 88 della Luftwaffe.
Gli aerosiluranti
britannici, privi ora di scorta, tentano egualmente di allinearsi per lanciare
contro Giuliani e Reichenfels, ma vengono attaccati dagli
aerei tedeschi e presi sotto il tiro delle armi contraeree delle navi di scorta. Solo
cinque degli otto aerei riescono a lanciare i propri siluri, nessuno dei
quali va a segno, mentre gli altri tre devono gettare in mare il proprio carico
per alleggerirsi quando vengono attaccati dalla scorta aerea. Uno dei Beaufort
(sottotenente Bertram W. Way) attacca un CANT Z. 506 italiano della 170a Squadriglia
Ricognizione Marittima ma viene abbattuto da un Bf 109 (sergente Ludwig
Reibel), mentre gli altri, danneggiati, inseguiti dagli aerei tedeschi e con il
carburante in esaurimento, tentano disperatamente di raggiungere Malta: ma
proprio quando sono giunti in vista dell’isola, vengono abbattuti o precipitano
uno dopo l’altro. Un primo Beaufort (capitano Robert W. G. Beveridge) cade in
mare alle 16.45, un altro (tenente Robert B. Seddon) precipita subito dopo a
causa dei danni subiti, un terzo (tenente Derek A. R. Bee) viene abbattuto da
un Messerschmitt quando ormai sta per atterrare, un quarto (sottotenente
Belfield) viene abbattuto anch’esso da un Bf 109. Alla fine, solo tre degli otto
Beaufort che avevano attaccato il convoglio riescono ad atterrare: due (tenente
S. W. Gooch e capitano Lander) con danni gravissimi (tanto che uno – quello del
capitano Lander – deve compiere un atterraggio d’emergenza e non potrà più
essere riparato), uno (capitano A. T. Leaning) del tutto indenne. 15 avieri
britannici, su 20 componenti gli equipaggi dei cinque Beaufort distrutti, sono
morti. L’unico squadrone di Beaufort britannici in Egitto è stato annientato, e
ci vorranno due mesi prima che ne venga ricostituito un altro.
Ma non ci sono solo
gli aerei: tre sommergibili britannici, il Thrasher, l’Urge e
l’Upholder, hanno anch’essi ricevuto
l’ordine di attaccare il convoglio, formando uno sbarramento lungo 50 miglia
tra Lampedusa ed il Golfo della Sirte.
Alle 15.33 del 14,
proprio mentre è in corso l’attacco dei Beaufort, due Ju 88 della scorta
ravvicinata, dopo aver danneggiato un Beaufort, mitragliano un sommergibile
avvistato in superficie nel punto 36°10’ N e 15°15’ E, ritenendo di aver
ottenuto esito positivo. In realtà, nessun sommergibile britannico risulta
essersi trovato in posizione compatibile; è probabile un abbaglio dei piloti,
cosa assai comune.
Poco dopo, alle
16.15, la Pegaso riceve da
un idrovolante CANT Z. 506 della scorta aerea (il MM 45389, n. 2 della 170a Squadriglia
dell’83° Gruppo della Ricognizione Marittima, pilotato dal sottotenente pilota
Pier Luigi Colli e con a bordo il tenente di vascello Mauro Tavoni quale
osservatore) la segnalazione della presenza di un sommergibile (precisamente di
una «scia ritenuta di sommergibile») in posizione 34°47’ N e 15°55’ E (a 90
miglia per 130° da Malta, e 200 miglia a nordest di Tripoli). Il CANT Z. 506
lancia un fumogeno bianco per segnalare il sommergibile, sulla sinistra del
convoglio; la Pegaso lo
riferisce al Pigafetta (caposcorta),
il quale lancia all’aria il segnale «un sommergibile in 34°50’ – 15°50’» ed
ordina alle navi di accostare subito a dritta, mediante segnale di bandiera,
razzi a luce verde (due) e segnalazioni col radiotelefono.
La Pegaso lascia la sua posizione di
scorta in testa al convoglio, si porta a tutta forza nel punto indicato
dall’idrovolante, ottiene un contatto all’ecogoniometro e lancia un pacchetto
di bombe di profondità, poi perde il contatto (alle 16.30). Non vengono
avvistati rottami. Conclusa la brevissima azione antisom, senza che si siano
manifestati segnali di un avvenuto affondamento del sommergibile, la
torpediniera segnala al Pigafetta il
risultato dell’attacco e poi ritorna al convoglio, riassumendo la sua posizione
di scorta in testa ad esso. Tuttavia, nel frattempo (subito dopo aver lanciato
il fumogeno) il pilota dell’idrovolante si è accorto che la scia da lui
avvistata, e ritenuta quella di un periscopio, è in realtà lasciata da un
delfino; osservando l’attacco dall’alto, senza aver modo di avvertire la Pegaso dell’errore (avrebbe potuto
farlo solo usando la radio, ma ciò non è consentito), il sottotenente Colli ha
visto che esso si è svolto contro un branco di delfini, e non un sommergibile,
cosa che provvederà a riferire al suo rientro alla base di Taranto, alle 19.30
di quel giorno. Anche Marina Messina, in una telefonata a Supermarina
effettuata alle 19.45 del 12 aprile, riferirà: "1615 – Il nostro aereo ha avvistato scia ritenuta di sommergibile. Lanciato
fumata bianca – effettivo riconoscimento per scia di delfini. 1630 – Un
C.T. [in realtà, la Pegaso] di scorta ha segnalato “sommergibile nemico”
con artifizi e sparando con mitragliere e con cannoni. Aereo ritiene
si trattasse ancora di scie di delfini".
Per lungo tempo si è
ritenuto che in quest’azione sia stato affondato il sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm
David Wanklyn), ma ricerche più recenti hanno mostrato che ciò è in realtà poco
probabile, mentre più verosimilmente l’Upholder
saltò sui campi minati difensivi di Tripoli o venne affondato da aerei tedeschi
qualche ora prima dell’azione della Pegaso.
Alessandro Caldara
descrive così questa successione di attacchi: “Alle 16.30 allarme aereo: 5 grossi apparecchi, a quota bassissima, si
avvicinano a noi a tutta velocità! Sono inglesi. Appena a tiro apriamo il fuoco
con tutte le mitragliere centrandoli subito; contemporaneamente la caccia
tedesca picchia su di loro mitragliandoli. Altri tre aerei attaccano il
convoglio sulla dritta! Presi in mezzo dalle nostre raffiche gli apparecchi
sbandano e non sanno più dove andare. A 900 metri dai mercantili sganciano
siluri e bombe in confusione senza colpire nessuno a causa dello scompiglio
creato dalla nostra difesa. E appena sganciato virano e se ne vanno, inseguiti
dalla caccia tedesca. Pochi secondi dopo il Pegaso dà l’allarme: sommergibile!
Tutte le navi del convoglio si mettono a zig-zagare, mentre la torpediniera va
all’attacco con le bombe di profondità. Poco dopo si vede una gran macchia di
nafta salire alla superficie; il Pegaso cessa il lancio e rientra in convoglio.
Anche questo colpo è fallito; probabilmente il sommergibile doveva lavorare in
collaborazione con gli aerei”.
Durante la notte il
convoglio torna a dividersi in tre gruppi; vengono avvistati dei bengala
lanciati da aerei britannici in cerca del convoglio, ma nessuna delle navi
viene localizzata. Lo stato del mare va invece peggiorando.
Medaglietta ricordo del Freccia (da www.associazione-venus.it) |
15 aprile 1942
Le navi del convoglio
giungono a destinazione senza alcun danno, tra le 9.30 e le 10.
17 aprile 1942
Il Freccia (caposcorta) salpa da
Tripoli alle 15, insieme al cacciatorpediniere Mitragliere ed alla torpediniera Pegaso, per scortare in Italia le motonavi Lerici e Monviso. Mare grosso.
Il convoglio viene
dirottato verso la Grecia a seguito dell’affondamento, sulla stessa rotta, del
piroscafo tedesco Bellona da
parte di un sommergibile britannico (il Torbay); poi viene diviso in base alla destinazione: Monviso e Mitragliere verso Brindisi (dove giungono alle 13.30 del 19), Lerici e Freccia verso Taranto. Al largo di Santa Maria di Leuca, da
bordo del Freccia vengono avvistate
delle salme alla deriva, con indosso giubbotti di salvataggio.
19 aprile 1942
Freccia e Lerici giungono a
Taranto alle 14.15.
20 aprile 1942
Il secondo capo
cannoniere Luigi De Vei, di 28 anni, muore a bordo del Freccia nel Mediterraneo centrale.
24 aprile 1942
Alle 23.45 il Freccia (caposcorta) ed il
cacciatorpediniere Strale partono da
Brindisi per scortare a Bengasi i piroscafi Petrarca
(italiano) e Savona (tedesco).
Convoglio lento, il Savona è il più
lento dei due piroscafi: le navi non possono procedere a più di otto nodi. Il
mare è piuttosto mosso.
25 aprile 1942
Lo Strale deve lasciare la scorta e tornare
a Brindisi per avaria, venendo rimpiazzato in serata dal cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi, uscito da Reggio
Calabria alle 11.30.
26 aprile 1942
Durante il pomeriggio
il convoglio si scinde in due gruppi: il Vivaldi
va avanti insieme al Petrarca, più
veloce di un nodo rispetto al Savona,
mentre il Freccia rimane con
quest’ultimo.
Cala il buio: il mare
inizia ormai ad essere piuttosto agitato, mentre la luna illumina le onde; è
una notte pericolosamente chiara. Ad un certo punto viene avvertito sul Freccia un ronzio sospetto: viene
intensificata la vigilanza e poco più tardi un grosso idrovolante britannico da
ricognizione sorvola lentamente il cacciatorpediniere a bassa quota, senza
apparentemente notarlo. Nel frattempo il mare è diventato grosso, facendo
sobbalzare ampiamente il Freccia
(Alessandro Caldara ipotizza nel suo diario che proprio la schiuma generata
dalle onde possa aver dissimulato la nave, impedendo al ricognitore di
avvistarla). Dopo un po’, il ricognitore si ripresenta, e stavolta sembra
puntare deliberatamente verso il Freccia:
i mitraglieri aprono allora il fuoco, ma i loro colpi mancano l’aereo,
passandogli davanti. L’idrovolante cambia subito rotta, passa accanto al Freccia e punta sul Savona, ma questi apre a sua volta il fuoco con le sue mitragliere
a quattro canne: l’aereo cambia rotta nuovamente e sgancia una bomba che cade
in mare ad un migliaio di metri dalla nave tedesca, poi cerca di ripassare
sulla verticale del Freccia, ma viene
respinto dal rabbioso tiro contraereo del cacciatorpediniere.
27 aprile 1942
Freccia e Savona arrivano a
Bengasi alle 18, mentre Vivaldi e Petrarca li hanno preceduti già alle
12.30.
Alle 20 Freccia e Vivaldi (caposcorta) ne ripartono per scortare a Brindisi il
piroscafo Capo Orso. Il viaggio
procede tranquillo.
28 aprile 1942
Alle 22.20, in
posizione 36°20’ N e 18°21’ E (in Mar Ionio), il sommergibile britannico Proteus (capitano di corvetta Philip
Stewart Francis) avvista tre navi oscurate su rilevamento 165°, a circa quattro
miglia e mezzo di distanza; dopo aver messo la poppa su di esse, alle 22.24 le
identifica come un mercantile di circa 3000 tsl scortato da due
cacciatorpediniere, pertanto decide di attaccare. Si tratta di Freccia, Vivaldi e Capo Orso.
Immersosi alle 22.25
per attaccare, alle 22.40 il Proteus
sprofonda a 18 metri a causa di una perdita d’assetto; tornato a quota
periscopica dieci minuti più tardi, alle 22.54 il sommergibile lancia il primo
di due siluri da 2740 metri, ma in seguito al lancio diviene temporaneamente
ingovernabile. Riottenuto il controllo, alle 22.57 lancia anche il secondo
siluro, da una distanza che intanto è calata a 1830 metri. Entrambi i siluri
mancano il bersaglio, e le navi italiane non si accorgono neanche dell’attacco;
alle 23.20 il Proteus emerge e si
mette all’inseguimento del convoglio, ma alle quattro del mattino del 29
aprile, avendo ormai perso il contatto, abbandona l’inseguimento.
29 aprile 1942
Al largo di Messina
il Vivaldi lascia il convoglio,
mentre Freccia e Capo Orso proseguono per Brindisi; il mare è agitato, forza 6, ed
il Freccia, che lo ha al traverso,
sbanda pericolosamente innumerevoli volte durante la giornata. Vengono anche
avvistati due zatteroni e due corpi senza vita, in acqua, alla deriva. In
serata la forza del mare aumenta ulteriormente, ed il Freccia – che ormai ha i serbatoi quasi vuoti – rischia seriamente
il capovolgimento; ma alle 21.30 le due navi arrivano finalmente a Brindisi.
13 maggio 1942
Nel pomeriggio il Freccia e la torpediniera Aretusa escono da Taranto per effettuare
dei tiri d’artiglieria a scopo addestrativo. Durante l’esercitazione un
marinaio del Freccia rimane ferito ad
una mano (sarà necessario il ricovero ospedaliero).
Alle 19, conclusa
l’esercitazione, il Freccia torna a
Taranto e si ancora in Mar Grande. Subito dopo, però, scoppia un incendio in
caldaia 1: il locale è invaso dal fumo, che quasi soffoca i fuochisti; alcuni
membri dell’equipaggio, con indosso tute ignifughe in amianto, scendono nel
locale e chiudono le valvole della nafta, mentre il resto del personale viene
concentrato sul castello, a prora estrema, perché l’incendio sta facendo
scaldare pericolosamente una paratia del deposito munizioni di prua. L’incendio
viene presto domato senza conseguenze, e poco più tardi viene accesa un’altra
caldaia per uscire nuovamente in mare per ulteriori esercitazioni (tiri
notturni d’artiglieria e lanci di siluri).
In serata il Freccia esce dunque in mare per tali
esercitazioni, con a bordo, di nuovo, l’ammiraglio comandante del gruppo
cacciatorpediniere di scorta.
14 maggio 1942
All’una di notte il Freccia rientra in porto dopo aver
concluso le esercitazioni. Stavolta i lanci di siluri non sono andati molto
bene: il siluro ha mancato il bersaglio ed è stato commesso un grave errore nel
lancio (il comandante Minio Paluello incolpa di ciò il timoniere Caldara, che
ritiene responsabile perché il Freccia
era fuori rotta al momento del lancio, condannandolo a 10 giorni di prigione
semplice; da parte sua, Caldara attribuisce invece la colpa al comandante, che
ha ordinato troppi cambi consecutivi di rotta in troppo poco tempo, lanciando
prima che la nave finisse la sua accostata).
Maggio 1942
Il Freccia viene sottoposto a lavori nell’Arsenale
di Taranto per riparare la caldaia danneggiata dall’incendio.
In questo periodo,
tra le perdite e l’entrata in servizio di nuove unità, la VII Squadriglia
Cacciatorpediniere viene riorganizzata e risulta composta da Freccia, Saetta, Strale e Legionario.
2 giugno 1942
Alle 22.45 il Freccia (caposcorta, capitano di
fregata Alvise Minio Paluello) e le torpediniere Partenope e Pegaso
salpano da Taranto per scortare a Tripoli la motonave Reginaldo Giuliani. Durante la giornata, la navigazione prosegue
senza intoppi, a circa 15 nodi di velocità.
Già il 31 maggio,
tuttavia, “ULTRA” ha avuto modo di comunicare ai comandi britannici, a seguito
delle decrittazioni di messaggi italiani, che «la Giuliani, che è stata ritardata, ora lascerà Taranto durante la
notte tra il 2 e il 3 giugno con la scorta di Freccia, Partenope e Pegaso alla
velocità di 15 nodi e dovrà arrivare a Bengasi alle 10.30 del giorno 4».
3 giugno 1942
Alle 6.15 si unisce
alla scorta la torpediniera Pallade,
proveniente da Bengasi.
4 giugno 1942
Nella notte tra il 3
ed il 4 giugno il convoglio viene localizzato da ricognitori decollati dalla
Cirenaica ed illuminato dallo sgancio di numerosi bengala, cui segue una serie
di attacchi di aerosiluranti isolati, che si protraggono per più di due ore.
Alle 4.52 (o 4.53; per altra versione, probabilmente erronea, alle 5.30) del 4
giugno, a 125-130 miglia per 20° da Bengasi (cioè a nord di tale porto), un
aerosilurante riesce a portarsi molto vicino prima di sganciare, e la Giuliani viene colpita a poppa
sinistra dal suo siluro, rimanendo immobilizzata con gravi danni. Il Freccia, dopo diversi tentativi, riesce
prendere a rimorchio la motonave nel tentativo di portarla in salvo a Bengasi;
ma durante la navigazione alcune paratie della Giuliani cedono alla pressione dell’acqua, permettendo al mare
di allagare progressivamente tutti i compartimenti ed impedendo di proseguire
nel rimorchio. Da Bengasi viene inviato il rimorchiatore tedesco Max Barendt che cerca a sua volta
di prenderla a rimorchio, ma senza successo; i 225 uomini imbarcati devono
essere trasferiti sulle unità della scorta, mentre le condizioni della motonave
si aggravano di ora in ora. Nondimeno, la Giuliani
rimane ostinatamente a galla per tutta la sera e la notte successiva. Alle 20
si è unito alla scorta anche il cacciatorpediniere Euro, mandato da Bengasi quale rinforzo.
5 giugno 1942
Siccome la motonave
risulta ormai irrecuperabile (non è possibile prenderla a rimorchio, e Bengasi
dista 130 miglia), ma al contempo affonda troppo lentamente, Marina Bengasi
ordina al comandante Minio Paluello di accelerarne l’affondamento e poi
raggiungere Bengasi; è la Partenope ad
assumersi il mesto incarico, affondandola alle 6.30 del 5 giugno.
Non avendo più nulla
da fare, Freccia, Partenope e Pegaso raggiungono Bengasi in mattinata, sbarcandovi i 225
naufraghi, ma qui la perdita della Giuliani rivela
uno dei suoi perniciosi aspetti. La nafta necessaria al rifornimento di Partenope e Pegaso, per permettere loro di tornare in Italia, era proprio
quella che era stata caricata a bordo della motonave: ed ora giace in fondo al
mare. Per permettere a Freccia, Partenope e Pegaso di tornare a Taranto si
rende necessario prelevare la nafta dai serbatoi di altre due torpediniere,
impedendo così che queste ultime, come programmato, possano compiere la loro
programmata missione di caccia antisommergibile.
9 giugno 1942
Il Freccia (caposcorta), il cacciatorpediniere Euro e la torpediniera Pallade lasciano Bengasi per Taranto
alle 5.30, scortando la motonave Monviso,
che ha a bordo circa 200 prigionieri. Il Freccia
ha a bordo i naufraghi di un sommergibile, che devono rientrare a Taranto.
10 giugno 1942
A seguito della
segnalazione dell’avvistamento di un sommergibile nemico, il convoglio viene
fatto entrare a Gallipoli alle 20.45, sostandovi per alcune ore.
(g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
11 giugno 1942
Alle due di notte le
navi lasciano Gallipoli per riprendere il viaggio verso Taranto, dove arrivano
alle 9.30.
14 giugno 1942
Nel primo pomeriggio
il Freccia salpa da Taranto insieme
al resto dell’ormai eterogenea VII Squadriglia (composta, oltre che dal Freccia, da Folgore e Legionario,
cui successivamente si unirà anche il Saetta),
alla XIII Squadriglia (Mitragliere, Bersagliere ed Alpino), alla XI Squadriglia (Aviere, Geniere, Corazziere, Camicia Nera), alla III Divisione (Trento e Gorizia), alla VIII Divisione (Garibaldi
e Duca d’Aosta) ed alla IX
Divisione (Littorio e Vittorio Veneto) per contrastare
l’operazione britannica «Vigorous» (invio di un convoglio di rifornimenti da
Alessandria a Malta, con undici mercantili scortati da otto incrociatori e 26
cacciatorpediniere oltre a naviglio minore ed ausiliario) nel corso della
battaglia aeronavale di Mezzo Giugno. La VII Squadriglia, insieme alla XIII, è
assegnata alla scorta delle due corazzate.
In questa missione il
Freccia si trova privo di timonieri
titolari: il sergente nocchiere, il sottocapo nocchiere (cioè Alessandro
Caldara, di cui si sono sopra riportati vari brani) ed il marinaio nocchiere
sono tutti a terra ammalati, ricoverati in ospedale, così che a governare il Freccia dovranno essere dei timonieri
“improvvisati”, usando il timone a mano d’emergenza. Caldara, dalla veranda
dell’ospedale che dà sul porto, assiste alla partenza della sua nave: “Lo guardo sfilare rapido per tutta la rada,
lo seguo con l’occhio sin che sparisce dietro Punta San Vito. Mentalmente
auguro buona fortuna a tutti i miei compagni di bordo, mentre rimane in me il
rammarico di non essere con loro…”.
La formazione
italiana (le cui unità sono tenute pronte ad uscire in mare entro tre ore già
dalle 18 del 13 giugno) parte da Taranto nel primo pomeriggio del 14 (la III e
la VIII Divisione oltrepassano le ostruzioni alle 13.02, la IX Divisione alle
13.49), poi (a 20 nodi) segue le rotte costiere orientali del golfo di Taranto
sino al largo di Vela di Santa Maria di Leuca (dove si uniscono ad essa i
cacciatorpediniere Saetta, che
viene aggregato alla VII Squadriglia, e Pigafetta, che viene aggregato alla XIII), dopo di che, alle 18.06,
assume rotta 180° e dirige per il punto prestabilito «Alfa» (34°00’ N e 18°20’
E) per intercettare il convoglio britannico. Calata la notte, gli otto
cacciatorpediniere della VII e XIII Squadriglia si dispongono attorno a Littorio e Vittorio Veneto: Alpino e Legionario – i capisquadriglia – procedono a proravia della
formazione, il primo a sinistra ed il secondo a dritta, mentre gli altri sei
procedono su due colonne (VII Squadriglia a dritta e XIII a sinistra) ai lati
delle due corazzate. Essendo stata avvistata alle 17.45 da ricognitori, la
squadra italiana prosegue verso sud fino alle 22, poi, alle 22.03, accosta per
140°, riassumendo rotta 180° solo a mezzanotte, allo scopo di disorientare le
forze nemiche.
15 giugno 1942
Intorno alle 2.30,
essendo stati rilevati aerei britannici ed essendo prossimo il loro attacco
(diretto contro il gruppo «Littorio»), la squadra italiana inizia ad emettere
cortine nebbiogene ed accosta ad un tempo di 40° a sinistra, ritenendo
l’ammiraglio Iachino che l’attacco aereo sia in arrivo da tale lato (ed in tal
caso sarebbe vantaggioso puntare la prua sugli aerei per ridurre le probabilità
di essere colpiti, ed al contempo per allontanarsi dai bengala, che usualmente
vengono sganciati dal lato opposto a quello dove si verifica l’attacco), ma
poi, dato che si sentono rumori di aerei in arrivo anche da altre direzioni,
viene ripresa la navigazione verso sud in linea di fila. Alle 2.40, appena è
stata riassunta rotta 180°, iniziano ad accendersi bengala a sinistra, quindi
la squadra italiana accosta di 40° a dritta per allontanarsi, e procede con
tale rotta sino alle 3.31, poi accosta di 30° a dritta e dopo altri cinque
minuti di 30° a sinistra (per confondere i piloti degli aerei), fino a che alle
3.56, non vedendosi più bengala, viene ripresa la rotta 180° e cessa
l’emissione di cortine fumogene. I quattro aerosiluranti Vickers Wellington,
infatti, si sono ritirati non essendo riusciti ad individuare le navi italiane
nelle cortine nebbiogene, eccetto uno che ha lanciato un siluro contro una
corazzata ma senza risultati.
Alle 4.15 la
formazione italiana, essendo andata più ad ovest della rotta prevista, accosta
per 160° dirigendo per il punto «Alfa» per non ritardare l’incontro con il
convoglio britannico (che tuttavia, all’insaputa dei comandi italiani, ha già
invertito la rotta alle 00.45 rinunciando a raggiungere Malta, in seguito sia a
danni e perdite causati dagli attacchi aerei che all’impossibilità di sostenere
uno scontro con la forza navale italiana, di molto superiore; il convoglio
dirigerà di nuovo su Malta dalle 5.30 alle 8.40, per poi invertire
definitivamente la rotta e tornare ad Alessandria).
Poco dopo le cinque
del mattino del 15 giugno i quattro incrociatori, che con la XI Squadriglia
procedono 15 miglia a poppavia del gruppo «Littorio», vengono
attaccati da nove aerosiluranti britannici Bristol Beaufort, uno dei quali
colpisce il Trento, che viene
immobilizzato ed incendiato. Poi tre degli aerosiluranti attaccano anche il
gruppo «Littorio»: le due corazzate aprono il fuoco con i cannoni da 90
mm ed i cacciatorpediniere sparano alcune salve con i pezzi principali
da 120 mm quando gli aerei sono lontani, poi aprono il fuoco anche
con le mitragliere non appena la distanza si è sufficientemente ridotta,
continuando inoltre ad eseguire accostate per impedire il lancio simultaneo dei
siluri. Il primo aereo lancia, infruttuosamente, alle 5.26 da 4500 metri,
un altro lancia da 1500 ma l’arma viene evitata con le manovre, il terzo si
allontana per poi ritornare all’attacco e, nonostante l’intenso tiro contraereo
(tutte le armi sono dirette contro di lui), alle 5.51 riesce a sganciare
da 2000 metri e poi si allontana indenne dopo essere passato tra le due
corazzate. Il siluro, diretto contro la Vittorio Veneto, non va a segno. La formazione italiana prosegue
sulla sua rotta, dopo aver distaccato Saetta e Pigafetta per l’assistenza al Trento danneggiato. (Più tardi,
alle 9.13, il Trento verrà
nuovamente silurato dal sommergibile britannico P 35 – che alle 5.46
aveva già infruttuosamente lanciato quattro siluri da 4500
metri contro la Vittorio Veneto,
senza che le unità italiane se ne accorgessero – ed affonderà in soli sette
minuti, con la perdita di 570 dei 1151 uomini dell’equipaggio. Secondo una
fonte non controllata, anche il Freccia
avrebbe assistito il Trento silurato
e ne avrebbe soccorso i naufraghi).
Alle sette vi è un
nuovo allarme in seguito all’avvistamento di nove aerei dapprima ritenuti
nemici – tutte le armi vengono puntate contro di essi –, ma che poi si rivelano
essere tedeschi, la scorta aerea sopraggiunta. Sempre alle 7,
in seguito a numerose comunicazioni che rivelano che il convoglio è molto
indietro rispetto al previsto od addirittura sta tornando ad Alessandria, la
squadra di Iachino assume rotta 140° per poterlo intercettare (nell’ipotesi che
ancora stia dirigendo su Malta). Poco dopo le otto vengono avvisati due aerei
britannici 30° a di prua a dritta, e viene aperto il fuoco contro di essi, ma
frattanto sopraggiunge da sinistra una formazione di otto bombardieri
statunitensi Consolidated B-24 Liberator che, tenendosi a 4000
metri di quota, sgancia sulle corazzate, colpendo con una bomba la Littorio, provocando modesti danni.
Subito dopo le navi italiane accostano ad un tempo di 80° a sinistra, per poter
rivolgere tutte le armi contro gli aerei, poi, essendosi questi allontanati,
riprendono la rotta 110°. Poco dopo le 8.40 vengono avvistati cinque
aerosiluranti Bristol Beaufort provenienti da prua, contro cui aprono il fuoco
sia i pezzi da 90 mm delle corazzate che quelli da 120
mm dei cacciatorpediniere (e successivamente anche le mitragliere), e le
navi accostano rapidamente sulla dritta sin quasi ad invertire la rotta,
confondendo gli attaccanti, che lanciano infruttuosamente da poppa, tre da una
distanza di circa 4000 metri e due da una distanza di 2000
metri (le prime tre armi sono evitate con piccole accostate, le ultime due
mettendo tutta la barra a sinistra). Due degli aerei vengono danneggiati dal
tiro contraereo. Poi la squadra italiana ritorna in linea di fila, con la Littorio in testa ed i sei
cacciatorpediniere in posizione di scorta ravvicinata (Freccia e Folgore si
trovano ora a proravia delle corazzate); viene assunta rotta verso sud e poi,
alle nove, si torna sulla rotta 110° (verso est-sud-est) per raggiungere il
nemico. Alle 9.17, in seguito all’avvistamento di navi da parte di uno dei
ricognitori imbarcati, la velocità viene portata a 24 nodi; alle 11.50, in
seguito all’avvistamento di un fumo a 30° di prua dritta, la formazione
italiana accelera a 28 nodi ed assume rotta per 150° per incontrare quelle che
crede essere le navi britanniche, ma scopre trattarsi di un ricognitore
italiano precipitato in mare. Alle 12.20 la velocità viene nuovamente ridotta a
24 nodi, ed alle 14.00, essendo ormai evidente l’impossibilità di incontrare le
forze nemiche, ormai tornate alla base, anche le unità italiane accostano per
340° e riducono la velocità a 20 nodi per rientrare alle loro basi. Alle 17.09
un caccia tedesco getta in mare, a sinistra delle navi, un fumogeno, segnale
concordato per indicare l’avvistamento di un sommergibile, pertanto la
formazione italiana accosta ad un tempo a dritta, per poi tornare sulla rotta
340° alle 17.21. Alle 22, in seguito a nuove disposizioni (trovarsi
a 60 miglia per 180° da Nido alle cinque del mattino del 16, per
un’eventuale ripresa dell’azione) la squadra di Iachino assume rotta 250°, ma
tra le 22.30 e le 23, in seguito al rilevamento di aerei, accosta
dapprima per 210° e poi (poco prima delle 23) per 260°. Poco dopo, tuttavia,
iniziano ad accendersi dei bengala e quindi le navi italiane iniziano ad
emettere cortine di nebbia, che risultano però meno dense ed efficaci rispetto
alla notte precedente. Alle 23.26 ed alle 23.55 si accendono altri bengala a
dritta e verso poppavia, e la seconda serie di bengala, a 4000 metri,
vanifica l’effetto delle cortine fumogene. Le navi accostano rapidamente di 20°
a sinistra, per lasciarsi a poppa i bengala, ma poco dopo se ne accendono altri
a soli 2500 metri. I cacciatorpediniere (cui poi si uniscono le corazzate)
dirigono il tiro di tutte le mitragliere su un aerosilurante britannico, in
avvicinamento da circa 20° di prora a dritta, che riesce ad avvicinarsi a circa 1000
metri prima di sganciare: alle 23.40 la Littorio viene colpita da un siluro a prua dritta. Dopo
essersi fermata per evitare una collisione con la Vittorio Veneto impegnata in manovre evasive, la corazzata
colpita può rimettere in moto a 20 nodi, e la formazione assume rotta 340°, ma
altri bengala si accendono a soli 2000 metri, quindi la formazione
italiana accosta immediatamente ad un tempo a dritta assumendo rotta 50° per
lasciarsi i bengala a poppa, ma non vi sono altri attacchi. Poco dopo mezzanotte
viene ripresa rotta 350° (verso nord), mentre le navi italiane vengono
infruttuosamente cercate da altri aerei. Non si verificano più attacchi aerei,
ed all’1.18 viene fatta cessare l’emissione di cortine e si ritorna in
formazione, con rotta su Taranto.
Durante gli attacchi
di aerosiluranti, il Freccia ha
subito alcuni lievi danni a causa del tiro contraereo delle corazzate: queste,
infatti, sparando ad alzo zero, hanno colpito il cacciatorpediniere con alcuni
proiettili. I danni non sono gravi, ma ci sono due feriti, un mitragliere ed un
sergente silurista. La nave subisce inoltre un’avaria al timone ed un incendio
in caldaia, tanto da ricevere ordine di lasciare la formazione; il comandante
Minio Paluello, tuttavia, insiste per restare, e l’equipaggio riesce a riparare
le avarie, così permettendo di proseguire nella missione.
Alle 5.06 la squadra
accosta per 315° apprestandosi ad imboccare la rotta di sicurezza, procedendo a
zig zag e poi eseguendo diverse accostate in seguito ad avvistamenti, veri o
presunti, di periscopi nemici; verso le 9 un altro caccia tedesco getta in mare
un fumogeno (così segnalando la presenza di un sommergibile) a dritta della
formazione, che accosta immediatamente a sinistra. La rotta di sicurezza viene
imboccata alle 10.35, ed alle 16 il gruppo «Littorio» attraversa le ostruzioni,
giungendo poco dopo nel porto di Taranto.
Per il suo
comportamento durante la battaglia di Mezzo Giugno, il comandante Minio
Paluello riceverà la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: «Comandante di cacciatorpediniere di scorta
ad una forza navale, manovrava con sereno ardimento e decisione la sua unità
durante numerosi attacchi aerei nemici e dirigeva l'impiego delle armi di
bordo, cooperando efficacemente a contrastare l'azione nemica. Verificatosi un
incendio in caldaia e un'avaria al timone, pur avendo ricevuto l'ordine di
lasciare la formazione, insisteva a restarvi e, trasfondendo nei suoi
dipendenti la ferma volontà di prendere parte all'eventuale combattimento,
riusciva a far riparare le avarie e proseguire nella missione».
Alessandro Caldara,
dalla veranda dell’ospedale, assiste anche al rientro della sua nave: vedendo
il Freccia arrivare indenne, dopo
aver visto la Littorio appruata per
il siluro incassato e notato la mancanza del Trento, “il cuore mi dà un
tuffo: è proprio vero che si prova qualcosa di profondo per la propria nave”.
9 luglio 1942
Alle 8.10 il Freccia (caposcorta, capitano di fregata
Alvise Minio Paluello) e la torpediniera Partenope
partono da Gallipoli per scortare a Bengasi la motonave Unione, con la quale formano il convoglio «O». Successivamente si
uniscono alla scorta anche le torpediniere Polluce
e Calliope (non è chiaro se in
aggiunta alla Partenope, od in sua
sostituzione).
10 luglio 1942
Alle 5.20 il
convoglio «O» si unisce al convoglio «L» (motonavi Lerici e Ravello,
scortate dai cacciatorpediniere Folgore, Lampo e Saetta), proveniente da Patrasso, formando così il convoglio «S»;
alle 10 si aggrega anche il convoglio «N» (motonave Apuania, torpediniere Orsa
e Pallade) da Napoli. Caposcorta
del convoglio unico è proprio il Freccia.
La Polluce lascia la scorta
alle 19.30.
Alle 18 il Saetta raggiunge il convoglio per
poi separarsene di nuovo dopo un’ora e mezza, seguito però da Lerici e Polluce; le tre navi fanno rotta per Suda.
11 luglio 1942
Unione, Apuania e Ravello giungono a Bengasi alle
7.40. Con esse arrivano in Libia complessivamente 10.775 tonnellate di
munizioni, artiglieria e materiali vari, 1181 tonnellate di carburanti e
lubrificanti, 360 tra automezzi e rimorchi, 60 motocarrozzette, sette carri
armati, una maona, un pontone, due impianti per distillazione e 401 soldati.
Le navi della scorta
non entrano in porto, perché devono assumere la scorta di un altro convoglio in
uscita: alle 17, infatti, Freccia (ancora
caposcorta), Folgore, Lampo, Pallade, Orsa e Calliope assumono la scorta del
convoglio «Y», formato dalle motonavi Nino
Bixio e Monviso dirette
a Brindisi.
13 luglio 1942
Il convoglio arriva a
Brindisi alle 13.50.
27 luglio 1942
Alle 15.15 il Freccia e la torpediniera Calliope partono da Brindisi per
scortare a Bengasi la motonave Monviso,
carica di 2860 tonnellate di materiali vari, 400 tonnellate di carburante per
le forze italiane, 200 tonnellate di carburante per le forze tedesche, 6
motocarrelli, 120 automezzi, 7 autoblindo tedesche e 11 carri armati italiani.
28 luglio 1942
Alle sette del
mattino il convoglio viene avvistato da un caccia Supermarine Spitfire del 69th Squadron
RAF in ricognizione al largo della Grecia meridionale, ed alle 12.12, sette
miglia a sud dell’isola di Sapienza, viene attaccato da una formazione di aerei
britannici. I velivoli, decollati da Malta alle 9.10, sono nove Bristol
Beaufort, sei dei quali armati con siluri e tre con bombe da 113 kg (questi
ultimi appartengono dall’86th Squadron RAF e sono guidati
capitano Donald Charles Sharman), e sei caccia Bristol Beaufighter,
accompagnati da un ricognitore Martin Baltimore (del 69th Squadron
RAF) per l’osservazione; li guida il tenente colonnello Reginald Patrick
Mahoney Gibbs.
La scorta aerea del
convoglio è costituita da un idrovolante CANT Z. 506B della 139a
Squadriglia della Regia Aeronautica (tenente Gaetano Mastrocasa) e da un bombardiere Junkers Ju 88 della
Luftwaffe; nelle vicinanza sta inoltre volando una pattuglia di tre caccia
Macchi Mc 200 del 7° Gruppo della Regia Aeronautica, pilotati dal capitano
Fiacchino, dal sottotenente Maddaloni e dal sergente Piazza.
Tre dei Beaufighter
si tengono sul cielo del convoglio per copertura ad alta quota, mentre gli
altri tre scendono a bassa quota e mitragliano le navi per ostacolare il loro
tiro contraereo (per altra fonte sono due i Beaufighter per la copertura ad
alta quota e quattro quelli assegnati al mitragliamento); subito dopo, i
Beaufort armati con bombe le sganciano, infruttuosamente, contro il Freccia. Per ultimi attaccano i Beaufort
dotati di siluri, da entrambi i lati, tre per lato (tre sono guidati dal
capitano A. T. Tony Leaning, gli altri tre da Gibbs in persona).
Freccia e Calliope abbattono
un Beaufort ciascuno con il loro fuoco (l’AW296 del 217th Squadron
RAF, pilotato dal sergente maggiore J. R. Dawson, viene colpito al motore
sinistro mentre attacca ed è costretto ad ammarare, con la morte di uno dei
quattro membri dell’equipaggio; l’altro aereo abbattuto è l’L9820 del 217th Squadron,
pilotato dal tenente T. Strever, colpito in entrambi i motori e costretto
all’ammaraggio con un ferito, ma il suo abbattimento viene attribuito al Macchi
del sottotenente Maddaloni anziché alla contraerea delle navi), ma la Monviso, mancata di poco da diverse
bombe, viene colpita da un siluro (a centro nave, sulla dritta), sebbene i
danni non siano gravi (secondo fonti britanniche sarebbe scoppiato anche un
incendio, che venne però domato). Si rende però necessario il rimorchio a
Navarino; vi provvede il Freccia,
mentre la Calliope recupera
i tre uomini che compongono l’equipaggio di uno degli aerei abbattuti
(l’equipaggio dell’altro viene invece tratto in salvo da un idrovolante CANT Z.
506). Terminato l’attacco, gli Mc 200 della scorta aerea attaccano i
bombardieri, danneggiandone uno, ma subendo a loro volta il danneggiamento di
un velivolo. Un ricognitore Caproni Ca 310 sopraggiunge mentre il Baltimore sta
per andarsene e lo attacca, danneggiandolo, finché tutte le mitragliatrici si
inceppano.
Il Freccia, con la Monviso a rimorchio, giunge a Navarino nel tardo pomeriggio
dello stesso giorno.
31 (?) luglio 1942
A Navarino il Freccia assume la scorta delle motonavi Lerici e Manfredo Camperio,
provenienti da Bengasi con la scorta delle torpediniere Circe e Clio e dirette a
Brindisi con un carico di 3000 prigionieri.
La Clio lascia il convoglio a Navarino, e
la Circe se ne va alle 23.
1° agosto 1942
Freccia, Lerici e Camperio raggiungono Brindisi alle
11.15.
3 agosto 1942
Il Freccia parte da Taranto per Tobruk alle
00.30, insieme ai cacciatorpediniere Folgore,
Turbine e Grecale, di scorta alla motonave tedesca Ankara.
Alle 9.30 il
convoglio si unisce ad un altro partito da Brindisi per Bengasi, formato dalle
motonavi italiane Nino Bixio e Sestriere con la scorta dei
cacciatorpediniere Legionario e Corsaro e delle torpediniere Partenope e Calliope. Si forma così un unico convoglio, le cui tre motonavi
trasportano complessivamente un carico che assomma a 92 carri armati, 340
veicoli, tre locomotive, una gru, 4381 tonnellate di carburanti e lubrificanti
e 5256 tonnellate di altri materiali, oltre a 292 uomini. Caposcorta del
convoglio unico così formato (dalla scorta molto eterogenea, perché bisogna
utilizzare le unità disponibili al momento: alcune delle unità non hanno mai
navigato assieme, con conseguente scarso affiatamento) è il Legionario (capitano di vascello
Giovanni Marabotto), dotato di radar tedesco tipo «De.Te.»; il Folgore è munito di un nuovo
ritrovato della tecnologia tedesca, l’apparato «Metox», in grado di rilevare le
emissioni dei radiotelemetri di unità nemiche in un raggio di 150 km,
indicando sia la presenza di radar sia se si sia stati individuati da essi.
Di giorno il
convoglio fruisce anche di una nutrita scorta aerea con velivoli sia italiani
che tedeschi.
I comandi britannici,
però, sono al corrente dei dettagli del viaggio delle navi italo-tedesche fin
da prima della partenza: una serie di decrittazioni di messaggi intercettati da
“ULTRA”, il 31 luglio e poi l’1, il 3 ed il 4 agosto, rivelano ai britannici
gli orari previsti di partenza e di arrivo, nonché le rotte che il convoglio
dovrà seguire.
4 agosto 1942
Alle 18, 150 miglia a
nordovest di Derna, il convoglio viene attaccato da dieci bombardieri statunitensi
Consolidated B-24 Liberator che sganciano le loro bombe da alta quota, ma
nessuna nave viene colpita. Si tratta, in assoluto, del primo attacco condotto
da velivoli dell’aviazione statunitense contro naviglio italiano.
Alle 21.40 (per altra
fonte, 19.30) l’Ankara si separa
dal resto del convoglio e dirige per Tobruk, scortata da Folgore, Turbine e Grecale,
mentre il resto del convoglio prosegue per Bengasi.
Poco dopo la Nino Bixio viene immobilizzata da
un’avaria di macchina, il che porta il caposcorta Marabotto a distaccare con
essa Freccia, Freccia e Corsaro ed a
proseguire separatamente con Sestriere, Legionario e Calliope. Alle 22.25, riparata
rapidamente l’avaria, la Nino Bixio può
riprendere la navigazione, appena in tempo prima che iniziano gli attacchi
aerei. Poco dopo, infatti, i tre gruppi in cui il convoglio si è diviso
iniziano ad essere continuamente seguiti da ricognitori e vengono attaccati da
aerei angloamericani: seguono quattro ore di attacchi di bombardieri e
bengalieri, che attaccano tutti e tre i gruppi, spostandosi di continuo
dall’uno all’altro, ma non riescono a colpire nessuna nave.
5 agosto 1942
All’1.15 Supermarina
invia al caposcorta un messaggio PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze
Assolute) per avvisarlo del pericolo di attacchi nemici, ma è tardi: gli aerei
“apripista” (“Pathfinder”) hanno già illuminato il convoglio con i bengala, e
dieci aerosiluranti Vickers Wellington sono decollati da Malta e si preparano
ad attaccare. Il capoconvoglio, tuttavia, usa comunicazioni al radiotelefono ad
alta frequenza tra nave e nave, nonché il radar del Legionario, al fine di confondere gli aerosiluranti. Inoltre, i
cacciatorpediniere di scorta occultano i mercantili con delle cortine fumogene;
l’attacco dei Wellington risulta completamente infruttuoso.
Tutte le navi
giungono indenni nei porti di destinazione a mezzogiorno; il gruppo di cui fa
parte il Freccia arriva a
Bengasi alle 12.30.
6 agosto 1942
Alle 15 il Freccia parte da Bengasi scortando il
piroscafo Iseo, diretto a Patrasso.
10 agosto 1942
In mattinata Freccia ed Iseo raggiungono Navarino; da qui l’Iseo prosegue con la scorta della torpediniera Perseo.
14 agosto 1942
In serata il Freccia parte da Messina diretto a
Crotone. Il mare è calmo.
15 agosto 1942
In mattinata il Freccia giunge davanti a Crotone e si
ferma fuori del porto in attesa dell’uscita di un mercantile tedesco, del quale
deve assumere la scorta. Il bastimento in questione, stracarico di
rifornimenti, esce da Crotone dopo mezz’ora, e le due navi iniziano dunque la
navigazione verso Messina, porto di destinazione del piroscafo. Dopo aver
costeggiato la Calabria nel corso della giornata, il Freccia e la nave tedesca arrivano davanti a Messina la sera
stessa: ma qui il semaforo segnala di non entrare in porto, ma di aspettare
fuori. Poco più tardi sopraggiunge un motoscafo della Capitaneria di Porto, che
va sottobordo al Freccia e consegna
un messaggio con l’ordine di proseguire per Napoli, sempre scortando la
medesima nave.
17 agosto 1942
Alle 16, dopo una
navigazione svoltasi tranquillamente alla velocità di dieci nodi, il Freccia e la nave tedesca raggiungono
Napoli.
Il Freccia al largo di Palermo nell’agosto 1942 (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it) |
25 agosto 1942
Alle sei del mattino
il Freccia lascia Napoli diretto in
Alto Tirreno per recarsi incontro ad un convoglio diretto nel porto partenopeo,
navigando da solo alla velocità di 18 nodi.
Giunto davanti a
Civitavecchia, il Freccia si mette in
attesa, e dopo un’ora sopraggiungono tre mercantili scortati dalla torpediniera
Circe. Il Freccia si unisce dunque al convoglio, assumendo il suo posto in
formazione, e le navi proseguono verso Napoli. Durante la fase conclusiva della
navigazione, nelle acque di Gaeta, il convoglio è oggetto di attacchi simulati
da parte di quattro aerosiluranti della Regia Aeronautica, a scopo di
esercitazione. Ma nel corso dell’esercitazione, al largo di Ischia, due degli
aerosiluranti collidono in volo nel corso di una virata: avvolti da un’enorme
fiammata, cadono subito in mare. Le navi assistono sbigottite all’improvvisa
tragedia; subito dopo, il Freccia
lascia il convoglio ed accorre alla massima velocità nel punto in cui sono
precipitati i due aerei, per poi mettere a mare un battello che passa poi
un’ora a setacciare le acque circostanti, cosparse di rottami. Vengono
recuperati solo tre corpi maciullati; nessun superstite. Avvolti in altrettante
bandiere, i tre corpi vengono deposti in coperta a poppa, dopo di che al Freccia non resta che fare rotta su
Napoli a tutta forza. Superato il convoglio, il Freccia informa per radio dell’accaduto i Comandi a terra. Giunto
davanti a Napoli, il cacciatorpediniere si arresta fuori dal porto e trasborda
le salme su un rimorchiatore appositamente uscito; l’equipaggio del Freccia, schierato in coperta
sull’attenti, rende gli onori militari. Poi, la nave rimette in moto e dirige su
Messina, scortando una nave cisterna.
26 agosto 1942
In mattinata il Freccia giunge davanti a Messina; mentre
la petroliera entra in porto, il cacciatorpediniere riceve ordine di invertire
la rotta e dirige per Napoli, alla velocità di 18 nodi.
2 settembre 1942
In serata il Freccia ed il cacciatorpediniere Maestrale partono da Napoli scortando la
motonave Luciano Manara, diretta a
Palermo. Il convoglio procede a 15 nodi, con condizioni di mare favorevoli.
3 settembre 1942
In mattinata Freccia, Maestrale e Manara
entrano a Palermo, ma in serata ripartono per lo stretto di Messina. Giunti al
largo di Messina, il Maestrale lascia
la scorta ed entra in quel porto; Freccia
e Manara proseguono, venendo
raggiunti dai cacciatorpediniere Corsaro
e Giovanni Da Verrazzano e dalle
torpediniere Giuseppe Sirtori ed Enrico Cosenz di rinforzo alla scorta,
dirigendo per Crotone.
4 settembre 1942
In mattinata giunge
ordine di fare rotta per Taranto. Il convoglio, che fruisce di una scorta aerea
composta da 14 caccia della Regia Aeronautica, raggiunge Taranto a mezzanotte.
6 settembre 1942
Il Freccia (capitano di fregata Minio
Paluello) salpa da Taranto alle due di notte, insieme ai
cacciatorpediniere Bombardiere, Fuciliere, Geniere, Corsaro e Camicia Nera ed alla torpediniera Pallade, scortando il convoglio «N»,
formato dalle motonavi Luciano
Manara e Ravello, con
destinazione Bengasi.
Secondo il diario di
Alessandro Caldara, poco dopo il superamento delle ostruzioni foranee di
Taranto un errore di rotta del capoconvoglio fa uscire il convoglio dalla rotta
di sicurezza, facendolo entrare in un campo minato: le navi impiegano due ore
per uscirne, muovendosi lentamente a macchine indietro, dopo di che proseguono
mettendo la prua sulla Grecia.
Alle 10.40, al largo
di Capo Santa Maria di Leuca, il convoglio «N» si unisce al convoglio «P»,
proveniente da Brindisi (motonavi Ankara e Sestriere, scortate dai
cacciatorpediniere Aviere, Lampo e Legionario e dalle torpediniere Partenope e Pegaso),
formando un unico convoglio di motonavi veloci denominato «Lambda», che fruisce
anche di nutrita scorta aerea da parte di velivoli italiani e tedeschi.
Caposcorta è il capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni, dell’Aviere.
In base alle
disposizioni impartite, il convoglio naviga a 13 nodi lungo la costa della
Grecia, che dovrà costeggiare – essendo quelle acque costiere relativamente più
sicure rispetto al mare aperto – prima di affrontare la traversata verso
Bengasi; sul suo cielo è presente una consistente scorta aerea, con numerosi
caccia italiani e tedeschi, ricognitori ed anche bombardieri a quota più
elevata.
Verso le 15.30, al
largo di Corfù, si verifica un attacco di aerosiluranti decollati da Malta.
L’attacco è stato
deciso dai comandi britannici dopo che un ricognitore Martin Baltimore del 69th
Squadron della RAF (pilotato dal capitano R. C. Mackay) ha avvistato il
convoglio, identificandolo come composto da quattro mercantili ed undici
cacciatorpediniere disposti su due colonne. Data la poderosa scorta, i comandi
britannici hanno provveduto a mettere insieme una forza d’attacco la più
potente possibile: ben tredici aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th
Squadron della RAF, guidati dal capitano canadese Hank Sharman, scortati da una
dozzina di caccia bimotori Bristol Beaufighter del 227th Squadron,
sei dei quali muniti di bombe per compiere anche azioni diversive, più altri
quattro Beaufigher dell’89th Squadron incaricati di fornire
copertura ad alta quota all’intera formazione.
La formazione è
decollata dalle basi maltesi intorno a mezzogiorno e mezzo, ma si è ben presto
ridotta di un quarto a causa di avarie ed altri problemi: ben quattro Beaufort
e tre Beaufighter sono dovuti tornare indietro prima ancora di entrare in
contatto con il nemico. Gli aerei rimanenti rintracciano il convoglio «Lambda»
trenta miglia a sud di Capo Santa Maria di Leuca, identificandone la scorta
aerea come composta da sei bombardieri Junkers Ju 88, un idrovolante ed alcuni
aerei da caccia italiani (si tratta di FIAT G. 50 bis del 24° e 161° Gruppo da
Caccia Terrestre della Regia Aeronautica, anche se nel successivo combattimento
i piloti britannici li identificheranno erroneamente come dei Macchi). Primi ad
attaccare sono i Beaufighter armati con bombe, che si lanciano sulle navi a
dispetto di una formidabile muraglia di fuoco contraereo: nessuna delle bombe
sganciate va a segno, anche se l’attacco ha l’effetto di indurre il convoglio a
zigzagare e sparpagliarsi. Secondo fonti britanniche, i cacciatorpediniere
italiani non emettono cortine fumogene. Dopo i Beaufigher è il turno dei
Beaufort, che attaccano in tre ondate, provenendo dal lato di dritta: i caccia
della scorta aerea si avventano su di loro, venendo a loro volta contrastati
dai Beaufighter dell’89th Squadron. Nella conseguente battaglia
aerea l’aereo del sottotenente Neville Reeves dell’89th Squadron abbatte
uno Ju 88, il M7+HL del tenente Siegfried Philipp (appartenente al 7./KG. 54
della Luftwaffe); quello del maggiore P. M. J. Evans, sempre dell’89th
Squadron, danneggia l’idrovolante, da questi identificato come un Dornier Do 24,
che viene visto ammarare vicino ad uno dei cacciatorpediniere. L’aereo del
capitano H. G. Edwards, anch’egli dell’89th Squadron, ingaggia un
caccia italiano Macchi e ritiene di averlo danneggiato, mentre il tenente
colonnello Ross Shore del 227th Squadron ritiene di aver abbattuto
un altro Macchi ed il sergente Phillips del 227th Squadron di aver
danneggiato od abbattuto uno Ju 88. A loro volta, i piloti italiani di quattro G.
50 (il sottotenente Iolando Suprani ed i tenenti Giuseppe Marazio e Giuseppe
Bentivoglio, tutti della 164a Squadriglia del 161° Gruppo Caccia
Terrestre; il tenente Francesco Pantanella, della 355a Squadriglia
del 24° Gruppo Caccia Terrestre) rivendicano l’abbattimento di tre Beaufort
(uno da parte del sottotenente Suprani, gli altri due per l’azione combinata di
Marazio, Pantanella e Bentivoglio) ed il danneggiamento di altri due, ed un
caccia tedesco Messerschmitt Bf 109 del 6. Staffel del II./JG. 53 (pilotato dal
tenente Günter Hess) rivendica l’abbattimento di un quarto aereo dello stesso
tipo.
Il tiro contraereo
delle navi danneggia gravemente il Beaufort del capitano Sharman (aereo AW305
‘Q’), mentre questo è ancora piuttosto distante dal convoglio (cui si sta
avvicinando per lanciare il proprio siluro), incendiandone un motore: l’aereo
prosegue nella sua rotta di avvicinamento al convoglio, ma prima di poter
giungere a distanza di lancio precipita in mare, uccidendo l’intero equipaggio.
Anche un secondo Beaufort, il velivolo AW280 ‘R’ pilotato dal tenente
sudafricano R. C. B. Evans, viene abbattuto con morte dell’intero equipaggio.
Dopo la morte del capitano Sharman, è il tenente Les Wordell ad assumere il
comando della formazione dei Beaufort: sebbene attaccato da caccia identificati
come Macchi, riesce a lanciare il proprio siluro. Un altro Beaufort, l’AW291
del sottotenente Marshall, viene danneggiato da alcuni caccia con il leggero
ferimento dell’osservatore, maresciallo Hutchison; un altro ancora, l’AW381 del
sergente G. E. Sanderson, viene seriamente danneggiato dal tiro combinato dei
caccia e delle navi, con la morte del sergente J. D. Cunningham, uno dei
mitraglieri (ferito mortalmente e successivamente deceduto); un terzo, l’AW302
del sergente Watlington, viene danneggiato dai caccia con il ferimento di
entrambi i mitraglieri, sergenti L. H. Tester e McEllamy. Da parte loro, i
piloti dei Beauforts rivendicano l’abbattimento di un “Macchi 200” (da parte
dell’aereo del sottotenente Colin Milson) ed il danneggiamento di altri due
aerei dello stesso tipo (da parte dei Beaufort del sottotenente A. F. Izzard e
del maresciallo R. J. Dawson) nonché di uno Ju 88 (da parte dell’aereo di
Dawson).
La storia ufficiale
dell’USMM afferma che durante l’attacco quattro aerei vennero abbattuti dalle
navi della scorta. In totale, le perdite britanniche della giornata ammontano
effettivamente a quattro aerei abbattuti: i due Beaufort di Sharman ed Evans ed
i Beaufighters T4666 ‘Y’ (pilotato dal tenente M. Partridge, ucciso insieme al
suo mitragliere) e X80805 ‘A’ (pilotato dal tenente F. C. Noone, anche lui
morto insieme al suo mitragliere), entrambi del 227th Squadron. Meno
chiaro è chi abbia abbattuto chi; quasi certamente i due Beaufort rimasero
vittima del tiro contraereo delle navi, mentre per i Beaufighter è forse più
incerto se responsabile sia stato il fuoco delle navi oppure i caccia di scorta
aerea. Contrariamente alle rivendicazioni dei piloti britannici, nessun aereo
dell’Asse è stato abbattuto; soltanto due FIAT G. 50 hanno subito danni.
Dei siluri lanciati
dai Beaufort durante l’attacco, uno (probabilmente quello lanciato dall’aereo
del tenente Wordell) va a segno alle 15.40, colpendo la Manara a poppa: la moderna motonave
rimane a galla, ancorché immobilizzata ed in condizioni critiche, ed a
prenderla a rimorchio è proprio il Freccia,
che – con la scorta della torpediniera Procione
(capitano di corvetta Marco Sacchi), uscita dal Pireo la notte precedente per
svolgere caccia antisom al largo di Capo Dukati – la porta all’incaglio nella
baia di Arilla (costa greca, all’altezza di Capo Bianco di Corfù) per evitarne
il completo affondamento. Alessandro Caldara descrive così l’attacco aereo ed
il successivo salvataggio della Manara:
“…tutto è tranquillo e io sto attendendo
di montare di servizio al timone (alle 16). All’improvviso suona posto di
combattimento! Subito mi precipito in plancia a rilevare il timoniere mentre
tutti cominciano a sparare. Appena preso posto al timone vedo, dai finestrini
di dritta, che all’orizzonte vi sono 12 aerosiluranti bassi sul mare, che
stanno puntando sul convoglio. Vedo anche gli aerei da caccia della nostra
scorta buttarsi in picchiata sopra di loro, ma presto devono lasciarli perché
ormai essi sono nel nostro campo di tiro. Infatti i cacciatorpediniere hanno
aperto il fuoco con i cannoni da 120 mm. Il comandante mi ordina di tenermi di
poppa alla motonave di dritta. Noi abbiamo i finestrini della plancia aperti, e
quando spara il nostro complesso di prora la plancia si riempie di polvere e
fumo, tanto che non vedo più niente. Ma, nonostante i nostri aerei da caccia ed
il nostro tiro di sbarramento, i siluranti riescono a passare. Anche se sono
entrati nel settore di tiro delle nostre mitragliere cominciano a sganciare i
siluri da distanza ravvicinata. Solo le pronte manovre delle motonavi riescono
ad evitare un vero disastro: contro la Mn Manara si sganciano addirittura 6
siluri, 4 dei quali evitati. Gli altri due però la prendono in pieno e la
immobilizzano. Intanto davanti a me, attraverso i finestrini della plancia,
vedo sfilare gli altri aerei che ci passano vicinissimi, ma che per fortuna non
ci mitragliano. Passato il brutto momento, accostiamo alla Manara per prestar
soccorso e constatiamo che si trova nell’impossibilità di muovere. Intanto dal
capo scorta (Ct Aviere) parte l’ordine di riunire il convoglio e proseguire
nella rotta mentre a noi giunge l’ordine di rimorchiare la Mn Manara. Ci
avviciniamo ad essa, iniziando il lavorio per passarle il cavo di rimorchio.
Dopo mezz’ora di lavoro riusciamo a collegarci e cominciamo a muovere adagio
adagio, sinché le nostre macchine girano a «vela 8» [velocità 8 nodi], mentre in realtà, a causa del rimorchio,
procediamo alla velocità di appena 4 nodi. Facciamo rotta per Corfù, scortati
dal Ct Legionario e dalla Tp Orione, che è munita di ecogoniometro. Alle ore
20, arrivati sotto costa della prima isola dell’arcipelago, il Legionario ci
lascia per raggiungere il convoglio (…). Alle 21.30 siamo in mezzo alle isole greche, a 25 miglia da Corfù. Gli
apparati radioelettrici tedeschi che abbiamo a bordo segnalano la presenza di
aerei che ci stanno cercando (vorranno finire la motonave). Radiotelegrafiamo a
Corfù che ci inviino dei rimorchiatori. Alle 22.30 la motonave ci segnala che
le paratie stanno per cedere e che comincia a entrare acqua in altre stive, per
cui si presume prossimo l’affondamento. La navigazione diventa pericolosa, così
che cominciamo a rimorchiarla verso la costa dell’isola più vicina. Poco dopo
arrivano i rimorchiatori, ma siccome la situazione va peggiorando rapidamente,
il comandante decide di mollare il rimorchio e ordina ai nuovi venuti di
portare la nave in secca sul greto di un vicino Fiume. Infatti così avviene: la
motonave si adagia sul fondo sabbioso rimanendo con coperta e ponti fuori
acqua. Noi e la torpediniera per tutta la notte giriamo a lento moto nei
dintorni, mentre un peschereccio sbarca tutti i militari che si trovano a bordo
del Manara e li porta a Corfù”.
Il resto del
convoglio prosegue; nonostante reiterati attacchi aerei e subacquei, tutte le
navi raggiungeranno Tobruk e Bengasi l’8 settembre, trasportando a destinazione
2500 tonnellate di carburante, 1100 di munizioni ed altri rifornimenti.
Il 6 settembre 1942
risulterebbe inoltre essere deceduto in territorio metropolitano il
ventitreenne sottocapo meccanico Francesco Agnelli, da Mede, facente parte
dell’equipaggio del Freccia.
Il Freccia (a sinistra) accanto alla Luciano Manara, danneggiata ed incagliata nella baia di Arilla, nel tardo pomeriggio del 6 settembre 1942 (g.c. STORIA militare) |
7 settembre 1942
In mattinata, siccome
non è possibile disincagliare la Manara
prima di aver tamponato le falle, il Freccia
lascia l’Orione a vigilare sulla
motonave danneggiata e va a Corfù, dove giunge alle dieci. Nel pomeriggio
arriva con un idrovolante l’ammiraglio comandante di Marimorea (il Comando
Militare Marittimo della Grecia Occidentale), Alberto Marenco di Moriondo, che
a bordo di un motoscafo raggiunge la Manara
per osservarne personalmente le condizioni.
8 settembre 1942
In mattinata
l’ammiraglio Marenco sale a bordo del Freccia,
che alle otto parte per la baia di Arilla alla velocità di 25 nodi. Giunto sul
posto, il cacciatorpediniere si affianca alla Manara e tenta con le sue pompe di prosciugarne le stive, mentre
alcuni pontoni gru provvedono ad alleggerire la motonave del carico sistemato
in coperta (autocarri, mezzi corazzati, ed altro). Ma tutto è vano e così il Freccia torna a Corfù, sbarca
l’ammiraglio Marenco e torna a Brindisi.
11 settembre 1942
Parte dell’equipaggio
del Freccia svolge un’esercitazione
di sbarco: armati con l’apposito equipaggiamento, gli uomini trasbordano su un
peschereccio che li porta fuori dal porto di Brindisi e li sbarca su una spiaggia
poco lontana, vicino ad un aeroporto. Segue una marcia di 6 km, esercitazioni
di tiro con mitra e moschetti presso un poligono, e lancio di bombe a mano.
12-17 settembre 1942
Il Freccia entra in Arsenale per alcune
riparazioni, lavori che si protraggono per cinque giorni.
18 settembre 1942
Il Freccia (capitano di fregata Alvise
Minio Paluello, caposcorta) salpa da Brindisi alle 20 per scortare a Bengasi,
insieme al cacciatorpediniere Nicolò Zeno
ed alla torpediniera Calliope, la moderna
motonave Apuania. Il convoglio
procede a 15 nodi, con condizioni di mare favorevoli.
19 settembre 1942
Alle sette il
convoglio cui appartiene il Freccia
si unisce ad un altro, proveniente da Taranto, composto dalla motonave Monginevro con la scorta del
cacciatorpediniere Antonio Da Noli
e delle torpediniere Ciclone, Pallade e Centauro. Il Freccia
assume il ruolo di caposcorta del convoglio unico così formato, che segue le
rotte costiere della Grecia Occidentale.
Le due motonavi
trasportano complessivamente 2342 tonnellate di munizioni, 2880 di carburanti e
lubrificanti, 2080 di materiali vari, 306 automezzi, tre carri armati e 50
tonnellate di carbone, oltre a 198 tra ufficiali e soldati.
20 settembre 1942
Durante la notte
(approssimativamente tra le 22.15 del 19 e le due di notte del 20) il
convoglio, dopo essere stato illuminato da aerei britannici con lancio di
bengala (le navi, peraltro, sono già ben visibili a causa della luna piena, con
cielo sereno e mare calmo), viene pesantemente attaccato a più riprese da
bombardieri, ma grazie alla reazione della scorta, che occulta i mercantili con
cortine fumogene ed apre un violento tiro di sbarramento contro gli aerei
nemici, nessuna nave viene colpita. Alessandro Caldara scrive: “Verso mezzogiorno gli apparati
elettromagnetici tedeschi che abbiamo a bordo segnalano la presenza di ben 18
bombardieri che ci stanno cercando. Per tutto il giorno rimaniamo all’erta.
Abbiamo diversi allarmi aerei, ma nessun attacco. Nella notte invece siamo
attaccati da bombardieri. Tutte le navi mettono in azione i fumogeni e ne
risulta una nebbia densissima, tanto che io dalla plancia non riesco a vedere
la nostra prora. Purtroppo a noi e ad altre unità a tratti s’incendiano i
fumogeni con grandi fiammate che illuminano il mare, e più volte corriamo il
rischio di venire presi di mira dagli aerei. Essi ci passano diverse volte
sopra, volano molto bassi. Noi si spara loro solo quando ci hanno oltrepassati,
e forse a causa di questo trucco essi sganciano molte bombe in mare. L’allarme
dura 4 ore, ma nessuna nave risulta colpita”.
Alle nove del mattino
il convoglio, che gode anche di nutrita scorta aerea, viene avvistato dal
sommergibile britannico Taku
(capitano di corvetta Jack Gethin Hopkins). Il comandante britannico identifica
il convoglio come composto da “due
mercantili e due cacciatorpediniere con un sacco di aerei sul loro cielo. È
probabile che ci fossero più navi, ma il periscopio poté essere spinto sopra la
superficie soltanto per momenti molto brevi”, ed alle 9.25, in posizione
33°30’ N e 21°10’ E (a nord di Bengasi), lancia tre siluri da 1370 metri contro
una delle motonavi, quella più a sinistra, per poi scendere subito in
profondità data la pericolosa vicinanza di uno dei cacciatorpediniere di
scorta. Le navi del convoglio avvistano i siluri e riescono ad evitarli con la
manovra: l’Apuania ne avvista ed
evita uno, la Monginevro gli altri
due. Il Freccia contrattacca subito
con cariche di profondità ed il Taku
avverte infatti due esplosioni attribuite a probabili bombe di profondità, alle
9.30 ed alle 9.32, tornando a quota periscopica alle 10.25, quando il convoglio
si è ormai allontanato e non ci sono più navi in vista.
Alle 16.40 il
convoglio raggiunge indenne Bengasi; Freccia,
Da Noli, Zeno, Pallade e Centauro ne ripartono già alle 17 per scortare
a Patrasso la motonave Sestriere.
Caposcorta è ancora il Freccia.
21 settembre 1942
In serata la Centauro lascia il convoglio, entrando a
Suda alle 20.15.
Durante la
navigazione anche il Freccia riceve
ordine di entrare a Suda, poi modificato in quello di dirigere su Taranto, e
per finire di fare rotta su Patrasso.
22 settembre 1942
Il convoglio giunge a
Patrasso alle 7.10; il Freccia dà
fondo in rada, mentre la Sestriere
entra in porto. In serata il Freccia
cede parte della propria nafta ad un altro cacciatorpediniere, che non ne ha
abbastanza per raggiungere il Pireo, e qualche ora dopo lascia Patrasso insieme
ai cacciatorpediniere Zeno e Da Noli ed alla torpediniera Pallade.
Durante la notte la
formazione viene attaccta da bombardieri, cui le unità italiane reagiscono con
abbondanti cortine fumogene; gli aerei sganciano numerose bombe e due di esse
esplodono a 25 metri dal Freccia, che
viene investito da numerose schegge, senza però lamentare feriti tra
l’equipaggio.
(Da altra fonte,
risulterebbe che il 21 settembre il Freccia
e l’incrociatore ausiliario Barletta
avrebbero scortato i piroscafi Ardena,
tedesco, e Re Alessandro, italiano,
da Suda al Pireo).
23 settembre 1942
Freccia, Da Noli, Pallade e Zeno raggiungono Taranto.
30 settembre 1942
Il Freccia ed il
cacciatorpediniere Antonio Da Noli partono
da Messina per scortare a Patrasso la motonave tedesca Ruhr.
Alle 8.50 il
sommergibile britannico P 44 (poi United, tenente di vascello Thomas
Erasmus Barlow) avvista le tre navi (il Freccia, erroneamente identificato come un classe Maestrale, è
sulla dritta, mentre il Da Noli,
riconosciuto correttamente per un classe Navigatori, si trova a proravia
della Ruhr, la cui stazza è
apprezzata dal comandante britannico in circa 4000 tsl) mentre procedono sottocosta
verso est, a cinque miglia di distanza. Iniziata la manovra d’attacco, alle
9.20 il P 44 lancia tre
siluri in posizione 37°52’ N e 15°58’ E (al largo di Capo Spartivento Calabro),
da una distanza di 2740 metri. Le armi mancano la Ruhr di stretta misura; il sommergibile ritenta alle 9.45 col
lancio di un quarto siluro, ma anche stavolta manca il bersaglio.
Il Freccia ed il Saetta (da “Warships International” n. 2 del 1990, via www.stefsap.wordpress.com) |
6 ottobre 1942
Alle 11.30 la Ruhr, che il Freccia sta ancora scortando insieme al Da Noli ed alle torpediniere Lupo e Centauro,
viene avvistata 25 miglia a nordest di Bengasi, da 12.800 metri di distanza,
dal sommergibile britannico Turbulent (capitano
di fregata John Wallace Linton). Identificato il convoglio, con una certa
sottostima, come composto da un mercantile di 3000 tsl scortato da tre torpediniere
classe Spica (Lupo, Centauro e probabilmente anche il Freccia è scambiato per una "Spica")
e due aerei, il sommergibile manovra per attaccare; quando il convoglietto
modifica la propria rotta, anche il Turbulent accosta
di conseguenza, in modo da usare i propri tubi lanciasiluri poppieri. Alle
12.32, in posizione 32°39’ N e 20°19’ E (38 miglia a nord-nord-est di Bengasi),
il sommergibile lancia tre siluri dai tubi di poppa, da una distanza di 1000
metri; nessuna delle armi va a segno.
Poco dopo si scatena
il contrattacco della scorta, allertata da un idrovolante CANT Z. 501 della 196a
Squadriglia in servizio di scorta aerea: il Freccia
è il primo a contrattaccare, lanciando una prima bomba di profondità, piuttosto
lontana, alle 12.45, seguita poco dopo da una seconda, anch’essa esplosa
lontana (sul Turbulent si sentono
intanto degli ‘impulsi’ sonar in avvicinamento da poppa). È poi il turno del Da Noli, che alle 13.25 passa sulla
verticale del Turbulent e
lancia un pacchetto di 9 bombe di profondità che esplodono vicinissime,
danneggiando il sommergibile. Il Da
Noli inverte poi la rotta e lancia un secondo pacchetto di 10 bombe,
leggermente più lontane ma ancora abbastanza vicine. La caccia prosegue per più
di due ore, ma non vengono lanciate altre bombe, sebbene sul Turbulent si abbia l’impressione che
l’unità impegnata nella caccia abbia ottenuto un contatto col sommergibile
diverse altre volte. Alle 15.40 il Turbulent
non sente più rumori, ed alle 16.10, salito a quota periscopica, non vede più
nessuna nave nelle vicinanze.
7 ottobre 1942
Il Freccia (caposcorta) e la torpediniera Lupo partono da Bengasi per Tobruk alle
18, scortando i piroscafi Salona ed Anna Maria.
9 ottobre 1942
Il convoglietto
raggiunge Tobruk alle 11.50.
11 ottobre 1942
Alle quattro del
pomeriggio il Freccia (caposcorta,
capitano di fregata Giuseppe Andriani) parte da Tobruk insieme alle
torpediniere Lupo (capitano di
corvetta Carlo Zinchi) ed Antares
(capitano di corvetta Maurizio Ciccone) per scortare in Grecia uno strano
convoglio composto dal cacciatorpediniere Saetta (capitano di corvetta Enea Picchio) che rimorchia lo
scafo dell’ex sommergibile Domenico Millelire,
trasformato in cisterna galleggiante per trasporto nafta con
denominazione G.R. 248, e dalla
motonave Col di Lana. Saetta e Millelire/G.R. 248 sono
diretti a Navarino, mentre la Col
di Lana ha come destinazione Salonicco.
12 ottobre 1942
Tra le 00.00 e
l’1.40, una settantina di miglia a nord di Tobruk, il convoglio viene attaccato
da bombardieri nemici, che verso l’una di notte colpiscono con alcune bombe l’Antares: la torpediniera subisce danni
gravissimi, rimanendo immobilizzata e fortemente sbandata, con metà
dell’equipaggio fuori combattimento (31 morti e 37 feriti).
Il resto del
convoglio prosegue; successivamente la Lupo
viene distaccata per andare in soccorso dell’Antares, la quale, presa a rimorchio dalla Lupo e raggiunta successivamente anche dalla torpediniera di scorta
Ciclone (che ne assume la scorta),
raggiungerà Suda il giorno seguente.
Il convoglio del Freccia viene invece raggiunto dalle
torpediniere Lira e Perseo, appositamente inviate da Suda
per rinforzare la scorta – ridotta ormai al solo Freccia – riempiendo il vuoto lasciato da Lupo ed Antares.
Alle 17 il convoglio
si divide: Freccia, Perseo e Col di Lana fanno rotta per il Pireo, mentre Saetta, Lira e G.R. 248 dirigono per Navarino.
13 ottobre 1942
Alle 14 Freccia e Perseo entrano al Pireo, venendo sostituite nella scorta della Col di Lana dalla torpediniera Castelfidardo (tenente di vascello di complemento
Luigi Balduzzi) che accompagnerà la motonave fino a Salonicco.
22 ottobre 1942
Il Freccia e la torpediniera Perseo scortano la nave cisterna Giorgio da Istmia a Suda.
29 ottobre 1942
Il Freccia e la torpediniera Sirio scortano la Giorgio da Iraklion al
Pireo.
31 ottobre 1942
Il Freccia (caposcorta, capitano di fregata
Alvise Minio Paluello), il Folgore (capitano
di corvetta Renato D’Elia) e le torpediniere Lupo (capitano di corvetta Giuseppe Folli), Ardito (tenente di vascello Emanuele Corsanego) ed Uragano (capitano di corvetta Luigi
Zamboni) salpano da Patrasso alle 6.30 scortando il piroscafo Anna Maria Gualdi e la nave cisterna Portofino, diretti in Cirenaica.
Il convoglio
raggiunge il Pireo alle 20.45.
2 novembre 1942
Alle 6.30 il
convoglio lascia il Pireo diretto in Nordafrica: ad esso si sono ora aggregati
anche la motonave Col di Lana ed il
cacciatorpediniere tedesco Hermes (mentre
non è chiaro se ne facesse ancora parte la Lupo).
Caposcorta è sempre il Freccia.
3 novembre 1942
Intorno a mezzogiorno
il convoglio viene avvistato da ricognitori nemici.
4 novembre 1942
Durante la notte, tra
le 00.15 e le 2.30, le navi vengono sottoposte a continui ed insistenti attacchi
di bombardieri ed aerosiluranti, che tuttavia superano senza subire alcun danno
grazie all’efficace occultamento con cortine nebbiogene e reazione delle armi
contraeree.
Il convoglio
raggiunge Bengasi alle 11.30; già alle 13 il Freccia (ancora una volta caposcorta) ne riparte per scortare a
Brindisi, insieme a Folgore, Ardito ed Uragano (per altra fonte avrebbero fatto parte della scorta anche Hermes e Lupo), la motonave Monginevro,
carica di materiale di sgombero (dinanzi alla sconfitta di El Alamein, infatti,
si sta ormai preparando l’evacuazione di Bengasi: la città libica cadrà in mano
britannica il 20 novembre).
5 novembre 1942
Alle 23 il Freccia lascia la scorta della Monginevro, venendo sostituito come
caposcorta dal Folgore.
15 novembre 1942
Alle 15.45 il Freccia parte da Napoli per scortare a
Tripoli il piroscafo Sirio.
Alle 20.15 il
sommergibile britannico Turbulent
(capitano di fregata John Wallace Linton) avvista Sirio e Freccia, aventi
rotta verso sudovest, in posizione 40°28’ N e 14°02’ E (una decina di miglia a
sudovest di Capri). La luna è al primo quarto, ma a causa della notevole
copertura nuvolosa non c’è abbastanza luce per condurre un attacco in
immersione; pertanto il Turbulent
aggira il convoglio da poppa per portarsi in una posizione in cui la visibilità
è migliore, indi risale il lato sinistro del convoglio – mentre il Freccia zigzaga a proravia del Sirio – ed alle 23.55 lancia quattro
siluri contro il piroscafo da una distanza di 2290 metri. Tuttavia, i siluri
mancano il bersaglio (Linton scriverà nel giornale di bordo che “sembra che le
scie dei siluri siano state viste”, ma che non ci fu contrattacco; la storia
ufficiale dell’USMM invece non fa menzione alcuna di questo attacco, dunque è
possibile che in realtà le navi italiane non abbiano avvistato le scie e che
l’attacco sia passato inosservato).
16 novembre 1942
Alle 8 il Freccia viene sostituito dalla
torpediniera Ardito.
18 novembre 1942
Alle 19 il Freccia (caposcorta) salpa da Palermo
per scortare a Biserta, insieme al cacciatorpediniere Velite, la motonave Città di
Napoli.
19 novembre 1942
Il convoglietto
raggiunge Biserta alle 22.
21 novembre 1942
Il Freccia salpa da Biserta alle 19.20 per
scortare a Napoli il piroscafo tedesco Menes.
Successivamente si
unisce alla scorta anche la torpediniera Pallade,
proveniente da Tunisi (ma rimane caposcorta il Freccia).
23 novembre 1942
Alle 7 il
convoglietto arriva a Napoli.
27 novembre 1942
Il capitano di
fregata Minio Paluello lascia il comando del Freccia, venendo avvicendato dal parigrado Giuseppe Andriani.
Quarantunenne, nativo
di Oria, Andriani sarà l’ultimo comandante del Freccia.
12 dicembre 1942
Il Freccia (capitano di fregata Giuseppe
Andriani) parte da Napoli alle 21 (19 per altre fonti) per scortare a Tripoli
la motonave Foscolo (comandante
civile capitano di lungo corso Achille Cheracci, comandante militare tenente di
vascello Luigi Simonetti), carica di benzina in fusti, munizioni ed altri
rifornimenti.
Le due navi procedono
a circa 15 nodi – la velocità massima della Foscolo – fino a Trapani.
13 dicembre 1942
A mezzogiorno Freccia e Foscolo entrano a Trapani, sostandovi per alcune ore e ripartendo
poi per Tripoli alle 18.30 (17.30 per altra fonte) insieme a quattro
motosiluranti tedesche (S 33, S 57, S 58 e S 60) che
rinforzano la scorta dell’importante carico (altra versione afferma invece che
il Freccia avrebbe assunto la scorta
della Foscolo soltanto da Trapani in
poi). Quale ulteriore precauzione, è stata disposta l’uscita in mare dei
sommergibili Uarsciek e Topazio con duplice compito
esplorativo ed offensivo, a protezione del convoglio.
Appena un quarto
d’ora dopo la partenza da Trapani, alle 18.45 (mentre le navi stanno superando
le ostruzioni), l’apparato «Metox» del Freccia (un
apparecchio in grado di rilevare le emissioni dei radar nemici) capta appunto
delle trasmissioni provenienti da radar di aerei. Tali trasmissioni cessano, ma
dalle 19.35 alle 20.45 il Metox riprende a captare emissioni radar, che
aumentano progressivamente d’intensità e divengono pressoché continue: il
convoglietto è pedinato da ricognitori nemici.
Alle 20.54 il comandante
Andriani del Freccia, che è il
caposcorta, ordina alla Foscolo di
tornare in porto alla massima velocità, informandone Supermarina un minuto
dopo; ma alle 21.30 quest’ultimo Comando ordina al Freccia di proseguire, ribadendo alle 21.51 «Per decidere rientro, aspettate con sicurezza di essere scoperto e
identificato». Tale è, ormai, la disperazione di far giungere in Libia un
po’ di benzina, che si è disposti a correre ogni rischio piuttosto che
rinunciare.
Alle 21.36 le navi
tornano dunque sulla rotta originaria; ma alle 21.45 viene avvistato un primo
bengala verso ovest, a grandissima distanza, seguito dieci minuti più tardi
dall’accensione di altri bengala sulla dritta del convoglio. Alle 21.58 Andriani ordina
alla Foscolo di rientrare
subito, mentre il Freccia prosegue
per la sua rotta emettendo cortine fumogene e sparando raffiche con le
mitragliere. Mentre il Freccia lancia
una bomba fumogena, la motonave accosta a sinistra e dà la poppa ai bengala,
che diventano sempre di più; anche le motosiluranti tedesche, disposte attorno
alla Foscolo in posizione
di scorta ravvicinata, emettono cortine nebbiogene per nasconderla.
Alle 22.04 vengono
visti dal Freccia dei nuovi bengala
che si accendono nella direzione in cui si trova la Foscolo, stavolta con direttrice perpendicolare a quella di quelli
lanciati nove minuti prima.
Poi, giungono gli
aerosiluranti: dei Fairey Albacore dell’828th Squadron della
Fleet Air Arm, decollati da Malta. Alle 22.12, la Foscolo viene colpita da uno dei numerosi siluri lanciati a poppa
dritta, nella stiva numero 5; il carico di benzina prende subito fuoco, e
presto anche il mare circostante è in fiamme, ricoperto dalla benzina
incendiata, il che rende dapprima difficile e poi impossibile il salvataggio
della nave. La Foscolo affonda nel
giro di un’ora, nel punto 37°33’ N e 12°02’ E (secondo il rapporto del Freccia; la posizione indicata dagli
aerei attaccanti è invece 37°42’ N e 11°55’ E), 25 miglia a sudovest di Capo
Lilibeo (al largo di Marsala). Le motosiluranti tedesche recuperano prontamente
tutti i sopravvissuti, 50 italiani e 31 tedeschi, mentre 27 uomini perdono la
vita.
Il Freccia, intanto, continua ad essere
sorvolato da aerei e sottoposto a lanci di bengala fino alle 22.43, manovrando
in modo da evitare di essere illuminato ed attaccato; alle 22.44, terminati gli
attacchi aerei, si dirige verso il punto in cui è visibile l’incendio della Foscolo, ma quando giunge sul posto trova
sul mare solo la benzina – parte ancora nei fusti, parte galleggiante
sull’acqua – che continua a bruciare. Alle 23.36 il cacciatorpediniere cala il
proprio battello in prossimità delle fiamme, che sono diminuite d’intensità, e
cerca eventuali ulteriori superstiti, in coordinazione con le motosiluranti; ma
non viene trovato nessun altro.
14 dicembre 1942
Alle 00.45 del 14 il Freccia conclude le ricerche, poi prende
a bordo gli 81 naufraghi della Foscolo
dalle motosiluranti tedesche, che hanno ricevuto ordine di trasferirsi altrove.
Il cacciatorpediniere assume poi rotta per Trapani, dove giunge alle 4.40 dello
stesso giorno, sbarcandovi i sopravvissuti della Foscolo.
28 dicembre 1942
Alle 18.35 (per altra
fonte alle 18 o 18.30) il Freccia
(capitano di fregata Giuseppe Andreani) parte da Trapani per scortare a Tunisi
il piroscafo Iseo, carico di 2088
tonnellate di materiale militare (perlopiù esplosivi e munizioni), ed una
motozattera tedesca.
Già alle 19.15
l’apparato Metox del Freccia inizia ad
intercettare delle emissioni radar provenienti da aerei nemici, segno della
presenza di ricognitori britannici nelle vicinanze. Nelle ore successive le
emissioni continuano, ed anzi aumentano di intensità.
29 dicembre 1942
Tra le 2.30 e le 3 di
notte le emissioni radar diventano così vicine e continue da rendere evidente
che il convoglietto è stato localizzato ed è tenuto sotto controllo da
ricognitori britannici.
Gli aerosiluranti non
tardano infatti ad arrivare: quattro Fairey Albacore degli Squadrons 821 e 828
della Fleet Air Arm, di base a Malta. Alle 3.20 (o 3.30) l’Iseo, intento a sparare con le proprie mitragliere contro un aereo
che ha avvistato nella luce della luna, viene colpito da un siluro a centro
nave, sul lato di dritta: il disgraziato piroscafo esplode ed affonda in un
minuto, nel punto 37°12’ N e 11°37’ E (o 37°18’ N e 11°40’ E; a 28 miglia per
077° da, cioè ad est di, Capo Bon).
Schegge e rottami
dell’esplosione cadono anche addosso al Freccia, che poco dopo viene mancato di pochissimo da tre bombe.
Al Freccia ed alla motozattera tedesca
non rimane altro da fare che recuperare i naufraghi: 42 su un totale di 90
uomini imbarcati sull’Iseo, quasi
tutti feriti (secondo altra fonte, invece, sull’Iseo sarebbero stati imbarcati 72 uomini, di cui solo sei
sopravvissero).
Le due unità
raggiungono poi Trapani, dove sbarcano i naufraghi; il Freccia prosegue poi fino a Napoli, da dove parte alle sette dello
stesso mattino assumendo il ruolo di caposcorta dei piroscafi tedeschi Rhea e Stella, diretti a Tunisi. Il resto della scorta è formato dalla
torpediniera Perseo e dalle moderne
torpediniere di scorta Ardente, Ardito ed Animoso.
30 dicembre 1942
Il convoglio sosta a
Palermo dalle 7.15 alle 18, poi prosegue con l’aggiunta di un terzo mercantile
anch’esso tedesco, la motonave Ruhr.
31 dicembre 1942
Alle 7.35 il Freccia lascia la scorta del convoglio,
che raggiungerà indenne Tunisi quel pomeriggio.
3 gennaio 1943
Scoppia a bordo del Freccia un incendio che viene domato
dall’equipaggio, ma nel quale perde la vita il tenente C.R.E.M. Luigi Luisi, 46
anni, da Rio Marina, rimasto mortalmente intossicato dai gas venefici
sprigionati dall’incendio. Alla sua memoria sarà conferita la Medaglia di
Bronzo al Valor Militare: «Ufficiale
imbarcato per lungo periodo su unità sottile, in numerose missioni di guerra e
di scorta a convogli in acque particolarmente insidiate dal nemico, assolveva
in ogni circostanza i compiti a lui affidati con coraggio e abnegazione ed era
di guida ed esempio ai suoi dipendenti. Colpito da intossicazione di gas
nocivi, durante le operazioni di spegnimento di un incendio sviluppatosi a
bordo, sacrificava nell'adempimento del dovere la vita che aveva costantemente
dedicato al servizio della Patria. (Mediterraneo, 10 giugno 1941-3 gennaio
1943)».
Inizio 1943
Lavori di modifica
dell’armamento (secondo una fonte, effettuati nel corso dei lavori di riparazione
dei danni causati al Freccia
dall’esplosione dell’Iseo): vengono
eliminate tre mitragliere singole da 20/65 mm e l’impianto lanciasiluri poppiero
da 533 mm, mentre vengono installate due mitragliere singole Breda 1939 da
37/54 mm (al posto dell’impianto lanciasiluri) e sei mitragliere da 20/70 mm
Scotti-Isotta Fraschini 1939 in impianti binati (secondo un’altra fonte,
invece, sarebbero state installate tre mitragliere singole da 20 mm, uno a
poppavia del fumaiolo e due a poppa).
Aprile-Giugno 1943
Il Freccia si trova a La Spezia, dove viene
sottoposto anche ad un periodo di lavori in Arsenale.
Estate 1943
In seguito alle
perdite subite (che comprendono, tra l’altro, l’affondamento di Saetta e Strale), la VII Squadriglia Cacciatorpediniere viene sciolta, e Freccia e Dardo vengono aggregati alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere,
composta da unità della classe Navigatori.
Un’altra immagine del Freccia (g.c. Giorgio Micoli, via www.naviearmatori.net) |
Bombe su Genova
Grazie al periodo di
lavori cui fu sottoposto a La Spezia nei primi mesi del 1943, il Freccia poté evitare i mesi peggiori ed
il sanguinoso epilogo della “rotta della morte” tunisina, costata all’Italia la
perdita di tante navi, mercantili ed unità di scorta, tra cui anche il suo
gemello Saetta. Caduta la Tunisia nel
maggio del 1943 e così definitivamente conclusasi la campagna nordafricana,
l’attività delle siluranti superstiti conobbe una certa riduzione, essendosi di
molto ridotte le esigenze del servizio di scorta; la gran parte dei
cacciatorpediniere superstiti vennero dislocati nelle basi della Liguria, La
Spezia e Genova, dov’era stata trasferita la flotta da battaglia nel tentativo
di sottrarla ai bombardamenti che martellavano ormai incessantemente le basi
dell’Italia meridionale. Anche il Freccia
sembrerebbe essere rimasto più o meno ininterrottamente in Liguria a partire
dal gennaio 1943.
Se le basi navali del
Sud erano ormai state rese pressoché inutilizzabili dai continui bombardamenti,
nemmeno la Liguria poteva considerarsi al sicuro: Genova, anzi, era stata
esposta agli attacchi aerei britannici fin dall’inizio della guerra, trovandosi
entro il raggio d’azione dei bombardieri del Bomber Command della Royal Air
Force, che potevano colpirla decollando dalle basi del sud dell’Inghilterra,
dopo aver sorvolato la Francia e le Alpi. La prima incursione aerea sul capoluogo
ligure, infatti, era avvenuta già l’11 giugno 1940, il giorno successivo
all’entrata in guerra dell’Italia: ma si era trattato di poca cosa, come pure
modesti erano stati i successivi attacchi aerei nel giugno, settembre e ottobre
1940, nel settembre 1941 e nell’aprile 1942. Pochi gli aerei – mai più di una
decina –, poche le bombe (generalmente dirette contro gli stabilimenti Ansaldo
e Piaggio), pochi i danni. La musica era però cambiata radicalmente nella notte
del 22 ottobre 1942, quando il Bomber Command aveva scelto Genova come
obiettivo del primo bombardamento sull’Italia ad applicare la nuova tattica
dell’"area bombing", già sperimentata con successo sulla Germania.
Fautore di questa
nuova tecnica di bombardamento era il generale Arthur Harris, asceso al comando
del Bomber Command nel febbraio 1942. Constatata l’inefficacia dei
bombardamenti “di precisione” contro l’industria bellica – come appunto quelli
subiti da Genova nel 1940-1941 – condotti fino ad allora dai bombardieri
britannici (il “rapporto Butt”, nell’agosto 1941, aveva rivelato che soltanto
un terzo degli aerei del Bomber Command riuscivano a sganciare le loro bombe
entro almeno cinque miglia dall’obiettivo designato), Harris aveva proposto una
tattica del tutto diversa: assodato che i bombardieri non riuscivano a colpire
i siti industriali loro assegnati, e che non sarebbe stato possibile
raggiungere un maggior grado di precisione a meno di rinunciare ai
bombardamenti notturni (e la RAF non intendeva farlo, ritenendo che le incursioni
diurne comportassero perdite eccessive), il nuovo capo del Bomber Command
propose semplicemente di rinunciare a colpire direttamente le fabbriche,
mirando invece a neutralizzarle in modo “indiretto”. Questo scopo sarebbe stato
raggiunto inducendo i civili a sfollare dalle città in cui si trovavano gli
stabilimenti adibiti alla produzione bellica: in tal modo si sarebbero
allontanati gli operai dalle fabbriche, e si sarebbe riusciti a paralizzare la
produzione bellica pur senza colpire gli stabilimenti stessi, visto che questo
appariva troppo difficile.
Per indurre i
lavoratori a lasciare le città, Harris aveva deciso di ricorrere a
bombardamenti apertamente terroristici: non più qualche decina, ma centinaia di
bombardieri in un sol colpo avrebbero sganciato centinaia di tonnellate di
bombe esplosive ed incendiarie su vaste aree urbane, mirando non più a colpire
uno specifico edificio, come uno stabilimento industriale, bensì a devastare indiscriminatamente
un’area di diversi chilometri quadrati (da qui il termine di “area bombing”).
L’area in questione era definita come tutto ciò che si trovava in un raggio di
circa tre miglia dal “punto di mira” designato per l’attacco, solitamente
costituito da un edificio particolarmente prominente e che, in quanto tale,
risultava facilmente identificabile anche di notte (a Milano, ad esempio, in
diverse occasioni questo ingrato ruolo venne assegnato al Duomo). Per
massimizzare la distruzione dell’area colpita, Harris decretò anche un
cambiamento nel carico dei bombardieri: venne fortemente aumentata la
percentuale delle bombe incendiarie, che venivano solitamente lanciate dopo le
dirompenti, in modo da sfruttare i “varchi” aperti negli edifici da queste
ultime per consentire agli incendi di espandersi. Questa tecnica si rivelò
particolarmente efficace in Germania, dove i centri storici di molte città
erano caratterizzati da vie strette (che favorivano la diffusione degli incendi
da un edificio all’altro, anche se questi erano separati da strade) ed
abbondante uso del legno negli edifici; ciò faceva sì che le fiamme dilagassero
e moltiplicassero in modo esponenziale i danni causati dalle bombe, fino a
giungere in alcuni casi (Amburgo, Dresda, Kassel, Darmstadt, Pforzheim) al
terrificante fenomeno della “tempesta di fuoco”, in grado di incenerire interi
quartieri e migliaia di persone in una sola notte. In Italia, viceversa, i
bombardamenti incendiari risultarono molto meno efficaci, perché i centri
storici delle città italiane erano caratterizzati da vie generalmente più ampie
(in questo Genova faceva eccezione) e dal predominio del laterizio nelle
costruzioni, con impiego molto minore del legno rispetto alla Germania.
Dopo aver impiegato
la tecnica dell’"area bombing" sulla Germania, con risultati che
furono giudicati soddisfacenti, nella primavera-estate del 1942, in autunno il
Bomber Command aveva rivolto le sue attenzioni all’Italia. I Comandi tedeschi,
infatti, avevano sviluppato delle contromisure elettroniche in grado di
disorientare il sistema di radionavigazione "Gee" usato dai
bombardieri britannici per raggiungere i propri obiettivi; in attesa dello
sviluppo del nuovo sistema di radionavigazione Oboe, che avrebbe permesso di
superare questo nuovo ostacolo, Harris aveva deciso di lanciare una serie di
incursioni sull’Italia, dove questo problema non sussisteva e dove in generale
le difese contraeree risultavano meno efficaci. Motivazioni di carattere
politico – infliggere un duro colpo al morale della popolazione civile
italiana, in concomitanza con l’offensiva di El Alamein ed in coincidenza con
il ventesimo anniversario della marcia su Roma – contribuirono a questa scelta.
L’autunno del 1942 vide dunque un’offensiva aerea di una violenza inaudita
abbattersi sulle città del “triangolo industriale” (Milano, Torino, Genova),
principali centri dell’industria bellica nonché uniche città italiane di una
certa importanza a trovarsi nel raggio d’azione del Bomber Command: la prima a
farne le spese fu appunto Genova, che venne colpita con estrema durezza il 22
ottobre (179 tonnellate di bombe sganciate da 100 bombardieri: il più pesante
bombardamento subito fino a quel momento da una città italiana), il 23 ottobre
ed il 6, 7, 13 e 15 novembre: in queste sei incursioni, un totale di 473
bombardieri britannici sganciò più di 1200 tonnellate di bombe sul capoluogo
ligure, distruggendo 1250 edifici e causando quasi cinquecento vittime civili.
Per i genovesi, abituati alle “blande” incursioni degli anni precedenti, la
vista della propria città in fiamme costituì un vero shock: mai, prima di
allora, si era visto in Italia un bombardamento tanto distruttivo. Per l’Italia
iniziava un nuovo capitolo nella guerra di distruzione aerea. Ma dopo questo
infernale autunno Genova, almeno per il successivo inverno e la primavera del
1943, fu lasciata in pace. Colpite duramente anche Milano e Torino, infatti,
Harris tornò ad occuparsi della Germania, suo obiettivo principale.
A riportare gli aerei
del Bomber Command sul Nord Italia furono gli sviluppi politico-militari dell’infuocata
estate del ’43. Dopo la vittoriosa conclusione, già ricordata, della campagna
nordafricana, il 10 luglio 1943 gli Alleati diedero inizio all’invasione della
Sicilia, mentre le città di tutta Italia subivano un crescendo di
bombardamenti, volti sia a paralizzare la rete di comunicazioni e l’industria
bellica italiana, sia a distruggere definitivamente qualsiasi rimasuglio di
fiducia nel regime fascista potesse essere rimasto nella popolazione civile (il
mese di luglio 1943 vide il lancio sull’Italia di 16.083 tonnellate di bombe,
più di quante ne fossero state sganciate sull’intero Paese nei precedenti
trentasei mesi trascorsi dall’inizio del conflitto, messi insieme). Il 12
luglio Torino subì un bombardamento di una violenza senza precedenti ad opera
del Bomber Command, che provocò oltre ottocento vittime; il 19 Roma subì il
primo bombardamento della guerra (da parte non del Bomber Command, ma
dell’USAAF: i morti furono almeno milleseicento, e forse anche il doppio) ed il
25 luglio 1943 il gran consiglio del fascismo, dinanzi ad una situazione
militare ormai compromessa e ad un’opinione pubblica sempre più avversa alla
guerra ed al fascismo, votò la sfiducia a Benito Mussolini, che fu poco
destituito ed arrestato dal re, il quale affidò il nuovo governo al maresciallo
d’Italia Pietro Badoglio.
Dopo la caduta di
Mussolini gli Alleati, in attesa di capire le intenzioni del nuovo governo
italiano, decisero di limitare momentaneamente i bombardamenti aventi scopo
“psicologico”, continuando esclusivamente le incursioni contro obiettivi di
interesse prettamente militare. La dichiarazione del maresciallo Badoglio che «la guerra continua», tuttavia, spinse
ben presto all’abbandono di questa linea “morbida”, ed al rinnovo
dell’offensiva aerea sull’Italia con una violenza senza precedenti. Nel corso
dell’agosto del 1943, l’Italia fu sottoposta ad una vera pioggia di ferro e di
fuoco, con l’obiettivo di distruggere definitivamente qualsiasi volontà di
resistenza e di spingere il governo Badoglio ad accettare, senza troppe
tergiversazioni, una resa senza condizioni. In quei trentun giorni caddero
sull’Italia 18.947 tonnellate di bombe (nel bimestre luglio-agosto, pertanto,
furono sganciate sull’Italia 35.030 tonnellate di bombe: a titolo di paragone,
si consideri che nel corso della battaglia d’Inghilterra la Luftwaffe aveva
sganciato sul Regno Unito 41.500 tonnellate di bombe, ma nell’arco di nove
mesi), causando immani distruzioni e non meno di seimila vittime civili (ma non
sarebbe probabilmente azzardata una stima di 10.000 vittime in quel solo,
tremendo mese): tra le città che più furono devastate, con ingenti danni al
patrimonio urbano e centinaia di morti tra la popolazione, si annoverano
Torino, Milano, Napoli, Terni, Roma, Foggia, Benevento, Catanzaro, Pisa,
Pescara e, per l’appunto, Genova.
In questa politica di
“pressione aerea” sul governo italiano rientrò, infatti, anche un nuovo ciclo
di bombardamenti sulle tre grandi città del triangolo industriale, Genova,
Milano e Torino. Il 26 luglio il generale Harris aveva ricevuto dal Ministero
dell’Aria la disposizione di non colpire ulteriormente le città del Nord Italia
salvo esplicita autorizzazione da parte del ministero stesso; tuttavia dopo
soli due giorni, il 28 luglio, il ministro degli Esteri Anthony Eden propose
invece al War Cabinet di riprendere i bombardamenti sull’Italia settentrionale
per «ammorbidire» il governo Badoglio. Churchill fu inizialmente dubbioso
sull’opportunità di una simile linea di condotta, temendo che ulteriori
bombardamenti avrebbero potuto finire col generare sentimenti antibritannici
nella popolazione italiana; ma la visione di Eden prevalse ed il War Cabinet
decise di riprendere l’offensiva aerea. Il 29 luglio il Bomber Command
ricevette pertanto l’ordine di bombardare contemporaneamente Milano, Torino e
Genova nella notte tra il 30 ed il 31, compatibilmente con le condizioni
meteorologiche, e di colpire con la massima durezza. Il maltempo e la
riluttanza del generale Harris, interamente focalizzato sulla Germania, a
distogliere risorse da quest’ultima per colpire l’Italia portarono a rinviare
l’attacco di oltre una settimana; ma la sera del 7 agosto 1943 quasi 200
bombardieri quadrimotori Avro Lancaster decollarono dalle basi dell’Inghilterra
per il primo attacco simultaneo su tutte e tre le grandi città del triangolo
industriale. Missione dettata da «urgenti ordini politici», come confermato dai
rapporti dello stesso Bomber Command.
I Lancaster, in
numero di 197, erano divisi in tre formazioni di 50 bombardieri, ciascuna
destinata ad una delle tre città, più due gruppi di 47 aerei “apripista”
(Pathfinder, che dovevano individuare il punto di mira prima col radar H2S e
poi visivamente, illuminandoli con il lancio di bengala ed ordigni illuminanti
colorati "TI", Target
Identification Bombs, comunemente noti come “alberi di Natale”), uno dei
quali riservato a Milano, mentre l’altro avrebbe dovuto guidare sull’obiettivo
prima il gruppo assegnato a Torino e poi quello di Genova. Dopo aver sorvolato
il Canale della Manica, la Francia e le Alpi, i bombardieri si divisero e
raggiunsero i rispettivi obiettivi: Milano fu colpita da 23 "Pathfinder"
dell’8° Gruppo e 50 bombardieri del 5° Gruppo; Torino, da 24 "Pathfinder"
e 50 bombardieri del 1° Gruppo; Genova, da 23 "Pathfinder" e 50
bombardieri, dei quali 22 del 1° Gruppo e 28 del 5° Gruppo.
A riconferma delle
motivazioni psicologiche dell’operazione, prima di sganciare le bombe i
Lancaster lanciarono sulle tre città centinaia di migliaia di volantini
propagandistici, recanti il semplice messaggio: «Il governo di Roma dice: la guerra continua. Ecco perché il nostro
bombardamento continua».
La tattica seguita fu
quella già nota dell’«area bombing»; le incursioni risultarono molto
concentrate nello spazio (circa l’80 % dei bombardieri sganciò le bombe entro
tre miglia dal punto di mira designato) e nel tempo (anche per via della
pochezza delle difese contraeree, che non riuscirono a contrastare
adeguatamente i bombardieri britannici), anche se – come al solito – le
dimensioni degli incendi scatenati nelle città italiane, meno “infiammabili” di
quelle tedesche (per i motivi accennati in precedenza), risultarono molto più
contenute a quanto i piloti della RAF erano abituati a vedere nei bombardamenti
in Germania. Ad ogni modo, l’esame delle fotografie scattate dai ricognitori
dopo i bombardamenti indusse i comandi britannici a considerare i bombardamenti
come riusciti su tutte e tre le città; le perdite britanniche ammontarono a due
soli Lancaster, uno abbattuto dalle difese contraeree di Milano e l’altro
precipitato in Francia durante il volo di rientro.
A Genova il punto di
mira designato era piazza De Ferrari, in pieno centro. Sul capoluogo ligure giunsero
72 Lancaster, su 73 originariamente decollati, i quali sganciarono 169
tonnellate di bombe, tra dirompenti (94 tonnellate, comprese 25 superbombe
“block-buster” da 1814 kg – di cui una tonnellata e mezza erano di esplosivo –
ciascuna delle quali era in grado da sola di demolire un intero isolato – da
qui il nome “block-buster”, che significa appunto “spiana-isolati” – e di
abbattere palazzi anche solo con lo spostamento d’aria) ed incendiarie (75
tonnellate). Secondo le successive analisi britanniche, 63 dei 72 bombardieri
riuscirono a sganciare le proprie bombe entro tre miglia dal punto di mira, in
modo da massimizzare la distruzione nell’area designata come obiettivo. Come
nelle altre due città, i danni causati dal bombardamento furono molto gravi,
soprattutto nel centro storico e nella zona attorno alla Stazione Principe; le
vittime civili furono poco meno di un centinaio (sarebbero state molte di più
se gran parte della popolazione non fosse già sfollata e se il bombardamento
non fosse avvenuto in una calda notte estiva di sabato, in cui molti dei
genovesi che non erano sfollati si erano recati da parenti e amici nelle
campagne per passarvi il finesettimana). Tra le vittime illustri di questa
incursione vi fu lo storico Teatro Carlo Felice, principale teatro di Genova,
colpito da bombe incendiarie che scatenarono un incendio che distrusse le
scenografie, i palchi sopraelevati e le finiture di legno; anche la millenaria
chiesa romanica di Santo Stefano (che perse metà della facciata e gran parte
del tetto), la basilica barocca di San Siro (che subì la distruzione di due
cappelle della navata di sinistra e dell'altare di nostra Signora della
Provvidenza) e la seicentesca chiesa della Consolazione subirono pesanti danni,
al pari di diverse centinaia di edifici, con 13.000 genovesi che rimasero senza
un tetto.
E fu sotto questo
diluvio di bombe, in quella calda notte d’agosto, che terminò per sempre
l’intensa vita del Regio Cacciatorpediniere Freccia.
Quella notte il Freccia, sempre al comando del capitano
di fregata Giuseppe Andreani, era ormeggiato nel porto del capoluogo ligure – più
precisamente, al Molo Parodi – per un periodo di lavori che avrebbe dovuto
ricevere appunto a Genova. Nessuna bomba lo colpì direttamente, ma bastarono
due ordigni caduti in mare a ridottissima distanza, all’1.25 della notte: la
concussione della duplice esplosione lesionò gravemente lo scafo del Freccia, aprendo grosse falle dalle
quali l’acqua si riversò copiosa all’interno.
Sotto la guida del
comandante Andreani e del direttore di macchina, capitano del Genio Navale
Armando Traetta, l’equipaggio fece tutto il possibile per salvare la nave,
riuscendo anche ad estinguere un focolaio d’incendio scoppiato in un locale
caldaie, ma fu tutto inutile: in breve il Freccia
assunse uno sbandamento preoccupante verso sinistra, minacciando di
capovolgersi, ed il comandante Andreani dovette dare l’ordine di abbandonare la
nave. L’abbandono si svolse in modo ordinato; per primi vennero sbarcati i
feriti, poi gli incolumi, mentre Andreani scese a terra per ultimo, dopo
essersi accertato che a bordo non fosse rimasto nessuno. Nel giro di soli venti
minuti dallo scoppio delle bombe, il Freccia
affondò abbattendosi sul fianco sinistro, rimanendo completamente sommerso. Era
l’1.45 dell’8 agosto 1943.
Tra l’equipaggio del Freccia, tre uomini rimasero uccisi e 50
feriti, cinque dei quali in modo grave; sembra probabile che tre di questi ultimi
siano successivamente deceduti, dal momento che nell’Albo dei caduti e dispersi
della Marina Militare nel secondo conflitto mondiale figurano i nominativi di
sei uomini del Freccia periti in
questa circostanza (ed anche documenti conservati all’archivio dell’Ufficio
Storico della Marina Militare, e consultati da Platon Alexiades, confermano che
le vittime furono sei).
Per il comportamento
tenuto durante l’affondamento, il comandante Andreani avrebbe in seguito ricevuto
la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Comandante di ct. gravemente danneggiato nel
corso di pesante bombardamento aereo sul porto dove si trovava ormeggiato,
attuava prontamente i provvedimenti di sicurezza. Perdurando incessante il
bombardamento, malgrado le precarie condizioni di sicurezza ed il forte
sbandamento della nave, continuava le difficili operazioni. Assicurato lo
sbarco dei feriti, nell'imminenza del naufragio assicurava l'ordinato abbandono
della nave, che poco dopo si rovesciava affondando. Esempio di fermezza e di
sprezzo del pericolo".
Anche il direttore di
maccchina Traetta (32 anni, da Laterza) venne decorato con la Medaglia di
Bronzo al Valor Militare, per essersi prodigato per salvare la nave e per
essere sceso nelle viscere del Freccia
agonizzante per cercare e portare in salvo i feriti. La motivazione della
decorazione fu: "Direttore di
macchina di cacciatorpediniere, colpito in porto durante violento bombardamento
aereo, interveniva prontamente in locale caldaie danneggiato, e riusciva a
soffocare un focolaio d'incendio. Risultato vano ogni tentativo volto a salvare
l'unità, si prodigava nella ricerca e trasporto dei feriti, malgrado le
precarie condizioni di sicurezza della nave ed il forte sbandamento rendessero
pericolosa e difficile ogni operazione a bordo. Esempio di sereno, determinato
coraggio".
Il Freccia fu l’unica vittima “navale” di
questo bombardamento, che nonostante i gravi danni subiti dalle caserme della
Guardia di Finanza e della Capitaneria di Porto, dai magazzini, dai moli e
dalle darsene, non arrecò alcun danno al naviglio mercantile presente in porto.
Soltando alcune chiatte furono colpite da bombe incendiarie e presero fuoco
unitamente al rimorchiatore Adua, il
cui equipaggio fu tuttavia in grado di estinguere gli incendi in tempi
piuttosto brevi.
Il Freccia fu il penultimo
cacciatorpediniere perso dalla Regia Marina nella guerra contro gli Alleati:
precedette di solo un giorno il Vincenzo
Gioberti.
Le vittime:
Ivo Borgianini, marinaio fuochista, 21 anni,
da Terni (deceduto)
Giuseppe Cardillo, sottocapo elettricista, 24
anni, da Trapani (disperso)
Antonio Francabandiera, marinaio fuochista, 20
anni, da Irsina (disperso)
Luigi Moretti, sottocapo fuochista, 23 anni,
da Milano (deceduto)
Alfonso Scaleia, sottocapo cannoniere, 19
anni, da Salerno (deceduto)
Giuseppe Sciortino, marinaio fuochista, 23
anni, da Porto Empedocle (disperso) (*)
(*) Per Giuseppe Sciortino,
stranamente, la data di dispersione è indicata come il 19 agosto 1943.
Le “pressioni” esercitate
per mezzo dei bombardamenti sul governo Badoglio sortirono l’effetto
desiderato: il 3 settembre 1943 il generale Giuseppe Castellano,
plenipotenziario del governo italiano, firmò a Cassibile un armistizio tra
l’Italia e gli Alleati, che venne reso noto l’8 settembre, esattamente un mese
dopo l’affondamento del Freccia.
Alla data
dell’armistizio, era in corso a Genova un tentativo di recupero del
cacciatorpediniere affondato, diretto dal direttore di macchina Traetta: ma l’8
settembre stroncò sul nascere quei lavori, come ogni altra attività in corso in
quel momento.
Le prime funeste
conseguenze di quell’armistizio, lungi dal portare nel Paese la tanto agognata
pace, furono l’occupazione tedesca dell’Italia e la quasi completa distruzione
del Regio Esercito: oltre 700.000 militari italiani, catturati dalle forze
tedesche nella confusione seguita all’annuncio dell’armistizio, finirono
prigionieri in Germania come "internati militari italiani". Tra di
essi anche alcuni superstiti del Freccia,
che forse erano ancora a Genova proprio per partecipare ai lavori di recupero:
uno di loro, il marinaio ventitreenne Antonio Bergantino, da Minturno, sarebbe
deceduto in prigionia il 20 luglio 1944, a Monaco di Baviera, per malattia.
Un altro superstite
del Freccia, il sottocapo infermiere
trapanese Natale Cassisa, di 34 anni, morì in Italia il 28 settembre 1943, in
circostanze che non è stato qui possibile accertare. Forse rimase vittima dei
turbolenti giorni di quel triste settembre, in cui si intrecciarono confusi
scontri tra quel che restava delle Regie forze armate e la Wehrmacht, eccidi
tedeschi, bombardamenti Alleati ed la nascita dei primi gruppi armati della
Resistenza.
È possibile che
qualche altro ex membro dell’equipaggio del Freccia
si sia invece arruolato nella X Flottiglia MAS della Repubblica Sociale
Italiana, considerato che tale reparto battezzò col nome di "Freccia"
un Battaglione di genieri costituito nel febbraio-marzo del 1944; tuttavia non
è stato possibile trovare alcuna conferma o smentita su questo ipotetico
collegamento.
Il
relitto del Freccia nel porto di
Genova, come si presentava nel maggio 1945 (da www.warshipsww2.eu e Coll. Maurizio
Brescia via www.associazione-venus.it)
Il Freccia venne formalmente radiato dai
quadri della Marina (ormai non più regia) il 18 ottobre 1946, e nell’aprile del
1949 il suo relitto venne recuperato ed avviato alla demolizione. Valga per
questa bella nave l’epitaffio scritto da Bruno Temperoni, marinaio carpentiere
sui gemelli Dardo e Strale, al termine del suo libro di
memorie "Voce di prora": «Ho
conservato un trafiletto di un giornale stampato anni fa, dove è scritto: Il
Caccia Freccia affondato nel porto di Palermo [sic], è stato acquistato da una signora genovese per centomila lire ....
No, quella signora non ha acquistato il 'Freccia'. Esso naviga ancora nelle
pagine della storia d'Italia. Basta leggerle, e lo si rivede ancora assieme a
suoi componenti della gloriosa squadriglia: 'Strale, Dardo e Saetta' mentre va
all'attacco, sotto il fuoco nemico, durante la battaglia di Punta Stilo. Quella
signora ha comprato solo un anonimo residuato di guerra. Così avrebbero dovuto
scrivere. Perché il Freccia non lo può comprare nessuno. È ancora di scorta
alle gloriose navi affondate e che assieme navigano ancora in formazione.
Questa risplendente squadra navigherà sempre nel cuore della patria, e al
tramonto, tutti i caduti del mare, riuniti in poppa, ascolteranno la preghiera
del marinaio recitata del loro ufficiale in seconda, mentre il Nostromo saluta
con i suoi modulati fischi, la bandiera che lentamente scende dal picco:
Benedici Signore, le nostre care genti, benedici la Patria, e Benedici noi, che
per essa siamo morti invano sul mare. Benedici».