Lo Zara (g.c. Yevgenyi
Zelikov, via www.naviearmatori.net)
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Incrociatore pesante capoclasse della
classe Zara (dislocamento standard 11.870 tonnellate, in carico normale 13.580
tonnellate, a pieno carico 14.530 tonnellate).
Gli Zara furono la risposta italiana
alla classe francese Suffren; i progettisti italiani impiegarono tre anni per
sviluppare la loro ‘risposta’, i più corazzati incrociatori pesanti costruiti
fino a quel momento (ed anche successivamente, ben poche classi di incrociatori
eguagliarono o superarono gli Zara nella protezione: i primi furono gli
statunitensi Wichita, costruiti tra il 1935 ed il 1939). I tempi di
costruzione, in compenso, furono piuttosto brevi, in considerazione delle
elevate dimensioni delle navi.
La decisione di costruire gli Zara era
stata presa già nel 1928, per tenere il passo con le altre principali Marine.
Stante l’“urgenza” di questa necessità, si presero in considerazione solo
progetti già esistenti o derivati da quelli esistenti; in una situazione di
stasi dei progetti, il Ministero della Marina aveva realizzato uno studio per
uno sviluppo della classe Trento, rispetto alla quale avrebbe avuto analogo
armamento e corazzatura verticale molto più spessa (150 od anche 200 mm),
nonché un’elevata corazzatura orizzontale ed una robusta struttura dello scafo,
al prezzo di una riduzione della velocità a 32 nodi in condizioni operative. Ci
si era infatti resi conto che i Trento erano troppo poco corazzati, dunque
inadatti a costituire il nucleo delle navi “di sostegno”; non permettendo i
mezzi finanziari ed industriali dell’Italia di perseguire una superiorità
quantitativa sulle altre Marine, con questa nuova classe si mirava ad una
superiorità qualitativa. Ai progettisti (Comitato Progetti Navi, diretto dal
tenente generale del Genio Navale Fabio Mibelli) fu detto di non sentirsi
vincolati dal limite di 10.000 tonnellate di dislocamento standard previste dal
trattato di Washington; gli studi mostrarono infatti che una nave rispondente
alle specifiche richieste avrebbe avuto un dislocamento standard di 12.000
tonnellate. L’ammiraglio Romeo Bernotti, sottocapo di Stato Maggiore della
Marina, aveva inizialmente proposto la costruzione di incrociatori di 15.000
tonnellate, asserendo che tre unità di questo tipo avrebbero potuto sopraffarne
sei di quelle da 10.000, ma la proposta era stata rifiutata, perché
eccessivamente al di sopra dei limiti di Washington.
La differenza di velocità tra gli Zara
ed i Trento non sarebbe stata un grande problema; nell’azione tattica le unità
delle due classi sarebbero potute stare insieme in formazione fintanto che lo
si fosse ritenuto necessario; se il gruppo più veloce avesse seguito quello
meno veloce, la differenza di tre miglia avrebbe costituito una necessaria
riserva di velocità.
È da notare che dal 1931 in poi, per
qualche anno, gli Zara e gli altri incrociatori pesanti si sarebbero trovati ad
essere le più potenti e moderne navi in servizio nella Regia Marina, non
essendo ancora stati avviati i lavori di grande rimodernamento delle corazzate
classi Duilio e Doria, né ancora ordinata la costruzione delle nuove corazzate
classe Littorio.
Zara e Fiume vennero ordinati nel settembre
1928, il Gorizia nell’ottobre 1929 ed
il Pola per ultimo, nel 1930. Difatti
Zara e Fiume risultarono pressoché identici nell’aspetto, mentre il Gorizia ebbe fumaioli dalla forma
leggermente differente, ed ancora più netta fu la differenza nell’aspetto con
il Pola.
È interessante rilevare che lo Zara fu il capoclasse, ma venne ordinato
ed impostato per secondo: l’ordinazione risale infatti al 27 settembre 1928,
dodici giorni dopo quella del Fiume,
e l’impostazione al 4 luglio 1929, mentre il Fiume era stato impostato già il 29 aprile. Le due navi furono
varate lo stesso giorno (27 aprile 1930) e poi lo Zara “superò” il gemello nella rapidità del completamento, entrando
in servizio un mese e tre giorni prima del Fiume.
Altra nota curiosa è il balletto delle
classificazioni che le navi di questa classe subirono a causa di una certa
schizofrenia burocratico-amministrativa: furono infatti classificate dapprima
«incrociatori leggeri» (forse la definizione meno appropriata della storia
navale italiana), poi «incrociatori corazzati» (rispondente a verità, in senso
letterale, ma questa era la classificazione di un tipo di nave differente ed
ormai in disuso da un paio di decenni) e per finire, com’era corretto,
«incrociatori pesanti».
Sopra, lo Zara insieme
al Pola (g.c. Stefano Ciglia); sotto,
lo Zara a Napoli nel 1938, con
l’incrociatore leggero Luigi di Savoia
Duca degli Abruzzi ormeggiato sulla dritta (da www.marina.difesa.it)
Le unità della classe Zara,
indubbiamente i migliori incrociatori pesanti della Regia Marina e
probabilmente tra i migliori del tipo al mondo, coniugavano l’armamento
principale tipico della maggior parte degli incrociatori pesanti (otto cannoni
da 203 mm in torri binate), una velocità nella media ed una corazzatura
particolarmente poderosa (cintura 150 mm , ponte 20-70 mm , torri 120-140 mm , barbette 140-150 mm , paratie 90-120 mm , torrione 70-150 mm ), a differenza dei
loro poco protetti predecessori della classe Trento (il peso della corazzatura
degli Zara, 2700 tonnellate, era triplo di quello dei Trento). La protezione
prevedeva due fasce di corazzatura anziché una (più precisamente, un ponte
corazzato ed una cintura corazzata “secondari” al di sotto del ponte corazzato
e della cintura principale), uno schema comune più alle corazzate che alla
maggior parte degli incrociatori pesanti.
La contropartita consistette nel
maggiore dislocamento, che superò di quasi 2000 tonnellate i limiti consentiti
dal trattato di Washington (dislocamento standard di 11.870 tonnellate, a
fronte di un limite massimo di 10.000).
Gli incrociatori pesanti tipo
Washington costruiti fino a quel momento, infatti, avevano solitamente una
cintura corazzata il cui spessore si aggirava sui 75 mm, e corazze ancor più
sottili nelle altre parti della nave; era una protezione sufficiente contro
incrociatori leggeri e cacciatorpediniere, ma del tutto inadeguata contro i proiettili
di altri incrociatori pesanti. Gli Zara, invece, furono progettati per
resistere a colpi sparati da altre navi dello stesso tipo.
La cintura corazzata, composta da
quindici piastre in acciaio cementato lunghe sei metri ciascuna, su ogni
murata, era spessa 150 mm, spessore che scendeva a 100 mm nel margine inferiore
e che poggiava direttamente sulla corazzatura del ponte (piastre corazzate in
acciaio al nichel-cromo spesse 70 mm) nel suo margine superiore. Tale cintura
si estendeva dall’altezza dell’estremità prodiera della prima torre da 203
all’estremità poppiera dell’ultima, ed era chiusa alle estremità da traverse
spesse 120 mm (otto piastre), così formando un ridotto corazzato (protetto da
corazze di 150 mm sui lati e di 90 mm alle estremità, e coperto da un ponte
corazzato di 70 mm sopra il quale ve n’era un altro di 20 mm) che racchiudeva e
proteggeva torri, depositi munizioni ed apparato motore.
Sopra il ponte corazzato principale vi
era un ponte corazzato “secondario” di 20 mm per protezione dalle schegge e per
smorzare l’impatto dei proiettili in arrivo, mentre sopra la cintura vi era
un’ulteriore striscia di corazzatura spessa 30 mm (dieci piastre lunghe nove
metri ciascuna), che si spingeva fino al ponte superiore. La cintura proteggeva
anche i depositi munizioni; l’apparato motore era invece protetto da paratie
trasversali spesse 120 mm nel punto di maggior spessore e 90 mm ai margini,
situate alle estremità della cintura. Le barbette dell’armamento principale
erano protette da una corazzatura di 150 mm sopra il ponte e 140 mm sotto (120
mm al di sotto del ponte principale) e le torri da piastre corazzate in acciaio
speciale di 150 mm alle estremità, 75 mm sui fianchi e 70 mm sulla copertura
(altra fonte indica invece valori assai diversi: 203 mm di spessore frontale e
150 mm laterale, posteriore e superiore), mentre la corazzatura del torrione
era di 150 mm sui lati (piastre in acciaio cementato), 70 mm sul pavimento e 80
mm sul cielo; la centrale di direzione del tiro aveva una corazzatura di 120 mm
sui lati e di 95 mm sul cielo. Il tubo per le comunicazioni era protetto da
corazze di 120 mm sopra il ponte di coperta e 100 mm al di sotto di esso; al di
fuori del ridotto corazzato, il locale calderine ausiliarie ed il locale
agghiaccio del timone erano protetti da un ponte corazzato di 20 mm, con
margini inclinati spessi 30 mm.
In origine la cintura corazzata
sarebbe dovuta essere addirittura di 200 mm, ma ciò avrebbe fatto “sforare” i
limiti del trattato di Washington di quasi 4000 tonnellate (a meno di non
ridurre il numero dei cannoni da 203 mm da otto a sei), così si era deciso di
ridurla a 150 mm (comunque più di qualsiasi altro incrociatore del tempo) per
contenere il dislocamento.
I cannoni da 203 mm ad anima sfilabile
e fredda, ciascuno del peso di 19,5-25 tonnellate, erano disposti secondo lo
schema tradizionale: quattro torri binate (Mod. 1927, prodotte anch’esse
dall’Ansalo e pesanti ciascuna 181 tonnellate; potevano ruotare di 150° ad una
velocità di 6 gradi al secondo, ed i cannoni potevano passare da un’elevazione
di –5° ad una di +45° alla velocità di 5 gradi al secondo) su due livelli, due
a prua e due a poppa, con il solito difetto – caratteristico delle navi
italiane dell’epoca – della culla unica per ogni torre binata, con cannoni
troppo ravvicinati tra loro e minore precisione delle bordate, causa la
conseguente interferenza quando i due cannoni della stessa torretta sparavano
insieme. Il problema venne mitigato adottando la pratica di “distribuire” il
fuoco nel tempo, evitando di far sparare contemporaneamente i due cannoni di
una stessa torretta, bensì facendo fuoco con un cannone di ciascuna torre,
contemporaneamente (una sorta di “salva verticale”, per così dire), e poi –
separatamente – con l’altro cannone di ciascuna torre. Potevano essere
ricaricati con qualsiasi elevazione.
I cannoni da 203 mm erano di nuovo
tipo (Ansaldo Mod. 1927), più lunghi (53 calibri) rispetto a quelli dei Trento
(50 calibri), e caratterizzati da una maggiore velocità iniziale del proiettile
(939 m/s) e da un maggior ritmo di fuoco (3,5 colpi al minuto). Gli Zara
potevano così ingaggiare i loro omologhi avversari da una distanza di 31.445
metri, con un’elevazione massima di 45°, sparando proiettili perforanti del
peso di 125 kg o proiettili esplosivi del peso di 111 kg; il campo di tiro era
di 300°. Il rovescio della medaglia era però costituito da una maggiore
dispersione della salva e da un insolitamente elevato logorio della canna,
causato proprio dall’elevata velocità iniziale; per risolvere almeno in parte
il problema della dispersione i cannoni vennero modificati, riducendo la
velocità iniziale del proiettile a 900 m/s, ma ciò ridusse solo di poco la
dispersione, mentre ebbe l’effetto negativo di ridurre la gittata da 31,5 a 29
km. Ogni cannone da 203 mm aveva una riserva di 157 colpi ed era servito da un
montacarichi separato dagli altri, che collegava con i depositi munizioni. In
tutto, la dotazione di granate da 203 mm era di 440 colpi perforanti e 360
dirompenti (320 con spoletta O.Bo. e 40 con spoletta M.T.P.).
I cannoni da 203 delle torri prodiere alla massima elevazione (Claudio Carletta, da www.naviearmatori.net)
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L’armamento secondario era costituito da 16 pezzi da 100/47 mm OTO Mod. 1928 (antinave ed antiaerei) in impianti binati scudati (per altra fonte, in origine si trattava di vecchi pezzi da 100/47 Skoda L50 Mod. 1910, di preda bellica austroungarica, presto sostituiti con altrettanti pezzi di analogo calibro ma del ben più moderno modello OTO 1931), oltre a quattro cannoncini singoli Vickers-Terni Mod. 1917 da 40/30 mm (sostituiti nel 1937 da otto mitragliere pesanti Breda Mod. 1932 da 37/54 mm due in impianti quadrinati; lo Zara, però, ancora nel 1939 aveva due pezzi da 40/39 mm in coperta a poppa, ed infatti per altra fonte le Breda da 37/54 furono imbarcate nel 1937, ma i Vickers da 40/39 furono eliminati solo nel 1938-1939) ed altrettante da 12,7/62 mm.
I pezzi da 100/47 mm potevano sparare
con elevazione da –5° a +85° e campo di tiro di 175°; sparavano proiettili del
peso di 26 kg ad una distanza massima di 15.240 metri (elevazione massima di
45°) contro le navi, e di 10.000 metri (elevazione massima di 85°) contro gli
aerei, al ritmo di otto-dieci colpi al minuto. Buoni cannoni antinave e
mediocri cannoni antiarrei, potevano essere ricaricati sempre, quale che fosse
la loro elevazione, ma il loro movimento era troppo lento per poter sortire
buoni risultati contro i veloci aerei dell’epoca. La scorta di munizioni era di
6000 colpi (per altra fonte, 4780: 1200 granate antinave, 1200 antiaeree, 700
antinave a vampa ridotta, 480 antinave a vampa ridotta e codetta luminosa, 1200
antiaeree a vampa ridotta).
I pezzi da 40/39 mm avevano
un’elevazione da da –5° a +80° e tiravano 50-75 proiettili di 1,34 kg al minuto
ad una distanza massima di 3475 metri contro navi (elevazione massima 45°) e di
1100 metri contro aerei; avevano una scorta di 6000 colpi complessivi. Sullo Zara, due impianti da 40/39 erano sul
ponte di castello a proravia della torre n. 1, e gli altri due sul ponte di
coperta, a poppa estrema.
In seguito, l’armamento contraereo
sarebbe stato ulteriormente rinforzato da otto mitragliere Breda Mod. 1931 da
13,2/76 mm in impianti binati (che rimpiazzarono quelle da 12,7), ed ulteriori
otto Breda da 37/54 mm Mod. 1932.
Le Breda da 37/54 mm sparavano dai 60
ai 120 proiettili da 1,63 kg di peso al minuto, ad una distanza di 4000 metri
(elevazione massima 45°) nel tiro antinave e di 5000 (elevazione massima 80°)
nel tiro contraereo, con un’elevazione da –10° a +80°; avevano una scorta di
1500 colpi per canna ed erano ottime armi contraeree, in particolare contro
velivoli che si avvicinavano a bassa quota come gli aerosiluranti.
Le Breda da 13,2/76 mm sparavano 500
colpi al minuto ad una distanza massima di 2000 metri, con elevazione da –11° a
+85°; scorta di 1500 colpi per canna (24.000 proiettili in tutto, metà
traccianti e metà perforanti). Due di esse erano collocate in una piazzola
sulla sommità del quadripode sotto la torretta del prima centrale di direzione
del tiro, altre due su piazzole situate a metà altezza dei due montanti del
tripode. Le Breda da 13,2 mm erano adeguate per il tiro ravvicinato contro
aerei a bassa quota, ma persero gradatamente efficacia contro aerei via via più
veloci.
Altra vista dei pezzi da 203 delle torri prodiere (sopra: da www.marina.difesa.it; sotto: g.c.
Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
Per la direzione del tiro dei pezzi da
203 venne adottata una centrale di tiro elettromeccanica San Giorgio Mod. 1, e
per quelli da 100 mm una San Giorgio Mod. 2. Vi erano due telemetri, uno
principale ed un altro secondario, collocato a poppa; i telemetri per i pezzi
da 100 mm erano invece posizionati sulla coffa di poppa (ma furono rimossi nel
1939). Tutti i collegamenti del tiro erano automatici, montati su sospensioni
elettriche; le lenti, però, non avevano subito trattamento antiriflesso e non
erano adeguatamente sigillate.
Il sistema di puntamento
dell’armamento contraereo risultò però poco efficace, risultando troppo lento
nonché provvisto di un inadeguato nel controllo del fuoco.
Il telemetro poppiero sarebbe stato
rimosso nel 1936 per lasciare spazio ad una mitragliera binata da 13,2 mm, ma al
suo posto ne sarebbe stato installato (nel 1939) uno più piccolo, mentre
sarebbero stati definitivamente eliminati i due telemetri per il tiro dei pezzi
da 100/47 mm collocati sul tripode poppiero.
Erano inoltre imbarcati due
idrovolanti da ricognizione: in origine erano previsti dei Piaggio P.6 bis, ma
questi, già obsoleti, non vennero mai imbarcati e furono invece sostituiti dai
Macchi M. 40 e M. 41, a loro volta rimpiazzati nel 1935 dai CANT 25, poi CMASA
M.F.6, e per ultimi – dal 1937-1938 fino alla perdita delle unità – dagli IMAM
Ro. 43. Cosa frequente negli incrociatori italiani, ma insolita tra le altre
Marine, era la collocazione della catapulta per l’idrovolante (tipo Gagnotto) sul
ponte di prua, davanti alle torri prodiere da 203. Ciò avrebbe impedito di
catapultare l’idrovolante mentre si faceva fuoco – ma d’altra parte, gli
idrovolanti (adibiti a compiti di ricognizione e di assistenza del tiro) non si
catapultavano comunque durante le azioni di fuoco (anche perché ciò avrebbe
richiesto che la nave manovrasse per portarsi in posizione idonea per il
lancio, rispetto al vento), dunque questo non era un vero problema quanto
piuttosto una stranezza.
L’aviorimessa si trovava nello scafo,
subito a proravia della prima torre da 203 mm, e da essa un elevatore sollevava
gli idrovolanti sul ponte di castello.
Vista delle sovrastrutture prodiere dello Zara nei primi anni Trenta (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio
Brescia e www.associazione-venus.it)
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La maggior corazzatura comportò anche
un decremento nella velocità, rispetto ai velocissimi ma poco protetti Trento;
per ridurre il peso complessivo, si passò da un apparato propulsivo su quattro
turbine ad uno su due turbine (riprendendo una soluzione già adottata sugli
incrociatori leggeri classe Di Giussano), riducendo la potenza complessiva da
150.000 HP nominali dei Trento a 95.000 (il che consentì di ridurre il peso
dell’apparato motre dalle 2330 tonnellate dei Trento alle 1400 degli Zara). Le
turbine erano di tipo Parsons, alimentate da otto caldaie tipo Thornycroft che
producevano 650.000 kg di vapore surriscaldato alla pressione massima di
servizio di 25 kg/cmq, con 60°C di surriscaldamento. Il consumo di carburante
era di 53.906 kg all’ora. Due le eliche, di tipo Scaglia, a tre pale, cui le macchine
imprimevano 270 giri al minuto.
Per la prima volta su navi da guerra
italiane, le due motrici erano alloggiate in compartimenti diversi e
distanziati (una sul lato di dritta e più a proravia, l’altra sul lato sinistro
e più a poppavia), quali unità indipendenti, in modo che se uno dei due
compartimenti fosse stato colpito, almeno l’altra motrice sarebbe rimasta
funzionante. Per lo stesso motivo, anche le caldaie erano distribuite in più
locali separati: due a proravia della macchina prodiera, una a lato della
stessa, quattro a centro nave, tra le due macchine, ed una lateralmente alla
macchina poppiera. Complessivamente, andando da prua verso poppa si
incontravano dapprima la sala caldaie numero 1 (due caldaie), poi la sala
macchine numero 1 sul lato dritto affiancata alla sala caldaie numero 2 (una
caldaia) sul lato sinistro, poi le sale caldaie numero 3 e 4 (due caldaie
ciascuna) affiancate, poi la sala caldaie numero 5 (una caldaia) sul lato
dritto e la sala macchine numero 2 ad essa affiancata sul lato sinistro.
Lo Zara alle prove in
mare nel 1930; notare l’assenza delle torri da 203 (Sergio Del Santo, via www.associazione-venus.it)
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La velocità prevista dal contratto era
di 32 nodi; alle prove in mare la potenza sviluppata dall’apparato motore dello
Zara raggiunse i 120.690 (o 132.000) HP e la nave mantenne per un’ora una
velocità di 35,23 nodi (la più veloce tra le quattro unità della classe) ma,
come d’uso all’epoca nella Marina italiana, tali prove erano condotte in
condizioni inverosimili, con le navi ancora incomplete e dunque troppo leggere
(lo Zara condusse parte di tali prove
prima ancora che venisse installato l’armamento principale di otto cannoni da
203 mm, così avendo un dislocamento di sole 10.883-11.450 tonnellate) oltreché
forzando l’apparato motore per ottenere una maggiore potenza. Nella seconda
prova a mare, stavolta a pieno carico, la potenza e velocità massime raggiunte
scesero già, rispettivamente, a 106.060 HP e 33,2 nodi. L’effettiva velocità
raggiunta in condizioni operative fu di 30-32 nodi, come da contratto; entro il
1940-1941, l’inevitabile logorio di dieci anni di servizio aveva ridotto la velocità
mediamente raggiunta a 29 nodi. (Secondo una fonte, la potenza effettiva
dell’apparato motore era di 76.000 HP, ma poteva essere agevolmente spinta fino
a 95.000 HP, mantenendola per diverse ore, e poteva essere forzata a valori
ancora maggiori per brevi periodi; secondo un’altra, invece, l’apparato motore
eccedeva le specifiche richieste – 95.000 HP – di ben 23.000 HP, sviluppando
senza particolari forzature una potenza di 118.000 HP).
Con una scorta normale di 2150 (per
altra fonte 1450) tonnellate di nafta, che potevano essere portate fino a 2400
tonnellate a pieno carico, lo Zara
aveva un’autonomia di 5361 miglia a 16 nodi, 3390 a 25 nodi e 1817 o 1958 a 31
nodi. I tempi di approntamento al moto erano di sei ore con caldaie spente e
motrici non riscaldate, ridotte a quattro ore e mezza in condizioni di
emergenza e un’ora e cinquanta minuti in condizioni eccezionali e con motrici
permanentemente riscaldate.
Due centrali elettriche, dotate
ciascuna di tre turbodinamo Tosi da 180 kW, fornivano energia elettrica alla
nave; due impianti di distillazione potevano produrre venti tonnellate d’acqua
distillata al giorno, potabile o per le caldaie.
I servizi di bordo comprendevano
un’infermeria con dieci posti letto, un’officina meccanica, una lavanderia ed
un forno per il pane.
Vista del ponte di poppa dello Zara;
in primo piano uno dei cannoncini Vickers-Terni da 40/39 mm (dal libro “OTO
Melara 1905-2005” di Nicola Pignato, Achille Rastelli e Filippo Cappellano, Mattioli
Edizioni, 2006, via Franco Lena e www.naviearmatori.net)
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Sempre per ridurre il peso, i
proiettori (ve n’erano quattro, tipo Galilei da 105 cm) e la direzione del tiro
furono collocati su una struttura a tripode che poggiava parzialmente sulla
sovrastruttura prodiera, e lo scafo (anche per migliorare la tenuta al mare) ebbe
un castello di prua, a differenza dei Trento, che avevano invece ponte continuo
da prora a poppa (sugli Zara si era reso necessario abbassare di un livello il
ponte di coperta nella zona centro-poppiera). Il minore spazio richiesto dal
più contenuto apparato motore permise di accorciare le navi di 14 metri, 182,8
metri di lunghezza rispetto ai 196,9 metri dei Trento, e vennero del tutto
aboliti gli inutili tubi lanciasiluri. Anche il numero di idrovolanti da
ricognizione fu ridotto, due in luogo dei tre imbarcati sui Trento. La forte
riduzione del peso dello scafo (il 28 %) e dell’apparato motore (il 39 %)
consentì di aumentare il peso della corazzatura di parecchie centinaia di
tonnellate.
L’accorciamento rispetto ai Trento comportò
uno scafo più “tozzo”, meno fatto per le elevate velocità. La prua era dritta
sino al galleggiamento, con forma arcuata molto svasata fino al ponte di
castello e bulbo di prua piuttosto pronunciato, mentre la poppa era molto
arrotondata, con timone semicompensato (la superficie del timone era di 29,33
metri quadri, e l’angolo di virata era di 35°). Le navi dimostrarono buona
tenuta al mare; alle prove con mare forza 8 al traverso vennero registrati
sbandamenti di 25°, e con mare forza 6 al giardinetto sbandamenti di 20°.
Zara, Fiume e Gorizia avevano due accentuati “sgusci” nel castello, pensati per
incrementare il campo di tiro dei pezzi da 100 mm prodieri; il vantaggio che ne
derivava era però così contenuto che sul Pola
venne abbandonato.
Gli scafi erano costruiti in acciaio
ad alta resistenza, eccetto che nelle parti sottoposte ad alte vibrazioni, dove
c’era invece acciaio dolce Martin-Siemes; difatti nella loro vita non vennero
mai rilevati fenomeni di vibrazione, a differenza che sui Trento. Ciò a
conferma della robustezza della loro struttura.
Lo scafo era diviso in diciotto
compartimenti separati da paratie stagne, il che permetteva di proseguire la
navigazione con tre compartimenti adiacenti allagati. Per l’espulsione
dell’acqua imbarcata, erano disponibili elettropompe da 375 metri cubi all’ora,
nonché due turbopompe di eguale portata per i depositi munizioni 1 e 4. In caso
di sbandamento, era possibile effettuare operazioni di bilanciamento
trasversale, alzando le saracinesche che dividevano i depositi di acqua e di
nafta di dritta e sinistra. Limitatamente al ridotto corazzato, vi era una
tubolatura antincendio ad anello situata sotto il ponte protetto;
l’attrezzatura antincendio comprendeva anche una settantina di estintori a
tetracloruro ed una dozzina di estintori a schiuma. I depositi munizioni, in
caso di necessità, potevano essere completamente allagati in 15-20 minuti. In
camera ordini vi era una centrale per i servizi di sicurezza, di competenza del
comandante in seconda assistito dall’ufficiale del Genio Navale addetto allo
scafo.
Vi erano cinque stazioni di governo,
di cui una (la principale) nella torre corazzata, una nella plancia, una in
camera ordini, una nel locale girobussola di poppa ed una nel locale pompe
prodiero.
"Tenacemente" – il motto della R. N. Zara (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
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I costi di costruzione furono, per
l’epoca, enormi: 106.440.000 lire per scafo ed apparato motore, e 89.000.000
per l’armamento.
L’eccezionale protezione degli Zara,
purtroppo, a nulla valse nella tragica “battaglia” di Capo Matapan, dove queste
navi si trovarono sottoposte da ridottissima distanza ad una pioggia di
proiettili di grosso calibro che mai nessun incrociatore era stato pensato per
sostenere. Insieme alla statunitense Astoria ed alla britannica Cressy, la
classe Zara divenne così una delle poche classi di incrociatori nella storia a
perdere tre unità in un singolo scontro.
Durante il secondo conflitto mondiale
lo Zara svolse 9 missioni di guerra
(sei di ricerca del nemico e tre di scorta e protezione del traffico),
percorrendo 11.498 miglia e trascorrendo 584 ore in mare, sino alla sua
perdita.
Breve e parziale cronologia.
4 luglio 1929
Impostazione nel cantiere Odero Terni Orlando del
Muggiano (La Spezia) (numero di cantiere 219).
27 aprile 1930
Varo nel cantiere Odero Terni Orlando del Muggiano.
Madrina è Maria José di Savoia; per il varo si usa una bottiglia di “Riserva
Principe di Piemonte”.
Il
varo dello Zara (da www.lasegundaguerra.com)
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20 ottobre 1931
Entrata in servizio, al comando del capitano di
vascello Giuseppe Raineri Biscia. Seguono diversi mesi di addestramento.
5 giugno 1932
Lo Zara riceve la bandiera di combattimento, donata dalla città
omonima. La consegna avviene con una grandiosa cerimonia proprio a Zara,
celebrata dall’arcivescovo della città, monsignor Munzani; vi partecipa anche
Ferdinando di Savoia-Genova. Madrina della bandiera è Silvia De
Benvenuti-Ghiglianovich, e la bandiera (2,40 metri per 3,70) è portata a bordo
dell’incrociatore dai canottieri del Circolo Canottieri Diadora. Il
cacciatorpediniere Grado e quattro
torpediniere classe Generali presenziano alla cerimonia.
Lo Zara
nei primi anni ’30 (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)
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18 giugno 1932
Prove di lancio da
catapulta del nuovo idrovolante MF. 4. Il velivolo, prodotto da una controllata
della FIAT (MF sta per Marina FIAT), è stato progettato dall’ingegner Manlio
Stiavelli a seguito di un concorso indetto dalla Marina proprio per un progetto
di un idrovolante da ricognizione triposto e catapultabile di dimensioni
contenute, da imbarcare sugli incrociatori classe Zara. È un idrovolante
monoplano di costruzione interamente metallica, a scafo centrale e galleggianti
laterali, con ali ripiegabili.
Il prototipo, cui è
assegnata la sigla MM. 156, dopo i primi collaudi compie la prova di lancio con
la catapulta da bordo dello Zara,
ormeggiato nel porto di La Spezia; lo pilota il tenente Giovannozzi. Dopo la
buona riuscit del lancio, viene sperimentato anche il ricovero
nell’aviorimessa, di nuovo con esito positivo.
8-11 agosto 1932
Lo Zara partecipa alle manovre navali in Mediterraneo centrale, tra la
Libia e l’Italia meridionale. Vi partecipano tutti gli incrociatori pesanti in
servizio, e lo Zara dirige le
manovre.
Lo Zara a
Casablanca, il 24 luglio 1933 (Coll. Francesco Bucca, da www.associazione-venus.it)
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27 settembre 1933
Il comandante Raineri
Biscia viene sostituito dal capitano di vascello Luigi Spalice.
Lo Zara
all’ancora nel 1933 (foto Marius Bar, dal libro “Treaty Cruisers: The First
International Warship Building Competition”, di Leo Marriott, 2005)
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1933-1937
Per tre anni, lo Zara ricopre il ruolo di nave ammiraglia
della 1a Squadra Navale; lo perderà il 16 settembre 1937, con
il ritorno in servizio della corazzata Conte
di Cavour. In questo periodo partecipa intensamente alle attività delle
forze navali in Mediterraneo, facendo scalo, oltre che nelle varie basi navali
italiane, anche in Libia e Dodecaneso. In successione, lo Zara è nave di bandiera degli ammiragli di squadra Ernesto Burlagli
(1° settembre-31 ottobre 1933), Giuseppe Cantù (1° novembre 1933-30 aprile
1935), Umberto Bucci (1° maggio 1935-15 settembre 1937), tutti comandanti la 1a
Squadra Navale (Cantù anche la I Divisione Navale).
Lo Zara ed
il Trieste visti dal Pola (sul quale si trova imbarcato
Benito Mussolini) durante un’esercitazione di tiro al largo di Gaeta, nel
luglio 1933 (g.c. Carlo Di Nitto)
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29 giugno 1934
Lo Zara
presenzia, assieme ad unità della V Divisione e della 1a Squadra
Navale, alla cerimonia di consegna della bandiera di combattimento al gemello Pola, nell’omonima città istriana. Zara e Pola sparano salve coi cannoni, mentre la flotta viene sorvolata da
trenta idrovolanti del 30° Stormo da Bombardamento.
14 settembre 1934
Assume il comando dello Zara il capitano di vascello Enrico
Accorretti, al posto del comandante Spalice.
23 giugno 1934
Durante una crisi politica tra Italia ed Albania,
dopo che militari albanesi hanno sequestrato quattro MAS, una stazione
ricetrasmittente e le batterie costiere impiantante dalla Regia Marina a
Durazzo, la 1a Squadra
Navale (ventidue navi in tutto) lascia Taranto nelle prime ore e giunge nel
pomeriggio, senza preavviso, a Durazzo: una dimostrazione di forza volta ad
intimidire il governo albanese (anche se da parte italiana si afferma trattarsi
di una “visita amichevole” e che il mancato preavviso sia dovuto ad un disguido
nelle comunicazioni). L’arrivo delle navi italiane provoca notevole scompiglio
sia a Durazzo (dove la popolazione civile si dà alla fuga ed i militari si
concentrano nelle caserme preparandosi a contrastare un eventuale sbarco) sia
tra le autorità albanesi, che temono un’iniziativa militare italiana.
Nel pomeriggio del 25 giugno, dopo che le autorità
albanesi si sono dichiarate desiderose di «prendere in esame tutte le questioni
in sospeso» purché venga richiamata la squadra navale, ritenuta elemento di
minaccia, le navi italiane ripartono quasi tutte, lasciando a Durazzo solo il Fiume con una squadriglia di
cacciatorpediniere.
Lo
Zara a Taranto nel 1935 (dalla serie “Orizzonte
Mare” – Vol. 5, “Incrociatori pesanti classe Zara”, Edizioni dell’Ateneo &
Bizzarri, Roma 1977, via Marcello Risolo)
|
14 agosto 1935
Il comandante Accorretti
viene lascia il comando e viene rimpiazzato dal capitano di vascello Pellegrino
Matteucci.
Lo Zara a
Napoli nel 1935 (da www.lasegundaguerra.com)
|
26 novembre 1936
Partecipa ad una rivista navale svolta nel Golfo
di Napoli (al largo di Gaeta) in onore del reggente d’Ungheria, ammiraglio Miklos
Horthy. È proprio sullo Zara (nave
ammiraglia della 1a Squadra), anzi, che s’imbarca Horthy, insieme a
numerose personalità italiane: Vittorio Emanuele III, suo figlio Umberto,
Mussolini, il capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Domenico
Cavagnari, il maresciallo Pietro Badoglio, vari gerarchi tra cui Dino Alfieri,
Achille Storace e Galeazzo Ciano, il primo ministro ungherese Kálmán Darányi,
il ministro degli Esteri ungherese Kálmán de Kánya. Alla rivista navale
prendono parte in tutto 16 incrociatori, 25 cacciatorpediniere, 14 torpediniere
e 51 sommergibili.
Lo
Zara nel Golfo di Napoli il 26
novembre 1936, durante la rivista navale in onore di Horthy (Coll. Maurizio
Brescia, via www.associazione-venus.it)
|
1936
Partecipa alle operazioni connesse alla guerra
civile spagnola, scortando navi che trasportano rifornimenti per le forze
nazionaliste di Francisco Franco.
1937
I quattro cannoncini contraerei singoli da 40/39
mm Vickers Terni mod. 1915 vengono sostituiti con quattro mitragliere binate
Breda da 37/54 mm; vengono inoltre sbarcati due dei complessi binati da 100/47
mm (quelli poppieri, per fare spazio a due delle mitragliere binate da 37/54) e
le quattro mitragliere singole da 12,7/62 mm, sostituite da quattro binate da
13,2/76 mm.
7
giugno 1937
Partecipa ad una nuova rivista navale, in onore del
generale tedesco Werner von Blomberg.
27
settembre 1937
Il capitano di vascello Matteucci viene rilevato
dal parigrado Emilio Ferreri.
Lo Zara a Napoli, probabilmente intorno al 1935. In secondo piano una fila di cacciatorpediniere francesi (Istituto Luce) |
14 dicembre 1937
Lo Zara (capitano di vascello Ferreri) salpa da Napoli con a bordo il
duca Amedeo di Savoia-Aosta, nominato nuovo vicerè dell’Africa Orientale
Italiana ed in partenza per l’Eritrea. Insieme al duca, viaggiano sullo Zara anche il vice governatore generale Enrico Cerulli, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Cobolli
Gigli, il generale di brigata Giovanni Battista Volpini (aiutante di campo del
duca). La navigazione, nel primo tratto, è molto difficile, con mare forza nove
(il capitano Malvezzi, membro del seguito del duca, ed un ufficiale dello Zara vengono travolti e feriti da un’ondata,
ed i cacciatorpediniere sono costretti a ridossarsi temporaneamente sottocosta);
quattro cacciatorpediniere scortano lo Zara
fino all’imbocco del Canale di Suez, ed altri quattro, inviati da Massaua, ne
assumono la scorta quando entra in Mar Rosso, scortandolo fino a Massaua ed
intanto eseguendo esercitazioni di manovra.
22 dicembre 1937
Lo Zara sbarca a Massaua il duca d’Aosta ed
il suo seguito.
Lo Zara
nel 1938 (dalla serie “Orizzonte Mare” – Vol. 5,
“Incrociatori pesanti classe Zara”, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma
1977, via Marcello Risolo)
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5 maggio 1938
Partecipa alla rivista navale «H»
tenuta nel Golfo di Napoli per la visita in Italia di Adolf Hitler, effettuando
esercitazioni di tiro insieme al Fiume (nave di bandiera dell’ammiraglio di
divisione Angelo Iachino, il futuro comandante della formazione italiana a Capo
Matapan), mentre Hitler e Mussolini osservano dalla corazzata Conte di Cavour. 161 navi
partecipano complessivamente alla rivista navale; Zara e Fiume sparano
contro la nave bersaglio San Marco.
Le quattro unità della classe Zara ormeggiate a Napoli per la
rivista “H” (Archivio Luce)
|
Una serie di immagini a colori dello Zara, scattate dal fotografo tedesco Hugo Jaeger durante la Rivista
«H» (archivio rivista “Life”):
1° settembre 1938
Lo Zara diviene nave di bandiera dell’ammiraglio
di divisione Alberto Marenco di Moriondo, comandante della I Divisione Navale
(facente parte della 1a Squadra
Navale), che forma insieme a Fiume e Gorizia. Solitamente il Pola è distaccato dalla Divisione, adibito
a nave ammiraglia del comandante della Squadra Navale. Lo Zara manterrà il ruolo di ammiraglia della I Divisione fino al 15
novembre 1938, poi tale ruolo passerà al Fiume
per più di un anno.
Lo
Zara a Genova il 30 maggio 1938 (g.c.
Giorgio Parodi)
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26 ottobre 1938
Assume il comando dello Zara, al posto di Ferreri, il capitano
di vascello Antonio Muffone.
Lo Zara a Palermo nel
1938, con un incrociatore della stessa classe in secondo piano (g.c. Yevgeniy
Zelikov)
|
6-7 aprile 1939
Partecipa alle operazioni di
occupazione dell’Albania, assegnato al II Gruppo Navale, quello principale,
incaricato dello sbarco a Durazzo: oltre allo Zara,
lo compongono i gemelli Fiume, Pola e Gorizia
(in questo periodo è comandante
della I Divisione l’ammiraglio Ettore Sportello), i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti e Giosuè
Carducci, le torpediniere Lupo, Lince, Libra e Lira,
la nave appoggio idrovolanti Giuseppe
Miraglia – carica di carri
armati –, la nave officina Quarnaro,
le cisterne militari Tirso ed Adige ed i mercantili requisiti Adriatico, Argentario, Barletta, Palatino, Toscana e Valsavoia.
Il II Gruppo (ammiraglio di divisione
Sportello; truppe da sbarco al comando del generale Alfredo Guzzoni, comandante
del corpo di spedizione in Albania ed imbarcato sul Fiume con tutto il suo Stato Maggiore) deve
sbarcare il grosso delle forze, incaricate di conquistare Tirana. Durante
l’operazione, lo Zara lancia anche il
proprio idrovolante da ricognizione.
Le navi da guerra giungono a Durazzo
già nel pomeriggio del 6 aprile (e la torpediniera Lupo, prima di ricongiungersi
alle altre unità, raggiunge il molo per recuperare il personale militare e
diplomatico italiano), mentre quelle mercantili ed ausiliarie (ossia le navi
con le truppe ed i materiali da sbarcare) solo alle 4.50 del 7, con mezz’ora di
ritardo a causa della nebbia incontrata. Alle 5.25, dopo che il generale
Guzzoni ha constatato che non vi sono delegati albanesi che intendano
parlamentare, ha inizio lo sbarco, che procede pur con qualche inconveniente
(ordini di precedenza non rispettati per il ritardo di alcuni trasporti,
impossibilità per alcuni di essi di entrare in porto a causa dell’eccessivo
pescaggio).
Le prime truppe a prendere terra sono
i distaccamenti da spiaggia e le compagnie da sbarco delle navi da guerra, tra
cui quella del Fiume: a
dispetto della calma apparente (la città è illuminata), non appena i militari
italiani scendono sui moli divengono il bersaglio di violento tiro di fucili e
mitragliatrici appostate tra i vicini edifici portuali; sarà l’intervento delle
artiglierie delle navi a risolvere la situazione in favore delle truppe
italiane, che occuperanno la città entro le nove del mattino. Quella vista a
Durazzo è stata la più intensa resistenza opposta dalle truppe albanesi allo
sbarco italiano.
11 maggio 1939
Partecipa all’ultima rivista navale
italiana in tempo di pace, in onore del principe reggente di Jugoslavia, sempre
al largo di Napoli.
1940
Assume il comando dello Zara il capitano di vascello Corso
Pecori Giraldi.
13 gennaio 1940
Lo Zara
torna al suo ruolo di nave ammiraglia della I Divisione, questa volta alzando
l’insegna dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci, già suo comandante in passato.
1° marzo 1940
Assume il comando della nave il
capitano di vascello Luigi Corsi: sarà l’ultimo comandante dello Zara.
Salva
eseguita dalle torri prodiere dello Zara
(da www.modelmakersclub.forumfree.it)
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10 giugno 1940
All’entrata dell’Italia nella seconda
guerra mondiale, lo Zara forma
insieme ai gemelli Fiume e Gorizia la I Divisione Navale, inquadrata
nella 1a Squadra
Navale di base a Taranto; comandante della Divisione è l’ammiraglio di
divisione Ettore Sportiello, con insegna sul Fiume.
Alla I Divisione è assegnata la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio
Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci).
Poco tempo dopo, col passaggio di
consegne dall’ammiraglio Sportiello al parigrado Pellegrino Matteucci, la sede
del comando di Divisione passerà sullo Zara.
12 giugno 1940
Lo Zara,
insieme al resto della I Divisione Navale (Fiume e Gorizia), alla VIII Divisione
Navale (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), alla IX
Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci)
ed alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno ed Antoniotto
Usodimare), salpa da Taranto alle 00.20 in appoggio alla formazione navale
(incrociatore pesante Pola,
III Divisione Navale, XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita da
Messina per intercettare due incrociatori britannici (il Caledon ed il Calypso) avvistati da dei
ricognitori a sud di Creta, diretti verso ovest (gran parte della Mediterranean
Fleet, al pari di una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a
caccia, infruttuosa, di naviglio italiano). Alle 9, dato che nuovi voli di
ricognizione non sono più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le unità
italiane ricevono ordine di tornare in porto. Tra le 12.35 e le 16.40 la I
Divisione viene mancata da dei siluri, probabilmente lanciati dal sommergibile
britannico Odin (capitano di corvetta Kenneth Maciver Woods).
Durante la navigazione di ritorno nel
Mar Ionio, il 13 giugno, si verificano ben cinque infruttuosi attacchi
subacquei contro gli incrociatori della I e della VIII Divisione: i
cacciatorpediniere della scorta contrattaccano, ed il 14 il sommergibile
britannico Odin , che aveva infruttuosamente tentato
di attaccare Fiume e Gorizia nel Golfo di Taranto, viene affondato
con tutto l’equipaggio dai cacciatorpediniere Baleno e Strale nel punto 39º30' N e 17º30' E (17 miglia ad est-nord-est
di Punta Alice).
Foto aerea dello Zara
con l’equipaggio schierato, nel 1937 (USMM).
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22-24 giugno 1940
La I Divisione (Zara, Fiume, Gorizia), insieme alle
Divisioni incrociatori II (Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo
Colleoni) e III (Trento e Bolzano), al Pola (nave ammiraglia del comandante
superiore in mare) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, X e XII (cioè
tutta la II Squadra Navale, più la I Divisione), prende il mare per fornire
copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere,
inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel
Mediterraneo occidentale. Le forze della II Squadra, partite da Messina (Pola e III Divisione), Augusta (I
Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21 ed il 22) e Palermo (II
Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto dello stesso giorno a nord
di Palermo. L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.
Durante questa missione si trova a
bordo dello Zara, imbarcato (dal 21
giugno) come corrispondente di guerra, il giornalista Vero Roberti.
2 luglio 1940
La I Divisione (Zara, Fiume e Gorizia),
gli incrociatori leggeri Giovanni
delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni e la IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci) e X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco)
forniscono scorta indiretta ai trasporti truppe Esperia e Victoria,
di ritorno vuoti da Tripoli a Napoli con la scorta diretta delle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso.
Il convoglio giungerà indenne a Napoli il 4 luglio.
Lo Zara spara con le
torri prodiere (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)
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7-11 luglio 1940
Lo Zara
(nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Pellegrino Matteucci, comandante
la I Divisione) prende il mare insieme al resto della I Divisione (Fiume e Gorizia)
e della II Squadra Navale (incrociatore pesante Pola con a bordo l’ammiraglio di
squadra Riccardo Paladini, I, III e VII Divisione incrociatori con nove unità
in tutto e IX, XI, XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, da Augusta,
Messina e Palermo; la I Divisione è stata trasferita dalla I Squadra alla II
Squadra appositamente per l’operazione) per scortare a distanza un convoglio
diretto a Bengasi (motonavi da carico Marco
Foscarini, Francesco
Barbaro e Vettor Pisani, motonavi
passeggeri Esperia e Calitea,
con la scorta diretta dei due incrociatori leggeri della II Divisione, dei
quattro cacciatorpediniere della X Squadriglia, delle quattro torpediniere della
IV Squadriglia e delle vecchie torpediniere Rosolino
Pilo e Giuseppe Missori) con un carico
di 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari e 5720 tonnellate di
carburante, oltre a 2190 uomini. La I Squadra Navale (V Divisione con le
corazzate Giulio Cesare e Conte
di Cavour, IV e VIII Divisione con sei incrociatori leggeri, VII, VIII, XV
e XVI Squadriglia Cacciatorpediniere con 13 unità) esce anch’essa in mare a
sostegno dell’operazione. Le unità della I e della II Squadra (ammiraglio Inigo
Campioni, comandante superiore in mare) salpano tra le 12.30 e le 18 del 7
luglio da Augusta (Pola, I e II Divisione), Messina (III Divisione),
Palermo (VII Divisione) e Taranto (IV, V e VIII Divisione).
La II Squadra si pone 35 miglia ad est del
convoglio, tranne la VII Divisione con la XIII Squadriglia, che viene invece
posizionata 45 miglia
ad ovest.
L’operazione va a buon fine, ma alle
14.30 ed alle 15.20 dell’8 luglio, a seguito dell’avvistamento di una
formazione britannica – anche la Mediterranean Fleet, infatti, è in mare (con
le corazzate Warspite, Malaya e Royal
Sovereign, la portaerei Eagle,
cinque incrociatori leggeri e 17 cacciatorpediniere) a protezione di due
convogli da Malta ad Alessandria (operazione «MA 5») – prima la II e poi la I
Squadra Navale dirigono verso nord-nordovest per intercettare le navi nemiche
(che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in
combattimento almeno un’ora prima del tramonto.
Alle 19.20, però, in seguito ad ordini
di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a differenza
dell’ammiraglio Campioni – comandante superiore in mare – ha avuto modo di
apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità dei
movimenti britannici) la flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle
basi, con l’ordine di non impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi
vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con
intenso tiro contraereo. La navigazione notturna di rientro si svolge senza
grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi siluranti contro la III
Divisione; la II Squadra (eccetto la VII Divisione, che è ancora separata da
essa) accosta verso nord all’1.23.
Già dalle 22 dell’8, però, sono
arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet intenda
lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina alle
forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a sudest di
Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio. Alle 6.40 del 9 luglio la III Divisione
si ricongiunge con Pola e I Divisione, alle 8 viene avvistato
un idroricognitore Short Sunderland che pedina il gruppo di Campioni (la caccia
italiana, chiamata ad intervenire, non verrà però inviata ad attaccarlo); alle
9.30 anche l’ammiraglio Paladini riferisce che le sue navi sono seguite a
distanza da un Sunderland (che a sua volta le ha già avvistate e segnalate
all’ammiraglio Cunningham da due ore).
Alle 13.15, 45 miglia ad est-sud-est
di Capo Spartivento, nove aerosiluranti Fairey Swordfish attaccano le navi
della II Squadra: durante l’attacco, che dura undici minuti, tre aerei vengono
danneggiati dal tiro contraereo delle navi italiane, che evitano tutti i siluri
(uno diretto contro lo Zara stesso, e due ciascuno contro gli
incrociatori pesanti Trento e Bolzano della III Divisione). La I e la II
Squadra si uniscono e si dispongono su quattro colonne, distanziate di cinque
miglia l’una dall’altra: la I Divisione, insieme alla III ed alle Squadriglie
Cacciatorpediniere XI e XII, va a formare la seconda colonna da ovest (la prima
è costituita dalla VII Divisione, la terza dalla V Divisione – rispetto alla
quale la colonna con la I Divisione si trova 3 miglia ad ovest – e la
quarta dalle Divisioni IV e VIII).
Tra le 13.15 e le 13.26 il gruppo «Pola»,
di cui la I Divisione fa parte, mentre si trova a poppa dritta della Cesare e con rotta 183° (mentre manovra per
assumere la propria posizione nella formazione ordinata da Campioni), viene
attaccata da nove aerosiluranti Fairey Swordfish che, provenendo da ovest
(sinistra; sono decollati dalla Eagle alle 11.45), si avvicinano a poppavia
agli incrociatori (i cacciatorpediniere, infatti, sono a proravia degli
stessi), scendono in picchiata fino a 20-30 metri e sganciano i
loro siluri da circa mille metri. Gli incrociatori si diradano, compiono
manovre evasive ed aprono subito un violento fuoco contraereo; lo Zara è una delle navi più prese di mira,
insieme a Fiume, Pola e Trento, ma nessuna unità viene
colpita. Gli aerei si allontanano, qualcuno con danni leggeri.
Lo Zara
catapulta il proprio idrovolante MM.27036 per ricognizione antisommergibile.
Alle 14.05 ha inizio
l’avvicinamento alla flotta britannica: alle 14.47 quest’ultima avvisa i fumi
delle navi italiane, che a loro volta avvistano il nemico alle 15.05. Alle
15.15-15.20 gli incrociatori aprono il fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle
corazzate (che al contempo accostano a un tempo di 60° a dritta e così si
spostano ad est/nordest insieme agli incrociatori pesanti per supportare gli
incrociatori leggeri, i primi ad essere impegnati in combattimento; entro le
15.40 i sei incrociatori pesanti della II Squadra si sono portati 6860 metri a proravia
della corazzata Cesare,
nave ammiraglia di Campioni).
Incrociatori e corazzate cessano poi
il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per poi riprenderlo dalle
15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15 (incrociatori). Nella
seconda fase, la II Squadra manovra per avvicinarsi alle unità avversarie (su
ordine dell’ammiraglio Campioni, che alle 15.53 ha ordinato al
gruppo «Pola» di portarsi su rilevamento 40° per avvicinare gli incrociatori
alle corazzate nemiche abbastanza da poter usare i cannoni da 203), e tra le
15.50 e le 16 i suoi incrociatori pesanti, su ordine dell’ammiraglio Paladini,
aprono il fuoco da 20.000-25.000
metri contro gli incrociatori leggeri britannici del
viceammiraglio John Tovey (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool e Gloucester),
che rispondono al fuoco con granata perforante e tiro raccolto ma poco
efficace. Lo Zara apre il fuoco alle
16, insieme al Bolzano (qualche
secondo prima) ed al Pola (qualche
secondo dopo), preceduto di alcuni minuti da Trento e Fiume e seguito
di un minuto dal Gorizia.
Alle 15.59, però, la Cesare, la nave ammiraglia,
viene danneggiata da un proiettile da 381 mm , dovendo ridurre la velocità. A seguito
di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in mare
delle forze italiane, decide di rompere il contatto per rientrare alle basi, ed
alle 16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie di cacciatorpediniere di
attaccare con il siluro le navi della Mediterranean Fleet, in modo da
facilitare lo sganciamento delle navi maggiori.
Alle 16.03 (o 16.06) anche la II
Squadra di Paladini, che sta riducendo le distanze con gli incrociatori di
Tovey (che da parte loro stanno pericolosamente consumando le proprie già
esigue riserve di munizioni) riceve da Campioni l’ordine di ritirarsi, ma
Paladini fa proseguire il tiro alle sue navi (il Bolzano viene colpito due volte ma senza
riportare danni gravi) finché i bersagli sono visibili. Via via che il fumo
s’infittisce e nasconde le navi di Tovey, gli incrociatori pesanti della II
Squadra cessano il fuoco: lo Zara è
il penultimo a cessare il fuoco, alle 16.16 (per una fonte ingaggia la Warspite dalle 16.12 alle 16.17,
attraverso un “varco” nel fumo). Le sue prime tre salve sono state sparate
contro gli incrociatori leggeri britannici, le ultime sei contro le corazzate
britanniche.
Intanto, dalle 16.03 e cioè da quando
la danneggiata Cesare ha comunicato «la mia rotta è 270° –
la mia velocità 20 nodi», Paladini ha ordinato ai suoi incrociatori di
accostare di 140° sulla sinistra, mentre viene stesa una cortina nebbiogena.
Gli incrociatori di Tovey, la cui azione è ostacolata negli ultimi minuti dai
cacciatorpediniere mandati all’attacco silurante, cessano il fuoco alle 16.15,
quando le distanze con quelli italiani sono scese a 18.000-21.000 metri . Si
registra anche il breve intervento della Warspite,
che alle 16.09 tira sei salve contro le navi di Paladini.
Terminata la battaglia, la flotta
italiana si avvia alle proprie basi con direttrice di marcia 230°, passando a
sud della Calabria; ma durante il rientro, tra le 16.20 e le 19.30, diviene
oggetto anche dell'attacco da parte degli stessi bombardieri della Regia
Aeronautica (una cinquantina, su circa 126 inviati in totale ad attaccare le
forze britanniche), che le attaccano e bombardano pesantemente per errore di
identificazione e malintesi (tra il comando delle due Squadre Navali e quello
della II Squadra Aerea, cui appartengono i bombardieri) circa la posizione
della flotta italiana e di quella britannica. Le insensate disposizioni vigenti
in materia di comunicazioni tra Marina ed Aeronautica, che non contemplano la
possibilità di comunicazioni dirette tra navi e aerei, impediranno alle prime
di segnalare ai secondi l'errore; le stesse navi, non potendo distinguere la
nazionalità degli aerei attaccanti, apriranno un intenso fuoco con proprie armi
contraeree (così farà anche lo Zara,
che risponderà al fuoco col tiro di pezzi da 100/47 e mitragliere, pressoché
per l’intera durata degli attacchi aerei), rafforzando nei piloti l'impressione
di stare attaccando navi nemiche. Alcune delle navi ed alcuni degli aerei,
rispettivamente, cesseranno il fuoco e rinunceranno all'attacco riconoscendo
all'ultimo momento la vera nazionalità del "nemico", ma alla fine gli
attacchi ai danni delle navi italiane eguaglieranno, in intensità, quelli
condotti contemporaneamente contro la vera Mediterranean Fleet. Nessuna nave italiana
sarà, fortunatamente, colpita, mentre un bombardiere Savoia Marchetti S. 79
della 257a Squadriglia
(XXXVI Stormo da Bombardamento Terrestre) finirà abbattuto dal "fuoco
amico" delle navi. L’ammiraglio Campioni, per tentare di chiarire
equivoco, ordina di stendere bandiere italiane sul cielo delle torri e di
emettere fumo rosso dai fumaioli poppieri, pratica convenzionale, nelle
esercitazioni in tempo di pace, per segnalare il gruppo “amico”.
L'incidente sarà poi fonte di aspre
polemiche tra Marina e Aeronautica, ma per lo meno servirà a dare l'impulso ad
un migliore sviluppo della collaborazione aeronavale, che però raggiungerà
risultati soddisfacenti solo nel 1942.
L’aliquota più consistente delle unità
italiane, compreso lo Zara, dirige su
Augusta: nel pomeriggio del 9 luglio, oltre ad esso, la corazzata Conte di Cavour, gli
incrociatori pesanti Pola, Fiume e Gorizia, gli incrociatori
leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi ed i 36
cacciatorpediniere delle Squadriglie VII, VIII, IX, XI, XIV, XV e XVI fanno il
loro ingresso nella base siciliana. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito
dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che fanno
presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato
ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo
essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di
assegnazione (Napoli e Taranto). Zara, Fiume, Pola e Gorizia,
insieme alla Cavour ed alle Squadriglie
Cacciatorpediniere VII, VIII e IX, partono per primi, alle 00.55 del 10 luglio,
alla volta di Napoli.
Una serie di immagini dello Zara
durante la battaglia di Punta Stilo:
Inquadrato da salve britanniche (Danilo Bondoni, da www.icsm.it)
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Come sopra (Danilo Bondoni, da www.icsm.it)
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Insieme ai gemelli ed agli altri incrociatori pesanti (g.c.
Giorgio Parodi)
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Zara, Fiume e Gorizia il 9 luglio 1940 (g.c. STORIA
militare)
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Zara, Gorizia e Fiume il 9 luglio 1940 (g.c. Giorgio
Parodi)
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Lo Zara sotto
bombardamento a Punta Stilo (da www.lasegundaguerra.com)
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Lo Zara spara durante la
manovra di sganciamento a Punta Stilo (g.c. STORIA militare)
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30 luglio-1° agosto 1940
Lo Zara
fornisce scorta a distanza, assieme alle unità gemelle, all’incrociatore
pesante Trento, agli incrociatori
leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio
Attendolo ed alla IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XII (Lanciere, Corazziere, Ascari, Carabiniere), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino) e XV (Antonio Pigafetta, Lanzerotto Malocello, Nicolò Zeno) Squadriglia
Cacciatorpediniere, a due convogli diretti in Libia (partiti da Napoli e
diretti l’uno a Tripoli e l’altro a Bengasi) e comprensivi in tutto di dieci
trasporti (Maria Eugenia, Gloria
Stella, Mauly, Bainsizza, Col di Lana, Francesco Barbaro, Città di Bari, Marco Polo, Città di Napoli e Città
di Palermo), quattro cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco)
e dodici torpediniere (Orsa, Procione, Orione, Pegaso, Circe, Climene, Clio, Centauro, Airone, Alcione, Aretusa ed Ariel).
L’operazione è denominata «Trasporto Veloce Lento». Entrambi i convogli
raggiungono senza danni le loro destinazioni tra il 31 luglio ed il 1° agosto.
Estate 1940
Vengono imbarcati due obici
illuminanti OTO 1934 da 120/15 mm (riserva di 240 proiettili), sistemati ai
lati del torrione, a poppavia della torre n.2. Installate anche altre otto
mitragliere pesanti Breda da 37/54 mm.
Lo Zara alla fonda (foto
Ernesto Burzagli, Coll. privata Emiliano Burzagli, via it.wikipedia.org)
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31 agosto-2 settembre 1940
La I Divisione (con Zara, Pola, Fiume e Gorizia)
parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio, nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra
Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione (corazzate Duilio, Conte
di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi solo
il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia),
all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli
Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed ad alle Squadriglie
Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), XV (Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno, Antoniotto Usodimare).
Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e
Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III (Trento, Trieste e Bolzano,
da Messina), VII (Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli, Muzio Attendolo, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, da Brindisi) e
VIII Divisione e 39 cacciatorpediniere (oltre a quelli già menzionati, anche Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci della IX Squadriglia, Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia
Nera della XI Squadriglia, Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere della XII Squadriglia). Obiettivo,
contrastare l’operazione britannica «Hats» (consistente in varie
sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad Alessandria, per rinforzare la
Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant,
della portaerei Illustrious e degli incrociatori Calcutta e Coventry;
invio di un convoglio da Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said;
bombardamenti su basi italiane in Sardegna e nell’Egeo): Supermarina ha infatti
saputo che sia la Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da
Gibilterra) sono uscite in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per
attaccare la prima con le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la
seconda con aerei e sommergibili.
Le due Squadre Navali italiane (la I
Squadra è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e dalle Squadriglie
Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la II Squadra dal Pola, dalle Divisioni I e III e
dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII), riunite, dirigono per lo
Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono però uscite in mare troppo
tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro notturno ed hanno una velocità
troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di cambiare rotta e raggiungere il
centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in contatto con il
grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle forze italiane di
intercettare quelle britanniche; alle 16 Supermarina ordina un cambiamento di
rotta, che impedisce alla II Squadra, che si trova in posizione più avanzata
della I, di proseguire verso le forze nemiche (l’ammiraglio Iachino, comandante
la II Squadra, ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per
dirigere contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120 miglia di distanza,
ma alle 16.50 tale autorizzazione viene annullata; comunque la II Squadra
non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie). Alle 17.27
la II Squadra riceve l’ordine d’invertire la rotta ed assumere rotta 335° e
velocità 20 nodi, come la I Squadra.
Alle 22.30 del 31 la formazione
italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le forze nemiche
lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante, dunque deve
cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto
con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la
congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già
in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da
nordovest forza 9; le forze italiane si allontanano nuovamente dal Golfo di
Taranto per cercare di nuovo quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con l’ordine
di non oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene
lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la burrasca
costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere
non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative
(non potendo restare in formazione né usare l’armamento). Poco dopo la
mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi;
tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture)
dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare. Le navi verranno
tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma non si
concretizzerà alcuna nuova occasione. L’idrovolante da ricognizione dello Zara, gravemente danneggiato dalle onde,
dev’essere sbarcato.
Lo Zara a Taranto nel
1941.
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29 settembre-2 ottobre 1940
Alle 18.05 del 29 settembre escono in
mare da Taranto il Pola,
la I Divisione con Zara, Fiume e Gorizia e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere
(Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci) più l’Ascari della XII Squadriglia, seguiti alle
19.30 dalle Divisioni V (corazzate Giulio
Cesare e Conte di Cavour), VI (corazzata Duilio), VII (incrociatori
leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, da Brindisi),
VIII (incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi)
e IX (corazzate Littorio e Vittorio
Veneto) e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino), XV (Da Mosto, Da Verrazzano) e XVI (Pessagno, Usodimare), per contrastare
un’operazione britannica in corso, la «MB. 5» (invio a Malta degli incrociatori Liverpool e Gloucester con 1200 uomini e rifornimenti, invio
da Porto Said al Pireo del convoglio «AN. 4», il tutto con l’uscita in mare
delle corazzate Valiant e Warspite,
della portaerei Illustrious, degli incrociatori York, Orion e Sydney e di undici cacciatorpediniere a
copertura dell’operazione). Al contempo da Messina prende il mare la III
Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) assieme ai quattro
cacciatorpediniere della XI Squadriglia (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia
Nera). La formazione uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18
nodi, riunendosi con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre,
mentre si accorge di essere tallonata da ricognitori britannici. In mancanza di
elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della
Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da
Scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso
sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a
contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta
alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle
10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37°
parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca,
la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1°
ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova
uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute
ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno
l’ordine di spegnere le caldaie.
6 ottobre 1940
Lo Zara
salpa da Taranto in mattinata insieme al resto della I Divisione (Fiume e Gorizia), al Pola (nave di bandiera della II Squadra
Navale) ed alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci),
in appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero
delle due veloci e moderne motonavi Calitea e Sebastiano
Venier, cariche di rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e
scortate dalla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari, Lanciere, Corazziere e Carabiniere).
L’operazione (il convoglio è partito la sera del 5, mentre il 6 mattino, oltre
al gruppo cui appartiene il Fiume,
sono salpate da Messina anche la III Divisione con Trento, Trieste e Bolzano e la XI Squadriglia Cacciatorpediniere
con Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia
Nera) viene però interrotta il mattino stesso del 6 ottobre, dopo che la
ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate, due incrociatori e
sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta Alessandria-Caso, ossia dove
dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso. Tutte le unità italiane
vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà più.
11-12 novembre 1940
Zara, Fiume e Gorizia (quest’ultimo è quello ormeggiato più
a sud, mentre lo Zara è a nordest del Gorizia ed il Fiume più a nord dello Zara) sono presenti a Taranto
(ormeggiati a nordest del centro del Mar Grande, a sud del porto commerciale,
protetti su tre lati – sudest, nordovest e sudovest – da un recinto di reti
parasiluri) durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (“notte di Taranto”). Le unità della I
Divisione non subiscono danni; tutte e tre aprono un intenso fuori contraereo,
specie contro gli aerei della seconda ondata (quando uno di essi, pilotato dal
sottotenente di vascello Lea – che poco dopo silura la Duilio –, passa tra Zara
e Fiume, i due incrociatori quasi
sparano l’uno contro l’altro nel tentativo di abbatterlo), verso le 23.55, ed
il Gorizia ne abbatte uno.
Proprio per la mattina del 12
novembre, era prevista l’uscita in mare per un bombardamento della baia di Suda
(Creta) da parte della I Divisione, con l’appoggio del resto della Squadra
Navale: per ovvi motivi, tale missione non avrà mai luogo.
Tra le 14.30 e le 16.45 del 12
novembre la I Divisione, insieme al Pola ed alla IX e XI Squadriglia
Cacciatorpediniere, lascia Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere
Napoli, dove Fiume, Pola e Gorizia arriveranno il pomeriggio successivo.
Lo Zara prosegue invece per La Spezia, dove
subirà un periodo di lavori. Non parteciperà così alla battaglia di Capo
Teulada; per tale periodo il Comando della I Divisione sarà temporaneamente
trasferito sul Fiume.
10 dicembre 1940
A seguito di mutamenti
nell’organizzazione delle forze navali, conseguenti alla messa fuori uso, nella
notte di Taranto, di tre corazzate, le due Squadre Navali vengono sciolte e
riunite in un’unica Squadra; così anche il Pola,
lasciato il ruolo di nave comando Squadra, entra a far parte della I Divisione
assieme a Zara, Fiume e Gorizia.
La Squadriglia Cacciatorpediniere assegnata alla I Divisione resta sempre la IX
(Vittorio Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) cui si unisce
temporaneamente anche la XI (Aviere, Geniere e Camicia
Nera). La I Divisione è posta al comando dell’ammiraglio di divisione Carlo
Cattaneo, con insegna sullo Zara (frattanto tornato in servizio), che
sostituisce ufficialmente l’ammiraglio Matteucci il 13 dicembre.
Lo Zara (g.c. Mauro
Millefiorini via www.naviearmatori.net)
|
15 dicembre 1940
Intorno alle 17 lo Zara, il Gorizia, la IX Squadriglia, le Squadriglie Cacciatorpediniere VII e
XIII e le corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto lasciano Napoli
diretti a La Maddalena, dove le navi sono state temporaneamente trasferite per
sottrarle ad altri attacchi aerei britannici dopo che, nelle settimane
precedenti, vari bombardamenti sulla base partenopea hanno causato diversi
danni (tra cui, la notte precedente, il grave danneggiamento del Pola). Le unità rimangono a La
Maddalena, porto non molto più al sicuro di Napoli dagli attacchi aerei, solo
per i pochi giorni necessari all’approntamento a Napoli di adeguate
contromisure contro i bombardamenti (tra cui impianti per l’annebbiamento del
porto).
16 dicembre 1940
Assume il comando della I Divisione
l’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, del quale è nave ammiraglia lo Zara.
20 dicembre 1940
Le navi rientrano a Napoli.
22 dicembre 1940
Per decongestionare il porto di
Napoli, Zara, Gorizia e la IX Squadriglia lasciano Napoli per Taranto.
23 dicembre 1940
Le navi giungono a Taranto,
ormeggiandosi in Mar Piccolo.
11-17 marzo 1941
Partecipa a manovre navali insieme a Pola e Fiume, al largo di Taranto.
Capo Matapan
Alle 23 del 26 marzo 1941 lo Zara, al comando del capitano di
vascello Luigi Corsi e con a bordo l’ammiraglio Cattaneo, salpò da Taranto
insieme al resto della I Divisione ed alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci;
caposquadriglia il capitano di vascello Salvatore Toscano dell’Alfieri)
per raggiungere un punto di riunione situato circa 55 miglia a sudest di
Capo Spartivento Calabro. Contemporaneamente presero il mare anche la corazzata Vittorio Veneto, scortata dalla
X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco,
poi sostituiti da Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia), da Napoli, la
III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) con la XII Squadriglia
(Ascari, Corazziere, Carabiniere) da Messina e la
VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) con la XVI
Squadriglia (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno) da Brindisi. Comandante della squadra italiana era l’ammiraglio
di squadra Angelo Iachino, imbarcato sulla Vittorio
Veneto.
Iniziava così l’operazione «Gaudo»,
un’incursione contro il traffico britannico nel Mediterraneo orientale, a nord
di Creta. Dopo la riunione 55
miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro, la flotta
italiana avrebbe dovuto dirigere verso la Libia per trarre in inganno eventuali
ricognitori britannici, finché, giunta in un punto prestabilito al largo di
Capo Passero, si sarebbe nuovamente divisa nei due gruppi che avrebbero poi
diretto verso i rispettivi obiettivi.
La I e la VIII Divisione (insieme ai
sei cacciatorpediniere della IX e XVI Squadriglia), riunite sotto il comando
dell’ammiraglio Cattaneo, dovevano portarsi a nord di Creta, passando tra
Cerigotto e Capo Spada, poi proseguire sino a giungere a 30 miglia a sud di
Stampalia per la loro puntata offensiva; la Vittorio
Veneto e la III Divisione,
insieme alla XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (sette unità), avrebbero
invece dovuto raggiungere le acque di Gaudo, a sud di Creta, per compiervi una
scorreria. Entrambi i gruppi erano incaricati di attaccare i convogli
britannici in navigazione tra la Grecia e l’Egitto (nell’ambito dell’operazione
britannica «Lustre»), se in condizioni di superiorità, per poi fare rapidamente
alle basi ritorno dopo aver inflitto il maggior danno possibile. Qualora
fossero state avvistate da superiori forze avversarie prima di arrivare nelle
acque di Creta, le navi italiane avrebbero dovuto abortire l’operazione,
venendo a mancare la sorpresa.
L’idea della puntata offensiva in Egeo
era sorta a seguito del convegno di Merano, svoltosi il 13-14 febbraio 1941 tra
i vertici delle Regia Marina e della Kriegsmarine. Il capo di Stato Maggiore
della Kriegsmarine, ammiraglio Erich Raeder, aveva evidenziato l’atteggiamento
prettamente difensivo fino ad allora tenuto dalla Marina italiana – uscite in
mare infruttuose o scontri terminati senza vincitori né vinti, e ancor peggio
combattimenti di minore entità sfociati in sconfitte per le unità italiane,
l’ancor vicina “notte di Taranto” e la brutta figura del bombardamento navale
di Genova – ed invitato il capo di Stato Maggiore della Regia Marina,
ammiraglio Arturo Riccardi, ad improntare le operazioni future ad una maggiore
aggressività, sia a sostegno del trasferimento in Libia dell’Afrika Korps (in
corso in quel momento) che a contrasto dei convogli che trasportavano truppe e
rifornimenti britannici dall’Egitto alla Grecia; in particolare, aveva
suggerito incursioni nel Mediterraneo orientale con le veloci e potenti
corazzate classe Littorio. Riccardi aveva respinto le richieste tedesche,
motivandole con l’insufficienza della copertura aerea; il capo reparto
operazioni della Kriegsmarine, ammiraglio Kurt Friche, aveva poi rinnovato tali
insistenze presso il suo collega italiano, ammiraglio Emilio Brenta, ma anche
questi le aveva rigettate, adducendo a motivo la disparità di forze dopo la
notte di Taranto e la scarsità di nafta, le cui scorte sarebbero state
notevolmente erose da una missione del genere. Brenta aveva anche fatto
presente che i britannici sarebbero stati in condizione di vantaggio e che, se
fossero riusciti a danneggiare qualche nave italiana, avrebbero ridotto la
velocità della squadra, costringendola ad accettare un combattimento lontano
dalla proprie basi e in qualsiasi situazione di relatività di forze. Un timore,
come mostrarono i fatti, profetico.
Fricke aveva allora suggerito
incursioni notturne con l’impiego di forze navali leggere, ma Brenta aveva
puntualizzato che le forze di cui si disponeva erano appena sufficienti a
svolgere i compiti indispensabili, tra cui le scorte verso la Libia.
Nonostante una siffatta conclusione
dell’incontro, dopo di esso tra i vertici della Regia Marina ed in Riccardi
stesso crebbe l’esigenza di mostrare alla Germania che anche la Marina italiana
era in grado di passare con decisione all’offensiva: ciò – fu deciso – si
sarebbe concretizzato con una puntata offensiva (da compiersi non appena la
flotta fosse potuta tornare nella base di Taranto, una volta che le sue difese
contraeree fossero state potenziate) contro i convogli britannici che,
provenienti dall’Egitto, rifornivano la Grecia.
Per coincidenza, a fine febbraio fu un
ammiraglio che non era stato a Merano, né sapeva quanto vi si fosse detto, a
prospettare a Riccardi l’idea di un’incursione in Egeo con una corazzata e tre
incrociatori: Angelo Iachino. Riccardi rispose che un piano del genere era già
allo studio da parte di Supermarina, ma che nell’immediato era inattuabile per
mancanza di obiettivi: l’attività della Luftwaffe, infatti, aveva fatto
pressoché cessare il traffico navale britannico nel Mediterraneo orientale.
Ma pochi giorni dopo (6 marzo) prese
il via l’operazione britannica «Lustre»: il trasferimento in Grecia di circa
60.000 uomini con i relativi equipaggiamenti, per appoggiare la resistenza
ellenica contro le forze dell’Asse. Convogli britannici ripresero quindi a
solcare le acque dell’Egeo.
A rincarare la dose, tra il 10 ed il
14 marzo, ci si mise l’ammiraglio Eberhard Weichold, ufficiale di collegamento
della Kriegsmarine in Italia, che rinnovò le pressioni perché una siffatta
operazione fosse effettuata. Da parte tedesca si sosteneva che parte delle
forze della Royal Navy erano distolte dalla necessità di contrastare le
incursioni in Atlantico dell’incrociatore pesante Admiral Hipper e della
corazzata tascabile Admiral Scheer (ma in realtà ciò non aveva influito sulla
dislocazione delle forze britanniche nel Mediterraneo); sulle prime Supermarina
fu ancora recalcitrante, ma il 19 marzo i comandi tedeschi asserirono che, dopo
il grave danneggiamento delle corazzate britanniche Warspite e Barham e della
portaerei Illustrious per opera di aerei della Luftwaffe
(il 16 marzo degli Heinkel He 111 del X CAT – II Gruppo del 26° Stormo –
avevano riferito di aver silurato due corazzate; quanto alla Illustrious, la sua
messa fuori uso era cosa assodata già da gennaio), alla Mediterranean Fleet era
rimasta una sola corazzata (la Valiant)
e nessuna portaerei.
Riccardi, convinto che le condizioni
fossero ora favorevoli, capitolò: il 16 marzo decise di dare il via all’operazione
(cinque giorni dopo anche il Comando Supremo rincarò la dose, invitando Marina
ed Aeronautica ad un atteggiamento più aggressivo in Egeo, a sostegno della
prossima offensiva tedesca in Grecia). Requisiti essenziali, il fattore
sorpresa da parte italiana, un capillare servizio di ricognizione aerea ed una
forte copertura aerea italo-tedesca. Sarebbero mancati tutti e tre.
Dal momento che i piccoli convogli
obiettivo dell’incursione erano formati di solito da quattro o cinque
mercantili, scortati da un incrociatore e qualche cacciatorpediniere, e
considerando che per il successo di un attacco del genere erano essenziali la
rapidità e la sorpresa, probabilmente l’idea più consona sarebbe stata di
lanciare veloci puntate offensive con gli ottimi incrociatori leggeri della VII
e/o VIII Divisione (così come fecero, successivamente, i britannici stessi
contro i convogli italiani, con la Forza K e la Forza Q), ma le reali
motivazioni dietro all’operazione pianificata da Supermarina erano di natura
politica: dimostrare ai tedeschi che gli italiani, sul mare, potevano essere
aggressivi quanto loro e quanto i britannici. Nelle parole dell’ammiraglio
Giuseppe Fioravanzo, allora Capo Ufficio Operazioni Piani di Guerra: “Dare
al mondo l’impressione che l’Inghilterra non ci aveva preclusa l’iniziativa in
zone lontane dalle nostre basi; dare alla Squadra, da troppo tempo inattiva, la
soddisfazione per essa tanto desiderata di andare verso il nemico senza subirne
la volontà; non tralasciare le pressioni che ci venivano da Berlino”.
Ciò portò a decidere per una vera
dimostrazione muscolare di forza: avrebbe preso il mare il fior fiore della
flotta italiana, le unità più moderne e potenti di cui la Regia Marina
disponeva.
Il 19 marzo Raeder aveva scritto
ancora una volta per caldeggiare un attacco al traffico britannico nel
Mediterraneo orientale, rimarcando la situazione favorevole generata
dall’“eliminazione” di due corazzate, ed il 25 marzo Riccardi gli rispose di
essere dello stesso avviso, aggiungendo che prossime operazioni navali italiane
sarebbero state indirizzate proprio in quella direzione. Il 21 marzo anche il
generale Alfredo Guzzoni, Sottocapo di Stato Maggiore Generale, suggerì che la
Marina compisse in Egeo «offese navali di superficie attuabili attraverso rapide
puntate di incrociatori protetti e cercando di battere le corazzate»
britanniche, che in quel momento apparivano «in stato d’inferiorità numerica»;
Riccardi rispose anche a lui che «Supermarina aveva già studiato le possibilità
di azioni con navi di superficie contro l’Egeo».
I preparativi compresero il
potenziamento delle difese della base di Taranto, così che almeno una parte
della Squadra vi potesse tornare in condizioni di sicurezza (e proprio la I
Divisione fu tra le formazioni che tornarono ad avere base a Taranto).
Segnalazioni da parte del Servizio Informazioni della Marina, il 22 e 23 marzo,
di due grossi convogli britannici (uno di 12 navi ad Alessandria ed uno di 18
navi a Giaffa) in procinto di partire per Volo e Suda riconfermarono Supermarina
nelle sue intenzioni.
Originariamente l’avvio
dell’operazione era stato previsto per il 24 marzo, ma in seguito, per avere il
tempo di prendere accordi particolareggiati con le forze aeree tedesche, venne
posticipato al 26. Alle 21.10 del 23 marzo Supermarina inviò agli ammiragli
Iachino, Cattaneo, Sansonetti e Legnani l’ordine d’operazione: fu recapitato
mediante corrieri e telescriventi, così che non potesse essere oggetto di
intercettazione da parte avversaria. La parte che riguardava la I Divisione
recitava: «Gruppo Zara composto I e
VIII Divisione navale lasci base prime ore giorno X-1 et regoli propri
movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1 in punto lat. 35°46’ e long.
19°34’ et diriga poi per passare ore 04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo Spada
alt Prosegua quindi per levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per
scoglio Karavi dove dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga
per ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90 a ponente di Cerigotto dove
dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et quindi per rientro basi alt In caso
avvistamento unità nemiche attaccare a fondo soltanto se in condizioni
favorevoli di relatività di forze alt». Il 24 marzo Iachino inviò il suo ordine
di operazione dettagliato, il numero 47, a mezzo corrieri ai suoi tre ammiragli
dipendenti (Cattaneo, Sansonetti e Legnani), ma frattanto anche i comandi di
Rodi (per l’intervento dell’Aeronautica dell’Egeo) e Taormina (per l’intervento
del X CAT) dovettero essere informati, e ciò si poté fare solo per radio.
L’Aeronautica della Sicilia, il X.
Fliegerkorps della Luftwaffe (X Corpo Aereo Tedesco, che disponeva di circa 200
bombardieri e 70 caccia) anch’esso di base in Sicilia, e la caccia italiana di
Rodi (dotata di biplani Fiat CR. 42 di base nell’aeroporto di Maritza; in tutto
in Egeo non vi erano che 86 aerei italiani di cui solo 52 efficienti, in
massima parte vetusti e con contenute riserve di carburante) avrebbero fornito
copertura aerea alle navi di Iachino; o almeno questo era ciò che era previsto.
La questione dell’appoggio aereo ebbe
degli aspetti che rasentarono l’assurdo. Supemarina, ritenendo necessario un
efficace appoggio aereo per la riuscita della missione, chiese all’ammiraglio
Weichold di accordarsi con il generale Hans-Ferdinand Geisler, comandante il X
Fliegerkorps, che affermò di poter mettere a disposizione ricognitori, caccia a
lungo raggio e bombardieri. Quando però il Capo di Stato Maggiore della Regia
Aeronautica, generale Francesco Pricolo, ricevette il programma delle scorte
aeree e seppe da Riccardi che si erano presi accordi con la Luftwaffe, senza
che a lui si fosse detto niente, montò su tutte le furie ed accusò Riccardi di
aver commesso “una grave sgarberia verso Superaereo”. Guzzoni si schierò con
Pricolo, e venne modificato il programma previsto per l’impiego delle forze
aeree. Nessuno si sarebbe poi curato di informare Iachino in merito.
Tra Creta ed Alessandria vennero
inviati in agguato i sommergibili Ambra, Ascianghi, Dagabur, Nereide e Galatea,
con l’incarico di segnalare eventuali movimenti di forze navali nemiche.
La segretezza dell’operazione «Gaudo»
andò progressivamente sgretolandosi prima ancora che essa prendesse avvio.
L’aumento delle ricognizioni effettuate dalla Regia Aeronautica in Mar Egeo
venne notato dall’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della
Mediterranean Fleet; ed i ricognitori decollati da Malta avvistarono la I
Divisione a Taranto, base che fino ad allora, dopo la notte di Taranto, era
stata abbandonata da ogni nave maggiore. I possibili significati di questi
segnali potevano essere diversi (attacco ai convogli britannici in Egeo, scorta
di un convoglio italiano diretto nel Dodecaneso, azione diversiva a copertura
di sbarco da compiere in Cirenaica o Grecia, attacco contro Malta), ma
Cunningham intuì che la Marina italiana stesse preparando una mossa contro i
convogli britannici per la Grecia, fino ad allora indisturbati; pertanto
dispose che le ricognizioni sulle principali basi navali italiane e sulle
probabili rotte che la flotta italiana avrebbe potuto seguire venissero
aumentate sino al massimo possibile, e dislocò in quelle acque tutti i
sommergibili disponibili.
Le decrittazioni, da parte di “ULTRA”,
di comunicazioni della Luftwaffe in cui si annunciava che questa avrebbe dato
copertura ad una forte squadra navale italiana che presto avrebbe effettuato
una scorreria in Egeo, diedero a Cunningham la conferma circa le sue
supposizioni. Elemento mancante era ora la data precisa in cui l’operazione
italiana si sarebbe svolta; al quesito rispose ancora “ULTRA”, che il 25 marzo
intercettò una comunicazione di Supermarina (partita da Roma e diretta a Rodi)
in cui si diceva che «Oggi 25 marzo est giorno X meno 3».
Mentre gli ordini d’operazione delle
unità navali, come si è visto, erano stati inviati con mezzi a prova
d’intercettazione, l’unico modo di comunicare col Comando delle Forze Armate
dell’Egeo (i cui velivoli dovevano partecipare alla copertura aerea delle navi
il 28 marzo) era la radio, vulnerabile alle intercettazioni, e così era stato.
Solo per mancanza di tempo, “ULTRA” non riuscì a decifrare l’ordine di
operazioni completo, compilato il 24 marzo dall’ammiraglio Carlo Giartosio. In
questo caso, Supermarina aveva tentato di far pervenire l’ordine a Rodi con mezzi
non soggetti ad intercettazione: lo aveva affidato ad un corriere a Roma con
l’ordine di imbarcarsi su un bombardiere Savoia Marchetti S.M. 81 (della 222a
Squadriglia del 56° Gruppo da Bombardamento Terrestre) diretto nell’isola, ma
il 25 marzo l’aereo, in decollo dall’aeroporto di Gerbini (Catania), era
precipitato ed aveva preso fuoco, uccidendo i cinque uomini dell’equipaggio.
Non essendovi più tempo per inviare un altro aereo, fu giocoforza usare la
radio.
L’Ammiragliato informò Cunningham
dell’intercettazione alle 17.05 di quello stesso giorno; l’indomani nuove
intercettazioni (di radiomessaggi in codice inviati da Roma a Rodi) permisero
di apprendere che da parte italiana erano pianificate ricognizioni aeree, nei
due giorni precedenti X (su Alessandria, Suda e le rotte tra Alessandria ed il
Pireo, su entrambi i lati di Creta) e durante lo stesso giorno X (dall’alba a
mezzogiorno tra Creta ed Atene, nonché sulle rotte tra Creta ed Alessandria),
ed attacchi aerei sugli aeroporto di Creta, sia la notte precedente il giorno X
che il giorno X stesso. Dato che il più lungo dei messaggi intercettati era
stato inviato dal generale Guzzoni, cioè da un ufficiale del Regio Esercito, ma
mediante la macchina cifrante di Supermarina (per il semplice motivo di poter
così usare la linea telegrafica di Supermarina con il Dodecaneso), da parte
britannica si sospettò anche che l’operazione potesse contemplare un’azione
anfibia, con la partecipazione di truppe di terra.
Alle 10.07 del 26 marzo ancora un
altro messaggio decrittato rivelò che il giorno X (tra l’alba e mezzogiorno) ci
sarebbero state ricognizioni intensive tra Creta, la costa orientale greca, il
Golfo di Atene e la linea Zea-Milo-Capo Sidero nonché (sempre durante il
mattino) sulle rotte tra il Gaudo ed Alessandria e Caso ed Alessandria, ed
attacchi aerei nel mattino sugli aeroporto cretesi.
Tra i comandi britannici vi era ancora
molta incertezza sui precisi obiettivi dell’operazione italiana, ma il
comandante della Mediterranean Fleet aveva intuito trattarsi di un’incursione
contro i convogli di «Lustre».
Cunningham prese subito tutti i
provvedimenti del caso: con tre ordini di operazione diramati alle le 18.18,
alle 18.20 ed alle 18.22 del 26 marzo a vari comandi (Malta, il Quartier
Generale delle forze britanniche in Grecia, il comando della base di Suda, il
Quartier Generale del Medio Oriente ed il Quartier Generale della Royal Air
Force in Medio Oriente), spiegando che «c’è ragione di sospettare che forze di
superficie nemiche progettino una puntata nell’Egeo giungendo lì il 28 marzo»,
l’ammiraglio britannico richiese: 1) ricognizioni aeree su Taranto, Napoli,
Brindisi e Messina per il pomeriggio del 27; 2) sospensione di ogni traffico da
e per la Grecia – tranne i convogli «AG 8», già partito il 26 marzo da
Alessandria per la Grecia con la scorta di due incrociatori antiaerei e tre
cacciatorpediniere, e «GA 8» (un mercantile, l’incrociatore leggero Bonaventure e due cacciatorpediniere), che sarebbe
partito il 29 seguendo la rotta opposta ed arrivando ad Alessandria due giorni
dopo (senza il Bonaventure,
affondato dal sommergibile italiano Ambra)
–; 3) ritiro di tutte le unità di vigilanza in servizio a Suda ed al Pireo per
porle sotto la protezione delle difese locali; immediato stato di allerta per
tutta la Mediterranean Fleet; 4) uscita dal Pireo, il 27 marzo (il giorno prima
di quello fissato per l’operazione italiana), della 7th Cruiser Division (Forza B)
dell’ammiraglio Henry Pridham-Wippell per un pattugliamento del mare attorno a
Gaudo, isolotto a sud di Creta (le navi di Pridham-Wippell salparono la sera
del 27, con l’ordine di essere 30 miglia a sud di Gaudo per le 6.30 del 28);
5) invio dei sommergibili Rover e Triumph in probabili punti di passaggio della
squadra italiana; 6) rinforzo delle difese contraeree di Suda (con l’invio
dell’incrociatore antiaereo Carlisle); 7) potenziamento delle squadriglie di
aerosiluranti di Creta e della Cirenaica (e si prepararono anche reparti di
bombardieri Bristol Blenheim); 8) che tutto ciò fosse eseguito in maniera tale
da non far trapelare che i britannici erano al corrente di una prossima mossa
della Regia Marina in Egeo.
Il 27 marzo, quando gli ordini
d’operazione di Cunningham erano già stati diramati, altre due decrittazioni di
“ULTRA” permisero all’ammiraglio britannico di apprendere quanto da parte
italiana si sapeva (mediante ricognizione ed intercettazioni) sulla
dislocazione delle sue forze e sui movimento navali britannici in Mediterraneo.
La missione in Egeo della flotta
italiana, non ancora iniziata, aveva perduto significato e segretezza: ma di
ciò i comandi italiani erano, e rimasero, all’oscuro.
Il 26 e 27 marzo il reparto
informazioni della Regia Marina segnalò un forte, improvviso ed inconsueto
aumento del traffico radio tra Malta ed i comandi britannici del Mediterraneo
orientale, puntualizzando anche che doveva essere correlato alla preparazione,
da parte avversaria, di qualche operazione. Nessuno, però, mise tale notizia in
relazione alla puntata di Iachino in Egeo.
A differenza di quanto si riteneva da
parte italo-tedesca, Warspite e Barham non erano state danneggiate in modo
grave ed erano già tornate in servizio, come mostrato da nuove scattate il
mattino del 24 marzo da uno Ju 88 della 3a Squadriglia del 1° Gruppo
Ricognizione Strategica del X Fliegerkorps (che avevano sorvolato la
Mediterranean Fleet, uscita in mare a protezione di un convoglio da Alessandria
a Malta) ma inoltrate a Supermarina solo due giorni dopo, in quanto
classificate come «bassa priorità». Un messaggio del X CAT a Supermarina
mandato nel pomeriggio del 26 diceva chiaramente che «Da accurato esame della
fotografia eseguita sulla forza navale avvistata a nord di Marsa Matruh si
rileva: a) una forza navale costituita da quattro grosse unità in linea di fila
a distanza di 650 metri
tra prora e prora nell’ordine: una Nb tipo QUEEN ELIZABETH, una Pa tipo FORMIDABLE,
una Nb tipo BARHAM, una Nb tipo QUEEN ELIZABETH (…)». Anche allora ci sarebbe
stato il tempo di farlo sapere a Iachino, che ancora era in porto: ma ciò, per
motivi inesplicati, non avvenne.
A Supermarina si era convinti che la
superiore velocità delle navi italiane avrebbe loro permesso di evitare un
pericoloso incontro; si sottovalutò poi la pericolosità degli aerei britannici,
che fino a quel momento erano stati assai letali negli attacchi alle navi in
porto (Taranto, Tobruk, Bengasi, Napoli, Augusta), ma non avevano mai colpito
una nave da guerra italiana in mare aperto.
L’Illustrious era stata davvero posta fuori
combattimento, ma il 10 marzo era già giunta in Mediterraneo la sua sostituta,
la gemella Formidable.
Di ciò l’ammiraglio Iachino sarebbe
stato informato solo a missione in corso, il 27 marzo, quando la sua nave
avrebbe intercettato alle 15.19 e 16.43 due messaggi trasmessi da Rodi, che
annunciavano che la ricognizione strategica (un CANT Z. 1007 italiano ed uno
Junkers Ju 88 tedesco) aveva visto ad Alessandria tre navi da battaglia e due
portaerei. Il giorno stesso fu trasmesso a Supermarina un messaggio del X
Fliegerkorps che annunciava che un loro Ju 88 in ricognitore su
Alessandria vi aveva localizzato «due navi da battaglia classe QUEEN ELIZABETH
– una nave battaglia classe BARHAM – portaerei FORMIDABLE et EAGLE – un incr.
classe AURORA – un incr. classe SOUTHAMPTON…»
La I Divisione diresse inizialmente per
Augusta, poi, mentre era in navigazione, ricevette l’ordine di portarsi presso
lo stretto di Cerigo entro l’alba del 28 marzo. Tra gli equipaggi si sparse la
voce che l’obiettivo della missione fosse l’intercettazione di un convoglio in
navigazione a Sud di Creta, oppure attraverso lo stretto di Cerigo.
Alle 10.30 del 27 la I e la VIII
Divisione si riunirono 55
miglia a sudest di Capo Passero, poi si posizionarono 16 miglia a poppavia
della Vittorio Veneto, che
era a sua volta preceduta di 7
miglia dalla III Divisione. La foschia ed il vento di
Scirocco ostacolavano il mantenimento della formazione, mentre non vi erano
difficoltà nel mantenere la velocità prefissata.
La navigazione proseguì senza
incidenti – ma nella preoccupante assenza della poderosa scorta aerea tedesca
prevista: non si videro che idrovolanti CANT Z. 506 che fornirono per qualche
ora scorta antisommergibile, e più tardi qualche aereo tedesco in lontananza
che passò senza dar segno d’aver visto le navi – sino alle 12.25 del 27 marzo,
quando il Trieste annunciò che la III Divisione era
stata localizzata da un idroricognitore britannico Short Sunderland (si
trattava di un velivolo del 230th Squadron RAF decollato dalla base greca di
Scaramanga, ai comandi del capitano pilota D. G. Bohem): ora anche Iachino
sapeva che la sorpresa, presupposto fondamentale per la riuscita della
missione, non c’era più. Domandò quindi a Supermarina se dovesse annullare la
missione e rientrare alla base; in una concitata riunione si concluse che la
sorpresa era venuta a mancare, ma che il ricognitore non aveva avvistato che
una porzione della squadra italiana, pertanto si decise di proseguire: meglio
rischiare una trappola, che far sembrare ai tedeschi ed a Mussolini che la
Marina si ritirasse alle prime difficoltà. Ormai il processo che avrebbe
portato alla tragedia di Matapan si era messo in moto, e nulla più lo avrebbe
fermato.
In seguito a ciò, la formazione
italiana, poco dopo le 14, accostò per 150° (prima la rotta era 134°) per
ingannare il ricognitore, e mantenne questa rotta sino alle 16, dopo di che
riaccostò per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23
nodi, così da giungere nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba del 28.
Alle 22 del 27 Supermarina annullò l’attacco a nord di Creta, dato che la
ricognizione aveva rivelato che non c’erano convogli da attaccare (ed anche per
il rischio che gli incrociatori di Cattaneo venissero attaccati da forze
britanniche, di cui si aveva contezza dopo l’avvistamento del Sunderland),
pertanto la I e VIII Divisione ricevettero l’ordine di ricongiungersi con la Vittorio Veneto e la III Divisione all’alba del giorno
seguente, al largo di Gaudo («Destinatati V. VENETO per Squadra e ZARA per
Divisione alt Modifica ordine di operazione gruppo Cattaneo si riunisca dopo
alba domani 28 corrente gruppo Iachino alt Programma Iachino resta invariato»).
In base a rilevazioni radiogoniometriche, si riteneva che in quella zona si
sarebbero trovati, il giorno seguente, alcuni incrociatori leggeri e
cacciatorpediniere britannici.
Alle 14.35 del 27 la ricognizione
aerea italiana su Alessandria trovò le corazzate britanniche ancora in porto:
ciò venne riferito a Iachino, ma la successiva ricognizione, da effettuarsi in
serata, fu annullata per via delle condizioni meteorologiche. Se ci fosse
stata, avrebbe mostrato che il grosso della Mediterranean Fleet – le corazzate Barham, Valiant e Warspite,
la portaerei Formidable e nove cacciatorpediniere, cioè la
Forza A e la Forza C – non c’era più: dopo la segnalazione del Sunderland che
aveva avvistato le navi italiane alle 12.25, infatti, l’ammiraglio Cunningham
era uscito in mare con le sue navi, alle 19 del 27, per intercettare la
formazione di Iachino. Proprio perché si aspettava una ricognizione sul porto
durante il pomeriggio, anzi, Cunningham non era partito prima: aveva
deliberatamente tenuto in porto le sue corazzate affinché i ricognitori
italiani le trovassero lì e credessero quindi che la Mediterranean Fleet
sarebbe rimasta in porto.
Inoltre, per ingannare eventuali
informatori nemici ad Alessandria, Cunningham si era recato a giocare a golf
durante il pomeriggio del 27, per poi imbarcarsi furtivamente sulla Warspite all’ultimo momento. Unico intoppo nel
piano britannico, la bassa velocità (19-20 nodi) che la forza navale dovette
tenere per non lasciare indietro la Warspite,
che aveva aspirato della sabbia nell’uscire dal porto con conseguenze
ostruzione dei condensatori dell’apparato evaporatore. Ciò avrebbe ritardato la
riunione tra le Forze A e C e la Forza B di Pridham-Wippell, impedendo che tali
forze riunite incontrassero quelle di Iachino già nella giornata del 28 marzo.
Iachino ignorava del tutto tale
situazione; Supermarina ricevette notizia di messaggi non confermati che
accennavano alla presenza in mare di una/tre corazzate ed una portaerei al
largo di Alessandria (ed alle 20.35 del 27 il Servizio Informazioni riferì di
«3 navi da battaglia e 2 [sic] navi portaerei accertate ad Alessandria ieri ore
13.00 (…) Oggi ore 13.00 una nave portaerei – un incrociatore et un
cacciatorpediniere 20
miglia a nordovest di Alessandria alt Ore 17.00 Formidable rilevata per 102° da Taormina
alt Traffico radiotelegrafico confermerebbe presenza in mare una nave da
battaglia – una portaerei e Comando 7a Divisione incrociatori (…)»), ma non
ritenne di doverne informare il comandante superiore in mare.
Dei sommergibili dislocati nel
Mediterraneo orientale per avvistare le forze nemiche, uno solo, l’Ambra, sentì
due volte rumori di eliche agli idrofoni; dato che non era però riuscito ad
avvistare niente, non riferì alcunché alla base, non avendo ricevuto ordini in
tal senso.
Alle 6.35 del mattino del 28 un
idroricognitore catapultato dalla Vittorio
Veneto avvistò la Forza B
britannica (formata dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex,
sotto il comando dell’ammiraglio Henry Pridham-Wippell), in navigazione con
rotta stimata 135° e velocità 18 nodi una quarantina di miglia ad est-sud-est
dall’ammiraglia italiana. Alle 6.57, mentre la III Divisione riceveva l’ordine
di assumere rotta 135° e velocità 30 nodi per raggiungere gli incrociatori
britannici, poi ripiegare verso la Vittorio
Veneto ed attirarli così
verso la corazzata, il resto della formazione italiana (comprese le navi di
Cattaneo, che dovevano così convergere verso sudest con le altre navi) aumentò
la velocità a 28 nodi (in quel momento il gruppo «Zara» – che avrebbe dovuto
congiungersi con la Vittorio
Veneto all’alba – era in
leggero ritardo; alle 6.30 era circa 16 miglia a nordovest delle altre unità, ed
alle 6.57 ricevette ordine dalla Vittorio
Veneto di aumentare la velocità).
Alle 7.55 la III Divisione avvistò la
Forza B, ma dato che anche quest’ultima voleva tentare di attirare le navi
italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet (che era una novantina di
miglia più ad est), e dunque si ritirò verso est, la manovra pianificata da
Iachino non si concretizzò, ed al contrario furono le navi italiane ad
inseguire quelle britanniche. Cominciò così scontro di Gaudo: tra le 8.12 e le
8.55 la III Divisione inseguì la Forza B cannoneggiandola con i propri cannoni
da 203, ma non riuscì a mettere a segno alcun colpo e alla fine, dato che le
distanze restavano costanti, interruppe l’inseguimento dietro ordine di
Iachino. Concluso il vano inseguimento e scambio di cannonate – al quale la I e
VIII Divisione, non ancora ricongiuntesi al resto della formazione, non
poterono partecipare, anche perché alle 8.38 avevano dovuto ridurre la velocità
a 20 nodi (su ordine di Iachino, che aveva al contempo ordinato loro di
assumere rotta 300°) a causa di un’avaria del Pessagno –, le navi italiane alle 8.55
accostarono per 270° ed assunsero rotta 300° e velocità di 28 nodi, ora
tallonate a distanza dalla Forza B, che tenne informato il resto della
Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Quando se ne accorse,
alle 10.02 l’ammiraglio Iachino ordinò alla III Divisione di proseguire sulla
sua rotta, mentre la Vittorio
Veneto e le altre navi
invertirono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle la Forza
B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando verso sud), porla
tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione italiana) e così
impedirne la ritirata. L’esecuzione di questa manovra venne però
temporaneamente ritardata in quanto, alle 10.10, lo Zara lanciò un segnale di scoperta col quale riferiva di aver
avvistato fumo o alberatura sospetta per 300°; Iachino attese che tale
avvistamento venisse chiarito, ma alle 10.34 lo Zara annullò il segnale di scoperta e la manovra riprese.
Le unità della Forza B erano però più
a nord di quanto ritenuto (e segnalato) e per questo l’incontro avvenne alle
10.50: alle 10.56 la Vittorio
Veneto aprì il fuoco da 23.000 metri e la Forza
B, attaccata sul lato opposto dalla III Divisione, accostò immediatamente verso
sud e si ritirò inseguita dalle navi italiane, ma le distanze andarono
aumentando ed il tiro della Vittorio
Veneto risultò inefficace.
Solo l’Orion ed il Gloucester (per altre fonti anche il Perth) subirono lievi danni per
proiettili caduti vicini. Alle 10.57 vennero avvistati sei aerei che si
rivelarono poi essere aerosiluranti britannici Fairey Albacore (decollati dalla Formidable), che alle 11.18
passarono all’attacco: la Vittorio Veneto
accostò sulla dritta, e la XIII Squadriglia si portò in posizione adatta ad
impedire l’attacco, aprendo intenso tiro contraereo; alle 11.25 gli
aerosiluranti lanciarono, ma dovettero farlo da una distanza eccessiva, e
nessun siluro andò a segno.
L’attacco aerosilurante aveva però
obbligato le navi italiane a cessare il fuoco, consentendo alla Forza B di
sfuggire ad una situazione di grave pericolo. In tutto, le navi di Iachino
avevano sparato 94 colpi da 381 mm e 542 da 203 mm.
In questa zona le navi di Iachino
avrebbero dovuto fruire della copertura aerea dei caccia di Rodi (dodici caccia
FIAT CR. 42 dell’Aeronautica dell’Egeo, muniti di serbatoi supplementari per
incrementarne l’autonomia, di base a Scarpanto), ma questi velivoli non ci fu traccia
(per altra fonte furono presenti sul cielo della formazione, ma solo
saltuariamente ed in numero modesto, nel corso della mattinata); intervennero
invece due aerei tedeschi (gli unici che si videro durante tutta la battaglia),
due Junkers Ju 88 che tentarono valorosamente d’ingaggiare i tre caccia Fairey
Fulmar di scorta agli aerosiluranti. Il violento scontro aereo finì male per i
tedeschi: uno Ju 88 venne abbattuto – la prima e più dimenticata perdita
dell’Asse nell’operazione «Gaudo» –, e l’altro messo in fuga. Le navi italiane
non si accorsero neanche dell’intervento degli Ju 88.
Frattanto, alle 11.07, la I Divisione
avvistò un sommergibile a 3000
metri per 280°, comunicandolo alla nave ammiraglia;
probabilmente si trattava di un falso allarme.
Successivi messaggi e segnalazioni,
che confermavano l’assenza di traffico convogliato britannico da attaccare, ed
insieme ad essi l’ormai conclamata assenza della copertura aerea e la continua
diminuzione delle scorte di carburante dei cacciatorpediniere, portarono
l’ammiraglio Iachino, alle 11.40, a disporre rotta verso nordovest: si tornava
alla base.
Alcune ore prima, alle nove del
mattino, un ricognitore aveva comunicato alla Vittorio
Veneto la presenza di una
portaerei, due corazzate e naviglio minore in una posizione vicina a quella
delle navi italiane: Iachino e Supermarina avevano però pensato che il
ricognitore avesse semplicemente avvistato la squadra italiana, scambiandola
per nemica. E invece era davvero il nemico: la Mediterranean Fleet di Cunningham.
Nemmeno una nuova segnalazione delle
14.25, secondo cui alle 12.15 un aereo aveva avvistato una corazzata, una
portaerei, sei incrociatori e cinque cacciatorpediniere 79 miglia ad est della Vittorio Veneto, venne presa in
considerazione: Supermarina e Iachino la ritennero sbagliata, dato anche che un
precedente rilevamento radiogoniometrico aveva individuato la squadra
britannica come a 170
miglia da quella italiana. Mezz’ora dopo Supermarina
comunicò a Iachino che «Dalle intercettazioni radiogoniometriche nave nemica
ore 13.15 a
miglia 110 per 60° da Tobruk trasmette ordini a Creta e ad Alessandria»; alle
11.15 i crittografi imbarcati sulla Vittorio
Veneto avevano decrittato un messaggio di Pridham-Wippel che diceva a
Cunningham «Dirigo per incontrarvi». Ma la granitica certezza di Iachino, che
Cunningham e corazzate fossero ad Alessandria, non fu scossa.
Se in mattinata l’appoggio dato dai
CR. 42 dell’Aeronautica dell’Egeo era stato pressoché inconsistente, nel
pomeriggio esso cessò del tutto e definitivamente. Col rapido allontanamento
della flotta italiana in direzione di Taranto, infatti, questa si venne presto
a trovare al di fuori dei limiti dell’autonomia dei CR. 42, anche se questi
impiegavano serbatoi supplementari.
Nel pomeriggio del 28 marzo, la flotta
italiana fu lungamente sorvolata da un idroricognitore britannico. Lo pilotava
il capitano di corvetta Bolt, dello Stato Maggiore di Cunningham, catapultato
dalla Warspite: durante la sua
missione ebbe modo di aggiornare il suo ammiraglio circa posizione,
composizione, rotta e velocità delle navi italiane, con notevole accuratezza.
Cunningham si era reso conto che la
formazione di Iachino, più veloce della sua, sarebbe facilmente sfuggita
all’inseguimento (del quale non sapeva nemmeno di essere oggetto): sempre che
non si provvedesse a rallentarla. Questo si poteva fare danneggiando qualche
nave, lanciando attacchi di bombardieri ed aerosiluranti dalle basi di Creta e
dalla Formidable.
Cunningham, pertanto, ordinò ripetuti attacchi aerei contro le navi di Iachino.
Nel corso del pomeriggio, un totale di 30 bombardieri Bristol Blenheim della
RAF (decollati da basi aeree della Grecia) e 18 aerosiluranti Fairey Albacore e
Fairey Swordfish della Fleet Air Arm (decollati dall’aeroporto di Maleme, a
Creta, e dalla Formidable) avrebbero
effettuato rispettivamente cinque e tre attacchi sulla formazione italiana.
Alle 13.23 la I Divisione si trovava a
56 miglia
per 266° da Gaudo. Alle 15.17 il gruppo «Zara»
venne attaccato da sei bombardieri britannici Bristol Blenheim (che attaccarono
proprio lo Zara, oltre al Garibaldi), attacco che si ripeté alle
15.26, alle 16.30 ed infine alle 16.44; bombe di grosso calibro caddero vicine
allo Zara (che le evitava zigzagando
ed intanto rispondeva con tiro contraereo), alcune a soli trenta metri. Nello
stesso lasso di tempo anche la Vittorio
Veneto e la III Divisione
vennero più volte attaccate da aerei (rispettivamente tre e due volte): un solo
attacco causò danni, ma sufficienti a scatenare la sequenza degli eventi che avrebbe
portato al disastro.
Alle 15.19, infatti, tre aerosiluranti
britannici attaccarono la Vittorio
Veneto, mentre dei caccia attaccavano le unità della XIII Squadriglia
mitragliandone la coperta; anche dei bombardieri in quota parteciparono
all’attacco. Il violento fuoco contraereo dei cacciatorpediniere della XIII
Squadriglia colpì uno degli aerosiluranti, pilotato dal capitano di corvetta
John Dalyell-Stead: proprio questo velivolo, prima di cadere in mare uccidendo
i tre uomini del suo equipaggio, riuscì a portarsi a meno di 1000 metri dalla Vittorio Veneto ed a lanciare un siluro, che colpì la
corazzata a poppa. Alle 15.30 la Vittorio
Veneto, che aveva imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si immobilizzò nel
punto 35°00’ N e 22°01’ E; dopo sei minuti poté rimetter in moto, ma solo alle
17.13 riuscì a sviluppare una velocità di 19 nodi.
La squadra di Iachino fece rotta verso
Taranto, distante 420 miglia, ed alle 16.38 l’ammiraglio, prevedendo che nuovi
attacchi aerei si sarebbero scatenati al tramonto, ordinò che le altre unità si
posizionassero intorno alla danneggiata Vittorio
Veneto per proteggerla da
altri attacchi. Proprio a quell’ora la I Divisione (ormai in vista della
corazzata, provenendo da nordovest) ricevette l’ordine di riunirsi al resto
della formazione e portarsi presso la Vittorio
Veneto; alle 18.18 la I Divisione ricevette dalla nave ammiraglia l’ultimo
messaggio contenente le istruzioni sulla formazione da assumere, ed alle 18.40
il gruppo «Zara» (del quale non faceva più parte la VIII Divisione, distaccata
per rientrare direttamente a Brindisi) raggiunse il posto assegnato,
completando così lo schieramento. La formazione era su cinque colonne di unità
disposte in linea di fila: da destra a sinistra, la IX Squadriglia
Cacciatorpediniere (Alfieri, Gioberti, Carducci, Oriani), la I Divisione
(nell’ordine, Zara, Pola e Fiume),
la Vittorio Veneto preceduta da Granatiere e Fuciliere e seguita da Bersagliere ed Alpino,
la III Divisione (Trieste, Trento, Bolzano) e la XII Squadriglia
Cacciatorpediniere (Corazziere, Carabiniere, Ascari). Una vera e propria
“cintura di navi” che dovevano far quadrato attorno alla danneggiata corazzata
di Iachino, proteggendola da ogni ulteriore danneggiamento.
Iachino richiese la copertura aerea, e
gli fu assicurato che era in arrivo: alle 14.30 erano già decollati quattro
caccia pesanti Messerschmitt Bf 110 del X Cat per abbattere il ricognitore
Sunderland che controllava la forza italiana, e verso le 16 erano stati fatti
decollare altri sei Bf 110 per dare scorta aerea alle unità italiane. Secondo
la Luftwaffe, gli aerei raggiunsero la squadra di Iachino e la scortarono per
50 minuti, senza avvistare aerei nemici; l’ammiraglio italiano, al contrario,
sostenne di non aver visto un solo aereo per tutta la durata della navigazione.
Tra le 16 e le 16.15 giunse a Iachino
ancora un messaggio che avrebbe dovuto metterlo all’erta: uno Ju 88 tedesco
comunicò di aver avvistato, alle 15, una formazione britannica comprensiva di
una corazzata su rotta 285°.
Alle 18.10 la Vittorio Veneto comunicò a tutte le altre navi che
presto, dopo il tramonto, la squadra italiana sarebbe stata oggetto di attacchi
di aerosiluranti: il reparto di crittografi imbarcati sull’ammiraglia di
Iachino aveva infatti intercettato alle 17.45 un messaggio britannico che
ordinava attacchi di aerosilurati da Maleme per il tramonto.
Questo accadde solo tredici minuti
dopo l’annuncio: alle 18.23 (nel frattempo la velocità della Vittorio Veneto era scesa a 15 nodi: sarebbe tornata a
19 nodi solo alle 19.45) furono avvistati nove aerosiluranti britannici (in
realtà erano dieci: sei Fairey Albacore e quattro Fairey Swordfish, provenienti
da Maleme e dalla Formidable), che si
mantennero a levante delle navi italiane, lontani, fuori tiro e bassi sul mare
(tranne uno che, restando in quota dalla parte del sole, comunicò agli altri la
posizione e gli elementi del moto delle unità di Iachino). Alle 18.51 tramontò
il sole: per la I Divisione sarebbe stato l’ultimo tramonto.
Alle 18.58 Iachino ordinò a tutte le
navi di tenersi pronte ad accendere i proiettori ed emettere cortine
nebbiogene, alle 19.15 la squadra italiana accostò per conversione ed assunse
rotta 270° (così che le navi fossero meno illuminate dal sole che tramontava,
nei limiti del possibile) ed alle 19.24 i cacciatorpediniere in coda iniziarono
ad emettere cortine di nebbia artificiale.
Alle 19.28, mentre gli aerosiluranti
si avvicinavano, Iachino ordinò alle navi più esterne di accendere i
proiettori, ed alle 19.30, sempre dietro suo ordine, fu compiuta un’altra
accostata per conversione (rotta assunta 300°).
(Stephen Roskill, per undici anni
storico ufficiale della Royal Navy, evidenziò in seguito la perizia marinara
mostrata dalle navi italiane, nel manovrare senza incidenti in formazione tanto
ristretta, al buio, ad alta velocità, tra cortine fumogene e sotto attacco
aereo. Ma ciò non cambiò, purtroppo, l’esito dell’attacco).
Sei minuti dopo tutti i
cacciatorpediniere stesero cortine fumogene ed aprirono il fuoco, mentre gli
aerei passavano all’attacco: molti, non riuscendo a superare la barriera
costituita dal tiro dei cacciatorpediniere, dai fasci dei proiettori e dalle
cortine nebbiogene, sganciarono in maniera imprecisa, ma intorno alle 19.50 il Pola venne colpito ed immobilizzato da un
siluro. Il Fiume, che lo
seguiva in linea di fila, lo superò passandogli sulla dritta, e ricevette
segnalazioni luminose con cui il Pola
avvertiva del proprio siluramento. Né lo Zara
né altre unità videro o seppero che il Pola
era stato silurato fino a quando, alle 19.54, il Fiume trasmise allo Zara «Informo che Nave POLA è fermo 195028»; alle 20 fu il Pola stesso a riferire per radio di essere
stato colpito da un siluro, ed alle 20.11 lo Zara gli chiese «Dite vostre condizioni» (comunicazione che fu
intercettata dalla Vittorio Veneto).
Secondo alcune fonti, non appena Cattaneo vide il Pola immobilizzato, fece trasmettere alla Vittorio Veneto il messaggio «Pola
est fermo»; Iachino, però, nego sempre di aver ricevuto questa comunicazione.
Alle 19.50, finito l’attacco e calata l’oscurità,
furono spenti i proiettori e fu cessato il fuoco contraereo, ed alle 20.11
cessò anche l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05 l’ammiraglio Iachino,
che ancora non sapeva dell’immobilizzazione del Pola (alle 20.07 l’ammiraglio aveva chiesto
alle Divisioni se vi fosse niente di nuovo), ordinò alla I Divisione di
posizionarsi 5000 metri
a prua della Vittorio Veneto, in
linea di fila (poco prima, alle 19.55, aveva ordinato a tutte le navi di
assumere rotta 300° e velocità 19 nodi, confermando un ordine dato alle 19.44,
subito dopo la fine dell’attacco aereo).
Proprio alle 20.05, tuttavia, lo Zara trasmise alla Vittorio Veneto (messaggio ricevuto dalla corazzata solo alle 20.13
e consegnato a Iachino solo alle 20.16) il messaggio «Nave POLA informa di essere stata colpita da siluro a poppa alt Nave est
ferma alt 200528». Cominciava così la fase più cruciale della tragica nottata.
Alle 20.15 Cattaneo comunicò, con
messaggio ricevuto sulla Vittorio Veneto
alle 20.25 e giunto a Iachino due minuti dopo, «Salvo ordine contrario lascerò
due Ct di scorta al POLA. 201528».
Era probabilmente la decisione più sensata: inviare al soccorso del Pola l’intera I Divisione sarebbe stato di
scarsa utilità e sproporzionato ai rischi, dato che era in mare, a sole 55 miglia di distanza
(Iachino pensava 75, a
causa di errori nelle rilevazioni radiogoniometriche usate per localizzare le
navi nemiche), una formazione britannica di dimensioni sconosciute, chiaramente
all’inseguimento delle navi italiane. Era il gruppo che comprendeva Barham, Valiant, Warspite e Formidable,
ma Iachino sottovalutava la sua composizione, e non credeva che comprendesse
alcuna corazzata.
In realtà, Iachino avrebbe avuto più
di un motivo per dubitare di una valutazione del genere: oltre a quanto detto
più sopra, alle 20.05 Supermarina gli aveva riferito che alle 17.45 una nave
nemica «sede di Comando Complesso», pertanto di sicuro non una nave minore,
alle 17.45 aveva comunicato con Alessandria da un punto a 40 miglia per 240° da
Capo Krio, cioè da un punto a 75
miglia per 110° dalla Vittorio
Veneto (in realtà era ancora
più vicino, a 55 miglia
per 110°, in quanto un errore radiogoniometrico stimava la posizione di
Cunningham 20 miglia
più ad est di quella effettiva).
Se Iachino avesse dato credito a
questo messaggio, si sarebbe accorto che la formazione britannica, seguendo ad
una velocità stimabile attorno ai 20-22 nodi (per via delle proprie lente
corazzate) la squadra italiana che avanzava a 15-19 nodi (quanto riusciva a
fare, a tratti, la Vittorio Veneto),
avrebbe potuto ridurre la distanza con le sue navi, tra le 17.45 e le 19.50, da
75 a 67 miglia circa; cioè
sarebbe stata a sole 67
miglia del Pola
quando questo era stato immobilizzato, e, procedendo a velocità media di 21
nodi, avrebbe coperto tale distanza in poco più di tre ore, raggiungendo il Pola attorno alle 23.
Per giunta, alle 20.15 i crittografi
imbarcati per l’occasione sulla Vittorio
Veneto intercettarono
un messaggio trasmesso da un ammiraglio britannico, cui risposero ben tre unità
sedi di Comando Complesso («Velocità 15 nodi – 2013»); ma visto che alle 19.50
lo stesso ammiraglio aveva ordinato «Velocità 20 nodi – 1945», Iachino pensò
che le unità britanniche inseguitrici avessero rallentato, forse anche
abbandonato l’inseguimento. Più tardi, durante il botta e risposta tra Cattaneo
e Iachino gli stessi crittografi intercettarono pure "un lungo segnale di
formazione – Forse le disposizioni per la notte", trasmesse alle 20.37
dalla Warspite (nominativo
1JP) alle unità D2M e DV5, ritenute sedi di probabili comandi complessi:
erano probabilmente la Forza B di Pridham-Wippell e la 14th Destroyer
Flotilla del capitano di vascello Philip Mack, inviate alla ricerca notturna
delle navi italiane.
Già dal pomeriggio del 28 marzo il
capitano di fregata Eliseo Porta, capo dei crittografi imbarcati sulla Vittorio Veneto, aveva detto a Iachino che
interpretando le intercettazioni delle comunicazioni nemiche – cioè proprio lo
scopo al quale era stato imbarcato – aveva ricavato l’impressione che il grosso
nemico fosse in mare. Iachino l’aveva ascoltato, poi lo aveva congedato senza
dire niente: il parere di Porta probabilmente contrastava con il quadro della
situazione che Iachino s’era fatto, dunque l’ammiraglio doveva aver concluso
che ad essere in errore fosse Porta. Purtroppo – uno dei tanti “purtroppo”
della tragica notte di Matapan – non era così.
Un paio di cacciatorpediniere
sarebbero stati probabilmente sufficienti, uno per prendere il Pola a rimorchio e l’altro per scortarlo;
qualora fossero sopraggiunte le navi britanniche, i due cacciatorpediniere
avrebbero potuto recuperare l’equipaggio dell’incrociatore ed affondarlo con i
siluri. Al massimo, volendo esagerare, si sarebbe potuta distaccare ad
assistere il Pola tutta la IX
Squadriglia. Iachino la pensava diversamente; disse in seguito che due
cacciatorpediniere avrebbero potuto solo affondare il Pola, non sarebbero nemmeno
bastati a salvarne l’equipaggio e non avrebbero avuto l’autorità necessaria a
decidere se affondare o meno l’incrociatore. Pertanto, alle 20.18 ordinò che
tutta la I Divisione (Zara, Fiume e IX Squadriglia) si recasse a
soccorrere la nave danneggiata («1a Divisione vada soccorso POLA. 201828», messaggio trasmesso alle
20.21); il messaggio giunse sullo Zara
pochi minuti dopo che Cattaneo aveva detto che avrebbe distaccato due
cacciatorpediniere col Pola, e fu
l’aiutante di bandiera dell’ammiraglio, tenente di vascello Vincenzo Raffaelli,
a recapitarlo a Cattaneo. Questi non disse niente, pertanto, dopo qualche
minuto, Raffaelli gli fece presente che l’ordine era esecutivo; al che Cattaneo
rispose “Lo so. I due telegrammi si sono sicuramente incrociati. Voglio dare il
tempo all’ammiraglio Iachino di riconsiderare la questione”.
Iachino, avendo ricevuto alle 20.27 il
messaggio inviato da Cattaneo alle 20.15 con cui quest’ultimo diceva che
avrebbe lasciato due cacciatorpediniere a soccorrere l’incrociatore colpito,
ribadì alle 20.38 (con messaggio trasmess0 alle 20.45) «ZARA FIUME et 9a squadriglia vada soccorrere POLA. 203828»).
Cattaneo aveva intuito che forze
navali britanniche di entità a lui sconosciuta stavano seguendo la squadra
italiana, e pertanto tardava ad eseguire l’ordine, trovando inutile rischiare
tutta la sua Divisione quando sarebbe bastato qualche cacciatorpediniere (anche
se sopravvalutava la distanza col nemico, e dunque pensava che avrebbe avuto
qualche ora in più per rimorchiare il Pola).
Le prime due comunicazioni, quella di Cattaneo delle 20.16 (trasmessa solo alle
20.25) e quella di Iachino delle 20.18 (trasmessa alle 20.21) si erano
incrociate: Cattaneo l’aveva capito e volle lasciare al suo superiore il tempo
di valutare la sua proposta e – si augurava – ripensarci. Ma Iachino rimase
fermo nella sua decisione.
Intanto, alle 20.19, lo Zara diramò l’ordine «Velocità nodi 22
linea di fila ordine diretto all'ordine»: la I Divisione accelerava per
portarsi 5000 metri
a proravia della Vittorio
Veneto, in base agli ordini delle 20.05. Al medesimo scopo, alle 20.32 lo Zara ordinò al Fiume «Velocità 25 nodi all'ordine» e poi
alla IX Squadriglia di accodarsi al Fiume:
la formazione italiana si disponeva così in linea di fila, con, nell’ordine, la
I Divisione, la IX Squadriglia, la Vittorio
Veneto circondata dai caccia
della XIII Squadriglia, la III Divisione (che aveva ricevuto ordine di
posizionarsi 5000 metri
a poppavia della corazzata) e la XII Squadriglia. Alle 20.45, a seguito di un
ordine di Iachino a tutte le unità di assumere rotta 323°, lo Zara trasmise al Fiume «Gradi 323 esecutivo».
Alle 20.47 la Vittorio Veneto chiese allo Zara di dare notizie del Pola, forse per sollecitare
l’esecuzione dei precedenti ordini (alle 20.53 giunse sulla corazzata un
messaggio dell’incrociatore colpito, ritrasmesso dallo Zara: «Colpito da siluro al centro alt Allagati tre compartimenti
apparato motore prora tre caldaie 4-5 e 6-7 alt Chiedo assistenza e
rimorchio»). Tre minuti dopo, Iachino comunicò a Cattaneo la notizia del
messaggio di Supermarina secondo il quale, alle 17.45, una nave sede di comando
complesso era a 75 miglia
dalla formazione italiana («Alle 17.45 una forza navale era miglia 40 per 240°
da Capo Crio velocità presunta 15»).
Alle 20.24 (ma il messaggio raggiunse
la Vittorio Veneto solo alle 20.56 e
Iachino solo alle 20.58) Cattaneo, che fino ad allora era stato riluttante a
tornare indietro con tutte le sue navi, domandò inesplicabilmente al superiore
«Chiedo se posso invertire la rotta per andare a portare assistenza nave POLA. 202428», ed alle 21
(messaggio trasmesso alle 21.03) Iachino rispose affermativamente («Sì.
Invertite la rotta. 210028»). Già prima di questa conferma finale,
probabilmente in seguito alla ricezione dell’ordine delle 20.38, la I Divisione
aveva accostato ad un tempo di 180° sulla dritta ed invertì la rotta alle
21.06, dirigendosi verso il Pola.
Nel dare l’ordine di invertire la rotta, l’ammiraglio Cattaneo aveva
semplicemente commentato: “È un guaio!”.
Da bordo delle altre navi, gli uomini
videro la I Divisione separarsi da loro ed allontanarsi in linea di fila: lo Zara, nave ammiraglia, procedeva
in testa, seguito dal Fiume,
poi l’Alfieri in qualità
caposquadriglia della IX Squadriglia, quindi il Gioberti, dietro di esso il Carducci, e l’Oriani in coda. Non le avrebbero mai più
riviste.
Al momento dell’inversione di rotta,
la distanza tra il Pola fermo ed il resto della squadra, che
era proseguito, era divenuta di 24 miglia .
La I Divisione assunse rotta 135°, ed
alle 21.07 Cattaneo ordinò a Fiume e IX Squadriglia di portare la
velocità a 16 nodi («Velocità 16 nodi all'ordine»), che aumentò a 22 nodi alle
21.25 per poi ridurla nuovamente a 16 alle 22.03. Questa velocità, poi valutata
troppo bassa, era causata dal fatto che i cacciatorpediniere della IX
Squadriglia erano ormai a corto di carburante (il che fu segnalato allo Zara, che a sua volta riferì a
Iachino alle 21.50, nel suo ultimo messaggio: «L’autonomia rimasta alla
Squadriglia Alfieri è molto limitata e non permette un
ingaggio d’emergenza, che pensiamo essere quasi certo»), rimasto in quantità
appena sufficiente a tornare alla base (il Carducci,
che aveva una scorta più ridotta degli altri, lo comunicò direttamente allo Zara alle 20.15, dopo averne informato
anche il proprio caposquadriglia).
(Lo storico Francesco Mattesini ha
anche ipotizzato che Cattaneo decise deliberatamente di avvicinarsi al Pola a velocità moderata perché riteneva
probabile un incontro con navi britanniche, e voleva che questo accadesse prima
che iniziasse il rimorchio dell’incrociatore danneggiato, momento nel quale le
sue navi si sarebbero trovate in condizioni di massima vulnerabilità. Cosa
avesse davvero in mente Cattaneo, ovviamente, resterà per sempre oggetto di
congettura).
La ridotta riserva di combustibile
rimasta ai cacciatorpediniere fu anche uno dei motivi per i quali Cattaneo,
essendosi trovato con la IX Squadriglia a poppavia dei suoi incrociatori a
seguito dell’inversione di rotta, non ordinò loro di portarsi a proravia di
questi ultimi, dato che per portarsi nuovamente in testa allo schieramento i
cacciatorpediniere del capitano di vascello Toscano avrebbero dovuto
incrementare considerevolmente la velocità, consumando così più carburante. Secondo
l’aiutante di bandiera Raffaelli, dopo l’inversione di rotta i
cacciatorpediniere rimasero indietro rispetto agli incrociatori, perciò
Cattaneo, dopo aver ordinato 22 nodi agli incrociatori, impartì alla IX
Squadriglia l’ordine di serrare le distanze alla massima velocità; i
cacciatorpediniere svilupparono la massima velocità possibile, ma non ridussero
comunque le distanze fino a quando, più tardi, Zara e Fiume ridussero la
velocità a 12 nodi.
Il comandante del Carducci, capitano di fregata Ginocchio, tentò con la sua nave di
portarsi in testa alla formazione, assieme agli altri cacciatorpediniere, ma –
quando stava già per superare gli incrociatori – venne contattato dallo Zara, che ordinò ai cacciatorpediniere
di posizionarsi a poppavia degli incrociatori; sorpreso da tale decisione,
Ginocchio chiese conferma, che giunse dopo cinque minuti.
Cattaneo fu in seguito molto criticato
per la formazione che assunse con le sue navi, posizionando la IX Squadriglia a
poppavia degli incrociatori, invece che a proravia di questi ultimi: se i
cacciatorpediniere fossero si fossero trovati in posizione di scorta avanzata
notturna (4 km
a proravia degli incrociatori, con un intervallo di 2 km tra ogni
cacciatorpediniere), forse le cose sarebbero poi andate diversamente. Tutti gli
storici, per decenni, e molti ancora oggi, sostengono che l’ordine di Cattaneo
di posizionare la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori infrangesse le
regole prescritte nella Regia Marina per la navigazione notturna in tempo di
guerra, che prevedevano invece che i cacciatorpediniere venissero posizionati a
proravia delle navi maggiori, per formare uno schermo difensivo. Più recenti
ricerche da parte dello storico Francesco Mattesini, autore di una monumentale
opera su Capo Matapan, hanno però evidenziato che le norme di Squadra
contemplavano un’eccezione a questa regola, in caso di condizioni pessime di
visibilità notturna. In questa evenienza, tali norme prescrivevano che i
cacciatorpediniere dovessero navigare – in singola o doppia linea di fila – a
poppavia delle navi maggiori, anziché a proravia, perché in caso di incontro
improvviso con unità nemiche avrebbero dovuto essere le navi maggiori ad aprire
il fuoco per prime: l’articolo 68 della direttiva SM-11-S del gennaio 1936
disponeva che «All’approssimarsi della notte le Unità del naviglio sottile che
il C.C. [Comandante in Capo] intende far navigare in unione con le unità
maggiori, vengono inviate di poppa alla formazione di queste, in unica e doppia
linea di fila». Era una vera assurdità, visto che gli equipaggi delle navi
maggiori – a differenza di quelli dei cacciatorpediniere – non erano addestrati
al combattimento notturno, e gli incrociatori non erano muniti di cariche di
lancio senza vampa per il tiro notturno, e di notte viaggiavano con i cannoni
per chiglia, del tutto impreparati ad un’azione di fuoco; ma questo era
prescritto dalle regole, e Cattaneo vi si attenne.
Difatti Supermarina, nelle relazioni
successive alla battaglia, non diede peso alcuno al fatto che la IX Squadriglia
si fosse trovata dietro e non davanti agli incrociatori: a cominciare le
polemiche in merito fu l’ammiraglio Iachino, nel dopoguerra, il quale tentò di
diminuire la propria responsabilità del disastro attribuendolo in parte ad
errori commessi da Cattaneo.
E “pessime condizioni di visibilità
notturna” descriveva alla perfezione la notte 28 marzo, una notte priva di
luna, estremamente buia, con alcune nuvole che riducevano molto la visibilità,
soprattutto verso est. Ne consegue che Cattaneo non infranse le regole, ma vi
si conformò diligentemente, tenendo anche conto che la scarsa visibilità
avrebbe potuto dar luogo ad errori di riconoscimento con i cacciatorpediniere,
se fossero stati posizionati a proravia, e specialmente sarebbe stata
d’intralcio al tiro degli incrociatori in caso d’incontro con le unità
britanniche. Inoltre non solo Iachino, ma anche Cattaneo sottovalutava i tempi
e l’entità della minaccia cui andava incontro: riteneva che avrebbe avuto a che
fare soltanto con incrociatori e cacciatorpediniere, non corazzate, e che
l’incontro si sarebbe verificato molto più tardi, quando il Pola fosse già stato preso a rimorchio, ed
i cacciatorpediniere sarebbero stati disposti tutt’attorno agli incrociatori
per proteggerli su tutti i lati.
La Commissione d’Inchiesta Speciale
sulla perdita dello Zara, istituita
nel 1946 e composta dagli ammiragli Silvio Salsa, Wladimiro Pini e Gino Ducci
(presidente), giudicò che sarebbe stato opportuno che la I Divisione fosse
preceduta dai cacciatorpediniere, ma anche che ciò avrebbe potuto portare a
pericolosi equivoci con il Pola,
avrebbe richiesto l’effettuazione del segnale di riconoscimento (che sarebbe
stato meglio evitare, non essendo sicuro dove fossero le navi nemiche) ed
avrebbe fatto perdere altro tempo prezioso. La CIS osservò anche che Iachino,
sebbene informato dalla formazione assunta da Cattaneo, non ebbe nulla da dire
al suo sottoposto.
Criticata sarebbe stata, in seguito,
anche la decisione di Cattaneo di concedere agli equipaggi delle sue navi,
durante la navigazione verso il Pola,
di iniziare a fruire dei turni di riposo. D’altra parte, tenerli ai posti di
combattimento sarebbe servito a poco, visto che non erano stati addestrati al
combattimento notturno; ma un più vigile servizio di vedetta avrebbe certamente
giovato.
Alle 21.06 Cattaneo trasmise a tutta
la Divisione il messaggio «Si inverte la rotta per andare ad assistere il POLA»; alle 21.24 Iachino lo
autorizzò ad abbandonare il Pola se fosse stato attaccato da superiori
forze nemiche, col messaggio «In caso di incontro con forze superiori
abbandonate Pola 210528» (alle 23.45
anche Supermarina, ottenuto l’assenso di Mussolini in persona, inviò analoga
autorizzazione a Cattaneo, se avesse valutato la situazione «difficile anche in
relazione ad eventuali offese aeree e navali»: ma a quell’ora la sorte della I
Divisione si era già compiuta), ed in quello stesso momento lo Zara informò il Pola di stare venendo a portargli aiuto, domandandogli a che ora
fosse avvenuto il siluramento («Vengo a darvi assistenza – dite ora in cui
siete stato colpito 211528»). Alle 21.33 il Pola
rispose di essere stato colpito alle 19.50 («Ore 19.50 – 213028»), ed alle
21.34 cominciò lo scambio di informazioni tra Zara e Pola per preparare le operazioni di
rimorchio, una volta le navi di Cattaneo fossero giunte sul posto. Alle 21.57
Cattaneo comunicò al Fiume «Tenetevi pronto a prendere a
rimorchio Nave POLA» (il
messaggio, compilato alle 21.57, fu trasmesso alle 22.06); anche sullo Zara furono fatti i preparativi per il
rimorchio. Lo Zara ordinò al Fiume anche di passare al posto notturno
di combattimento per guardie.
All’insaputa di Cattaneo e di Iachino,
però, già dalle 20.15 il radar dell’incrociatore britannico Orion, inviato con il resto
della Forza B alla ricerca della formazione italiana, aveva individuato il
relitto galleggiante del Pola.
Dopo aver effettuato vari rilevamenti radar senza essere riuscito ad
identificare il contatto (il Pola non era infatti stato visivamente
avvistato), l’ammiraglio Pridham-Wippell, comandante della Forza B, avendo
comunicato al suo comandante in capo (l’ammiraglio Cunningham, comandante della
Mediterranean Fleet ed imbarcato sulla Warspite)
la posizione della nave sconosciuta perché decidesse sul da farsi, decise di
proseguire senza curarsene ulteriormente.
Alle 21.55 (od alle 21.15, o poco dopo
le 22) un altro degli incrociatori di Pridham-Wippell, l’Ajax, rilevò un
nuovo contatto radar: stavolta erano tre navi, che si trovavano cinque miglia a
sud della Forza B (che era in quel momento nel punto 35°19’ N e 21°15’ E), su
rilevamento compreso tra 190° e 252°. Erano probabilmente Gioberti, Carducci ed Oriani,
che assieme al resto della I Divisione stavano procedendo su rotta opposta a
quella della Forza B, rispetto alla quale erano effettivamente poco più di
cinque miglia a sud: Pridham-Wippell, però, pensò trattarsi di tre degli otto
cacciatorpediniere della 14th Destroyer
Flotilla del capitano di vascello Mack, inviati anch’essi alla ricerca delle
navi italiane: lo stesso pensò il comandante Mack, che aveva ricevuto la
comunicazione radio dell’avvistamento, e rispose all’Ajax che le navi da loro rilevate dovevano
essere le sue. La Forza B, pertanto, alle 22.02 accostò verso nord per
allontanarsi, onde evitare incidenti con le navi di Mack. Le navi di Cattaneo
superarono quindi indenni ed ignare sia la Forza B (passando a sud di essa) sia
le navi di Mack (ad una decina di miglia di distanza), procedendo su rotta
opposta.
Ricevuta la segnalazione di
Pridham-Wippell sul relitto del Pola (che ancora non si sapeva essere
tale), Cunningham assunse con le sue navi (Barham,
Valiant, Warspite, Formidable ed i
cacciatorpediniere Stuart, Havock, Griffin e Greyhound)
rotta 280° per scoprire la sua identità, e distruggerlo. La speranza era che
potesse essere la Vittorio Veneto. Dopo
un’ora la Valiant, unica
corazzata munita di radar, che subito dopo il mutamento di rotta aveva iniziato
a scandagliare la zona con il suo radar per cercare la nave immobilizzata,
localizzò il Pola 6 miglia a prua sinistra (per altra
fonte a 4,5 miglia di distanza, su rilevamento 191°), e tutte le navi di
Cunningham accostarono di 40° a sinistra, assumendo rotta 240°. In tal modo si
avvicinarono in linea di rilevamento verso il contatto sospetto: una manovra
inusuale, non contemplata dalle procedure della Royal Navy per il combattimento
notturno, e piuttosto rischiosa, perché esponeva ad eventuali attacchi di
cacciatorpediniere. Ma di cacciatorpediniere, con il Pola, non ce n’erano.
L’ammiraglio britannico pensò di
trovarsi di fronte alla Vittorio
Veneto: di conseguenza, ordinò ai suoi cacciatorpediniere di scorta (Stuart ed Havock erano a dritta delle corazzate, Greyhound e Griffin a sinistra) di spostarsi tutti a
dritta per liberare il campo di tiro verso sinistra, mentre 24 cannoni da 381 mm – l’armamento
principale delle tre corazzate – venivano puntati verso il punto in cui il
radar della Valiant aveva localizzato
la nave ignota, pronti ad aprire il fuoco non appena fosse stata avvistata con
i binocoli.
Alle 22.23, prima di completare la
manovra di spostamento per liberare il campo di tiro delle corazzate, lo Stuart (capitano di vascello Hector Macdonald
Laws Waller) segnalò urgentissimamente a Cunningham «Unità sconosciuta per 250°
a 4 miglia
di distanza» (in direzione, cioè, opposta rispetto al Pola), seguito alle 22.25 da
un’altra nave che comunicò «J – 300 – 6», cioè «rilevo unità di superficie
nemica per rombo 300° a distanza 6»: erano le navi del gruppo «Zara», che venivano a soccorrere il Pola.
Prima ancora che il messaggio dello Stuart fosse ricevuto sulla Warspite, comunque, fu il
commodoro John Hereward Edelsten, capo di Stato Maggiore di Cunningham, ad
avvistare le navi italiane. Mentre tutte le vedette, i puntatori e gli
ufficiali britannici cercavano nel buio a sinistra, dove il radar della Valiant aveva localizzato il relitto del Pola, Edelsten stava
tranquillamente controllando l’orizzonte sulla destra, con un binocolo, dalla
plancia ammiraglio della Warspite.
Alle 22.25 Edelsten disse con calma a Cunningham di aver avvistato due grandi
incrociatori, preceduti da uno di dimensioni minori, che stavano attraversando
la rotta della formazione britannica a proravia della stessa, ad una distanza
di un paio di miglia, sulla dritta. Il comandante della Mediterranean Fleet si
accertò egli stesso dell’esattezza dell’avvistamento, ed il capitano di fregata
Power, esperto nel riconoscimento delle navi italiane, confermò che fossero due
incrociatori classe Zara e (erroneamente) uno da 5000-6000
tonnellate, probabilmente tipo Colleoni. Erano le navi di Cattaneo, in
navigazione in linea di fila su rotta 130°.
Le navi britanniche erano tutte munite
di colorazione mimetica, che ne diminuiva di molto la probabilità di
avvistamento, mentre quelle italiane, a parte il Fiume, avevano ancora la loro
colorazione grigio chiaro, senza mimetizzazione, che le rendeva molto più
visibili di notte.
In quegli stessi minuti, alle 22.29,
le navi di Cattaneo avevano avvistato un razzo Very rosso levarsi nel cielo a
poca distanza, a 40° di prora sinistra: era stato il Pola a lanciarlo, per farsi vedere, nel
timore che le sagome scure che aveva visto passare nelle vicinanze poco prima –
le corazzate di Cunningham – fossero le navi di Cattaneo, e che non l’avessero
visto. In seguito a ciò, la I Divisione ridusse la velocità a 16 nodi e
cominciò ad accostare a sinistra, verso il punto da cui era partito il razzo.
Intanto il Pola aveva effettuato segnalazioni anche con
la lampada Donath: ma queste ed il razzo erano stati visti non solo dalla I
Divisione, ma anche dalle navi da battaglia britanniche.
Cunningham ordinò che la formazione
accostasse ad un tempo di 40° sulla dritta, ricostituendo la linea di fila sul
rombo 280°; poi le torri dei cannoni delle tre corazzate – nell’ordine Warspite, Valiant e Barham,
distanziate di circa 600
metri l’una dall’altra – furono puntate nella direzione
da cui provenivano le navi della I Divisione. Alle 22.27 Cunningham ordinò alla Formidable di uscire dalla formazione ed
allontanarsi verso destra, essendo al momento inutile ed anzi a rischio di
essere coinvolta in un combattimento notturno nel quale non avrebbe potuto
difendersi adeguatamente se attaccata; al Griffin,
che si trovava ancora sulla linea di tiro delle corazzate in procinto d’aprire
il fuoco, fu ordinato in malo modo di levarsi di mezzo.
Nessuno, sulle navi di Cattaneo,
sospettava della presenza della poderosa formazione nemica a pochi chilometri:
sullo Zara, la situazione appariva
tranquilla. L’attenzione dell’ammiraglio Cattaneo e del comandante Corsi era
rivolta alla rotta, e all’individuazione del Pola: entrambi sapevano che era molto vicino, ma non riuscivano a
vederlo nel buio. Le navi italiane procedevano a 12 nodi; era stato ordinato di
ridurre a 6 nodi in quanto si era ormai vicini al Pola, ma non era ancora stato dato l’esecutivo, volendo aspettare
finché l’incrociatore danneggiato non avesse acceso il fanale azzurro
direzionale, come gli era stato ordinato. Si guardava verso prora, attendendo
di vedere in Pola, e intanto nessuno
notava il vero pericolo, che si trovava sulla sinistra.
Alle 22.25 le vedette avvistarono un razzo
very rosso a prora sinistra, il che indusse Corsi a dire al sottotenente di
vascello Giorgio Parodi “Quello è il Pola”,
salvo poi aggiungere, più dubbioso, “Ma quello le sembra proprio il nostro
segnale di riconoscimento?” al che Parodi rispose che il segnale gli sembrava
differente. In realtà era davvero un razzo del Pola, ma quest’ultimo non era solo.
Intanto, Cattaneo aveva ordinato di
stare pronti a diminuire la velocità; lo Zara
accennò una breve accostata a sinistra e cominciò ad effettuare segnalazioni
con il lampeggiatore Donath azzurro per mettersi in contatto col Pola. Corsi ordinò in sala macchine di
rallentare il numero dei giri, e cominciò una trasmissione per radiosegnalatore
diretta al Pola, che cominciava con
la parola “accendete...”.
Proprio in quel momento, un proiettore
(apparteneva al cacciatorpediniere Greyhound,
il più vicino alla formazione italiana, che così illuminava i bersagli per
facilitare il tiro alle corazzate) illuminò il Fiume dietro lo Zara, e
Corsi chiese irritato “Perché fanno uso dei proiettori? Sono tutti impazziti
sul Pola?”.
Ancora nessuno comprendeva la realtà;
nessuno voleva credere che i nuovi arrivati fossero altri dal gemello ferito,
che si comportava in modo inusuale. Qualcuno vide, a non più di tre chilometri
di distanza, delle grosse sagome scure di navi, aventi sull’alberatura il
medesimo gruppo di luci rosse e rosso-arancione di riconoscimento notturno.
Qualcun altro notò anche due luci bianche al traverso a sinistra.
Subito dopo anche lo Zara stesso fu investito da un fascio di
proiettori; il capitano di corvetta Arrigo Trallori vide apparire sulla
sinistra sagome di grosse navi con luci di riconoscimento rosse e rosse
arancione, e poi notò con orrore le vampe di colpi in partenza.
La Warspite
aprì il fuoco per prima, sul Fiume.
Sulle prime, Corsi non capì ancora la
situazione; pensando che fosse un altro errore del Pola, si arrabbiò e gridò “Ora ci sparano anche addosso! Fate
immediatamente il segnale di riconoscimento!”. Ma quando la seconda salva
squassò il Fiume, il comandante dello
Zara realizzò infine la verità.
“Questi sono cannoni da 381, siamo caduti in trappola!”.
Il capitano di corvetta Trallori
osservò i proiettili da 381 compiere il loro breve percorso a mezz’aria, poi
abbattersi spietatamente sul Fiume,
sollevando enormi fiammate che illuminarono anche la poppa del vicino Zara.
Prima che si potesse dare l’allarme,
le salve da 381 iniziarono a cadere anche sullo Zara, e prima di poter abbozzare una qualche reazione (solo una
mitragliera pesante da 37 mm
fece in tempo a sparare), l’ammiraglia della I Divisione fu trasformata in un
relitto in fiamme.
La luce del proiettore aveva mostrato
ai britannici che gli incrociatori italiani avevano i cannoni per chiglia, in
posizione di riposo; poi la Warspite aveva aperto il fuoco prima, da distanza
compresa tra i 2650 ed i 3500 metri, e subito dopo anche la Valiant e la Barham:
ventiquattro cannoni da 381
mm riversarono una valanga di fuoco sui due incrociatori
della I Divisione. L’accensione dei proiettori, la moltitudine di proiettili
illuminanti e le esplosioni dei colpi di grosso calibro sbalordirono e
stordirono gli equipaggi degli incrociatori, non lasciando loro – in quei pochi
secondi – il tempo di abbozzare una reazione.
Il Fiume
fu il primo ad essere centrato e devastato dai tiri dell’artiglieria nemica; lo
Zara ne seguì la sorte poco dopo.
Dopo aver sparato due salve da 381
contro il Fiume, la Warspite cambiò bersaglio ed iniziò a
tirare sullo Zara, che aveva su
rilevamento 186°, illuminato a giorno da proiettori ed illuminanti. Da una
distanza di 3200 metri, la nave britannica sparò una prima salva di otto
proiettili da 381 mm, che caddero a cavallo dello Zara; la maggior parte andò a segno. Seguirono altre tre salve da
381 della Warspite, mentre anche la Valiant, sparata una prima salva sul Fiume, passava subito alla sventurata
nave di Cattaneo: la Valiant fece
fuoco su di essa con tutti i cannoni, tirando cinque bordate di 6-8 colpi da
381 in poco più di tre minuti, da una distanza compresa tra 2950 e 3500 metri.
A partire dalla seconda salva, parecchie andarono a segno: il 75 % dei proiettili
sparati, secondo l’apprezzamento britannico. Cunningham ricordò poi “(…) La Valiant che era di poppa a noi, aveva
aperto il fuoco nello stesso tempo. Anch’essa aveva trovato il proprio
bersaglio, e, quando la Warspite
ingaggiò le artiglierie sull’altro incrociatore, osservai la Valiant che squarciava il suo bersaglio.
La sua velocità di tiro mi impressionò. Non avrei mai creduto che fosse
possibile una cadenza tanto serrata con quei grossi cannoni. La Formidable era uscita di formazione
sulla dritta, ma di poppa alla Valiant
navigava la Barham, anch’essa
seriamente impegnata.
Indescrivibile era lo stato degli incrociatori italiani. Si vedevano intere
torri d’artiglieria e masse di altri pesanti frammenti turbinare e piombare in
mare, e in pochi minuti le navi stesse furono ridotte a torce fiammeggianti,
con incendi che le divoravano di prora a poppa. Tutta l’azione era durata
qualche minuto”.
La Barham,
quando le altre due corazzate avevano aperto il fuoco, stava ancora accostando
– trovandosi in coda – ed aveva così problemi nell’inquadramento del bersaglio.
Dopo aver colpito l’Alfieri con una
prima salva, spostò anch’essa il suo tiro sullo Zara: sei salve da 381 e sette da 152 mm. Le vampe dei suoi stessi
cannoni misero fuori uso i suoi due proiettori, così la corazzata dovette
affidarsi alle proprie granate illuminanti ed all’illuminazione fornita dalle
altre navi per la punteria ed il calcolo della distanza di tiro. Da bordo della
Barham si vide lo Zara che accostava a dritta,
completamente illuminato dagli incendi che divampavano a bordo, e parzialmente
oscurato dal fumo. Le fiamme si levavano altissime, al disopra delle
alberature.
L’ammiraglia della Prima Divisione
incassò in pochi minuti quattro salve da 381 mm della Warspite, cinque della Valiant
e sei della Barham; su di esso si
abbatterono tra gli 84 ed i 102 proiettili ad alto esplosivo del peso di una
tonnellata l’uno, senza contare quelli da 152 mm. Secondo alcuni calcoli, circa
35 tonnellate di esplosivo si abbatterono sull’incrociatore.
Il comandante Corsi ordinò di
accostare immediatamente a dritta e mettere le macchine avanti tutta, per
cercare di allontanarsi, ma la prima salva giunta a segno aveva già devastato
lo Zara a tal punto da rendere tali
manovre inattuabili: saltò subito la corrente e poco dopo mancò anche l’energia
prodotta dalle caldaie, quasi tutte centrate e danneggiate gravemente. I
cannoni secondari da 100 mm
erano regolarmente armati ed anche dotati di munizioni per il tiro notturno, a
differenza di quelli da 203, ma non poterono aprire il fuoco perché gli
apparati per la direzione del tiro furono anch’essi distrutti dai primi colpi
giunti a segno. In tre minuti lo Zara
incassò, secondo quanto stimato dalla CIS nel dopoguerra, quindici colpi da 381 mm .
In sala macchine, il capitano del
Genio Navale Salvo Giuseppe Parodi ricevette attraverso i telegrafi l’ordine di
ridurre la velocità a “120 giri, poi 90, poi nuovamente avanti normale, avanti
mezza, avanti piano, ferma”; poi il telegrafo fu spostato convulsamente su
“tutta forza avanti”, ma subito dopo ci fu uno schianto, seguito da invasione
di vapore nella sala macchine.
Il secondo direttore del tiro, tenente
di vascello Francesco Ferrari, diede l’allarme, che venne poi ripetuto alle
torri da 203 mm; queste ultime ricevettero anche l’ordine di “far mettere in
moto i motori, caricare e seguire gli indici elettrici”, ma i primi colpi
giunti a bordo, facendo mancare la corrente, le immobilizzarono. Il primo
direttore del tiro ordinò di mettere in moto i gruppi elettrogeni e passare al
tiro autonomo, ma una salva da 381 mm spazzò via la torre numero 1 da 203 mm e
mise fuori uso anche la numero 2, che era già armata e rifornita. Presso queste
due torri ci fu una violenta esplosione, seguita da un incendio.
Il capitano di corvetta Trallori
ricordò poi che la prima salva da 381 giunta sullo Zara centrò la torre numero 1 da 203 mm, “rasandola al piano di coperta” (anche da bordo delle navi britanniche si vide una
torre da 203 dello Zara venire
scagliata fuoribordo); lo scossone dei proiettili giunti a segno fece
sussultare violentemente l’incastellatura della plancia, “quasi si dovesse
sradicare”, tanto che Trallori e molti altri faticarono a reggersi in piedi.
L’esplosione dei proiettili da 381
proiettò ovunque una miriade di schegge, che falcidiarono il personale della
stazione di direzione del tiro, i serventi del complesso da 100/47 mm di prora
sinistra e quelli del vicino obice. Un altro colpo centrò la plancia
all’altezza delle colonnine di punteria, uccidendo o ferendo quasi tutti gli
uomini addetti a queste ultime; un ulteriore colpo devastò la zona centrale
della nave e penetrò in sala macchine, mettendo fuori uso la macchina di
sinistra.
Un sottufficiale, che si trovava sul
ponte batteria, si ritrovò circondato da incendi e cadaveri di commilitoni. Un
altro sottufficiale segnalatore stava dormendo al momento dell’attacco, e si
ritrovò catapultato all’improvviso in un inferno di esplosioni e devastazione:
cercando scampo a questo macello, si fece il Segno della Croce, invocò tutti i
Santi che conosceva, e si buttò a mare. Così fecero anche altri.
Intanto era stato ordinato di
accostare a dritta e mettere le macchine a tutta forza, per cercare di
allontanarsi, ma a causa del timone e del fatto che funzionava (a tutta forza)
solo la macchina di dritta, lo Zara
finì con l’accostare mettendo la prua verso le navi britanniche.
A questo punto l’incrociatore fu
raggiunto da un’altra salva da 381, che lo colpì sulla dritta, provocando nuovi
enormi danni e facendo esplodere la caldaia numero 5. A seguito dei nuovi
danni, anche la macchina di dritta iniziò gradualmente a diminuire i giri, fino
a fermarsi completamente. Lo Zara
seguitò a manovrare per pochi minuti, con leggero abbrivio in avanti, poi si
fermò con la prua rivolta a nord. Una nave in fiamme lo superò passando sulla
dritta; forse era il Fiume, sospinto
dall’abbrivio.
Le tre corazzate di Cunnigham spensero
i proiettori alle 22.32 (per altra fonte, cessarono il fuoco alle 22.35) ed
accostarono ad un tempo di 90° sulla dritta per evitare inesistenti siluri
lanciati dai cacciatorpediniere italiani, dei quali credevano di aver visto le
scie, dopo di che si allontanarono rapidamente dal luogo del massacro. “Il tiro
a segno nel luna park di Matapan”, come lo definì poi, in modo non inesatto, lo
storico Giorgio Giorgerini, era durato non più di tre minuti: tanto era bastato
a ridurre Zara, Fiume, Alfieri e Carducci a relitti galleggianti. Solo l’Oriani ed il Gioberti riuscirono scampare, il primo
danneggiato.
La Vittorio
Veneto e le altre navi di
Iachino erano in quel momento a decine di miglia di distanza: videro i bagliori
degli incendi e sentirono le cannonate e le esplosioni.
Iachino descrisse così in seguito
quello che vide: “il caposervizio di vigilanza sull'ala di plancia - è Iachino
che racconta - viene di corsa ad avvertirmi che si vedono di poppa grandi
bagliori e vampate di salve di grossi cannoni. Balzo dal mio seggiolino e corro
anch'io a guardare verso poppa, dove trovo alcuni ufficiali che stanno immobili
e silenziosi, allibiti dinanzi al terribile spettacolo che si presenta ai loro
occhi. Molto distanti, di poppa a noi, si vedono grandi vampate rossastre
susseguirsi rapidamente, mentre fasci vividi di proiettori sciabolano la notte
in tutte le direzioni... È evidente che si tratta di un combattimento in cui si
trova impegnata la nostra Prima Divisione. Non si vedono però i proiettili
illuminanti delle nostre navi...”.
C’erano pochi dubbi su quel che stesse
accadendo, ma Iachino chiese comunque, sia alla I che alla III Divisione: “Dite
se siete attaccato”. Sansonetti dal Trento
risposero di no; da Cattaneo e dallo Zara
non giunse risposta. Presto l’ammiraglio comandante la I Divisione e la sua
nave sarebbero sprofondati nell’eterno silenzio.
Sullo Zara il capitano del Genio Navale Lamberto Quercetti, sceso nel
locale macchina di prua, riferì con calma al parigrado Salvo Giuseppe Parodi
quel che stava succedendo: la I Divisione giunta vicino al Pola, ma era caduta in un’imboscata tesa da unità britanniche, che
avevano illuminato le navi italiane con proiettori ed aperto il fuoco da 2000 metri , colpendo lo Zara a centro nave. Stando in sala
macchine, Parodi non aveva sentito, e non sentì mai, nemmeno un colpo di
cannone, né italiano (difatti non ne furono sparati) né britannico. L’incrociatore
conservava una buona galleggiabilità, ma c’erano molti morti e feriti, specie
con ustioni causate dal vapore; almeno cinque caldaie erano fuori uso, il
timone non rispondeva più ai comandi, le comunicazioni interne erano quasi
completamente fuori uso e così le direzioni del tiro.
Quercetti non aveva ordini specifici
per Parodi e se ne andò dopo avergli lasciato il suo salvagente (essendone
Parodi sprovvisto), ma più tardi fu Corsi in persona a chiamarlo per telefono,
ordinandogli di mettere le macchine a marcia indietro ed aggiungendo “Andiamo a
vedere il relitto del Fiume che sta
bruciando”. Qualche minuto dopo, Corsi chiamò di nuovo e spiegò “Basta, Parodi.
Potete fermare. Abbiamo fatto un giro su noi stessi: ritengo che le macchine
non servano più”. Parodi rispose “Sta bene, comandante. Comunque rimarrò
quaggiù per ogni evenienza. Come mi devo regolare col personale di guardia?”, e
dopo una pausa, Corsi disse “Mandateli su in coperta.” Parodi chiese ancora
“Devo far spegnere le caldaie?” a cui il comandante rispose affermativamente,
per poi richiedere a sua volta “E, se potete trovarlo, fatemi parlare col
direttore di macchina”, spiegando subito dopo “Sono solo in plancia e questo è
l’unico telefono che funzioni”.
Parodi mandò il capo meccanico Alvaro
Filippi alle caldaie numero 1 e 2, per ordinare ai fuochisti di spegnerle, poi
salì in coperta ed ordinò a due fuochisti di cercare il direttore di macchina,
maggiore del Genio Navale Pasquale Chiapperini. Capo Filippi non fece ritorno,
mentre tornò uno dei fuochisti, accompagnato dal maggiore Chiapperini. Parodi
lo mise in contatto telefonico col ponte di comando, ma dopo pochissimo
Chiapperini diede il ricevitore a Parodi, dicendogli “Parli lei, io non capisco
niente”; Corsi spiegò a Parodi “Il suo direttore non è fonogenico. Lui non
capisce quello che dico io ed io non capisco quello che dice lui. Questo è un
ordine per lui, riferiteglielo e confermate: preparate per la distruzione della
nave e informatemi dei provvedimenti presi.” Subito Parodi fece quanto
ordinato; il direttore di macchina se ne andò senza dire niente. Sembrava molto
depresso.
Al suo posto giunse in sala macchine
un cannoniere recante una cassetta-mina ed una scatola di fiammiferi, asserendo
“Questi ve li manda il comandante in seconda Giannattasio”. Con l’aiuto del
fuochista, Parodi sistemò l’esplosivo sotto i tubi delle pompe di circolazione,
indi scese e svitò con una mazza (fissata alla paratia) i bulloni del portello
del condensatore. Tornato poi sul piano di manovra, l’ufficiale vi trovò il
tenente del Genio Navale Alfredo Marchese, che era sceso per accertarsi che gli
esplosivi fossero stati recapitati e, una volta verificatolo, se ne andò
immediatamente. Parodi annunciò al comandante Corsi che nel locale macchine
prodiero tutto era pronto per l’autodistruzi0ne. Questi ribadì che era solo in
plancia, e disse che avrebbe dato l’ordine di far saltare la nave al momento
opportuno; Parodi disse che sarebbe rimasto al suo posto aspettando ordini, e
Corsi concluse con un “Grazie”.
A questo punto Parodi era
completamente solo; prima c’erano stati con lui due o tre fuochisti, ma ormai
anche loro erano andati via.
Nel frattempo, venivano impartite ed
eseguite varie disposizioni per tentare di affrontare la gravissima situazione
della nave. Uno dei problemi maggiori era causato dall’incendio della torre
numero 1, che aveva riempito di fumo e vapore il locale del primo corridoio. Il
comandante Corsi ordinò di allagare il sottostante deposito munizioni per
cercare di spegnere l’incendio. L’ordine venne regolarmente trasmesso dalla
centrale al tenente Marchese, ma non venne eseguito, perché il comandante in
seconda, capitano di fregata Vittorio Giannattasio, riferì dell’esplosione
della caldaia numero 5 e dell’immobilizzazione della motrice di prua, e disse
che si stava preparando a far saltare in aria la nave, giacché i danni erano
ormai irreparabili e non restava che l’autoaffondamento.
L’equipaggio dello Zara, rimasto in ordine ed inquadrato
dagli ufficiali, si prodigò per ore nelle operazioni di spegnimento dei
violenti incendi scoppiati a bordo, specie a prua ed a centro nave; benché
immobilizzato e privo d’energia, l’incrociatore seguitava a galleggiare bene.
Ma non ci si poteva fare illusioni sulla salvezza della nave, e alla fine il comandante
Corsi e l’ammiraglio Cattaneo (che era rimasto illeso), di comune accordo,
decisero per l’autoaffondamento.
Senza più anima viva e con tutti i
macchinari fermi, in sala macchine regnava uno strano silenzio. Innervosito,
alle 23.45 il capitano del Genio Navale Parodi telefonò in plancia, ma non
rispose nessuno; né ci fu risposta ad una sua nuova chiamata, dopo qualche
minuto, e neppure alla terza, delle 23.57, mentre Parodi continuava a guardare
il suo orologio con ansia crescente.
Alle 23.59 Parodi prese la risoluzione
di salire in coperta, ma prima volle scendere a controllare gli esplosivi,
anche per aspettare un altro po’ nella speranza che giungessero disposizioni.
Giunto alla pompa dell’olio, vi scoprì il fuochista di guardia Domenico Pansini,
ed al condensatore il sottocapo Sabbadini, pure di guardia, ed un altro
fuochista. Tutti dissero che erano rimasti ai posti in attesa di ordini; Parodi
ordinò loro di salire in coperta, redarguendo Pansini perché era sprovvisto di
salvagente (sebbene Parodi stesso, prima di riceverlo da Quercetti, non lo
avesse) e consegnandogli pertanto il suo, nonostante l’iniziale rifiuto di
Pansini. Dopo aver salutato, i tre se ne andarono.
Parodi rimase lì per qualche altro
minuto, indi tornò di nuovo sul piano di manovra e vide che Pansini vi aveva
lasciato il giubbotto salvagente.
Salito finalmente in coperta, il
capitano Parodi constatò che lo Zara
era sbandato sulla dritta di circa 6 gradi.
In batteria a dritta regnava il buio
assoluto; Parodi lo illuminò con la sua torcia e vide ovunque brande e diversi
corpi, forse morti, alcuni vicini agli stipetti di sinistra, altri accanto alla
murata. Passando attraverso il locale lavandini dei fuochisti, Parodi giunse in
batteria a sinistra, dove venne illuminato dal fascio di luce di un’altra
torcia: la teneva il comandante in seconda Giannattasio. Parodi gli disse di
essere appena salito dalla sala macchine, non riuscendo a comunicare con il
ponte di comando, e Giannattasio gli disse “Avete fatto bene”, poi chiese
“Scendete nelle caldaie 1 e 2 e guardate se c’è rimasto qualcuno. Mi
risparmierete di andarci”. Parodi eseguì, e non trovò nessuno nei locali
caldaie; era tutto in ordine ma faceva un caldo soffocante.
Tornato in batteria a sinistra, Parodi
s’imbatté, all’imbocco della scala che portava in coperta, nel maggiore medico
Alberto Mazziotti e nel maggiore commissario Salvatore Misitano, intenti a
trasportare un ferito. Qui in batteria, a proravia della scala, c’erano molti
cadaveri e molti feriti gravi, soprattutto ustionati. Parodi aiutò a
trasportare un ferito mentre saliva in coperta; la notte era estremamente buia.
A proravia della cucina ufficiali (quasi a centro nave) egli incontrò un gruppo
di cinque ufficiali, tra i quali l’ammiraglio Cattaneo, il comandante Corsi, il
capitano di fregata Franco Brovelli ed il tenente colonnello del Genio Navale
Domenico Bastianini, capo servizio Genio Navale della I Divisione. Parodi si
presentò a Corsi e gli disse di aver eseguito le sue disposizioni in sala
macchine sino a qualche minuto prima, e di essere salito in coperta in quanto
non riusciva più a comunicare con la plancia; aggiunse che sottocoperta non
c’era più nessuno. Il comandante gli disse “Scusatemi, non vi ho più
telefonato”, poi lo prese per un braccio e aggiunse “Grazie. Avete fatto il
vostro dovere. Sapevo che avrei potuto contare su di voi”. L’ammiraglio
Cattaneo, poco più in là, soggiunse “Bene, Parodi! Ora gettate in mare più
legno che potete”, salvo poi domandargli, mentre Parodi si allontanava, quanto
tempo avrebbe richiesto l’autoaffondamento. L’ufficiale rispose di ritenere che
ricorrendo solo agli allagamenti ci sarebbero volute delle ore, mentre usando
le mine sarebbero bastati venti o trenta minuti, a seconda che si usasse la
miccia corta o la miccia lunga. Cattaneo allora si girò verso Corsi e commentò
“Bisogna proprio fare come abbiamo deciso”. Parodi chiese ancora notizie in
merito all’incendio scoppiato a Prua, e Bastianini rispose che era stato
spento.
Recatosi a poppa, Parodi incontrò di
nuovo il capitano Quercetti nei pressi del quadrato ufficiali; gli riferì
l’ordine di Cattaneo, quindi entrambi entrarono nel quadrato, presero tavole e
sedie e le buttarono in acqua, constatando che galleggiavano bene. In quadrato
c’era un gruppo di feriti, tra i quali il fuochista Battista Nao, che chiese
“Signor Parodi, credete che ci salveremo?” cui quest’ultimo rispose
“Certamente, ne sono sicuro”. Nao chiese da bere, e Parodi sfondò la porta –
già parzialmente divelta – della vinicola e prelevò sette-otto bottiglie dai
rottami, ne spaccò i colli e diede da bere a vari feriti, dovendo aiutare
alcuni di essi a non ferirsi con le facce ustionate e le labbra gonfie e
paonazze. Uno di essi, quando Parodi arrivò a lui con il solo liquore rimasto –
del gin “Ersatz” – ebbe ancora la forza di lamentarsi della qualità: “Che
porcheria, non potete darmi un goccio di quello buono?”.
Quercetti, sprovvisto di scarpe, aveva
riportato qualche lieve ferita ad un piede nel camminare sui vetri rotti.
Parodi lo condusse nella sua cabina, dove gli diede un paio delle sue scarpe;
poi entrambi si recarono in batteria a sinistra, presero due grossi murali e li
portarono in coperta, dove li buttarono in mare da sottovento. Dato che lo Zara si spostava più velocemente di
questi galleggianti, quelli che non venivano usati dai naufraghi rimanevano
sottobordo, trascinati col fianco.
La maggior parte dell’equipaggio dello
Zara si trovava già in acqua; alcuni
ufficiali (tra cui il sottotenente di vascello Beiamino Celi, che si distinse
in questa opera, il tenente di vascello Giuseppe Fabrizio, il tenente di
vascello Giovanni Battista Arimondo, il sottotenente del Genio Navale Direzione
Macchine Dante Tomaselli ed il capitano Quercetti), con l’aiuto di marinai,
presero a lanciare delle cime ed issare così dei naufraghi a bordo. Chi veniva
ripescato appariva già in cattive condizioni, semiassiderato. Parodi chiese se
vi fossero stati dei feriti tra gli ufficiali, ed il maggiore Mazziotti ed il
tenente di vascello Carlo Foldi risposero che il tenente di vascello Enrico
Baracchi, ferito da una scheggia mentre era al posto di manovra, era deceduto
mentre veniva portato in infermeria, e ne avevano portato il corpo nella sua
cabina; chiesero se volesse andarlo a vedere, ma Parodi non andò. Il
guardiamarina Sergio Moni, sebbene ferito alle gambe, si era prodigato
nell’estinzione dell’incendio a prua, ed il sottotenente di vascello Mario
Carrara, benché gravemente ferito alle mani, aveva gettato in mare le munizioni
di una riservetta per evitare che venissero raggiunte dalle fiamme.
Il gruppo di ufficiali che includeva
Cattaneo e Corsi era frattanto arrivato a poppa; Parodi si avvicinò loro e
sentì che stavano discutendo in merito ai feriti gravi. Il loro salvataggio
appariva estremamente difficile: le zattere Carley di prua erano andate
distrutte, mentre le altre, gettate in mare troppo presto, erano ormai troppo
lontane. L’unica imbarcazione disponibile, la motobarca di sinistra, non poteva
essere calata, a seguito del danneggiamento del picco di sinistra. Si decise lo
stesso di collocarvi i feriti (tra di essi vi era il nocchiere Gaetano
Mazzella, uno dei pochi feriti gravi che sopravvissero, recuperati da unità
britanniche; fu ricoverato in un ospedale egiziano), probabilmente per dar loro
almeno qualche speranza; Parodi, però, aveva notato che sul lato sinistro della
motobarca c’erano dei fori. Ad organizzare l’imbarco dei feriti fu il capitano
di fregata Brovelli, che aiutò personalmente a trasportarne alcuni; anche
Parodi (che aiutò a trasportarne tre, che furono sistemati in coperta),
Quercetti, Giannattasio, Celi e Foldi diedero una mano.
Parodi tornò da Corsi e Cattaneo, e
quest’ultimo chiese nervosamente dove fosse il suo aiutante di bandiera; il
capitano di fregata Brovelli, sopraggiungendo, scherzò “Fatemi ringiovanire,
ammiraglio. Permettetemi di essere il vostro aiutante di bandiera. Io ho già le
cordelline”. Mai avrebbe perso la calma e il buonumore.
L'ammiraglio Cattaneo non aveva più il giubbotto salvagente; il suo l'aveva ceduto ad un ferito, che aveva freddo.
L'ammiraglio Cattaneo non aveva più il giubbotto salvagente; il suo l'aveva ceduto ad un ferito, che aveva freddo.
Intorno all’1.15 del 29 marzo,
l’ammiraglio – evidentemente nervoso e preoccupato dalla prospettiva che la sua
nave ammiraglia potesse essere catturata – chiese di nuovo a Parodi quanto
tempo ci sarebbe voluto per l’autoaffondamento; questi rispose che il metodo più
veloce e sicuro era di far saltare in aria la nave, e Cattaneo, con crescente
nervosismo, ribatté “È quello che ho deciso di fare”. Qualcuno, forse il
tenente Fabrizio, suggerì “Possiamo farlo verso l’alba”, ma Cattaneo rispose
“Alba o non alba, io desidero che la nave sia affondata prima che gli inglesi
vengano più vicini. E prima dell’alba essi saranno certamente qui.”
Giannattasio continuava ad occuparsi
dei soccorsi ovunque fosse necessario; Parodi lo sentì chiamare qualcuno nei
ponti sottostanti, e gli si avvicinò. Il comandante in seconda gli diede un
giubbotto salvagente e l’ordine “Parodi, a dieci metri verso prora c’è un
ferito senza cintura. Andate a mettergliela”. Così fece; al suo ritorno trovò
Giannattasio intento a discorrere con Corsi e Cattaneo. Quando ebbe finito,
scese nei locali inferiori insieme a Quercetti, per aprire tutti gli
allagamenti e controllare le cariche d’autodistruzione.
Il comandante Corsi, sempre
tranquillo, domandò una sigaretta. Parodi ne aveva due e glie ne diede una; poi
si recò nel suo camerino e ne prese qualche altro pacchetto, assieme ai
documenti d’identità. Lasciò invece le foto della moglie e delle figlie: le
avrebbe volute prendere, ma non ci riuscì, “mi sarebbe sembrato di togliere
qualcosa al nostro Zara che sapevo
sarebbe presto scomparso per sempre”, come disse in seguito.
Tornato in coperta, Parodi offrì un
pacchetto di sigarette a Corsi, ma il comandante sorrise e rispose “Grazie, ma
credo che siano troppe!”. Poi Parodi andò a passi veloci verso un punto dove
c’erano un paio di ufficiali e dei gruppi di marinai; incontrò il tenente di
vascello Foldi, più calmo rispetto a prima, che parlò ancora della morte di
Baracchi, e poi il tenente di vascello Arimondo, intento, com’era solito fare,
a fumare un sigaro: al saluto di Parodi, rispose (ma in genovese, perché
entrambi erano originari del capoluogo ligure) “Mi sto gustando questo toscano.
Può essere l’ultimo”. Aveva ragione; Arimondo fu tra le centinaia di dispersi
di quella notte.
C’era anche il giornalista Gianantonio
Bardi, imbarcato come corrispondente di guerra, fradicio e tremante per il
freddo. Parodi gli batté una mano sulla spalla e scherzò “Chissà che arti
colone potrai scrivere adesso!”, mentre Bardi sorrise e replicò “Non perdi mai
il buonumore, tu”. Nemmeno lui si sarebbe salvato.
Parodi tornò ancora una volta dal
gruppo di ufficiali radunati attorno a Cattaneo, ma a quel punto il comandante
Corsi ordinò che tutti coloro che non avevano incarichi particolari andassero a
poppa; ciò fu fatto, e Parodi stimò che ci fossero 200 o 250 uomini. Questo
restava dell’equipaggio dello Zara,
quasi millecento tra ufficiali e marinai; gli altri erano morti o feriti o
avevano già abbandonato la nave.
L’ammiraglio Cattaneo si portò al
centro del gruppo, salì sul portello della scala ufficiali e dichiarò: “Un
equipaggio che passa dalla propria nave a una nave nemica è un equipaggio che si
arrende. L’equipaggio dello Zara non
si arrende. Io ho dato l’ordine di affondare la nave”. Diede il saluto alla
voce, inneggiando allo Zara ed alla
Marina italiana ed invitando tutti ad unirsi a lui nel tradizionale grido di
«Viva il re, viva lo Zara, viva
l’Italia!».
Poi Corsi salì al suo posto, e cominciò a parlare a sua volta. “Tra pochi minuti il nostro Zara cesserà di esistere. Quando saremo in mare saremo naufraghi. Può darsi che qualcuno sia fortunato e venga raccolto dal nemico. Ricordate che in questo caso è necessario dare il nostro nome, cognome e grado. È proibito dare qualsiasi altra informazione e non bisogna darla.” Dopo aver ordinato il saluto alla voce, il comandante dello Zara disse ai suoi uomini di abbandonare la nave. La bandiera ancora sventolava, ed avrebbe continuato a farlo fino a che l’acqua non l’avesse sommersa.
Poi Corsi salì al suo posto, e cominciò a parlare a sua volta. “Tra pochi minuti il nostro Zara cesserà di esistere. Quando saremo in mare saremo naufraghi. Può darsi che qualcuno sia fortunato e venga raccolto dal nemico. Ricordate che in questo caso è necessario dare il nostro nome, cognome e grado. È proibito dare qualsiasi altra informazione e non bisogna darla.” Dopo aver ordinato il saluto alla voce, il comandante dello Zara disse ai suoi uomini di abbandonare la nave. La bandiera ancora sventolava, ed avrebbe continuato a farlo fino a che l’acqua non l’avesse sommersa.
Giannattasio si era già recato
sottocoperta per accendere le micce delle cariche esplosive, collocate nel
deposito munizioni prodiero.
Aveva chiesto chi volesse scendere con lui per assisterlo; si era offerto il sottotenente CREM Umberto Grosso. Nessuno dei due sarebbe più tornato.
Né sarebbe tornato il tenente colonnello Bastianini, anch’egli sceso per l’ultima volta nelle viscere della nave – dove ormai non c’era più luce ed anche l’aria circolava a fatica – con pochi altri uomini, sempre per provvedere all’autoaffondamento, ma in modo differente. Bastianini ed i suoi uomini aprirono le valvole di allagamento (per far entrare l’acqua nello scafo) e le portellerie (per permettere una più agevole circolazione dell’acqua), e sfondarono gli scarichi dei condensatori.
Aveva chiesto chi volesse scendere con lui per assisterlo; si era offerto il sottotenente CREM Umberto Grosso. Nessuno dei due sarebbe più tornato.
Né sarebbe tornato il tenente colonnello Bastianini, anch’egli sceso per l’ultima volta nelle viscere della nave – dove ormai non c’era più luce ed anche l’aria circolava a fatica – con pochi altri uomini, sempre per provvedere all’autoaffondamento, ma in modo differente. Bastianini ed i suoi uomini aprirono le valvole di allagamento (per far entrare l’acqua nello scafo) e le portellerie (per permettere una più agevole circolazione dell’acqua), e sfondarono gli scarichi dei condensatori.
Giannattasio, Bastianini
e Grosso non furono mai più rivisti; alla loro memoria sarebbe stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor
Militare.
Il capitano Parodi salutò il
comandante Corsi, ch’era sprovvisto di giubbotto salvagente; quest’ultimo gli
strinse la mano e disse soltanto: “Addio”.
In buon ordine e silenziosamente,
l’equipaggio si gettò in mare. Vicino a Parodi erano il maggiore medico
Mazziotti ed il maggiore commissario Misitano; Mazziotti gli chiese di venire
con loro. Mentre i due maggiori saltarono in mare dal lato sinistro, Parodi
ebbe l’accortezza di calarsi in mare mediante un cavetto, indossando il
giubbotto salvagente, evitando di bagnare testa e spalle: questo semplice
accorgimento fece spesso la differenza tra la vita e la morte. Molti dei
superstiti sarebbero stati tra i richiamati della Marina Mercantile, vecchi
lupi di mare che sapevano come sopravvivere più a lungo in quell’acqua fredda:
indossare maglioni, giacca e cappotto sotto il salvagente e calarsi in mare
gradatamente per non bagnare la parte superiore del corpo; molte delle vittime sarebbero
state tra gli inesperti marinai, tuffatisi in mare dopo essersi tolti i vestiti
più pesanti.
Constatato che il giubbotto salvagente
lo teneva a galla senza problemi, Parodi mollò lentamente il cavetto e
raggiunse Mazziotti e Misitano, che si erano aggrappati ad una tavola insieme
ad un marinaio. I quattro aggirarono, a nuoto, la poppa dello Zara, e si portarono sulla sua dritta.
Sui momenti finali dello Zara, e più precisamente su quale fu la
causa ultima del suo affondamento, vi è tutt’oggi disaccordo: fonti italiane lo
attribuiscono all’azione degli uomini – Bastianini, Giannattasio, Grosso – che
scesero sottocoperta ad aprire le valvole per l’autoaffondamento ed attivare le
cariche esplosive sistemate nei depositi munizioni, ed in particolare all’esplosione
del deposito munizioni di prua, per effetto delle mine fatte brillare da
Giannattasio e Grosso.
Da parte britannica, invece, il colpo
di grazia allo Zara è accreditato ai
siluri del cacciatorpediniere Jervis.
Dopo il cannoneggiamento da parte delle corazzate, infatti, i
cacciatorpediniere britannici vennero inviati a finire coi siluri i relitti
galleggianti delle navi italiane (per il Fiume
non ve ne fu bisogno, dato che affondò da solo per i tremendi danni subiti).
Cunningham aveva inizialmente
destinato a questo compito lo Stuart
e l’Havock, cui aveva ordinato alle
22.41 di dare il colpo di grazia agli incrociatori italiani, visibili –
immobilizzati ed in fiamme – verso sud, su rilevamento 150°. Lo Stuart avvistò alle 22.59 lo Zara in fiamme ed immobilizzato ad un
paio di miglia di distanza, con l’Alfieri
(sul momento scambiato anch’esso per un incrociatore) che gli girava intorno
(aveva il timone danneggiato, e per questo stava girando in tondo). Lo Stuart lanciò otto siluri contro le due
navi, senza colpire; poi si avvicinò al già malconcio Alfieri e lo affondò con cannone e siluro. Mentre così faceva, si
verificò un’esplosione su uno degli incrociatori in fiamme, cui seguirono nuovi
e più grandi incendi.
L’Havock
ingaggiò ed affondò il Carducci, dopo
di che si diresse verso lo Zara (sul
quale era visibile un solo incendio, vicino alla plancia) per finirlo; alle
23.30 gli lanciò contro i quattro siluri che gli erano rimasti, ma nessuno andò
a segno. A questo punto il cacciatorpediniere sparò un proiettile illuminante,
e poi due salve d’artiglieria contro lo Zara.
Il proiettile illuminante rivelò però la presenza, poco lontano (verso
nordest), di un’altra grossa nave, immobilizzata: era il Pola, “dimenticato” nei concitati momenti del massacro della I
Divisione. Erano le 23.45; dopo aver sparato alcuni colpi contro di esso, alle
00.20 del 29 marzo l’Havock richiamò sul
Pola l’attenzione degli altri
cacciatorpediniere. Dato però che il cacciatorpediniere britannico non aveva
acceso il proiettore e non aveva visto molto bene che nave fosse quella che
aveva attaccato, riferì di aver avvistato non un incrociatore classe Zara, ma una corazzata classe Littorio: i britannici speravano di
riuscire a raggiungere la Vittorio Veneto,
il cui affondamento avrebbe suggellato la loro più grande vittoria nel
Mediterraneo. Dato che la ricerca della corazzata era l’obiettivo assegnato
alla flottiglia cacciatorpediniere di Mack, quest’ultimo, non appena ricevette
il messaggio dell’Havock (alle
00.30), accostò nella direzione da questi indicata, con tutte e otto le navi al
suo comando. All’1.20 l’Havock
rettificò il suo apprezzamento, comunicando che la nave avvistata era in realtà
un incrociatore pesante, ma quando la comunicazione giunse a Mack, all’1.30,
era ormai tardi per tornare indietro; così la 14th Destroyer Flotilla proseguì verso il Pola.
Alle 2.30 il Jervis, nel dirigere verso il Pola,
s’imbatté nel relitto in fiamme dello Zara:
lo avvistò quando il fascio di luce del suo proiettore si fermò sull’incrociatore,
mostrando pochi piccolo incendi che ardevano sul ponte superiore. Passandogli
accanto, il Jervis lanciò quattro
siluri contro lo Zara: due di essi
colpirono l’incrociatore italiano, facendolo esplodere (altre fonti parlano di
cinque siluri lanciati e ne rivendicano tre a segno).
Si può forse ipotizzare che il
brillamento delle cariche da parte dei volontari rimasti sullo Zara, ed il suo siluramento da parte del
Jervis, siano per coincidenza
avvenuti contemporaneamente.
Il capitano Parodi ed i maggiori Mazziotti
e Misitano distavano dalla nave circa centro metri quando ci fu la prima
detonazione: un sibilo, seguito da una colonna di fumo bianco. Quattro o cinque
minuti dopo esplose anche il deposito munizioni prodiero, sollevando
un’altissima colonna di fumo bianco-rosato, che illuminò tutta la zona; dallo Zara si levavano ondate di fuoco, mentre
grossi oggetti erano lanciati in aria. Scemate le fiamme, la nave ammiraglia
della I Divisione Navale sbandò sulla dritta, capovolgendosi. Passò qualche
minuto, poi i naufraghi furono raggiunti da diverse grosse ondate, generate dal
gigante in agonia. Non furono probabilmente pochi coloro i quali, non essendosi
sufficientemente allontanati dalla nave, furono trascinati sott’acqua dal suo
risucchio.
Poi, tutto tornò calmo. Lo Zara giaceva sul fondo dell’Egeo. Erano
le 2.34 del 29 marzo 1941.
Finito il dramma dello Zara – ultimo ad affondare tra le navi
colpite della I Divisione, eccettuato il Pola
che fu affondato due ore dopo in circostanze differenti – ebbe inizio quello
dei suoi naufraghi.
Chi, trovandosi in acqua, vedeva uno
zatterino, cercava con tutte le forze di aggrapparvisi, ma questo spesso
portava al ribaltamento di questi fragili galleggianti, facendo annegare i
feriti e gli occupanti sfiniti che giacevano sul loro fondo. In questo modo
andarono perduti anche i remi, i barilotti d’acqua, le provviste, le medicine,
le pistole lanciarazzi ed i razzi di segnalazione Very.
Molte delle zattere e dei
galleggianti, danneggiati dal tiro britannico nel precedente cannoneggiamento,
affondarono, lasciando innumerevoli superstiti a mollo nell’acqua gelida;
moltissimi di loro scomparvero prima che giungesse l’alba.
Fu questa la sorte anche dell’ammiraglio Cattaneo, del comandante Corsi e del capitano di fregata Brovelli, che avevano abbandonato lo Zara per ultimi, senza giubbotto salvagente.
Fu questa la sorte anche dell’ammiraglio Cattaneo, del comandante Corsi e del capitano di fregata Brovelli, che avevano abbandonato lo Zara per ultimi, senza giubbotto salvagente.
(La sorte di Corsi, in realtà, è
controversa. Dagli interrogatori dei naufraghi dello Zara presi prigionieri, i britannici appresero che si era ritirato
in sala nautica poco prima che lo Zara
esplodesse, dunque affondando con la nave; e questo è riportato anche nella
motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare che fu conferita alla sua
memoria. La storia ufficiale della Marina, però – presumibilmente sulla base
delle deposizioni di altri superstiti dello Zara
– accredita invece la versione secondo cui Corsi avrebbe abbandonato la nave
per ultimo, insieme a Cattaneo, e sarebbe scomparso in mare).
Due marinai compaesani, il nocchiere
Gaetano Mazzella ed il marinaio Vincenzo D’Arco, entrambi di Ponza, si erano
gettati in mare insieme. Mazzella, in servizio di vedetta in coffa con altri
tre uomini, aveva assistito allo sfacelo della sua nave da una posizione
“privilegiata”; D’Arco, nel gettarsi in mare, aveva inghiottito molta acqua ed
era frastornato, forse anche ferito. Cercarono di restare a galla, aggrappati a
dei pezzi di tavola.
Il secondo capo cannoniere Nello Forte
fu visto aggrappato ad una zattera, ma scomparve. Anche suo fratello Enzo,
arruolato nella Regia Aeronautica, sarebbe morto in guerra, abbattuto durante
una missione al largo di Malta.
I naufraghi dello Zara andarono alla deriva per tutta la notte, assieme a gruppi di
superstiti del Fiume.
Poco dopo l’alba, un ricognitore
britannico voò sopra i naufraghi, facendo segnali; poi sopraggiunse un
idrovolante Short Sunderland, il quale ammarò presso i naufraghi e fece
segnali, poi decollò di nuovo e riammarò poco lontano, e dopo circa mezz’ora
decollò un’altra volta e se ne andò definitivamente.
Le unità della Mediterranean Fleet
tornarono sul punto ove la I Divisione era stata annientata alle otto del
mattino del 29; alcuni cacciatorpediniere presero quindi a recuperare i
naufraghi delle navi italiane. La maggior parte dei naufraghi dello Zara venne recuperata intorno alle
undici da tre cacciatorpediniere britannici; in tutto i britannici trassero in
salvo 267 sopravvissuti dello Zara,
insieme a centinaia di uomini del Pola
ed a pochi naufraghi del Fiume.
Alcuni dei naufraghi morirono quando
erano ad un passo dalla salvezza. I due marinai ponzesi, Mazzella e D’Arco,
videro una nave venire verso di loro, ma compresero che li avrebbe travolti;
Mazzella riuscì ad allontanarsi a nuoto con le sue ultime forze (venne poi
tratto in salvo, semiassiderato, da un’altra nave britannica), ma D’Arco non ce
la fece e venne risucchiato dalle eliche della nave, scomparendo per sempre.
Mentre i soccorsi erano in corso,
vennero avvistati alcuni ricognitori tedeschi: temendo un imminente attacco
della Luftwaffe, alle undici le navi della Mediterranean Fleet abbandonarono le
acque al largo di Capo Matapan e diressero per Alessandria, lasciandosi alle
spalle centinaia di naufraghi ancora in acqua. Cunningham inviò un messaggio in
chiaro all’ammiraglio Riccardi, informandolo della posizione dei naufraghi e
suggerendo l’invio di una nave ospedale veloce; il capo di Stato Maggiore della
Regia Marina rispose, anch’egli in chiaro, «Vi ringrazio per vostra
comunicazione. La nave ospedale Gradisca
è già partita ieri sera da Taranto alle ore 17».
L’indomani, alle 17.30, un idrovolante britannico
in ricognizione segnalò delle imbarcazioni cariche di superstiti 90 miglia a sudovest di
Capo Matapan, per cui fu inviato sul posto un cacciatorpediniere greco, l’Hydra.
Questi, nonostante le avverse condizioni meteorologiche, recuperò altri 139
superstiti italiani (dando la precedenza ai feriti), ossia 2 ufficiali e 137
tra sottufficiali, sottocapi e marinai, dei quali dodici dello Zara, 104 del Fiume e 23 dell’Alfieri.
I naufraghi raccolti dall’Hydra furono
sbarcati all’arsenale di Atene ed avviati alla prigionia nei pressi della
capitale greca (prigionia che sarebbe però stata di breve durata, in quanto la
Grecia si arrese all’Asse due mesi dopo, ed i prigionieri furono liberati e
tornarono in Italia).
Mentre il tempo passava, il numero dei naufraghi si assottigliava. Il sole del primo giorno aveva
scaldato molto l’aria, inducendo molti dei naufraghi a spogliarsi; ma con la
notte successiva era tornato il freddo, che falcidiò gli uomini già indeboliti.
Col passare dei giorni, la fame e soprattutto la sete divennero problemi sempre
più gravi.
Molti, nel tentativo di calmare la
tremenda sete, bevvero acqua di mare e poi gradualmente impazzirono, sino ad
uccidersi gettandosi in mare, o cercando di raggiungere a nuoto navi e terre
immaginarie. Alcuni furono anche divorati da degli squali.
Il 30 aprile 1941 la nave ospedale Gradisca, inviata dall’Italia alla ricerca dei
naufraghi, giunse sul luogo del disastro. I primi rottami e chiazze di nafta
vennero avvistati alle 19.25 di quel giorno, in posizione 35°33’ N e 20°55’ O,
e la nave si diresse nel punto ove i britannici avevano segnalato una zattera
con naufraghi, ma non trovò nulla. Alle 00.30 del 31 Supermarina comunicò alla Gradisca la notizia dell’avvistamento,
da parte di aerei italiani, di galleggianti, e la nave si diresse sul posto.
Alle 10.35 vennero avvistati due cadaveri: erano due sottufficiali, entrambi
indossavano ancora il salvagente. Furono recuperati ed identificati, si
proseguì nella ricerca. Alle 19.16 vennero avvistate delle zattere: venne
mandata una motolancia a cercare eventuali sopravvissuti, ma tornò solo con sei
cadaveri, che poterono essere identificati. Erano uomini dello Zara, tra cui il sottocapo segnalatore
Leonardo Pepe.
Iniziava così una lugubre ricerca.
Pochi sarebbero stati i naufraghi trovati ancora vivi, tutti sulle zattere,
sfiniti, affamati, disidratati; tante le zattere vuote alla deriva, troppi i
corpi senza vita, che le onde sollevate dalla Gradisca facevano muovere, come se stessero ancora nuotando.
Alcune dopo il recupero di Leonardo
Pepe e delle altre vittime, furono trovati i primi sopravvissuti, dell’Alfieri. Nei cinque giorni successivi,
la Gradisca avrebbe tratto in salvo
161 uomini, in massima parte del Fiume
e dei cacciatorpediniere. Dello Zara,
la Gradisca recuperò soltanto otto
sopravvissuti, probabilmente su una zattera raggiunta alle 5.25 del 1° aprile. Erano
i cannonieri Ernesto Bacci, Vittorio Balanzoni e Sabatino Petrazzuolo, i
marinai Giuliano Bobicchio, Onorato Perdomini, Miroslavo Semoli e Vincenzo
Venosa, il meccanico Stenio Mezzetti.
Centinaia di salme furono avvistate in
mare durante le ricerche; solo sette furono recuperate, per le altre il
cappellano della Gradisca impartì
da bordo l’Assoluzione.
Il 5 aprile, quando non vi era più
nessuna speranza di trovare altri superstiti, la Gradisca si rimise in viaggio per l’Italia. Giunse a Messina alle
8.30 del 7 aprile, dove i superstiti furono sbarcati alle 15. Cinquantacinque
di essi necessitarono di ricovero ospedaliero.
Le navi britanniche di ritorno dall’operazione
giunsero ad Alessandria d’Egitto alle 17.30 del 30 marzo, e qui sbarcarono i
naufraghi italiani recuperati, che furono trasferiti in un campo di prigionia
presso la città egiziana.
Gaetano Mazzella, che aveva perso il compaesano
D’Arco nelle acque di Capo Matapan, ne trovò un altro quando sbarcò ad
Alessandria: il sottocapo cannoniere Antonio Conte, unico altro ponzese
imbarcato sullo Zara. Si
abbracciarono. Mazzella sarebbe stato trasferito a Pretoria, in Sudafrica,
qualche mese dopo, e poi a Sheffield, in Inghilterra, nel marzo 1943; riuscì a
far sapere ai parenti che era vivo (ai prigionieri era concesso spedire una
cartolina ed una lettera al mese, scrivendo solo di notizie strettamente
personali). Sarebbe tornato in Italia solo nella tarda primavera del 1947,
essendo l’Europa troppo devastata per poterla prima attraversare
dall’Inghilterra all’Italia.
Dei 1086 uomini che componevano l’equipaggio dello
Zara, soltanto otto vennero
recuperati dalla Gradisca e riportati
in Italia. Gli altri 279 sopravvissuti finirono in prigionia, dalla quale non
rientrarono che a guerra finita; i restanti 799 uomini non fecero mai più
ritorno, inghiottiti dalle acque dell’Egeo.
35 ufficiali, 123 sottufficiali, 619 tra sottocapi
e marinai e 23 civili militarizzati dello Zara
riposano per sempre nelle acque di Capo Matapan.
I loro nomi:
Giuseppe Abate,
marinaio segnalatore, disperso
Luigi Abruzzo,
marinaio, disperso
Giuseppe Acampora,
marinaio cannoniere, disperso
Carlo Acetti,
marinaio fuochista, disperso
Ferdinando Adorni,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Adragna,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Aglione,
marinaio cannoniere, disperso
Armando Agnese,
marinaio, disperso
Pietro
Agostinelli, marinaio cannoniere, disperso
Teodoro Agresti,
marinaio cannoniere, disperso
Biagio Aguanno,
marinaio cannoniere, disperso
Francesco Aiello,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Angelo Ainardi,
marinaio cannoniere, disperso
Simone Alagna,
capitano del Genio Navale, disperso
Gaetano Alessi,
sottotenente del Genio Navale Direzione Macchine, disperso
Giuseppe Alfieri, marinaio, disperso
Peppino Aliprandi,
marinaio, disperso
Omero Aloigi,
marinaio cannoniere, disperso
Leonardo Altomano,
marinaio meccanico, disperso
Pantaleo Amato,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Michele Ambrosino,
marinaio, disperso
Carmine Ambrosio,
marinaio cannoniere, disperso
Natale Amendola,
marinaio cannoniere, disperso
Alviero Amidei,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Ammendolia,
marinaio fuochista, disperso
Vincenzo Amodeo,
marinaio fuochista, disperso
Nello Andreani,
operaio, disperso
Riccardo Angelini,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni
Angioletta, marinaio fuochista, disperso
Ettore Antonietta,
marinaio fuochista, disperso
Gennaro Antorino,
marinaio cannoniere, disperso
Salvatore
Apicella, marinaio meccanico, disperso
Vincenzo Aprea,
marinaio, disperso
Salvatore
Arbolino, marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Umberto Arcangeli,
marinaio specialista direzione del tiro, deceduto
Salvatore
Arcarese, marinaio elettricista, disperso
Donato Arciuolo,
marinaio cannoniere, disperso
Ugo Arditi,
marinaio fuochista, disperso
Vincenzo
Arenaccio, marinaio, disperso
Antonio Arico,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Battista
Arimondo, tenente di vascello, disperso
Luigi Armani,
marinaio cannoniere, disperso
Cesare Aronica, marinaio specialista direzione del tiro,
disperso
Antonio Aronica,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Arpa,
marinaio fuochista, disperso
Pasquale Ascione,
marinaio cannoniere, disperso
Gaetano Ascione,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Nicola Assunto,
marinaio cannoniere, disperso
Palmiro Astolfi,
marinaio cannoniere, disperso
Oronzo Attanasio,
marinaio elettricista, disperso
Giovanni Atzori,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Avitaio,
marinaio fuochista, disperso
Francesco Baglivo,
marinaio, disperso
Filippo Balbo,
marinaio cannoniere, disperso
Gennaro Bali,
marinaio cannoniere, disperso
Alberto Bandoni,
operaio, disperso
Luigi Barabino,
secondo capo meccanico, disperso
Enrico Baracchi,
tenente di vascello, deceduto
Ugo Barba, capo
cannoniere, disperso
Ferdinando
Barbato, marinaio, disperso
Francesco Barca,
marinaio, disperso
Gianantonio Bardi,
giornalista (corrispondente di guerra), deceduto
Fulvio Barello,
secondo capo specialista direzione del tiro, disperso
Gaetano Barile,
marinaio nocchiere, disperso
Nunzio Baronello,
marinaio fuochista, disperso
Domenico
Bastianini, tenente colonnello del Genio Navale (capo servizio Genio Navale
della I Divisione), disperso
Adelmo Bastieri,
sottocapo cannoniere, disperso
Giovanni Battista,
marinaio, disperso
Vincenzo
Bavestrello, marinaio, disperso
Angelo Belardi,
marinaio nocchiere, disperso
Pierino Belleri,
marinaio cannoniere, disperso
Antonino Bellia,
marinaio, disperso
Elio Beltrami,
marinaio fuochista, disperso
Gesualdo
Benedetti, sergente specialista direzione del tiro, disperso
Agnello Benincasa,
marinaio, disperso
Lorenzo Benzoni,
marinaio torpediniere, disperso
Filippo Berbiglia,
marinaio, disperso
Pietro Berenato,
marinaio cannoniere, disperso
Sperandio
Bergamelli, marinaio fuochista, disperso
Luigi Bettini,
marinaio cannoniere, disperso
Alessandro Bielli,
marinaio, disperso
Modesto Bisogni,
sergente cannoniere, disperso
Giovanni Bocasasso,
sergente furiere, disperso
Mario Boccia,
sottocapo meccanico, disperso
Giuseppe Bolano,
marinaio, disperso
Dino Boldrini,
marinaio cannoniere, deceduto
Salvatore Bologna,
marinaio, disperso
Pasquale Bonaiuto,
primo cuoco sottufficiali, disperso
Domenico
Bonanotte, marinaio meccanico, disperso
Igino Bondino,
sergente cannoniere, disperso
Salvatore
Bonfiglio, marinaio cannoniere, disperso
Vittorio
Boninsegna, marinaio cannoniere, disperso
Bruno Bontempo,
marinaio fuochista, disperso
Sauro Bonucelli,
marinaio fuochista, disperso
Ernesto Bonzini,
marinaio, disperso
Luigi Bordignon,
marinaio, disperso
Bruno Bordoni,
marinaio cannoniere, disperso
Francesco
Borraccetti, marinaio cannoniere, disperso
Ulderico Borri,
marinaio furiere, disperso
Aniello Bosco, capo
cannoniere, disperso
Santo Boscolo,
marinaio, disperso
Giuseppe Bottari,
marinaio cannoniere, disperso
Amedeo Braghieri,
marinaio torpediniere, disperso
Francesco
Briganti, marinaio cannoniere, disperso
Franco Brovelli,
capitano di fregata, deceduto
Amedeo Brucale,
marinaio, disperso
Carlo Bruna,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe
Bucalossi, aspirante guardiamarina, disperso
Luigi Buccarello,
sottocapo cannoniere, disperso
Antonio Bucci,
marinaio furiere, disperso
Marcello Buglia,
marinaio elettricista, disperso
Ciro Buono,
marinaio, disperso
Giovanni Burzo,
sottocapo cannoniere, disperso
Elio Cabai,
marinaio meccanico, disperso
Emilio Cabano,
marinaio cannoniere, disperso
Vittorio
Cacciatore, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Cafà,
marinaio, disperso
Vito Cafagno,
marinaio, disperso
Cosimo Cafiero,
marinaio, disperso
Castone Caiumi,
marinaio segnalatore, disperso
Amleto Calabria,
sottocapo radiotelegrafista, disperso
Gino Calanchi,
aspirante guardiamarina, disperso
Luigi Calì,
marinaio fuochista, disperso
Sigfrido
Calligaris, marinaio fuochista, disperso
Natale
Caltagirone, marinaio cannoniere, disperso
Luigi Calvaruso,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Calvo,
secondo capo nocchiere, disperso
Francesco Camarda,
marinaio cannoniere, disperso
Antonino
Cammarata, marinaio cannoniere, disperso
Eduardo Campagna,
marinaio fuochista, disperso
Pietro Campanelli,
marinaio cannoniere, disperso
Vittorio Campione,
aspirante sottotenente commissario, deceduto
Radames Camporese,
marinaio meccanico, disperso
Giuseppe Cannata,
sergente cannoniere, disperso
Isidoro Capiotto,
marinaio radiotelegrafista, disperso
Enrico Capobianco,
marinaio, disperso
Fernando Capocci,
marinaio elettricista, disperso
Domenico
Capozucca, marinaio, disperso
Pasquale Cappa,
capo cannoniere, disperso
Salvatore Capuano,
marinaio, disperso
Vincenzo
Caradonna, marinaio, disperso
Mario Caraviello,
marinaio, disperso
Alfredo Carboni,
cannoniere, disperso
Francesco Carcano,
marinaio fuochista, disperso
Giacomo Careddu,
marinaio fuochista, disperso
Letterio Carella,
marinaio, disperso
Attilio Carestia,
marinaio, disperso
Giuseppe
Caringella, marinaio, disperso
Carmelo
Carnamuccio, marinaio cannoniere, disperso
Adolfo Caroppo, 1°
maestro ammiraglio, disperso
Giacomo Carpano,
sottocapo meccanico, disperso
Francesco
Carpentieri, marinaio meccanico, disperso
Mario Carrara,
sottotenente di vascello, disperso
Raffaele Carrella,
marinaio cannoniere, disperso
Romeo Carta,
marinaio elettricista, disperso
Giovanni Caruso,
marinaio, disperso
Emilio Casani,
marinaio cannoniere, disperso
Renato Casartelli,
secondo capo specialista direzione del tiro, disperso
Giovanni Battista
Castagna, marinaio fuochista, disperso
Libero Castagna,
marnaio carpentiere, disperso
Giorgio Castagno,
marinaio elettricista, disperso
Giovanni Castelli,
secondo capo specialista direzione del tiro, disperso
Cesare Castello, marinaio specialista direzione del
tiro, disperso
Antonio Castorina,
marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Battista
Catania, marinaio fuochista, disperso
Umberto Catinari,
marinaio elettricista, disperso
Carlo Cattaneo,
ammiraglio di divisione (comandante della I Divisione Navale), disperso
Luigi
Cattavecchia, marinaio, disperso
Marco Cavallari,
marinaio, disperso
Andrea Cavallaro,
secondo capo meccanico, disperso
Ulderico
Ceccantini, secondo capo carpentiere, disperso
Alfredo Cecchi,
marinaio furiere, disperso
Alfredo Celeghin,
marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Celi,
marinaio, disperso
Stefano Celona,
marinaio, disperso
Antonio Cenerini,
marinaio cannoniere, disperso
Dositeo Cernuschi,
sergente cannoniere, disperso
Giuseppe Cetino,
marinaio fuochista, disperso
Mario Chiabatti,
marinaio fuochista, disperso
Pasquale
Chiapperini, maggiore del Genio Navale (direttore di macchina), disperso
Alessandro
Chiappino, marinaio cannoniere, disperso
Francesco
Chiaravolo, marinaio, disperso
Pietro Chiarello,
capo radiotelegrafista, disperso
Antonio Chiavassa,
marinaio fuochista, disperso
Paolo Chicca,
marinaio cannoniere, disperso
Oscar Chinazzi,
marinaio cannoniere, disperso
Orlando Chiocca,
marinaio cannoniere, disperso
Augusto Ciafrei,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Giacomo
Ciarmiello, marinaio, disperso
Giuseppe Cibello,
marinaio, disperso
Gennaro Cicciotti,
marinaio, disperso
Mario Ciceri,
marinaio fuochista, disperso
Flaviano
Cipollini, marinaio cannoniere, disperso
Michele Ciraci,
marinaio cannoniere, disperso
Pierino Clerico,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Cesare Colacicco, capo nocchiere, disperso
Paolo Colella,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Mario Coletta,
marinaio, disperso
Salvatore Coletta,
marinaio cannoniere, disperso
Romeo Collini,
sottocapo cannoniere, disperso
Arturo Comolli,
marinaio elettricista, disperso
Eliseo
Condeleoncini, marinaio cannoniere, disperso
Enrico Consolazio,
sergente cannoniere, disperso
Carlo Conte,
marinaio fuochista, disperso
Raffaele Conte,
marinaio, disperso
Cesare Conte, operaio, disperso
Giovanni Conte,
marinaio cannoniere, disperso
Onorio Conti,
marinaio fuochista, disperso
Costanzo Coppola, marinaio cannoniere, disperso
Loris Corni,
marinaio cannoniere, disperso
Luigi Corsi,
capitano di vascello (comandante), disperso
Virgilio Corsi,
marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Cossu,
marinaio, disperso
Antonio Costa,
marinaio, disperso
Antonino Costa, marinaio
cannoniere, disperso
Riccardo
Costantini, sergente nocchiere, disperso
Luigi Cozzi,
marinaio nocchiere, deceduto
Aniello Cozzolino,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Cremente,
marinaio, disperso
Vincenzo Crivello,
marinaio, disperso
Egidio Crotti,
marinaio, disperso
Filippo Cucchi,
marinaio fuochista, disperso
Antonio Cuccuru,
marinaio cannoniere, disperso
Pietro Cuffaro,
sottocapo cannoniere, disperso
Vittorio Curatolo,
sottocapo nocchiere, disperso
Mario D’Acchiolo,
marinaio, disperso
Giovanni
D’Addosio, marinaio cannoniere, disperso
Francesco
D’Agnello, sottocapo radiotelegrafista, disperso
Francesco
D’Agostini, capo elettricista, disperso
Fausto Dal Poz,
marinaio meccanico, disperso
Vincenzo
D’Alessio, marinaio, disperso
Mario Dallai,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Nino Damiani,
marinaio elettricista, disperso
Mario D’Antonio,
secondo capo meccanico, disperso
Vincenzo D’Arco,
marinaio, disperso
Vincenzo D’Ascia,
marinaio, disperso
Giuseppe De
Bellis, marinaio cannoniere, disperso
Sabino De Candia,
marinaio cannoniere, disperso
Leonardo De
Gregorio, sergente meccanico, disperso
Tiro De Luca,
marinaio, disperso
Cesare De Marchis, cuoco equipaggio, disperso
Pasquale De
Nicola, marinaio elettricista, disperso
Anteo De Ros,
marinaio cannoniere, disperso
Placido De Salvo,
marinaio, disperso
Giuseppe Francesco
De Santi, marinaio, disperso
Francesco De Santo,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Michele De
Scisciolo, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe De
Simone, marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Mario De Vetta,
marinaio, disperso
Ciro De Vito,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Giuseppe Del
Fabbro, marinaio segnalatore, disperso
Francesco D’Elia,
secondo capo meccanico, disperso
Serafino Della Spina,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Cesarino Dell’Eva,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Aldo Dell’Olio,
marinaio nocchiere, disperso
Catello Dentale,
marinaio fuochista, disperso
Salvatore Despase,
marinaio, disperso
Mariano D’Esposito,
marinaio, disperso
Benedetto Di
Biase, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Di
Cataldo, marinaio, disperso
Pasquale Di
Criscio, marinaio cannoniere, disperso
Fernando Di
Grande, marinaio segnalatore, disperso
Vito Di Lillo,
marinaio fuochista, disperso
Antonino Di
Maggio, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Di
Martino, marinaio elettricista, disperso
Demetrio Di Mauro,
marinaio infermiere, disperso
Raffaele Di Monte,
marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Di
Napoli, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Di
Napoli, marinaio, disperso
Francesco Di
Pietro, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Di Rosa,
marinaio, disperso
Giuseppe Di Salvo,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Di Scala,
marinaio, disperso
Gaetano Di
Stefano, marinaio, disperso
Ido Di Stefano,
motorista navale, disperso
Ettore Di Toro,
tenente commissario, disperso
Rocco Di Valerio,
sottotenente di vascello, disperso
Giuseppe Dimitri,
marinaio cannoniere, disperso
Giovanni
D’Ippolito, marinaio, disperso
Germano Diverio,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Francesco
Dolcecanto, marinaio cannoniere, disperso
Silvano Donati,
sottocapo meccanico, disperso
Nicolò Donato,
marinaio, disperso
Enrico D’Onofrio,
marinaio, disperso
Armando D’Onofrio,
marinaio, disperso
Luigi D’Onofrio,
marinaio radiotelegrafista, disperso
Armando D’Oriani, marinaio, disperso
Paolo Ecca,
marinaio fuochista, disperso
Biagio Ercolino,
capo segnalatore, disperso
Catello Esposito,
secondo capo meccanico, disperso
Raffaele Esposito,
marinaio fuochista, disperso
Giosuè Esposito,
capo meccanico, disperso
Eliseo
Evangelisti, secondo capo cannoniere, disperso
Darlo Fabiani,
marinaio elettricista, disperso
Giovanni
Facchinetti, sottocapo meccanico, disperso
Giuseppe Falanga,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Falanga,
marinaio, disperso
Lorenzo Falcier,
marinaio, disperso
Antonio Falso,
marinaio elettricista, disperso
Bruno Fancelli,
secondo capo elettricista, disperso
Fernando Fanti,
aspirante sottotenente commissario, disperso
Ugo Fantini,
marinaio, disperso
Emilio Farina,
marinaio, disperso
Riccardo
Fasanella, marinaio cannoniere, disperso
Antonio Fasano,
marinaio, disperso
Enrico Fassi,
marinaio fuochista, disperso
Alberto Favout,
marinaio, disperso
Vincenzo Ferrara,
marinaio elettricista, disperso
Francesco Ferrara
Grimoldi, sottocapo cannoniere, disperso
Giovanni
Ferraresi, marinaio cannoniere, disperso
Riccardo Ferrari,
marinaio furiere, disperso
Gino Ferrarini,
sottocapo furiere, disperso
Emilio Ferreccio,
marinaio, disperso
Ermenegildo
Bigelli, marinaio cannoniere, disperso
Alvaro Filippi,
capo meccanico, disperso
Alfredo Fioriti,
sottocapo radiotelegrafista, disperso
Vincenzo Fiumara,
marinaio fuochista, disperso
Emanuele Flaminio,
marinaio cannoniere, disperso
Santi Fleres,
marinaio radiotelegrafista, disperso
Gaspare Fogli,
sergente cannoniere, disperso
Carlo Foldi,
tenente di vascello, disperso
Francesco Fonte,
marinaio, disperso
Giovanni Foresto,
sottocapo specialista direzione del tiro, disperso
Fernando Forlin,
marinaio, disperso
Ernesto Formisano,
marinaio fuochista, disperso
Angelo Fornasari,
marinaio fuochista, disperso
Nello Forte,
secondo capo cannoniere, disperso
Salvatore
Fortunato, marinaio cannoniere, disperso
Vladimiro
Francesi, operaio, disperso
Drò Franchini,
marinaio, disperso
Giovanni Franco,
marinaio, disperso
Bruno Franco,
secondo maestro ufficiali, disperso
Giuseppe Frasca,
marinaio cannoniere, disperso
Attilio Frati,
marinaio fuochista, disperso
Andrea Frazzetta,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe
Fumagalli, marinaio, disperso
Mario Fuscello,
sottocapo furiere, disperso
Corrado Gaddi,
sergente cannoniere, disperso
Agostino Gaeta,
marinaio cannoniere, disperso
Ferruccio
Gagliardi, marinaio fuochista, disperso
Luigi Gaiera,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Galante,
marinaio cannoniere, disperso
Scipione Galeanda,
sottocapo meccanico, disperso
Carlo Galeppini,
sergente radiotelegrafista, disperso
Luigi Galetti,
sottocapo radiotelegrafista, disperso
Francesco Galli,
marinaio fuochista, disperso
Silvio Gallina,
secondo capo meccanico, disperso
Rosario Gallito,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Giovanni Ganau,
secondo capo elettricista, disperso
Guido Genga,
marinaio specialista in direzione del tiro, disperso
Francesco Gentile,
marinaio furiere, deceduto
Ivo Gentili,
corrispondente di guerra, deceduto
Cosimo Germinario,
marinaio, disperso
Francesco Gervasi,
marinaio fuochista, disperso
Roberto Ghidoni,
sergente specialista direzione del tiro, disperso
Italo Ghisleri,
marinaio furiere, disperso
Francesco
Giacalone, marinaio, disperso
Rodolfo Gianforma,
sergente cannoniere, disperso
Vittorio
Giannattasio, capitano di fregata (comandante in seconda), disperso
Giovanni
Giannetto, marinaio specialista in direzione del tiro, deceduto
Mario Gianni,
sergente cannoniere, disperso
Avio Giannotti,
sottocapo nocchiere, disperso
Giovanni
Giannuzzi, marinaio infermiere, disperso
Carlo Giglio,
marinaio, disperso
Vittorino Giobbe,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Giorgini,
secondo capo meccanico, disperso
Lindo Giovannelli,
marinaio fuochista, disperso
Giacomo
Giovannini, marinaio, disperso
Antonio Gnocchi,
aspirante guardiamarina, disperso
Venerando Gorla
Bianchi, secondo capo meccanico, disperso
Stanislao Goruppi,
marinaio cannoniere, disperso
Mariano Governali,
marinaio cannoniere, disperso
Filippo Graffigna,
marinaio fuochista, disperso
Giacomo Gregorio,
marinaio, disperso
Costantino Grillo,
marinaio, disperso
Umberto Grosso,
sottotenente del Corpo Reali Equipaggi Marittimi, disperso
Luigi
Guardascione, marinaio cannoniere, disperso
Felice Guardaci,
sergente meccanico, disperso
Vincenzo Guercia,
marinaio, disperso
Giovanni
Guerrieri, marinaio cannoniere, disperso
Armando Guida,
marinaio carpentiere, disperso
Giuseppe Guidetti,
capo meccanico, disperso
Luigi Iacono,
tenente del Corpo Reali Equipaggi Marittimi, disperso
Salvatore
Iampietro, marinaio fuochista, disperso
Michele Iannello,
marinaio, disperso
Francesco
Indelicato, marinaio, disperso
Antonino Ingeni,
marinaio, disperso
Pietro Innocenti,
marinaio, disperso
Ettore Ionadi,
secondo capo specialista direzione del tiro, disperso
Giuseppe Ionni,
marinaio elettricista, disperso
Giovanni Iraca,
marinaio cannoniere, disperso
Francesco Iraci,
marinaio meccanico, disperso
Bruno Isella,
marinaio furiere, disperso
Pasquale Iuliano,
marinaio nocchiere, disperso
Salvatore Laiola,
marinaio elettricista, disperso
Vincenzo Lallo,
sottocapo segnalatore, disperso
Carmine Lamberti,
capo meccanico, disperso
Bartolomeo Lamia,
marinaio cannoniere, disperso
Gennaro Landi,
sottotenente di vascello, disperso
Ferrante Lanzani,
sottocapo radiotelegrafista, disperso
Mario Lauro,
aspirante guardiamarina, disperso
Vinicio Lavarello,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Lazzari,
marinaio, disperso
Aldo Lazzerini,
marinaio elettricista, disperso
Bixio Lefons,
marinaio cannoniere, disperso
Luigi Lentini,
marinaio cannoniere, disperso
Augusto Leone,
guardiamarina, deceduto
Gaetano Leotta,
marinaio cannoniere, disperso
Silvio Liberati,
marinaio fuochista, disperso
Francesco Librano,
marinaio elettricista, disperso
Pietro Licata,
sergente cannoniere, disperso
Lorenzo
Licciardello, marinaio, disperso
Alberto Lietti,
secondo capo cannoniere, disperso
Mario Ligorio,
secondo capo specialista direzione del tiro, disperso
Tommaso Lionelli,
sottocapo meccanico, disperso
Vittorio Liotta,
marinaio, deceduto
Vincenzo Lisco,
marinaio, disperso
Salvatore Lisi,
sergente meccanico, disperso
Quintino Lisi,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Lo Faro,
primo cuoco sottufficiali, disperso
Tommaso Lomolino,
marinaio fuochista, disperso
Guido Lorenzon,
marinaio cannoniere, disperso
Eligio Lorenzotti,
marinaio elettricista, disperso
Nelson Lori,
marinaio fuochista, disperso
Luigi Lucchini,
secondo capo cannoniere, disperso
Salvatore Lucido,
marinaio, disperso
Renato Luraghi, marinaio
elettricista, disperso
Giuseppe
Luscietto, marinaio, disperso
Dino Luzi,
marinaio, disperso
Fiorini Maccario,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Giuseppe Maffini,
marinaio cannoniere, disperso
Mario Maggi,
marinaio fuochista, disperso
Pietro Maggi,
marinaio fuochista, disperso
Salvatore Maggio,
marinaio, disperso
Francesco
Maggiore, marinaio, disperso
Mario Maidich,
marinaio elettricista, disperso
Luigi Mainini,
marinaio fuochista, disperso
Nicola Maiorana,
capitano di corvetta, disperso
Arnaldo Malfi,
capo segnalatore, disperso
Francesco Mangano,
sergente elettricista, disperso
Michele Mangini,
capo specialista direzione del tiro, disperso
Carmelo Mantia,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Manzari,
marinaio cannoniere, disperso
Francesco Manzo,
marinaio, disperso
Giuseppe Manzoni,
capo segnalatore, disperso
Elio Marafatto,
marinaio cannoniere, disperso
Guerrino
Marangoni, marinaio fuochista, disperso
Virgilio Marazzi,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Paolo Marchesini,
marinaio cannoniere, disperso
Leonardo
Marchetti, marinaio cannoniere, disperso
Antonio
Marchionne, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Marciano,
marinaio fuochista, disperso
Michele Marciano,
marinaio fuochista, disperso
Costante Mariani,
trombettiere, disperso
Francesco Marino,
marinaio, disperso
Bruno Marinoni,
marinaio, disperso
Luigi Maroni,
marinaio fuochista, disperso
Raffaele Marotta,
sottocapo segnalatore, disperso
Luigi Morozzo,
marinaio fuochista, disperso
Luigi Marquardi,
sottocapo radiotelegrafista, disperso
Pasquale Marrazzo,
sottocapo torpediniere, deceduto
Salvatore
Marretta, sottotenente del Genio Navale Direzione Macchine, disperso
Giovanni Martelli,
secondo capo cannoniere, disperso
Giovanni
Martinetto, marinaio, disperso
Salvatore Martone,
marinaio, disperso
Francesco
Martucci, marinaio, disperso
Edgardo Marziani,
capo infermiere, disperso
Cataldo Marzo,
sottocapo cannoniere, disperso
Francesco
Marzocca, sottocapo cannoniere, disperso
Giacomo Marzuco,
sottocapo meccanico, disperso
Antonio Masciarelli,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Massa,
marinaio, disperso
Giorgio
Massarotto, marinaio, disperso
Michele Massida,
capo elettricista, deceduto
Calogero Mauro,
marinaio fuochista, disperso
Francesco Mazza,
marinaio cannoniere, disperso
Domenico
Mozzarella, capo meccanico, disperso
Vittorio Mazzieri,
marinaio, disperso
Alberto Mazziotti,
maggiore medico, disperso
Oriente Mazzoli,
marinaio, disperso
Antonio Mazzuca,
marinaio, disperso
Arturo Medaglia,
marinaio cannoniere, disperso
Ugo Meddi, sottocapo
cannoniere, disperso
Luca Medici, capo
radiotelegrafista, disperso
Cosimo Melle,
secondo capo elettricista, disperso
Giovanni Meloni,
marinaio cannoniere, disperso
Sirio Menconi,
marinaio cannoniere, disperso
Domenico Mengoni,
marinaio cannoniere, disperso
Silvio Merlo,
secondo capo nocchiere, disperso
Carmelo Messina,
sottocapo cannoniere, disperso
Mario Micali,
sottocapo specialista direzione del tiro, disperso
Flaminio
Michelini, tenente di vascello, disperso
Escamillo
Michelini, primo cuoco ammiraglio, disperso
Luigi Migliori,
marinaio carpentiere, disperso
Giovanni Migone,
marinaio furiere, disperso
Stefano Minelli,
marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Minetto,
marinaio, disperso
Giovanni Minnella,
marinaio carpentiere, disperso
Giuseppe Mirasolo,
marinaio fuochista, disperso
Fiorello Mirri,
marinaio carpentiere, disperso
Giuseppe Mitrani,
marinaio, disperso
Giovanni Molinari,
marinaio furiere, disperso
Nardo Mollo,
marinaio, disperso
Pasquale Mondò,
marinaio elettricista, disperso
Leonida Monello,
secondo capo cannoniere, disperso
Pasquale Mongillo,
marinaio cannoniere, disperso
Sergio Moni,
guardiamarina, disperso
Mario Montegan,
marinaio cannoniere, disperso
Mattia Monti,
motorista navale, disperso
Antonio Morabito,
marinaio, disperso
Giovanni Morgesi,
marinaio cannoniere, disperso
Norberto Mori,
secondo capo cannoniere, disperso
Gino Mori,
marinaio cannoniere, disperso
Verter Moroni,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Angelo Mugnol,
marinaio fuochista, disperso
Ubaldo Munerini, marinaio
elettricista, disperso
Aurelio Murialdo,
marinaio elettricista, disperso
Mario Musazzi,
marinaio fuochista, disperso
Rosario Musica,
marinaio fuochista, disperso
Battista Nao,
marinaio fuochista, disperso
Gaetano
Napoletano, sottocapo meccanico, disperso
Bruno Nardi,
marinaio cannoniere, disperso
Gino Nason,
marinaio cannoniere, deceduto
Orlando Natali,
secondo capo cannoniere, disperso
Santo Neri,
marinaio fuochista, disperso
Antonio Nieddu,
marinaio cannoniere, disperso
Carlo Niemen,
marinaio, disperso
Giovanni Notaro,
marinaio, disperso
Vincenzo Noto,
marinaio radiotelegrafista, disperso
Paolo Noventa,
secondo capo aiutante, deceduto
Enrico Nugnes,
marinaio elettricista, disperso
Petito Nuovo,
marinaio elettricista, disperso
Vincenzo
Ognissanti, secondo capo meccanico, disperso
Alfredo Olmo,
marinaio, deceduto
Luigi Ornelli,
motorista navale, disperso
Romeo Ostani,
secondo maestro ufficiali, disperso
Andrea Oteri,
sottocapo carpentiere, disperso
Giuseppe Pacciani,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Pace,
marinaio furiere, disperso
Domenico Padovan,
marinaio, disperso
Vitorio Pain,
marinaio cannoniere, disperso
Salvatore
Paladino, sottocapo infermiere, disperso
Alfonso Palazzo,
marinaio fuochista, disperso
Carlo Palestri,
marinaio fuochista, disperso
Francesco
Palestrini, motorista navale, disperso
Germano Palladino,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Giuseppe Palma,
sottocapo elettricista, disperso
Edoardo Polmonari,
capo specialista direzione del tiro, disperso
Piero Pananti,
marinaio cannoniere, disperso
Luigi Panzanaro,
marinaio fuochista, disperso
Giovanni Paolato,
marinaio, disperso
Gaetano Paparella,
marinaio cannoniere, disperso
Carlo Papetti,
marinaio meccanico, disperso
Giovanni Battista
Pardu, marinaio fuochista, disperso
Augusto Parisella,
sottocapo cannoniere, disperso
Donato Parisi,
motorista navale, disperso
Mario Parrinello,
marinaio, disperso
Antonio Parziale,
marinaio segnalatore, disperso
Gaddo Pasquali,
secondo capo meccanico, disperso
Ilio Pasquinelli,
marinaio fuochista, disperso
Clemente Passa,
secondo capo specialista direzione del tiro, disperso
Costante Passoni,
marinaio nocchiere, disperso
Michele Pastorino,
trombettiere, disperso
Vincenzo Patanè,
marinaio carpentiere, disperso
Martino Patarino,
capo meccanico, deceduto
Oreste Pavan,
marinaio fuochista, disperso
Mario Pavirani,
marinaio cannoniere, disperso
Luigi Pellico,
sottocapo meccanico, disperso
Leondino
Pelligione, marinaio fuochista, disperso
Ovidio Peluso,
sottocapo radiotelegrafista, disperso
Giuseppe Peluso,
marinaio, disperso
Emilio Penzi,
marinaio, disperso
Ernesto Peoni,
marinaio fuochista, disperso
Leonardo Pepe,
sottocapo segnalatore, deceduto
Romeo Perani,
marinaio, disperso
Mario Perez,
marinaio, disperso
Giovanni Perseo,
sergente meccanico, disperso
Crescenzo Persico,
marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Pes,
capo furiere, disperso
Salvatore Pesce,
marinaio fuochista, disperso
Luigi Pescio,
marinaio fuochista, disperso
Enzo Petrella,
marinaio fuochista, disperso
Ettore Petrillo,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Antonio
Petruciello, sergente cannoniere, disperso
Adelfio Pian,
marinaio fuochista, disperso
Carlo Piazzi, capo
I. E. F., disperso
Gustavo
Piccirillo, secondo capo cannoniere, disperso
Luigi Piccolo,
marinaio fuochista, disperso
Renzo Picelli,
sottocapo nocchiere, disperso
Silvio Pieri,
marinaio fuochista, disperso
Alberto
Pignatelli, capo elettricista, disperso
Renato Pilat,
marinaio cannoniere, disperso
Daniele Pinna,
marinaio fuochista, disperso
Nicolò Piras,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Pirri,
marinaio, disperso
Calogero
Piscitello, marinaio, disperso
Umberto Pistilli,
marinaio cannoniere, disperso
Sebastiano
Pitronaci, marinaio carpentiere, disperso
Luigi Pittana,
marinaio, disperso
Emanuele Più,
marinaio cannoniere, disperso
Gino Piva, secondo
capo elettricista, disperso
Angelo Polignano,
sergente meccanico, disperso
Santo Poma,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Francesco
Pontarini, marinaio cannoniere, disperso
Italo Porcu,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Portone,
marinaio fuochista, disperso
Antonio
Possanzini, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Potenza,
marinaio fuochista, disperso
Domenico Praticò,
marinaio, disperso
Francesco
Presicci, capo meccanico, disperso
Palmiero Presta,
capo elettricista, disperso
Carlo Preto
Martini, marinaio, disperso
Amedeo Puccetti,
sergente elettricista, disperso
Giuseppe Pucci,
marinaio elettricista, disperso
Salvatore Pucci,
sergente meccanico, disperso
Mario Pugnetti,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Salvatore Puleo,
marinaio fuochista, disperso
Martino
Pulvirenti, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Puma,
marinaio elettricista, disperso
Giuseppe Punzo,
marinaio, disperso
Bruno Pupin,
marinaio cannoniere, disperso
Michele Quaranta,
marinaio cannoniere, disperso
Angelo Pasquale
Quarto, marinaio cannoniere, disperso
Antonio Quintiero,
marinaio, disperso
Pierino Racca,
motorista navale, disperso
Luigi Radaelli,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Radicci,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Eduardo Ragni,
marinaio furiere, disperso
Paolo Rallo,
marinaio, disperso
Aldo Ranzato,
sottocapo meccanico, disperso
Alfonso Raucci,
secondo capo nocchiere, disperso
Giuseppe Reale,
secondo capo meccanico, disperso
Pasquale Reale,
motorista navale, disperso
Sante Rebiscini,
sottocapo meccanico, disperso
Marco Rebuffo,
marinai cannoniere, disperso
Emanuele Rela,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Renati,
marinaio fuochista, disperso
Michele Resta,
marinaio fuochista, disperso
Salvatore Restivo,
marinaio fuochista, disperso
Silvio Rezzaghi,
guardiamarina, disperso
Andrea Ricco,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Ridino,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Francesco Rinaldi,
marinaio furiere, disperso
Natale Rizzi,
marinaio cannoniere, disperso
Gino Rizzo,
sergente cannoniere, disperso
Agostino
Roccatagliata, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Rodinò,
secondo capo cannoniere, disperso
Giovanni Roini,
marinaio fuochista, disperso
Luigi Rollerò,
marinaio fuochista, disperso
Federico Romano,
secondo capo segnalatore, disperso
Raffaele Romano,
marinaio, disperso
Giovanni Romeo,
marinaio, disperso
Ennio Rondina,
aspirante guardiamarina, disperso
Francesco Ronga,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Vito Rosati, marinaio
cannoniere, deceduto
Mario Rosati,
marinaio cannoniere, disperso
Alessandro Rosito,
secondo capo radiotelegrafista, disperso
Giovanni Rossi,
marinaio cannoniere, disperso
Alessandro Rovejaz
Pinot, sottocapo specialista direzione del tiro, disperso
Cesare Rubiero, marinaio, disperso
Carmelo Russo,
capo cannoniere, disperso
Domenico Russo,
marinaio, disperso
Ignazio Russo,
capo meccanico, disperso
Francesco Russo,
marinaio, disperso
Andrea Sabbadini,
sottocapo elettricista, disperso
Roberto Sabino,
sottocapo meccanico, disperso
Luigi Saccà,
marinaio cannoniere, disperso
Luigi Sirio Saccò,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe
Saccoccio, marinaio, disperso
Ciro Sacristano,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Giovanni Saganich,
marinaio, disperso
Francesco
Saglimbeni, palombaro, disperso
Andrea Salerno,
secondo capo nocchiere, disperso
Aniello Samez,
marinaio elettricista, disperso
Giuseppe Sampieri,
sottocapo cannoniere, disperso
Domenico
Sandrinelli, marinaio cannoniere, deceduto
Francesco Sansò,
capo elettricista, disperso
Donato Sansone,
marinaio cannoniere, disperso
Giovanni
Santarelli, marinaio, disperso
Nunzio
Santoliquido, marinaio cannoniere, disperso
Bruno Santopadre,
sottocapo meccanico, disperso
Erminio Santoro,
marinaio elettricista, disperso
Livio Sarti,
marinaio cannoniere, deceduto
Severino Sarto,
marinaio, disperso
Ottorino Sassi,
marinaio nocchiere, disperso
Guerrino Saulo,
marinaio, disperso
Nicola Savella,
marinaio cannoniere, disperso
Filippo
Scalabrino, marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Dario Scarafoni,
capo radiotelegrafista, deceduto
Gioacchino
Scarpato, marinaio elettricista, disperso
Ernesto Schenone,
marinaio furiere, disperso
Saverio Schisano,
marinaio cannoniere, disperso
Francesco Sciuta,
marinaio, disperso
Demetrio
Scopelliti, sottocapo nocchiere, disperso
Giovanni Scotti,
capo furiere, disperso
Ottavio Scuderi,
marinaio infermiere, disperso
Michele Sellitti,
sergente carpentiere, disperso
Angelo Semidei,
panettiere, disperso
Luigi Serra,
marinaio fuochista, disperso
Gianluigi Serra,
marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Sestan,
marinaio fuochista, disperso
Fermo Sgarella,
marinaio, disperso
Gino Sibio,
marinaio, disperso
Francesco
Sicignano, secondo capo radiotelegrafista, disperso
Leo Silvestri, sergente
specialista direzione del tiro, disperso
Salvatore Simeoni,
capo meccanico, disperso
Enrico Simonini,
marinaio furiere, disperso
Onofrio
Siniscalchi, marinaio cannoniere, disperso
Lorenzo Siri,
marinaio, disperso
Giuseppe Sirolli,
marinaio, disperso
Giorgio Solbello,
marinaio fuochista, disperso
Francesco Sole,
marinaio, disperso
Orazio Sollima,
marinaio, disperso
Angelo Sormani,
marinaio, disperso
Renato Spada,
marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Spada,
aspirante guardiamarina, disperso
Giuseppe Spadaro,
marinaio fuochista, disperso
Agsotino Spanio,
marinaio, disperso
Ubaldo Spanio,
marinaio, deceduto
Genesio Spiga,
marinaio meccanico, disperso
Nicola Maria
Spinazzola, marinaio segnalatore, disperso
Giacomo Stagnaro,
marinaio fuochista, disperso
Andrea Stallone,
marinaio cannoniere, disperso
Franco Stanziani,
marinaio fuochista, disperso
Paolo Stilitano,
marinaio, disperso
Vito Stinco,
marinaio, disperso
Domenico Stretti,
capo cannoniere, disperso
Marco Antonio
Suardi, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore
Sugamele, marinaio cannoniere, disperso
Vito Susca,
marinaio, disperso
Dario Tabone,
marinaio cannoniere, disperso
Osvaldo
Tacconella, sottocapo cannoniere, disperso
Giuseppe
Tagliaferri, secondo capo cannoniere, disperso
Andrea Talamanca,
sottocapo elettricista, disperso
Cataldo Tanese,
capo elettricista, disperso
Aldo Tassan,
marinaio, disperso
Remo Tavaroli,
marinaio, disperso
Alfredo Telloi,
secondo cuoco ufficiali, disperso
Giuseppe Termine,
marinaio cannoniere, disperso
Gaetano Terranova,
marinaio, disperso
Giacomo
Terrarossa, marinaio fuochista, disperso
Massimo Testori,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Alfonso Teta, capo
furiere, disperso
Leonardo Tolu,
marinaio, disperso
Salvatore Tolu,
marinaio, disperso
Luigi Torelli, marinaio,
disperso
Vito Torrente,
marinaio nocchiere, disperso
Salvatore
Torrenzano, marinaio, disperso
Placido Torres,
marinaio, disperso
Arnaldo Tosatti,
sergente furiere, disperso
Marino Traini,
marinaio, disperso
Claudio Tredici,
marinaio carpentiere, disperso
Alberto Tretola,
capo torpediniere, disperso
Giovanni Trezzi,
marinaio cannoniere, deceduto
Carmelo Triscari,
marinaio cannoniere, disperso
Antonio Turco,
secondo capo meccanico, disperso
Paolo Uzzi,
secondo capo segnalatore, disperso
Carmelo Vaccaro,
marinaio, disperso
Francesco Vairo,
secondo capo cannoniere, disperso
Guido Valentini,
motorista navale, disperso
Libero Valeri,
marinaio fuochista, disperso
Domenico Valerio,
sottocapo cannoniere, disperso
Umberto
Vallerotonda, marinaio elettricista, disperso
Mario Valli,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Gennaro Vallone,
sottocapo nocchiere, disperso
Enzo Vanni,
marinaio, disperso
Giulio Vannucchi,
marinaio cannoniere, disperso
Luciano Varalli,
marinaio cannoniere, disperso
Enrico Varoli,
sergente cannoniere, disperso
Paolo Vecchiatini,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Vecchio,
marinaio, disperso
Paolo Vella,
marinaio, disperso
Vincenzo Veloccia,
sottocapo cannoniere, disperso
Antonio Verde,
sergente cannoniere, disperso
Giusto Vergnani,
marinaio fuochista, disperso
Antonio Vergori,
marinaio cannoniere, disperso
Attilio Verme,
marinaio cannoniere, disperso
Luigi Vetrella,
marinaio, disperso
Vincenzo Vezzali,
marinaio meccanico, disperso
Antonio Vicentini,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Otello Vidali,
marinaio specialista direzione del tiro, disperso
Filippo
Vinciguerra, aspirante guardiamarina, disperso
Sebastiano
Vinella, marinaio cannoniere, disperso
Francesco Visaggi,
sottocapo elettricista, disperso
Emilio Vittozzi,
sergente meccanico, disperso
Francesco Vizzi,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Vizzo,
marinaio, disperso
Virgilio Volpe,
capo infermiere, disperso
Giuseppe
Zacchigna, trombettiere, disperso
Adriano Zachini,
marinaio fuochista, disperso
Luciano Zambon,
secondo capo cannoniere, disperso
Nicola Zamorra,
marinaio, disperso
Bruno Zampietro,
marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Zara, marinaio, disperso
Mario Zirelli,
marinaio fuochista, disperso
Augusto Zotti,
secondo capo meccanico, disperso
Gregorio
Zuccarino, guardiamarina, disperso
Pietro Zunino,
sottocapo cannoniere, disperso
L’equipaggio
dello Zara (USMM)
|
Il marinaio fuochista Sperandio Bergamelli, 20 anni, da Villa di Serio, disperso nell’affondamento (da “Villa di Serio, ierioggi una storia” di Casimiro Corna, via Rinaldo Monella) |
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor
Militare conferita alla memoria del capitano di vascello Luigi Corsi, nato a La
Spezia il 4 aprile 1898:
“Comandante di incrociatore, dopo molti mesi di
guerra, con spirito di completa dedizione, aveva trasfuso nell'equipaggio le
sue belle doti di volontà e di energia.
Colpita ed incendiata, nella notte, la nave da una squadra nemica comprendente
più unità da battaglia, privata ormai di ogni mezzo di offesa e di difesa,
ancora si prodigava in un supremo tentativo di salvarla ed ai suoi marinai
portava, con la parola e con l'esempio, quella forza e quella serenità che
erano nella sua anima.
Sbandata fortemente la nave, prima di ordinarne l'abbandono, prima di far
mettere in mare le zattere, riuniva a poppa la sua gente per lanciare nella
notte buia l'estremo grido di fede: "Viva l'Italia – Viva il Re". E
all'Ammiraglio che lo invitava a salvarsi rispondeva pacato, sereno, tranquillo:
"Non mi salvo; la mia zattera è per i marinai".
Dalla plancia, mentre intorno a lui divampava furioso l'incendio, dava ancora
l'ultimo comando. "Affondate la nave". E con essa, che già in altri
combattimenti al suo comando aveva vittoriosamente spiegato al vento la
bandiera di battaglia, Egli si inabissava nel mare.
Mediterraneo orientale, 28 marzo 1941.”
Il capitano di vascello Luigi Corsi (USMM, restauro a cura di Matteo Fornoli) |
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor
Militare conferita alla memoria dell’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo,
nato a Sant’Anastasia (Napoli) il 6 ottobre 1883:
“Comandante di una Divisione Navale, che egli
aveva istruita, allenata e forgiata con alto intelletto, con paziente amore e
con appassionata costanza, alla battaglia di Punta Stilo, essendo in testa alla
formazione, con pronta iniziativa e con audace spirito aggressivo affrontava
gli incrociatori nemici e con brillante manovra rendeva vani i numerosi
attacchi degli aerosiluranti. La notte sul 28 marzo, nel tentativo di sottrarre
all’offensiva nemica un incrociatore colpito da siluro, assalito
improvvisamente da forze navali soverchianti, le affrontava con impavida
serenità e con consapevole audacia. Nel breve, durissimo combattimento egli
profondeva le sue doti di mente e di cuore e, quando la nave ammiraglia,
squarciata ed incendiata, non aveva più possibilità di offesa né speranza di
salvezza, riuniva a poppa i superstiti per lanciare sul mare e oltre il mare
l’ultimo grido di fede: Viva l’Italia – Viva il Re. Compiuto tutto il suo
dovere oltre ogni umana possibilità egli scompariva in mare con la sua nave e
con la sua insegna al vento, sicuro che il suo gesto sarebbe stato esempio di
quelle alte virtù di dedizione e di passione, che splendono luminose nel tempo
e nella tradizione.”
Mediterraneo Centrale ed Orientale, 9 luglio 1940
– 28 marzo 1941.”
L’ammiraglio Carlo Cattaneo (USMM, restauro a cura di Matteo Fornoli) |
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor
Militare conferita alla memoria del tenente colonnello del Genio Navale
Domenico Bastianini, nato a Tuscania (Viterbo) il 24 agosto 1900:
“Ufficiale superiore del Genio Navale, dotato di
grande intelligenza, vasta capacità professionale ed elevatissime qualità
morali e di carattere, aveva sempre sollecitato destinazioni dove più intensa
fosse l'attività e più vivo il rischio.
Con lo stesso spirito entusiasta con cui aveva preso parte alla guerra
antibolscevica di Spagna ed era volontariamente sbarcato fra i primi nelle
operazioni per l'occupazione dell'Albania, allo scoppio del nuovo conflitto
insistentemente aveva chiesto il privilegio e l'onore di trovarsi a bordo per
prendere parte più attivamente alla lotta.
Capo servizio del Genio Navale aggiunto della Squadra Navale, già segnalatosi
durante un bombardamento aereo nemico per il pronto ricupero e la rapida
disattivazione di una bomba inesplosa, partecipava con immutato, entusiastico
ardimento su di un incrociatore ad una delicata missione offensiva nel
Mediterraneo Orientale.
Durante breve combattimento contro forze corazzate nemiche, presente ove
maggiore era il pericolo, si dedicava con tutte le sue energie agli ordini del
Comandante, ad arginare le gravi conseguenze, causate dai colpi nemici e dai
violenti incendi.
Smantellate le torri ed immobilizzate le macchine dal tiro dei grossi calibri,
nonostante fosse dato l'ordine di abbandonare la nave, rimaneva a bordo per
dare ancora la sua opera generosa alla distruzione dell'unità piuttosto che
vederla catturata dal nemico. Con fredda decisione, con sereno spirito di
sacrificio, egli con pochi animosi scendeva nei locali inferiori senza aria e
senza luce e provvedeva all'apertura delle valvole di allagamento e delle
portellerie ed allo sfondamento degli scarichi dei condensatori. Nell'ardua
fatica lo illuminava l'amore alla sua nave, lo sosteneva il palpito del suo
cuore generoso.
Con l'unità che qualche istante dopo si inabissava nel vortice dell'esplosione,
eroicamente scompariva: nobile esempio di attaccamento al dovere e di
indefettibile amor di Patria.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Il colonnello del Genio Navale Domenico Bastianini (USMM, restauro a cura di Matteo Fornoli) |
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor
Militare conferita alla memoria del capitano di fregata Vittorio Giannattasio,
nato a San Giuseppe (Napoli) il 13 agosto 1904:
“Comandante in 2a di incrociatore, fedele,
intelligente, appassionato collaboratore del suo comandante, quando la nave,
sotto il tiro, a brevissima distanza dei grossi calibri di una squadra nemica
comprendente più navi da battaglia, veniva smantellata e incendiata, era
dovunque fosse maggiore il pericolo, pronto per riparare un'avaria, per domare
un incendio.
Vicino all'Ammiraglio e al Comandante, quando venne deciso l'abbandono della nave,
riunì a poppa i superstiti per l'estremo saluto, li rincuorò, li animò, ne curò
la salvezza. Di sé non ebbe pensiero, perché la sua opera non era compita.
All'ordine del comandante di affondare la nave, cercò e subito trovò un
compagno che si calasse con lui nel deposito delle munizioni. Scesero insieme
in Santa Barbara; diede fuoco alle cariche e non tornarono più.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Il capitano di fregata Vittorio Giannattasio (da www.movm.it) |
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor
Militare conferita alla memoria del sottotenente del Corpo Reali Equipaggi
Marittimi Umberto Grosso, nato a Pinerolo (Torino) il 4 ottobre 1890:
“Ufficiale di animo grande e di cuore generoso.
All'ordine del comandante di abbandonare la nave, dilaniata e incendiata dal
tiro, a brevissima distanza di una squadra nemica comprendente più navi da
battaglia, non scendeva con gli altri nelle zattere, rimaneva a bordo, perché
alla sua nave non aveva ancora dato abbastanza di se stesso.
Quando il Comandante in seconda chiese chi volesse scendere con lui nel deposito
delle munizioni per far saltare la nave, affinché non potesse divenire preda
del nemico, egli si offrì per primo, fermo e sicuro. Non lo spingevano gli
impeti e gli entusiasmi della giovinezza, ma la fredda, cosciente volontà
dell'età avanzata.
Nella notte illuminata dalle vampe dell'incendio seguì il Comandante in seconda
giù nell'oscurità della Santa Barbara: con lui diede fuoco alle cariche e, come
lui, non fece ritorno.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Il sottotenente CREM Umberto Grosso (da www.movm.it) |
Ricevettero inoltre la Medaglia d’Argento al Valor
Militare il capitano di fregata Francesco Brovelli di Milano (alla memoria), il
guardiamarina Renato D’Antonio di Salerno (a vivente), il tenente di vascello
Giuseppe Fabrizio di La Spezia (a vivente), il guardiamarina Sergio Moni di
Pisa (alla memoria), il capitano del Genio Navale Salvo Giuseppe Parodi di
Genova (a vivente), il sottocapo meccanico Luigi Pellico di Manfredonia (alla
memoria), il capo I.E.F. di seconda classe Carlo Piazzi di Bologna (alla
memoria) ed il capitano Genio Navale Lamberto Quercetti di Giulianova (a
vivente). Ebbero la Medaglia di Bronzo al Valor Militare il secondo capo
meccanico Luigi Barabino (alla memoria), il marinaio fuochista Bruno Bontempo (a
vivente), il tenente di vascello Raffaele Buracchia (a vivente), il sottotenente
di vascello Umberto Cavanna (a vivente), il secondo capo meccanico Francesco
D’Elia (alla memoria), il secondo capo cannoniere Francesco Ferrara Grimaldi
(alla memoria), il tenente C.R.E.M. Martino Ferrarese di Monopoli (a vivente),
il marinaio fuochista Ernesto Formisano di Torre del Greco (alla memoria), il marinaio
fuochista Walter Frassinelli di Firenze (a vivente), il secondo capo Giuseppe
Jamoni di Cesano (a vivente), il sottotenente di vascello Gennaro Landi (alla
memoria), il tenente del Genio Navale Alfredo Marchese di Castglione (a
vivente), il sottotenente del Genio Navale Salvatore Marretta di Trapani (alla
memoria), il capo meccanico di prima classe Domenico Mazzarella di Napoli (a
vivente), l’aspirante guardiamarina Luigi Oletti (a vivente), l’aspirante
guardiamarina Vincenzo Onori (a vivente), il guardiamarina Alberto Ortali di
Bologna (a vivente), il marinaio cannoniere Guerrino Osetta (a vivente), il
marinaio fuochista Antonio Possanzini (alla memoria), il capo meccanico di
terza classe Francesco Presicci di Taranto (alla memoria), l’aspirante
guardiamarina Giuseppe Rosas (alla memoria) ed il sottocapo meccanico Bruno
Santopadre (alla memoria).
Lo
Zara in entrata a La Spezia (da www.marina.difesa.it)
|
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita alla memoria del capitano di fregata Franco Brovelli, nato a
Milano il 1° maggio 1899:
“Capo di Stato Maggiore di una Divisione navale,
nel corso di un violento combattimento navale notturno contro forze nemiche
preponderanti durante il quale l’unità su cui era imbarcato veniva gravemente
colpita, con sereno coraggio e spirito di abnegazione si prodigava
instancabilmeme nelle difficili circostanze nel coadiuvare l’opera
dell’ammiraglio e del comandante dell’unità. Venuta meno ogni speranza di
salvezza dellanave si preoccupava di distruggere personalmente degli importanti
documenti segreti e scompariva in mare vittima della propria generosità.”
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita alla memoria del guardiamarina Sergio Moni, nato a Pisa il
15 novembre 1917:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale
avversaria, ed in breve ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle
esplosioni, benché ferito gravemente alle gambe si portava in prossimità di
impianto di grosso calibro scoperchiato, in cui divampava fortissimo incendio,
e, postosi a cavallo di un pezzo della torre sovrastante, gettava – senza posa
– nell'ardente rogo bombe antincendio incurante delle fiamme che lo lambivano e
che gli procuravano gravissime letali ustioni. Scompariva con l'unità dando
esempio di eccezionale forza d’animo e mirabili virtù militari”.
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita al capitano del Genio Navale Salvo Giuseppe Parodi, nato a
Genova il 18 maggio 1902:
“Ufficiale del servizio G.N. in comando di guardia
alle motrici AV di incrociatore improvvisamente investito dal fuoco di
soverchiante forza navale avversaria ed in breve tempo ridotto a fumante
relitto in preda alle fiamme ed alle esplosioni, dal proprio posto, ove
rimaneva incurante degli effetti distruttivi del tiro, conduceva con energia i
dipendenti mantenendo in funzione la motrice e le due caldaie prodiere fino a
quando era costretto a far abbandonare i locali. Cooperava alla sistemazione di
mine autodistruggenti nei locali inferiori della nave, e nelle tragiche
circostanze dava esempio di coraggiosa sicurezza a quanti aveva il modo di
avvicinare. Ordinato l'abbandono della nave la lasciava fra gli ultimi dopo
aver dato ancora ogni propria energia per il recupero dei feriti ed il
salvataggio dei pericolanti.”
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita alla memoria del sottocapo meccanico Luigi Pellico, nato a
Manfredonia il 1° gennaio 1915:
"Imbarcato su incrociatore sorpreso
nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da sovercbiante forza
navale avversaria, ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle
fiamme ed alle esplosioni, rimaneva impavido al suo posto di combattimento.
Trovava gloriosa morte nel vano generoso tentativo di portare soccorso ad
alcuni compagni rimasti chiusi in un compartimento caldaie colpito
dall’artiglierta avversaria. Fulgido esempio di abnegazione e di mirabili virtù
militari".
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita alla memoria del capo I.E.F. di seconda classe Carlo Piazzi,
nato a Bologna il 29 agosto 1903:
“Imbarcato su incrociatore che nel corso di una
ardita missione di guerra veniva nottetempo improvvisamente investito dal fuoco
di soverchiante forza navale avversaria ed in breve tempo ridotto fiammeggiante
relitto, si prodigava con tutti i mezzi nello spegnimento di incendio
sviluppatosi in una torre di grosso calibro. Avuto l’ordine di abbandonare l’unità
in procinto di affondare, con elevate parole rifiutava di porsi in salvo, volendo legare la sua vita alla nave, in
suprema dedizione alla Marina ed alla Patria".
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita al capitano del Genio Navale Lamberto Quercetti, nato a
Giulianova il 9 gennaio 1909:
“Vice-direttore di macchina di incrociatore
sorpreso nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante
forza navale avversaria ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda
alle fiamme ed alle esplosioni, si prodigava
nei locali invasi dal vapore riuscendo a riattivare le macchine e le caldaie di
prora. Avuto l’ordine di aflondare l’unità,
coadiuvava il comandante in 2a nel collocamento e nell’accensione delle mine e
nell’apertura degli allagamenti, lasciando fra gli ultimi l’unità. Esempio di
mirabile slancio, elevato senso di responsabilità ed assoluta noncuranza del
rischio.”
La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor
Militare conferita al tenente di vascello Giuseppe Fabrizio:
“Ufficiale Osservatore imbarcato su incrociatore
sorpreso nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante
forza navale avversaria, ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda
alle fiamme ed alle esplosioni, si prodigava
con generoso slancio e noncuranza del rischio per circoscrivere e spegnere
incendi e prestare soccorso ai numerosi feriti. Ordinato l’abbandono della
nave, la lasciava fra gli ultimi, dopo aver dato ogni residua energia al
recupero dei feriti ed al salvataggio dei pericolanti. Esempio di generosa
abnegazione ed elevato senso del dovere.”
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al tenente del Genio Navale Alfredo Marchese, nato a
Castiglione Messer Marino il 24 dicembre 1914:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da forza navale preponderante
avversaria ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed
alle esplosioni, con pronta iniziativa ricollegava, mediante cavo elettrico di
fortuna, le trasmissione dei timoni interrotte dal fuoco avversario. Ordinato
l’abbandono della nave, la lasciava fra gli ultimi dopo aver dato ogni residua
energia al ricupero dei feriti ed al salvataggio dei pericolanti. Esempio di
sereno coraggio, perizia ed elevate virtù militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del sottotenente del Genio Navale Direzione
Macchine Salvatore Marretta, nato a Trapani il 12 febbraio 1917:
"Imbarcato su incrociatore sorpreso
nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da forza navale
preponderante avversaria ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda
alle fiamme ed alle esplosioni, rimaneva con sereno sprezzo del pericolo a
circoscrivere le avarie subite da un gruppo di caldaie, contenendo l’estendersi
dei danni ed evitando ulteriori vittime fra l’equipaggio. Abbandonava la nave
con l’ultimo gruppo di animosi rimasti a bordo. Esempio di sereno coraggio ed
elevate virtu militari".
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al capo meccanico di prima classe Domenico Mazzarella, nato
a Napoli il 26 giugno 1897:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale avversaria
ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle
esplosioni, rimaneva impavido al proprio posto di combattimento, prodigandosi
per contenere le avarie fino a che era costretto a desistere per le gravissime
ustioni riportate. Esempio di sereno coraggio ed elevate virtu militari.”
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita agli aspiranti guardiamarina Luigi Oletti (nato il 5
novembre 1919) e Vincenzo Onori:
“Imbarcato su incrociatore attaccato nella notte
da preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità e coraggio il
comandante, sotto l’intenso fuoco avversario, nei tentativi di salvare l’unità,
cooperando allo spegnimento dei numerosi incendi sviluppatisi a bordo. Resosi
vano ogni sforzo, prodigava la sua opera costante e generosa per la salvezza
dell’equipaggio e per la sua assistenza in mare”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al guardiamarina Alberto Ortali, nato a Bologna il 18
dicembre 1918:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale avversaria
ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle
esplosioni, rimaneva impavido al proprio posto di combattimento, e si prodigava
con serena noncuranza del pericolo nell’estinzione degli incendi e
nell’assistenza ai feriti. Esempio di sereno coraggio e di elevate virtù
militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al cannoniere Guerrino Osetta, nato ad Asti il 24 gennaio
1919:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da forza navale preponderante
avversaria ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle esplosioni, rimaneva impavido al
proprio posto di combattimento. Ordinato l’abbandono della nave, la lasciava
fra gli ultimi dopo aver dato ogni residua energia al ricupero, dei feriti ed
al salvataggio dei pericolanti. Naufrago, continuava con ammirevole slancio la
sua altruistica opera, cedendo piu volte il proprio posto sulla zattera a
compagni sfiniti ed assiderati”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del fuochista artefice Antonio Possanzini:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale
avversaria, ed in breve ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle
esplosioni, si prodigava nelle operazioni di spegnimento incendi, incurante
dell’incessante fuoco avversario. Esempio di elevate virtù militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del capo meccanico di prima classe Francesco
Presicci, nato a Taranto l’11 marzo 1899:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale avversaria
ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle
esplosioni, rimaneva impavido al proprio posto di combattimento, riuscendo ad
intercettare le tubolature di combustibile in locale colpito ed invaso dal
vapore e dal fuoco. Nonostante le gravi ustioni al viso ed alle braccia,
sdegnava ogni soccorso ed offriva ancora la sua opera per il salvataggio
dell’unità. Esempio di elevate virtù militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria dell’aspirante guardiamarina Giuseppe Rosas,
nato a Pozzomaggiore il 23 dicembre 1918:
“Imbarcato su incrociatore attaccato con violenza
nella notte da preponderanti forze nemiche, coadiuvava il comandante sotto
l’intenso fuoco avversario nell’opera di spegnimento degli incendi scoppiati a
bordo e nell’organizzazione dei soccorsi per la salvezza dell’equipaggio.
Accortosi, poco prima dell’affondamento dell’unità, che un marinaio era
sprovvisto di salvagente si toglieva il proprio e glielo offriva in uno slancio
di generosa e cameratesca solidarietà”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del sottocapo meccanico Bruno Santopadre:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale
avversaria, ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed
alle esplosioni, si prodigava con sereno slancio per contenere i danni subiti
dall’unità, rimanendo gravemente ustionato. Posto in salvo all’affondamento
dell’unità, decedeva successivamente in seguito alle gravi ferite riportate”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del secondo capo meccanico Luigi Barabino:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale
avversaria, ed in breve ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle esplosioni rimaneva impavido al suo
posto di combattimento. Ordinato l’abbandono della nave, coadiuvava i propri
superiori nella delicata opera di trasporto e sistemazione delle mine destinate
alla distruzione dell’Unità. Esempio di mirabile attaccamento al dovere, ed
elevate virtù militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al fuochista artefice Bruno Bontempo:
"Imbarcato su incrociatore sorpreso
nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza
navale avversaria, ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle
fiamme ed alle esplosioni, si prodigava nelle operazioni di spegnimento
incendi, incurante dell’incessante fuoco avversario. Esempio di elevate virtù
militari".
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al tenente di vascello Raffaele Buracchia:
“Imbarcato su incrociatore attaccato nella notte
da preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità e coraggio il
comandante, sotto l’intenso fuoco avversario, nei tentativi di salvare l’unità,
cooperando allo spegnimento dei numerosi incendi sviluppatisi a bordo. Resosi
vano ogni sforzo, prodigava la sua opera costante e generosa per la
salvezza dell equipaggio e per la sua assistenza
in mare.”
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al sottotenente di vascello Umberto Cavanna:
“Comandante di sommergibile, in missione di
guerra, avvistata una formazione navale nemica diretta ai porti del Nord Africa
francese, l’attaccava arditamente con abile manovra e colpiva con siluri un
piroscafo da 18 000 tonnellate di stazza, affondandolo. Confermava, durante la
riuscita azione, le sue elevate doti di coraggio e di perizia e l’audace
spirito aggressivo dimostrato in precedenti missioni belliche”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del secondo capo cannoniere puntatore scelto
Francesco Ferrara Grimaldi:
“Puntatore in torre di grosso calibro di
incrociatore sorpreso nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da
soverchiante forza avversaria navale, ed in breve tempo ridotto a fumante
relitto in preda alle fiamme ed alle esplosioni, rimaneva gravemente ferito ed
accecato dallo scoppio di un proietto avversario che sconvolgeva l’impianto.
Agonizzante, ma dimentico delle proprie sofierenze, si
preocupava unicamente della sorte dell’unità. Immolava cosi la sua vita, dando
prova fino all’ultimo istante di sublime attaccamento alla nave ed al dovere”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del fuochista artefice Ernesto Formisano, nato
a Torre del Greco il 14 aprile 1918:
“Imbarcato su incrociatore sorpreso nottetempo,
nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza navale avversaria,
ed in breve ridotto a fumante relitto in preda alle fiamme ed alle esplosioni,
si prodigava nelle operazioni di spegnimento incendi, incurante dell’incessante
fuoco avversario. Esempio di elevate virtù militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al fuochista artefice Walter Frassinelli, nato a Firenze il
7 giugno 1919:
"Imbarcato su incrociatore sorpreso
nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da forza navale
preponderante avversaria ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda
alle fiamme, ed alle esplosioni, rimaneva impavido al proprio posto di
combattimento, riportando gravissime ustioni. Gettatosi in mare
all’affondamento della nave e tratto in salvo da unità avversaria, sopportava
con virile fermezza d’animo un doloroso intervento chirurgico. Esempio di
elevate virtù militari".
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita al secondo capo meccanico Giuseppe Jamoni, nato a Cesano il
29 gennaio 1914:
“Destinato al reparto caldaie di incrociatore
sorpreso nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante
forza navale avversaria, ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda
alle fiamme ed alle esplosioni, si prodigava
con slancio ed ardimento nel porre in salvo il personale alle sue dipendenze, e
contenere i gravi danni sofferti dall’unità, malgrado lo scoppio di una
tubolatura di vapore, avvenuto per effetto del tiro avversario. Esempio di
abnegazione, sereno coraggio ed elevate virtù militari”.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor
Militare conferita alla memoria del sottotenente di vascello Gennaro Landi:
"Imbarcato su incrociatore sorpreso
nottetempo, nel corso di ardita missione di guerra, da soverchiante forza
navale avversaria, ed in breve tempo ridotto a fumante relitto in preda alle
fiamme ed alle esplosioni, benché mortalmente ferite da schegge, rimaneva
impavido al proprio posto di combattimento, sopportando con forte animo il
dolore delle ferite. Spirava serenamente a bordo, pochi istanti prima che la
nave si inabissasse".
Foto
ufficiale dello Zara (da www.marina.difesa.it)
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Rapporto britannico sull’affondamento dello Zara, sulla base degli interrogatori dei
naufraghi presi prigionieri:
“Lo Zara
era al comando del C.V. Luigi Corsi. Questo ufficiale, che non fu recuperato da
nessuna nave inglese, è ritenuto annegato.
E’ riferito dai prigionieri che si sia ritirato in sala nautica poco prima che
la nave saltasse in aria.
Il Comandante in 2° dello Zara era il
C.F. Vittorio Giannattasio [non Giannattazio]. E’ riportato che questo
ufficiale sia tornato in plancia appena prima che la nave esplodesse .
Lo Zara, come nave ammiraglia di
DINAV 1, alzava l’insegna dell’Amm. di Divisione Carlo Cattaneo, con il C.F.
Franco Brovelli, un ufficiale artigliere, come capo del suo Stato Maggiore.
I movimenti dello Zara fin dal tempo
dell’attacco silurante del tramonto sono già stati trattati nel precedente
paragrafo.
Appare che intorno alle ore 22:00 (del 28/03/1941) a DINAV 1 sia stato ordinato
di salvare il Pola danneggiato; è
anche stato affermato da uno degli ufficiali dello Zara che era intenzione del CinC [Amm. Iachino] di sacrificare
questa divisione, se necessario, per permettere al Vittorio Veneto di tornare in Italia.
Sembra che fosse noto al CinC [Amm. Iachino] che le forze britanniche non
fossero più distanti di 20 mg.
E’ anche stato riferito da un ufficiale che A.D. Cattaneo fosse informato dalla
ricognizione aerea che le forze britanniche fossero vicine, ma egli [Cattaneo]
pensasse in quel momento che la ricognizione aerea avesse confuso il Vittorio Veneto e le navi insieme a lei
con la forza britannica, affermando che il Vittorio
Veneto fosse stato scambiato per la Formidable.
Gli ufficiali dello Zara non sono a
conoscenza di qualche altra unità italiana distaccata dalla forza principale
con lo scopo di scortarli al salvataggio del Pola, fatta eccezione per i quattro caccia di scorta della classe
Poeti [IX squadriglia].
Non è chiara ai sopravvissuti la faccenda di come furono disposti i
cacciatorpediniere in relazione ai due incrociatori, ma si ritiene che essi
fossero in normale posizione avanzata rispetto a DINAV 1; lo Zara trovavasi di prua del Fiume.
Si ritiene che intorno alle ore 22:00, quando era vicino al Pola, lo Zara rispose alle due segnalazioni luminose rosse Verey del Pola; la velocità fu allora ridotta ed i
due incrociatori erano pressoché fermi.
Poco dopo il Fiume fu inquadrato
dalla luce di un proiettore e ricevette tre salve da quelli che si pensò
fossero cannoni da 15” [381 mm].
La 4° bordata si ritiene che abbia devastato lo Zara alle ore 22:30 circa e, quando la salva successiva colpì,
causò una grande esplosione verso prua che smantellò una delle torri [da 203]
della nave e provocò un incendio.
Sembra che la salva successiva penetrò dentro la nave in molti punti, sala
macchine compresa.
Un sottufficiale, che in quel momento trovavasi sul ponte batteria, descrisse
la scena come un inferno con uomini uccisi attorno a lui e vasti incendi.
A questo punto molti membri dell’equipaggio che non erano feriti furono presi
dal panico e si buttarono a mare.
Furono visti razzi luminosi che furono scambiati per bengala.
L’ammiraglio [Cattaneo] dette allora ordine di aprire le valvole di allagamento
e di inondare i depositi di munizioni.
Più tardi egli ed il C.V. Corsi, scesero sul cassero e rivolsero [parole di
conforto] a quei membri dell’equipaggio che non si erano buttati a mare.
Egli disse loro che aveva deciso di attivare le cariche di autodistruzione non
appena la nave non fosse più in grado di navigare o combattere.
Fu dato l’ordine di abbandono nave dopo aver salutato il Re e l’Italia.
Intorno alle ore 02:00 gli ufficiali addetti all’attivazione delle cariche di
autoaffondamento abbandonarono la nave e pochi minuti più tardi furono udite
forti esplosioni e lo Zara affondò.
Nessuno dei prigionieri vide, o credette di vedere, un caccia lanciare siluri
contro lo Zara.
Si pensa che l’ammiraglio si sia lanciato in mare senza giubbotto salvagente;
pure il suo capo di Stato Maggiore, C.F. Brovelli, fu visto vivo in acqua, ma
nessuno di questi due ufficiali fu tirato in salvo.
La maggior parte dei sopravvissuti dello Zara
furono recuperati al mattino alle ore 11:00 circa del 29 da una squadriglia di
caccia, dopo essere andati alla deriva tutta la notte insieme a vari gruppi del
Fiume.
Poco dopo l’alba un aereo ricognitore britannico, che dalla descrizione sembrò
essere un Swordfish, volò sopra i naufraghi facendo segnali.
Poco dopo apparve un Sunderland, ammarò presso i naufraghi e fece segnali,
quindi decollò e riammarò a poca distanza, e dopo circa mezz’ora decollò di
nuovo e volò via.
I sopravvissuti dicono che, mentre erano in mare, due o tre navi stavano
bruciando, una delle quali si pensa sia un cacciatorpediniere, ed in effetti un
caccia è stabilito che sia affondato.
Diversi prigionieri che avevano abbandonato la nave, poco dopo che lo Zara fu colpito, si dettero da fare per
tornare a bordo.
Un altro prigioniero dice che una nave passò assai vicina sul lato dritto con
incendio a bordo poco dopo che lo Zara
fu colpito, ed egli pensa che potesse essere il Fiume che superava [per abbrivio?] lo Zara.
Lo Zara non ebbe tempo di rispondere
al fuoco e fu detto che esso fu completamente sorpreso sebbene le torri [da
203] erano puntate al traverso.
Poco dopo l’attacco delle corazzate contro lo Zara, è stato riferito che un caccia ha aperto il fuoco mandando un
colpo a segno.
Un prigioniero affermò che dopo l’abbandono nave da parte sua alle ore 23:00
circa, egli vide un cacciatorpediniere transitargli vicino con dipinto a prua
H24.
Poco dopo vide un altro caccia che illuminava il relitto con i propri
proiettori.
Il medesimo prigioniero udì in lontananza un pesante cannoneggiamento.
Un prigioniero affermò che il Vittorio
Veneto lasciò Napoli un po’ prima che DINAV 1 lasciasse Taranto.
Un sottufficiale segnalatore fu interrogato a fare un racconto dell’azione. Ha
detto che stava dormendo in quel momento e fu risvegliato da un pesante
cannoneggiamento; nel vedere ed udire tante esplosioni attorno a lui, si fece
il Segno della Croce, invocò tutti i Santi che conosceva, e si buttò a mare.
Molti simili racconti furono uditi da coloro che svolgevano gli interrogatori.”
«Poco dopo
scese da me il capitano Quercetti che appariva molto calmo e mi disse quanto
segue. Noi eravamo arrivati in prossimità del Pola ed eravamo caduti in
un'imboscata di navi inglesi che avevano fatto fuoco su di noi a bruciapelo (da
2000 metri) dopo averci illuminati coi loro proiettori. Da quanto si era potuto
capire eravamo stati colpiti al centro. Per il momento la galleggiabilità della
nave era soddisfacente, ma molti uomini erano stati uccisi e vi erano molti
feriti, soprattutto ustionati dal vapore. Quercetti non aveva ordini
particolari per me. Più tardi il comandante mi ordinò per telefono di mettere
in moto a marcia indietro, spiegando: "Andiamo a vedere il relitto del
Fiume che sta bruciando". Fu questa la prima notizia che ebbi del Fiume
colpito. Nel frattempo il capitano Quercetti era andato via lasciandomi la sua
cintura di salvataggio poiché io non l'avevo. In quel momento avevo con me
soltanto pochi uomini. Dopo alcuni minuti — non so quanti — telefonò il
comandante Corsi dicendo: "Basta, Parodi. Potete fermare. Abbiamo fatto un
giro su noi stessi: ritengo che le macchine non servano più". Risposi:
"Sta bene, comandante. Comunque rimarrò quaggiù per ogni evenienza. Come
mi devo regolare col personale di guardia?". Vi fu una pausa, poi il
comandante disse: "Mandateli su in coperta". "Devo far spegnere
le caldaie?" domandai. "Sì" rispose. "E, se potete
trovarlo, fatemi parlare col direttore di macchina. Sono solo in plancia e
questo è l'unico telefono che funzioni." Inviai quindi il capo meccanico
Filippi alle caldaie 1 e 2 per dire ai fuochisti di spegnerle e salii in
coperta. Poi inviai due fuochisti a cercare il maggiore del genio navale
Chiapperini. Filippi non ritornò, ma poco dopo uno dei fuochistí ritornò col
direttore di macchina. Misi il maggiore Chiapperini in comunicazione telefonica
con la plancia, ma quasi immediatamente egli mi passò il ricevitore, dicendomi:
"Parli lei, io non capisco niente". Feci come mi aveva detto. Il
comandante Corsi mi disse: "Il suo direttore non è fonogenico. Lui non
capisce quello che dico io ed io non capisco quello che dice lui. Questo è un
ordine per lui, riferiteglielo e confermate: preparate per la distruzione della
nave e informatemi dei provvedimenti presi". Senza deporre il ricevitore,
io ripetei l'ordine al maggiore Chiapperini e lo confermai al comandante. Il
maggiore Chiapperini, che sembrava molto depresso, si allontanò senza dire una
parola. Subito dopo arrivò nel locale macchine un cannoniere con una
cassetta-mina e una scatola di fiammiferi. "Questi ve li manda il
comandante in seconda Giannattasio" egli disse. Aiutato dal fuochista
piazzai gli esplosivi sotto i tubi delle pompe di circolazione, poi presi una
mazza che era fissata alla paratia e scesi a svitare i bulloni del portello del
condensatore. Ritornato sul piano di manovra incontrai il tenente Marchese che
era sceso a verificare se mi fossero stati portati gli esplosivi. Egli ci
lasciò non appena ebbe compiuto la verifica. Io allora comunicai al comandante
che nel locale macchine di prora tutto era pronto per la distruzione della nave.
Il comandante, che per tutto il tempo aveva parlato con molta chiarezza e molta
calma, ripeté che egli era solo in plancia. Quanto all'ordine di far saltare la
nave si riservava di comunicarlo al momento opportuno. Io ripetei che sarei
rimasto dove mi trovavo in attesa dei suoi ordini. Egli rispose semplicemente:
"Grazie". I due o tre fuochisti che erano rimasti con me se ne erano
andati e io credetti di essere rimasto proprio solo. Tutti i macchinari erano
fermi: vi era un silenzio profondo. Alle 23.45, forse perché mi sentivo un po'
nervoso, telefonai in plancia. Non vi fu alcuna risposta; tentai nuovamente
alcuni minuti più tardi, ma invano. Alle 23.57 ritentai con lo stesso
risultato. Ricordo le ore con precisione perché osservavo ansiosamente l'orologio
seguendo ogni minuto. Esattamente alle 23.59 decisi di salire in coperta, ma
prima, forse anche per guadagnare un po' di tempo, discesi per controllare gli
esplosivi. Alla pompa dell'olio trovai il fuochista di guardia Panzini e presso
il condensatore ausiliario il sottocapo di guardia Sabatini con un fuochista di
cui non ricordo il nome. Essi mi dissero che erano rimasti al loro posto in
attesa dei miei ordini. Ordinai loro di salire in coperta. Il fuochista Panzini
non aveva cintura di salvataggio; lo rimproverai, ma se non fosse stato per il
capitano Quercetti mi sarei trovato anch'io nella stessa situazione. Diedi al
Panzini la cintura di salvataggio che avevo e che egli tentò di rifiutare.
Infine mi salutarono e si allontanarono. Rimasi ancora pochi minuti sul posto e
poi ritornai al piano di manovra dove trovai la cintura di salvataggio che
Panzini vi aveva evidentemente lasciato prima di salire. Salii in coperta e
rilevai che la nave era sbandata circa sei gradi a dritta. Per tutto il periodo
che ero stato sotto coperta non avevo udito alcun colpo di cannone, né da parte
del nemico, né da parte nostra. In batteria a dritta v'era oscurità completa.
Usando la mia torcia vidi che il locale era ingombro di brande: alcuni corpi
giacevano presso gli stipetti di sinistra e altri erano accanto alla murata,
forse morti. Passai poi per il locale lavandini dei fuochisti e poi in batteria
a sinistra. Là il comandante Giannattasio mi illuminò con la sua torcia. Gli
dissi che ero salito proprio allora dal locale macchine poiché non avevo potuto
ottenere alcuna risposta dalla plancia. "Avete fatto bene" rispose.
"Scendete nelle caldaie 1 e 2 e guardate se c'è rimasto qualcuno. Mi
risparmierete di andarci". Andai nelle caldaie. Non vi era più nessuno.
Tutto era in ordine, ma vi era un caldo spaventoso. Risalii dalla batteria a
sinistra e ai piedi della scala che conduceva in coperta incontrai il maggiore
medico Mazziotti e il maggiore commissario Misitano che trasportavano un
ferito. In questa batteria a proravia della scala v'erano molti morti e molti
uomini gravemente feriti in massima parte per ustioni. Salii in coperta
aiutando a trasportare uno dei feriti. La notte era di un'oscurità di pece. A
proravia della cucina ufficiali, cioè quasi al centro della nave, incontrai un
gruppo di ufficiali fra cui l'ammiraglio Cattaneo, il comandante Corsi, il
comandante Brovelli e altri due. Mi presentai al comandante Corsi dicendogli
che avevo eseguito i suoi ordini nei locali di macchina fino a pochi minuti
prima. Che avevo deciso di salire in coperta quando non ero riuscito a ottenere
alcuna risposta, dalla plancia, e che non c'era nessuno sotto coperta.
"Scusatemi," disse lui "non vi ho più telefonato." Poi mi
prese per un braccio e disse: "Grazie. Avete fatto il vostro dovere.
Sapevo che avrei potuto contare su di voi". L'ammiraglio che era poco
discosto disse: "Bene, Parodi! Ora gettate in mare più legno che
potete". Tuttavia, mentre mi stavo allontanando egli mi chiese quanto
tempo ci sarebbe voluto per affondare la nave. Risposi che, secondo la mia
opinione, ci sarebbe voluta qualche ora con i soli allagamenti, mezz'ora
facendo brillare le mine con una miccia lunga, e circa venti minuti con miccia
corta. Volgendosi al comandante Corsi, l'ammiraglio Cattaneo disse: "Bisogna
proprio fare come abbiamo deciso". Prima di allontanarmi, domandai notizie
dell'incendio a prua e il tenente colonnello Bastianini mi disse che era
estinto. Andai a poppa e presso il quadrato ufficiali incontrai il capitano
Quercetti. Gli comunicai gli ordini dell'ammiraglio e con lui entrai nel
quadrato per gettare in mare le tavole e le sedie. Esse galleggiavano bene. Nel
quadrato c'era un gruppo di feriti e ricordo bene il fuochista Nao che mi
chiese: "Signor Parodi, credete che ci salveremo?". "Certamente"
risposi. "Ne sono sicuro." Allora mi chiese da bere; io buttai giù la
porta della vinicola, già in parte divelta, e dai rottami recuperai sette od
otto bottiglie. Spaccandone il collo, diedi da bere a diversi feriti. Alcuni di
essi avevano i volti ustionati e le labbra gonfie e paonazze. Dovetti cercare
di aiutarli perché temevo che si tagliassero date le condizioni in cui erano.
Quando giunsi presso uno di loro mi era rimasto soltanto un po' di gin
"Ersatz". "Che porcheria" mi disse. "Non potete darmi
un goccio di quello buono?" Il capitano Quercetti non aveva scarpe e si
era leggermente ferito a un piede camminando sui vetri rotti. Lo accompagnai
nella mia cabina e gli detti un paio delle mie scarpe. Andammo poi in batteria
a sinistra e insieme trasportammo fino in coperta due grandi murali che
gettammo in mare da sottovento. I galleggianti che non venivano usati dai
naufraghi in mare rimanevano sottobordo dato che la nave si spostava più
velocemente e li trascinava col fianco. La maggior parte dell'equipaggio era
già in mare: alcuni ufficiali aiutati da marinai avevano lanciato loro delle
cime e con que-ste ne issavano qualcuno a bordo. I recuperati dal mare erano in
massima parte in cattive condizioni, in stato di collasso e intirizziti dal
freddo. In questa opera di soccorso si distinse specialmente il sottotenente
Celi. Fra gli ufficiali che erano rimasti a bordo ad aiutare nelle opere di
soccorso, ricordo, oltre agli ufficiali di grado elevato già menzionati: il
tenente Fabrizio, il tenente Marchese, il sottotenente Celi, il tenente
Arimondo, il sottotenente Tomaselli e, ovviamente, il capitano Quercetti. Non
vidi ufficiali feriti, ma mi fu detto che il tenente Baracchi era rimasto
ferito da una scheggia mentre era al posto di manovra, e trasportato all'infermeria
vi era giunto cadavere. Il maggiore Mazziotti e il tenente Foldi mi dissero che
avevano trasportato la salma nella sua cabina; mi chiesero anzi se desideravo
vederlo, ma non andai. Il guardiamarina Moni era stato ferito alle gambe, ma
anche in queste condizioni aveva fatto tutto il possibile per estinguere
l’incendio a prora. Il sottotenente Carraro era stato gravemente ferito alle
mani, Tuttavia egli si era prodigato nel gettare in mare il munizionamento di
una riservetta per impedire che prendesse fuoco. Nel frattempo, il gruppo che
comprendeva l'ammiraglio e il comandante era andato verso poppa; mi avvicinai;
essi stavano discutendo il problema dei feriti gravi. Le zattere Carley erano
state lanciate immediatamente, ma ormai erano distanti dalla nave (le zattere
di prora erano andate distrutte). Era rimasta soltanto la motobarca di
sinistra, ma non poteva essere messa in mare perché il picco era stato
danneggiato. Comunque fu deciso di mettere i feriti più gravi su questa
imbarcazione; decisione presa soprattutto, ritengo, per sollevare il morale
degli uomini. Ma io avevo scoperto che l'imbarcazione era forata al fianco
sinistro. (Seppi in seguito, quando fui prigioniero in Egitto, che uno dei
feriti, il capo Mazzella, che era in questa barca, si salvò ed era ricoverato
in un ospedale egiziano.) Il comandante Brovelli iniziò a organizzare questa
operazione e io lo vidi mentre aiutava personalmente a trasportare i feriti. Il
tenente Foldi, il capitano Quercetti e, credo, il sottotenente Celi furono
anche di aiuto. Io aiutai a trasportare tre dei feriti. Non posso dire quanti
ne fossero messi nell'imbarcazione. I tre che avevo aiutati furono posti in
coperta. Il comandante Giannattasio era fra quelli che aiutavano a portare i
feriti. Ritornai poi sul posto dove erano rimasti il comandante Corsi e
l'ammiraglio Cattaneo. L'ammiraglio domandò nervosamente dove fosse il suo
aiutante di bandiera. Il comandante Brovelli, venendo su in quel momento e
udendo di sfuggita la domanda, disse: "Fatemi ringiovanire, ammiraglio.
Permettetemi di essere il vostro aiutante di bandiera. Io ho già le
cordelline". Il comportamento, la calma, il buonumore di Brovelli sono
sempre stati meravigliosi. Dopo un certo periodo, credo verso l'1.15,
l'ammiraglio mi domandò nuovamente in quanto tempo potevo garantire
l'affondamento della nave. Sembrava nervoso e il suo pensiero era evidentemente
tutto rivolto alla distruzione dello Zara. Gli dissi che se voleva fare in
fretta e con sicurezza il modo migliore era quello di farlo saltare in aria.
L'ammiraglio ancora più nervoso rispose: "È quello che ho deciso di
fare". Una voce che poteva essere quella del tenente Fabrizio disse
allora: "Possiamo farlo verso l'alba". "Alba o non alba,"
dichiarò l'ammiraglio "io desidero che la nave sia affondata prima che gli
inglesi vengano più vicini. E prima dell'alba essi saranno certamente
qui". L'ammiraglio era senza cintura di salvataggio: l'aveva data a uno
dei feriti che si lamentavano per il freddo. Un poco più tardi udii la voce del
comandante Giannattasio che chiamava qualcuno nei ponti inferiori e andai da
lui. Egli mi dette una cintura di salvataggio: "Parodi, a dieci metri
verso prora c'è un ferito senza cintura. Andate a mettergliela". Eseguii
l'ordine. Il comandante Giannattasio si prodigava dovunque per soccorrere tutti
e tutti avevano per lui parole di ammirazione. Quando ritornai, il comandante
Giannattasio stava parlando con l'ammiraglio e il comandante Corsi, poi andò
nei locali inferiori insieme al capitano Quercetti. Quest'ultimo mi disse poi,
quando eravamo in Egitto, che erano andati ad aprire tutti gli allagamenti e a
verificare le cariche esplosive. Il comandante Corsi, che era perfettamente
calmo, chiese una sigaretta. Io ne avevo due e gliene diedi una dicendo:
"Vado nel mio camerino a prenderne qualche altro pacchetto". Presi
infatti un po' di sigarette e le mie carte di identità. Avrei voluto prendere
anche le fotografie di mia moglie e delle mie figlie, ma non ebbi il coraggio.
Mi sarebbe sembrato di togliere qualcosa al nostro Zara che sapevo sarebbe
presto scomparso per sempre. Risalii quindi in coperta e offrii al comandante
un pacchetto di sigarette. Sorridendo disse: "Grazie, ma credo che siano
troppe!". Mi allontanai in fretta dirigendomi dove c'erano gruppi di
marinai e uno o due ufficiali. Incontrai il tenente Foldi che era adesso molto
più calmo e mi parlò di nuovo della morte di Baracchi. Il tenente Arimondo si
stava fumando il suo solito sigaro. Io lo salutai e lui mi disse nel nostro
dialetto genovese: "Mi sto gustando questo toscano. Può essere
l'ultimo". In realtà lo fu. Il corrispondente di guerra Bardi era tutto
bagnato e tremante di freddo. Gli battei sulla spalla dicendo: "Chissà che
articolone potrai scrivere adesso!" Egli sorrise dicendo: "Non perdi
mai il buonumore, tu". Effettivamente egli scrisse là il suo migliore
articolo, immolando la vita in mezzo ai marinai che avevano imparato ad
apprezzarlo. Ritornai al gruppo intorno all'ammiraglio, ma quasi immediatamente
il comandante Corsi ordinò a tutti di portarsi a poppa. In breve tempo fummo
tutti là, mi pare circa 200-250 persone. L'ammiraglio avanzò al centro del
gruppo e salì sul portello della scala ufficiali dicendo: "Un equipaggio
che passa dalla propria nave a una nave nemica è un equipaggio che si arrende.
L'equipaggio dello Zara non si arrende. Io ho dato l'ordine di affondare la
nave". Egli dette poi il saluto alla voce. Immediatamente il comandante
Corsi balzò su al posto dell'ammiraglio: "Tra pochi minuti il nostro Zara
cesserà di esistere" disse egli. "Quando saremo in mare saremo
naufraghi. Può darsi che qualcuno sia fortunato e venga raccolto dal nemico.
Ricordate che in questo caso è necessario dare il nostro cognome, nome e grado.
È proibito dare qualsiasi altra informazione e non bisogna darla." Egli
ordinò poi il saluto alla voce e invitò tutti ad abbandonare la nave. Il
comandante Giannattasio era già sceso ad accendere le micce. Io salutai il
comandante che non aveva la cintura di salvataggio. Egli mi strinse la mano e
mi disse: "Addio". In completo silenzio e in perfetto ordine,
l'equipaggio saltò in mare. I maggiori Mazziotti e Misitano erano vicini a me e
il primo mi chiese di andare con loro. Essi saltarono sul lato sinistro. Io mi
calai in mare per mezzo di un cavetto. L'acqua era molto fredda. lo avevo una
cintura di salvataggio e, mentre entravo in acqua, evitai di bagnarmi la testa
e le spalle. Questa precauzione probabilmente mi salvò dalla morte che colse i
miei compagni. La cintura di salvataggio funzionava perfettamente. Lasciai andare
il cavetto lentamente e mi riunii ai due maggiori che erano aggrappati a una
tavola. Con loro vi era un marinaio di cui non ricordo il nome. Nuotando
intorno alla poppa dello Zara passammo sul lato dritto. Calcolo che ci
trovassimo a un centinaio di metri di distanza, quando, vicino alle macchine di
poppa, ebbe luogo la prima esplosione annunziata da un sibilo; poi vedemmo
innalzarsi una colonna bianca. Dopo circa quattro o cinque minuti vi fu
un'altra esplosione nel deposito munizioni di prora. Si alzò ora una colonna
bianco-rosata a tale altezza che non potei valutare. Per un attimo l'intera
scena fu illuminata. Le fiamme prorompevano a ondate e sembravano proiettare in
alto oggetti grandi e voluminosi. Quando le fiamme calarono, nel chiarore residuo
io vidi lo Zara sbandare sulla dritta e cominciare a capovolgersi. Pochi minuti
più tardi ci raggiunse una serie di onde enormi. Poi tutto fu liscio».
La testimonianza del capitano del Genio Navale
Salvo Giuseppe Parodi (dal libro “Le battaglie navali del Mediterraneo nella
seconda guerra mondiale” di Arrigo Petacco):
Lo
Zara, in secondo piano, con il Fiume in primo piano ed il Pola più indietro, nel porto di Napoli
(g.c. STORIA militare)
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Estratto dal rapporto della Warspite sui minuti cruciali del 28 marzo 1941:
“10.25.30 Sighted three cruisers and two
destroyers 10 degrees on starboard bow. [In realtà, ovviamente, erano due
incrociatori e quattro cacciatorpediniere.]
10.26.30 Altered course to 280 degrees to open "A arcs" on port side.
10.26.40 Alarm Port. [La I Divisione era ora a prora dritta.]
10.27.12 Searchlights "Target."
10.27.15 15-inch guns "Target." ["Target" significa qui
puntati sul bersaglio e pronti al fuoco.]
10.27.25 Starshell guns "Target."
10.27.30 6-inch guns "Target."
10.27.45 Greyhound illuminates
with searchlight.
10.27.55 Open fire.
10.28.00 First 15-inch broadside. Range 2,900 yards. Six guns fired, five or
six hits. The enemy [il Fiume] burst
into vivid flame from just abaft the bridge to the after turret.
10.28.10 First 6-inch salvo.
10.28.40 Second 15-inch broadside, eight guns, mostly hit. The ship now a mass
of fire.
10.28.50 Shift one ship left [cioè, spostare il tiro sullo Zara].
10.29.18 Third 15-inch broadside at new target. Range 3,500 yards. Mostly
hit. The ship [lo Zara] burst into
flames.”
Un elenco delle salve tirate dalle tre corazzate
britanniche sulle navi della prima divisione:
Warspite:
Prima bordata contro il Fiume, da 2651 metri, 6 cannoni (la torretta Y non era ancora
puntata), rilevamento 232 gradi
Seconda bordata contro il Fiume, da
2743 metri, 8 cannoni
Terza bordata contro lo Zara, da 3200
metri, 8 cannoni, rilevamento 186 gradi
Quarta, quinta e sesta bordata contro lo Zara,
distanza non precisata
Settima bordata contro un cacciatorpediniere identificato come il Gioberti, da 2286 metri
Valiant:
Prima bordata contro il Fiume, da 3657 metri, 4 cannoni (la torretta Y non era ancora
puntata), rilevamento 230 gradi
Seconda bordata contro lo Zara, da
3497 metri, 7 (?) cannoni
Terza bordata contro lo Zara, da 3360
metri, 7 (?) cannoni
Quarta bordata contro lo Zara, da
3040 metri, 8 cannoni
Quinta bordata contro lo Zara, da 2949 metri, 6 cannoni
Sesta bordata contro lo Zara, da 3177 metri, 7 (?) cannoni
Barham:
Prima bordata contro l’Alfieri, da 2834 metri, a prora sinistra
Seconda, terza, quarta, quinta e sesta bordata
contro lo Zara, sempre a prora
sinistra, ma senza mai specificare la distanza ed il rilevamento. Nessuna delle
bordate fu effettuata con tutti e otto i cannoni, perché qualcuno era sempre “ostacolato”
dalle sovrastrutture, causa la posizione della nave.
La battaglia di Capo Matapan nel libro “Struggle for the Middle Sea”
L’azione delle corazzate britanniche a Matapan nel libro “The Great Ships: British Battleships in World War II”
L’azione delle corazzate britanniche a Matapan nel libro “The Great Ships: British Battleships in World War II”