Lo Zeffiro (g.c. Mauro Millefiorini, via www.naviearmatori.net) |
Cacciatorpediniere
della classe Turbine (dislocamento standard di 1220 tonnellate, in carico
normale 1560 tonnellate, a pieno carico 1715 tonnellate). Rispetto ad altre
unità della classe aveva una leggera differenza nella potenza dell’apparato
motore, 50.550 HP (contro, ad esempio, i 46.900 dell’Ostro ed i 52.220 del Borea).
Durante il conflitto
svolse in totale 9 missioni, di cui due di ricerca del nemico, una di caccia
antisommergibili, due di trasferimento e quattro di altro tipo, percorrendo
complessivamente 2100 miglia nautiche e trascorrendo 580 ore in mare.
Il suo servizio in
tempo di guerra ebbe durata brevissima: fu il secondo cacciatorpediniere della
Regia Marina ad essere affondato nel conflitto, venticinque giorni dopo
l’entrata in guerra.
Potrebbe “spettare”
allo Zeffiro il poco invidiabile
“primato” di essere stata la prima nave da guerra nella storia ad essere
affondata da aerosiluranti: l’unica nave da guerra ad essere affondata da
siluri di aerei prima del 5 luglio 1940 potrebbe essere stata l’incrociatore
cinese Ning Hai, affondato il 23
settembre 1937 da aerei giapponesi, ma le fonti sono in disaccordo sulla causa
del suo affondamento, bombe oppure siluri.
Breve e parziale cronologia.
20 o 29 aprile 1925
Impostazione nei
cantieri Ansaldo di Sestri Ponente.
27 maggio 1927
Varo nei cantieri
Ansaldo di Sestri Ponente. Madrina è la signorina Lena Bucci (figlia dell’ammiraglio
Umberto Bucci) o la signorina Elena Gonzales.
Il varo dello Zeffiro (Coll. Aldo Cavallini via www.naviearmatori.net) |
15 maggio 1928
Entrata in servizio
(per altra fonte, ciò sarebbe avvenuto il 16 marzo).
1929
Lo Zeffiro fa parte, con i gemelli Espero, Ostro e Borea,
della I Squadriglia della 1a Flottiglia della I Divisione
Siluranti, facente parte della 1a Squadra Navale, di base a La
Spezia.
Lo Zeffiro a La Spezia con la colorazione grigio scuro in uso tra il 1928 ed i primi anni Trenta (Coll. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
1929-1932
Compie diverse
crociere addestrative nel Mediterraneo.
Agosto 1930
Lo Zeffiro riceve a Livorno la bandiera di
combattimento, alla presenza degli ammiragli Costanzo Ciano (Ministro delle
Comunicazioni e già comandante, durante la prima guerra mondiale, del precedente
cacciatorpediniere Zeffiro) e
Giuseppe Sirianni (Ministro della Marina).
Due foto
dello Zeffiro nel 1930 (sopra, Coll. Sergio
Del Santo, sotto, Coll. Alessandro Burla, entrambe via www.associazione-venus.it)
1931
Insieme ai gemelli Nembo, Euro ed Espero, all’esploratore Ancona ed a due flottiglie di cacciatorpediniere (rispettivamente quattro e sei unità, più un esploratore ciascuna), lo Zeffiro forma la II Divisione della 1a Squadra Navale. Per altra fonte Zeffiro, Espero, Ostro e Borea costituiscono nello stesso anno la I Squadriglia Cacciatorpediniere.
Insieme ai gemelli Nembo, Euro ed Espero, all’esploratore Ancona ed a due flottiglie di cacciatorpediniere (rispettivamente quattro e sei unità, più un esploratore ciascuna), lo Zeffiro forma la II Divisione della 1a Squadra Navale. Per altra fonte Zeffiro, Espero, Ostro e Borea costituiscono nello stesso anno la I Squadriglia Cacciatorpediniere.
1932
Durante
un’esercitazione, lo Zeffiro viene
accidentalmente colpito da un siluro difettoso lanciato dal gemello Aquilone, che però non esplode.
1933 ca.
Riceve una centralina
di tiro tipo «Galileo-Bergamini», progettata dal capitano di vascello Carlo
Bergamini e sperimentata con buoni risultati sui gemelli della I Squadriglia
Cacciatorpediniere, e subisce lavori di miglioramento delle sistemazioni di
bordo, nonché una ulteriore mitragliera binata da 13,2/76 mm.
Incrociatori e cacciatorpediniere all’ancora a Gaeta nel 1935: lo Zeffiro è all’ancora sullo sfondo, un poco a sinistra del centro della foto. In primo piano cacciatorpediniere delle classi Freccia e Folgore (Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
Agosto 1933
Assume il comando
dello Zeffiro il capitano di fregata
(per altra fonte, capitano di vascello) Alberto Da Zara, che ricopre anche
l’incarico di comandante della IV Squadriglia Cacciatorpediniere, della quale
lo Zeffiro è caposquadriglia.
1934
Zeffiro, Ostro, Borea ed Espero formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla VIII Squadriglia (Nembo, Euro, Turbine ed Aquilone), è aggregata alla II Divisione Navale, composta dagli incrociatori pesanti Fiume e Gorizia.
Zeffiro, Ostro, Borea ed Espero formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla VIII Squadriglia (Nembo, Euro, Turbine ed Aquilone), è aggregata alla II Divisione Navale, composta dagli incrociatori pesanti Fiume e Gorizia.
1935
Presta servizio sullo
Zeffiro, durante la guerra d’Etiopia,
il sottotenente di vascello Luigi Faggioni, futura M.O.V.M.
Lo Zeffiro in una foto datata 1° gennaio 1936 (Coll. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Agosto-Settembre 1937
Durante la guerra
civile spagnola, lo Zeffiro partecipa,
con altre unità (incrociatori leggeri Luigi
Cadorna ed Armando Diaz,
cacciatorpediniere Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Espero, Ostro e Borea,
torpediniere Cigno, Climene, Centauro, Castore, Altair, Aldebaran, Andromeda, Antares) al blocco del Canale di
Sicilia, per impedire l’invio di rifornimenti dall’Unione Sovietica (Mar Nero)
alle forze repubblicane spagnole. Mussolini ha preso tale decisione a seguito
di richieste da parte dei comandi spagnoli nazionalisti, i quali sostengono,
esagerando di molto, che l’Unione Sovietica stia per rifornire le forze
repubblicane spagnole con oltre 2500 carri armati, 3000 “mitragliatrici
motorizzate” e 300 aerei. Il 3 agosto Francisco Franco ha chiesto urgentemente
a Mussolini di usare la sua flotta per fermare un grosso “convoglio” sovietico
appena partito da Odessa e diretto nei porti repubblicani; sulle prime era
previsto il solo impiego di sommergibili, ma Franco è riuscito a convincere
Mussolini ad impiegare anche le navi di superficie. Nel suo telegramma Franco
afferma: «Tutte le informazioni degli ultimi giorni concordano
nell’annunciare un aiuto possente della Russia ai rossi, consistente in carri
armati, dei quali 10 pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri (sic), 3 000
mitragliatrici motorizzate, 300 aerei e alcune decine di mitragliatrici
leggere, il tutto accompagnato da personale e organi del comando rosso. L’informazione
sembra esagerata, poiché le cifre devono superare la possibilità di aiuto di
una sola nazione. Ma se l’informazione trovasse conferma, bisognerebbe
agire d’urgenza e arrestare i trasporti al loro passaggio nello stretto a sud
dell’Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna. Per far ciò, bisogna, o che la
Spagna sia provvista del numero necessario di navi o che la flotta italiana
intervenga ella stessa. Un certo numero di cacciatorpediniere operanti davanti
ai porti e alle coste dell’Italia potrebbe sbarrare la rotta del Mediterraneo
ai rinforzi rossi: la cattura potrebbe essere effettuata da navi battenti
apertamente bandiera italiana, aventi a bordo un ufficiale e qualche soldato
spagnolo, che isserebbero la bandiera nazionalista spagnola al momento stesso
della cattura. Invierò d’urgenza un rappresentante a Roma per negoziare
questo importante affare. Nell’intervallo, e per impedire l’invio delle navi
che saranno già in rotta per la Spagna, prego il governo italiano di
sorvegliare e segnalare la posizione e la rotta delle navi russe e spagnole che
lasciano Odessa. Queste navi devono essere sorvegliate e perquisite da
cacciatorpediniere italiani che segnaleranno la loro posizione alla nostra
flotta. Vogliate trasmettere in tutta urgenza al Duce e a Ciano
l’informazione di cui sopra e la nostra richiesta, unita all’assicurazione
dell’indefettibile amicizia e della riconoscenza del generalissimo alla nazione
italiana».
Il blocco navale
viene ordinato da Roma il 7 agosto ed ha inizio due giorni più tardi; oltre ai
sommergibili, inviati sia al largo dei Dardanelli che lungo le coste della
Spagna, prendono in mare gli incrociatori Diaz
e Cadorna, otto cacciatorpediniere (tra
cui lo Zeffiro) ed altrettante
torpediniere che si posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le coste del
Nordafrica francese. Cacciatorpediniere e torpediniere operano in cooperazione
con quattro sommergibili ed un sistema di esplorazione aerea a maglie strette
(idrovolanti dell’83° Gruppo Ricognizione Marittima, di base ad Augusta) e sono
alle dipendenze dell’ammiraglio di divisione Riccardo Paladini, comandante
militare marittimo della Sicilia; successivamente verranno avvicendati da altre
siluranti e dalla IV Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando Diaz, Alberto Di Giussano, Luigi
Cadorna, Bartolomeo Colleoni).
Sono complessivamente ben 40 le navi mobilitate per il blocco: i quattro
incrociatori della IV Divisione, l’esploratore Aquila, dieci cacciatorpediniere tra cui lo Zeffiro (gli altri sono Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Lampo, Espero, Ostro e Borea), 24 torpediniere (Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La Masa, Generale
Carlo Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare
Abba, Generale Achille Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe Missori e Monfalcone) e la nave coloniale Eritrea. Altre due navi, gli incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta, camuffati da spagnoli Lago e Rio, hanno l’incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati
dalle navi da guerra in crociera.
Il dispositivo di
blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all’Alto
Comando Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di
operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle
in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all’uscita dei
Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono
segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di
Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche
questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali)
troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della
Tunisia e dell’Algeria. Infine, come ultima barriera per i bastimenti che
riuscissero ad eludere anche tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato
lungo le coste della Spagna.
In base all’ordine
generale d’operazioni numero 1, gli incrociatori, l’Eritrea e parte dei cacciatorpediniere devono compiere esplorazione
pendolare sul meridiano 16° E, cooperando con gli aerei da ricognizione che
conducono esplorazione sistematica per parallelo; altri cacciatorpediniere
formano uno sbarramento esplorativo tra Lampedusa e le propaggini meridionali
del banco di Kerkennah (nei pressi di Sfax), mentre le torpediniere conducono
esplorazione a rastrello tra Pantelleria e Malta, lungo l’asse del Canale di
Sicilia. Adriatico/Lago e Barletta/Rio compiono
esplorazione a triangolo presso Capo Bon; Aquila,
Fabrizi, Missori, Montanari, Monfalcone, Nievo, Papa e La Masa compiono vigilanza sistematica
nello stretto di Messina. Il blocco si protrae dal 7 agosto al 12 settembre con
intensità variabile; nel periodo di maggiore attività sono contemporaneamente
in mare nel Canale di Sicilia 12 navi di superficie, 5 sommergibili e 6 aerei.
Gli ordini per le navi di superficie sono di avvicinare e riconoscere tutti i
mercantili avvistati, specialmente quelli privi di bandiera (e che non la
issano subito dopo averne ricevuto l’intimazione dalle unità italiane), quelli
che di notte procedono a luci spente, quelli con bandiera sovietica o spagnola
repubblicana, quelli che hanno in coperta carichi di natura palesemente
militare, e quelli che sono stati specificamente indicati per nome dal Comando
Centrale. Se un mercantile viene riconosciuto come al servizio della Spagna
repubblicana, la nave italiana che l’ha avvistato deve seguirlo e segnalarlo al
sommergibile più vicino, che dovrà poi procedere ad affondarlo. Se quest’ultimo
fosse impossibilitato a farlo, spetterebbe alla nave di superficie il compito
di seguire il mercantile fino a notte, tenendosi in contatto visivo, per poi
silurarlo una volta calata l’oscurità. I piroscafi identificati come
“contrabbandieri” di notte devono invece essere subito affondati. Se venisse
incontrato un mercantile repubblicano a grande distanza dalle acque
territoriali della Tunisia, la nave che lo avvista deve chiamare sul posto uno
tra Rio e Lago oppure una nave da guerra spagnola nazionalista (parecchie di
queste sono appositamente dislocate nel Mediterraneo centrale) che
provvederanno a catturarlo. Ordini tassativi sono emanati per evitare interferenze
o incidenti con bastimenti neutrali (il che talvolta obbliga a seguire un
mercantile “sospetto” per tutto il giorno al fine di identificarlo, dato che
talvolta quelli diretti nei porti repubblicani usano bandiere false), e questo,
insieme all’intensità del traffico navale nel Canale di Sicilia, rende
piuttosto complessa e delicata la missione delle navi che partecipano al
blocco.
Nei primi giorni del
blocco sono particolarmente attivi i cacciatorpediniere di base ad Augusta.
Dopo i primi successi, però, ci si rende conto che il sistema di vigilanza nel
Canale di Sicilia non funziona come dovrebbe: diversi piroscafi al servizio dei
repubblicani lo aggirano avvicinandosi di giorno ai settori in cui incrociano
le navi italiane, aspettando il buio per entrare nelle acque territoriali della
Tunisia e poi attraversare la zona di maggior pericolo seguendo la costa, o
sostando nei porti francesi in attesa dell’alba. Di conseguenza, il Comando
della Regia Marina dispone delle crociere di cacciatorpediniere nella fascia
costiera compresa tra 10 e 30 miglia dalla costa tunisina tra Capo Tenes e La
Galite, per completare il dispositivo esistente. Lo Zeffiro (insieme ad Euro,
Da Recco, Pancaldo, Turbine ed Ostro) è uno dei cacciatorpediniere
adibiti a queste missioni, della durata di tre giorni, operando in sezione con
l’Euro e con base a Cagliari e Palma
di Maiorca.
Siccome queste
crociere si svolgono in aree dov’è possibile che i cacciatorpediniere italiani
incontrino navi da guerra repubblicane, una sezione di incrociatori (a turno, Attendolo-Eugenio di Savoia, Trento-Trieste, Attendolo-Bande Nere) viene tenuta costantemente a Cagliari
pronta ad intervenire in appoggio ai cacciatorpediniere, in caso di scontro con
superiori formazioni navali repubblicane. Se i cacciatorpediniere dovessero
invece incontrare piroscafi riconosciuti come repubblicani (o al loro servizio)
al di fuori delle acque territoriali francesi, dovranno tenersi in contatto
visivo fino al calar del sole, dopo di che dovranno avvicinarsi col buio ed
affondarlo con il siluro. In caso di riconoscimento notturno, se
l’identificazione risulterà inequivocabile, dovranno affondarlo subito.
Il blocco navale così
organizzato (del tutto illegale, dato che l’Italia non è formalmente in guerra
con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi
effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche, l’elevato
rischio comportato dalla traversata a causa del blocco italiano porta in breve
tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica
alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera
britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche
navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona
col favore della notte. Entro settembre, l’invio di mercantili con rifornimenti
per i repubblicani dall’Unione Sovietica attraverso il Bosforo è praticamente
cessato, tanto che i comandi italiani si possono ormai permettere di ridurre di
molto il numero di navi in mare per la vigilanza, essendo quest’ultima sempre
meno necessaria e non volendo provare troppo le navi in una zona dove c’è
spesso maltempo con mare grosso. Ad ogni modo, le navi assegnate al blocco
vengono mantenute nelle basi siciliane, pronte a riprendere il mare qualora
dovesse manifestarsi una ripresa nel traffico verso la Spagna.
Oltre alla grave
crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si verifica proprio nel
momento cruciale della conquista nazionalista dei Paesi Baschi (principale
centro di produzione di armi tra le regioni in mano repubblicana), il blocco ha
un impatto notevole anche sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione
civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di procurarsi beni di
prima necessità) quanto nei vertici politico-militari, che si rendono conto di
come, mentre i nazionalisti ricevono dall’Italia supporto incondizionato,
persino sfacciato, con largo dispiego di mezzi, Francia e Regno Unito non
sembrano disposte a fare molto più che parlare in aiuto alla causa repubblicana
(in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte manifestazioni contro
queste due nazioni, da cui i repubblicani si sentono abbandonati).
Il blocco italiano
impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani, ma scatena anche gravi
tensioni internazionali (specie col Regno Unito) e feroci proteste sulla stampa
spagnola repubblicana ed internazionale, con accuse di pirateria – essendo,
come detto, un’operazione in totale violazione di ogni legge internazionale –
nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston Churchill. Il
governo britannico, invece, evita di accusare apertamente l’Italia, dato che il
primo ministro Neville Chamberlain intende condurre una politica di
“riavvicinamento” verso l’Italia per allontanarla dalla Germania; anche questo
fa infuriare i repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del
coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono già, dato
che l’Operational Intelligence Center dell’Ammiragliato intercetta e decifra
svariate comunicazioni italiane relative alle missioni “spagnole”), solo per
vedere questi ultimi fingere di attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti
spagnoli.
Nel settembre 1937
Francia e Regno Unito organizzeranno la Conferenza di Nyon per contrastare la
“pirateria sottomarina”: gli occhi di tutti sono puntati sull’Italia, anche se
questa non viene accusata direttamente (tranne che dall’Unione Sovietica,
ragion per cui l’Italia, sebbene invitata, rifiuta di partecipare alla
conferenza). Se ufficialmente i britannici non parlano apertamente di
coinvolgimento italiano, attraverso i canali diplomatici questi fanno pervenire
al ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, l’irritazione per alcuni
incidenti che hanno coinvolto proprio navi britanniche (il cacciatorpediniere
HMS Havock è stato attaccato,
ancorché senza risultato, dal sommergibile italiano Iride), ragion per cui il 12 settembre si decide di sospendere il
blocco per non incrinare le relazioni con il Regno Unito. Nel periodo 7
agosto-12 settembre, le navi italiane hanno avvicinato e identificato ben 1070
bastimenti mercantili, di svariate nazionalità. Da questo momento, sarà incombenza
unicamente della Marina franchista impedire che altri rifornimenti raggiungano
i porti repubblicani.
In tutto, durante la
guerra civile spagnola lo Zeffiro
effettua cinque missioni di repressione del contrabbando di guerra, con base a
Cagliari ed Augusta, senza incontrare, durante questi pattugliamenti, alcuna
nave “sospetta”.
8 agosto 1938
Entra in bacino di
carenaggio a Taranto per un turno di lavori.
A fine anni Trenta lo
Zeffiro, insieme agli altri “Turbine”
costruiti a Sestri Ponente, vien dotato di torretta telemetrica cilindrica in
posizione arretrata.
Lo Zeffiro a La Spezia nel 1939 (da www.warshipww2.eu) |
Primavera 1939
Lo Zeffiro, alle dipendenze del
Dipartimento di Taranto, partecipa alle operazioni per l’occupazione
dell’Albania.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. Lo Zeffiro
(al comando del capitano di corvetta Giovanni Dessy) fa parte della II
Squadriglia Cacciatorpediniere, dislocata a Taranto (alle dipendenze del
Dipartimento Militare Marittimo Ionio e Basso Adriatico o, per altra fonte,
della 1a Squadra Navale), insieme ai gemelli Espero, Ostro e Borea.
27 giugno 1940
Alle 22.45 lo Zeffiro (capitano di corvetta Giovanni
Dessy) salpa da Taranto per Tobruk insieme ai gemelli Espero (caposquadriglia, capitano di vascello Enrico Baroni) ed Ostro (capitano di fregata Giuseppe
Zarpellon). In seguito allo scoppio della guerra, è stato infatti disposto il
trasferimento a Tobruk della II Squadriglia Cacciatorpediniere, che dovrà poi
rimanere dislocata nella base libica; il Comando Supremo ha deciso di
approfittare del trasferimento della squadriglia per effettuare il trasporto in
Cirenaica di alcuni rifornimenti urgenti, ed ha pertanto ordinato a Supermarina
di imbarcare sui tre cacciatorpediniere due batterie anticarro (per altra
fonte, contraeree) della Milmart (Milizia marittima di artiglieria, una
specialità della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), con il
relativo personale. In tutto, Zeffiro,
Ostro ed Espero hanno a bordo 10 cannoni contraerei Breda Mod. 35 da 20/65
mm, 273 casse di munizioni (per un totale di 450.000 colpi e 120 tonnellate di
munizioni) e 162 uomini (6 ufficiali, 22 sottufficiali e 134 camicie nere),
oltre a 37 casse di materiali del Regio Esercito. L’ordine d’operazioni (n. 9),
inviato dall’ammiraglio di squadra Antonio Pasetti (comandante del Dipartimento
Marittimo Ionio e Basso Adriatico) al caposquadriglia Baroni sull’Espero, prevede che la squadriglia dovrà
dislocarsi a Tobruk «in temporanea
dipendenza di quel Comando di Settore Militare Marittimo», ed inoltre che «
Le Unità saranno in completo assetto di
guerra con la massima dotazione di munizioni e di combustibile. Le Unità
imbarcheranno munizioni del Regio Esercito nella misura massima consentita
dalle esigenze relative allo impiego delle armi ed a quelle della stabilità
delle unità stesse. Imbarcheranno altresì, tenendo sempre presente le esigenze
belliche delle singole Unità e compatibilmente con lo sbarco a bordo, Ufficiali
e personale del Regio Esercito nonché personale della Regia Marina diretto a
Tobruch (…) Allo scopo di evitare
incontri con sommergibili SIRENA e BRIN la Squadriglia ESPERO – PILO [seguiva
la II Squadriglia Cacciatorpediniere, a qualche ora di distanza, anche le
torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Missori, con analoga missione] giunta sulla congiungente punta Alice – Capo
S. Maria di Leuca si porterà per parallelo sulla congiungente Capo S. Maria di
Leuca – Ras El Tin. Dopo l’alba procurerà di passare a circa 80 mg. al largo
delle coste greche. L’approdo a Tobruch sarà effettuato dirigendo da nord sul
punto C, con speciali cautele per probabili insidie di sommergibili».
Qualche ora prima
della partenza da Taranto della II Squadriglia, il Reparto Operativo del
Servizio Informazioni della Marina ha intercettato e decifrato alcune
comunicazioni radio britanniche, dalle quali risulta che un convoglio
britannico è partito o sta per partire da Malta la sera del 27. In base a
questa notizia Supermarina decide, a scopo precauzionale, di intensificare la
ricognizione aerea nel Canale di Sicilia, a partire dall’alba del 28, e dispone
che la II Divisione Navale (incrociatori leggeri Bande Nere e Colleoni),
dislocata a Palermo, si tenga pronta a muovere in due ore.
Ignari di tutto ciò, Zeffiro, Ostro ed Espero navigano
tranquillamente nella notte tra il 27 ed il 28, che trascorre senza che si
verifichino eventi degni di nota. I tre cacciatorpediniere sono piuttosto
sovraffollati: tra i 50-55 militi della Milmart che ciascuno ha a bordo, e le
casse di armi, munizioni e materiali sistemate un po’ dappertutto, in certi
punti i marinai riescono a fatica a passare. La squadriglia segue la rotta
Santa Maria di Leuca-Ras el Tin, a 21 nodi di velocità.
Lo Zeffiro a La Spezia negli anni Trenta (nel 1935 secondo una fonte, mente un’altra data la foto al 1930) (Coll. Luigi Accorsi via www.associazione-venus.it) |
28 giugno 1940
La navigazione si
svolge senza intoppi fin verso le nove del mattino, quando l’Ostro subisce un’avaria al timone che lo
costringe a fermarsi per un’ora. Mentre questi è intento alle riparazioni, Zeffiro ed Espero gli girano intorno; risolto il problema, le tre navi
riprendono la navigazione, sempre a 21 nodi di velocità.
Alle 12.10 un
idrovolante Short Sunderland del 228th Squadron RAF (l’L 5806,
pilotato dal comandante del 228th in persona, tenente colonnello
Gilbert Edward Nicholetts), decollato da Malta, avvista le unità della II
Squadriglia Cacciatorpediniere (che in quel momento procedono in linea di fila,
con Espero in testa, Zeffiro al centro ed Ostro in coda) a ponente delle Isole
Ionie, riferendo prontamente di aver avvistato tre cacciatorpediniere 50 miglia
a ponente di Zante (in posizione 36°00’ N e 20°26’ E; per altra fonte questa
posizione sarebbe stata segnalata solo da un secondo ricognitore, qualche ora
dopo), con rotta apparente verso Cerigo (per altra fonte, Nicholetts avrebbe
indicato nella sua comunicazione la posizione delle navi italiane, ma non la
loro rotta, oppure avrebbe indicato che avevano rotta sud). Anche i
cacciatorpediniere avvistano l’aereo, che scambiano per un bombardiere (per
altra fonte, le navi avvistano a poppavia un grosso idrovolante che viene
correttamente identificato come Sunderland, il quale compie un ampio giro
tenendosi fuori tiro, prima di sparire all’orizzonte; più tardi viene avvistato
anche un secondo aereo, verso proravia, a grande distanza, che compie a sua
volta un giro attorno alla squadriglia e poi si allontana verso ovest), ma
proseguono per la loro rotta senza preoccuparsene particolarmente.
All’insaputa dei
comandi italiani, una considerevole aliquota della Mediterranean Fleet è uscita
in mare il 27 giugno per fornire supporto ad alcuni convogli in navigazione nel
Mediterraneo e nell’Egeo; si tratta delle corazzate Ramillies e Royal
Sovereign, della portaerei Eagle e
del 7th Cruiser Squadron, composto dagli incrociatori leggeri Orion (capitano di vascello
Geoffrey Robert Bensly Back), Neptune (capitano
di vascello Rory Chambers O’Conor), Gloucester (capitano
di vascello Reginald Percy Tanner), Liverpool (capitano
di vascello Arthur Duncan Read) e Sydney
(quest’ultimo australiano; capitano di vascello John Augustine Collins).
Insieme a sette cacciatorpediniere (Hasty, Hero, Hereward, Havock, Hyperion, Janus e Juno),
queste unità devono dare appoggio a tre convogli, due provenienti da Malta
(Operazione M.A.3) ed uno dalla Grecia (AS. 1, di undici mercantili, in
navigazione da Port Helles a Port Said con la scorta degli incrociatori
leggeri Caledon e Capetown e dei cacciatorpediniere Garland, Vampire, Nubian e Mohawk), diretti ad Alessandria.
La squadra britannica
è a sudovest di Creta quando riceve il segnale di scoperta del
Sunderland; Eagle, Ramillies e Royal Sovereign proseguono per la
loro rotta, insieme ad otto cacciatorpediniere, mentre alle 16.10 gli
incrociatori del 7th Squadron (Forza A, al comando del
viceammiraglio John Tovey, con bandiera sull’Orion), che al momento della segnalazione sono a sud di Capo
Matapan, accostano verso nord, regolando rotta (220°) e velocità (25 nodi) in
modo tale da intercettare le navi della II Squadriglia. L’ammiraglio Tovey
ritiene erroneamente che queste ultime siano dirette verso il Canale di Cerigo,
con l’intenzione di entrare in Mar Egeo. Le navi della Forza A sono ripartite
in due divisioni, l’una formata da Orion,
Neptune e Sydney e l’altra da Liverpool
e Gloucester.
Alle 16.40 (per altra
fonte alle 17.30), un nuovo messaggio da parte di un altro Sunderland in volo
da Alessandria a Malta, l’L 5803 (anch’esso avvistato dalle unità della II
Squadriglia) segnala a Tovey che i cacciatorpediniere italiani si trovano nel
punto 36°00’ N e 20°26’ E, solo 35 miglia ad ovest dell’Orion, diretti verso sud; l’ammiraglio britannico – per una fonte,
alle 17.35 – dispone i suoi incrociatori in linea di rilevamento 180°, così che
la seconda divisione (Liverpool, in
testa, e Gloucester) si trovi a
cinque miglia dalla prima (Orion in
testa, Neptune al centro, Sydney in coda) (per una fonte la
suddivisione in due gruppi sarebbe avvenuta in questa fase e non prima) e vira
verso sudovest (per 220°), accelerando a 25 nodi. Verso le 17 l’Orion si trova in posizione 36°00’ N e
21°00’ E. Le condizioni meteo vedono 2/10 di cielo nuvoloso in aumento fino a
7/10, vento forza 5 da 280°, mare leggermente mosso con onda corta morta,
visibilità variabile tra 8 e 19 miglia ma in calo.
Alle 18.33 dello
stesso giorno, quando le navi di Baroni – che procedono in linea di fila,
con Espero in testa, Zeffiro al centro ed Ostro in coda (per altra fonte,
invece, in quel momento sono in linea di fronte) – sono ormai giunte poco più
di un centinaio di miglia a nord di Tobruk e stanno navigando a velocità
sostenuta verso sudest, il Liverpool
(per primo, essendo la nave più a sud della formazione britannica) ed il Gloucester, che stanno sempre navigando
a 25 nodi su rotta 220°, avvistano le sagome delle navi italiane, che si
stagliano contro il sole ormai prossimo al tramonto (su rilevamento 235°
rispetto all’Orion), 60 o 75 miglia
ad ovest/sudovest di Capo Matapan. I due incrociatori accelerano fino alla
velocità massima, ed accostano per ridurre le distanze, inseguendo i
cacciatorpedniere.
Il primo ad aprire il
fuoco è il Liverpool, già tre
minuti dopo l’avvistamento, da 20.000 metri di distanza, ben al di fuori della
portata dei cannoni dei cacciatorpediniere.
I cacciatorpediniere
della II Squadriglia si accorgono delle navi britanniche solo quando si
ritrovarono ad essere inquadrati dalla prima salva da 152 mm, vedendo le
colonne d’acqua dei proiettili sollevarsi a dritta e sinistra, prima ancora di
vedere le navi avversarie; il primo a segnalare la presenza del nemico è l’Ostro, che alle 18.45 comunica «Unità nemiche nel quadratino 7848/2». Il
tardivo avvistamento delle navi britanniche verrà poi spiegato con la
sfavorevole posizione di quelle italiane, che si trovano con il sole che
tramontava alle spalle, mentre le navi di Tovey sono nascoste da una leggera
foschia, tanto che anche dopo aver rilevato la loro presenza, sulle prime,
quelle italiane ne possono distinguere solo le vampe delle salve in partenza.
Le prime salve da 152
mm cadono a poche centinaia di metri dall’Espero;
la situazione è difficile anche per Ostro e Zeffiro: in teoria le unità della
classe Turbine hanno una
velocità superiore a quella degli incrociatori inseguitori (36 nodi contro
32,5), ma i dodici anni di servizio sulle loro spalle si fanno sentire (ormai
non fanno più di 32-33 nodi, in condizioni normali e con tutte le caldaie in
funzione; le unità britanniche, invece, sono di costruzione molto più recente e
sviluppano ancora la massima velocità previste), ed il peso delle truppe e dei
materiali imbarcati le rallenta ulteriormente. Dopo circa cinque minuti, il
caposquadriglia Baroni ordina di accostare a un tempo a sinistra (per altra
fonte a dritta) di 180°, per allontanarsi, sparando in caccia. Alle 18.50 il Gloucester apprezza che le navi italiane
abbiano accelerato a 30 nodi ed accostato per 250°, e lo segnala alle altre
unità.
Il secondo gruppo di
incrociatori, composto da Orion, Neptune e Sydney, riceve il segnale di scoperta del Liverpool e – dopo aver accelerato per arrivare il prima
possibile a contatto visivo – avvista a sua volta le navi italiane alle 18.55;
quattro minuti dopo, l’Orion apre il
fuoco da 16.500 metri. Gli incrociatori britannici manovrano in modo da “avvolgere”
i cacciatorpediniere italiani da due lati: Liverpool e Gloucester da
una parte (sulla sinistra, da sud), Orion, Neptune e Sydney dall’altra (sulla dritta, da nord). L’azione si
sviluppa verso sudovest; i cacciatorpediniere italiani cercano di sottrarsi
all’impari combattimento, accelerando fino a forzare l’andatura e dirigendo a
tutta forza verso ovest (per altra fonte verso sud, in direzione di Tobruk;
secondo una fonte britannica dirigono verso gli ultimi bagliori del sole che tramonta)
con rotta di allontanamento. Completata l’ampia accostata ad un tempo sulla
dritta, i cacciatorpediniere emettono cortine nebbiogene e poi fanno anche fumo
con i fumaioli; assumendo direttrice di marcia verso ovest, vanno a formare una
linea di rilevamento sulla dritta dell’Espero,
che dei tre è il più vicino alle navi britanniche. Le navi della II Squadriglia
rispondono anche al fuoco con i loro pezzi da 120 mm, ma la distanza è troppo
elevata per poter sperare di colpire.
Capendo che le navi
nemiche finiranno col sopraffare la sua, impossibilitata a superare i 25 nodi,
prima dell’arrivo del buio, Baroni ordina alla squadriglia di prendere caccia
(ossia di ripiegare per allontanarsi) alla massima velocità, tenendo il
suo Espero in coda alla
formazione; in questo modo potrà coprire Ostro e Zeffiro con
cortine fumogene (sia fumo emesso dal fumaiolo, che cortine di fumo
clorosolfonico), e proteggerne il ripiegamento col tiro delle proprie
artiglierie. Il tiro dei cacciatorpediniere (che Tovey giudica “buono in
gittata ma non altrettanto per la mira”), che sparano in ritirata sui due lati
da distanza di 16-18 km, è diretto principalmente contro Orion, Liverpool e Gloucester,
gli incrociatori più vicini (il primo a dritta, gli altri due a sinistra); quello
britannico sull’Espero, che risulta
più lento di Ostro e Zeffiro a causa di un colpo caduto
vicino al suo scafo, che ha messo fuori uso una delle sue caldaie (non riesce
così a superare i 25 nodi di velocità, rimanendo progressivamente arretrato
rispetto ai due gemelli). Sui cacciatorpediniere il tiro, così come il lancio
dei siluri, è anche intralciato dall’ingombro rappresentato dagli uomini e dai
materiali caricati a Taranto.
Sullo Zeffiro, il centurione (capitano) della
M.V.S.N. Federico Vespasiani, appartenente alla XIX Legione M.V.S.N., organizza
le sue camicie nere per aiutare l’equipaggio nel trasporto a mano delle
munizioni dai depositi ai pezzi, essendo fuori uso il montacarichi, cui è
venuta a mancare la corrente (secondo una fonte di dubbia provenienza, perché
la nave era stata colpita; ma da nessun’altra parte si parla di colpi
britannici a segni sullo Zeffiro, e
sembre più verosimile un’avaria). I militi formano un passamano, alternandosi
ogni dieci minuti nei punti dove è maggiore il pericolo (Vespasiani verrà in
seguito decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: «Imbarcato di passaggio su un
cacciatorpediniere con un reparto di camicie nere, durante un combattimento
navale durato circa due ore contro soverchianti forze navali nemiche, prese
parte all’azione organizzando efficacemente i suoi legionari per coadiuvare
l’equipaggio nel trasporto a mano delle munizioni. Durante l’impari lotta,
animava i suoi legionari con ardente slancio ed entusiasmo. Esempio mirabile di
sangue freddo ed alto sentimento del dovere»). Ad ogni modo, dovendo
rifornire i pezzi di munizioni con questo sistema di fortuna, il tiro dello Zeffiro ha cadenza piuttosto lenta.
Secondo una fonte secondaria, lo Zeffiro
avrebbe anche lanciato un siluro contro gli incrociatori britannici, ma
nessun’altra fonte sembra farne menzione.
Per meglio coprire le
unità gemelle, cui segnala di ritirarsi, con le cortine nebbiogene (emesse dal
nebbiogeno di poppa) e fumogene (emesse dai fumogeni dei fumaioli), l’Espero inizia anche a zigzagare; ma
proprio la manovra di zigzagamento porta alla progressiva riduzione della
distanza tra l’Espero e gli
incrociatori nemici. (L’"Esame Comparativo delle Relazioni Ufficiali"
concluderà poi che «Dall’esame
dell’azione e dalle testimonianze sembra più logico concludere che il
Comandante [Baroni], ordinata
l’accostata ad un tempo di 90° a dritta, abbia proseguito per qualche minuto
con la sua unità sulla rotta iniziale allo scopo di coprire con nebbia
l’accostata delle due unità sezionarie»).
Con questa manovra,
potendo emettere cortine fumogene più ampie e meglio distese, Baroni salva Ostro e Zeffiro, che riusciranno ad allontanarsi senza danni, ma decide di
fatto di sacrificare la sua nave per permettere la loro ritirata. (Secondo la
relazione della Commissione d’Inchiesta Speciale, Ostro e Zeffiro, vedendo
l’Espero per il tiro britannico,
tentarono di proteggerlo occultandolo con “dense fumate e nebbiogeni”; ma da
quanto riferito dai superstiti dell’Espero
risulta invece che fu questa unità a proteggere Ostro e Zeffiro con le
sue cortine nebbiogene e fumogene).
Per altra versione,
l’Espero ordinò ad Ostro e Zeffiro di disimpegnarsi, ripiegare verso sudovest e fare
rotta verso Bengasi alla massima velocità, dopo di che diresse contro gli
incrociatori nemici allo scopo di trattenerli, per impedire che inseguissero le
due unità dipendenti. Per versione ancora differente, l’Espero diresse verso gli incrociatori di Tovey dopo essere
stato raggiunto dai primi colpi, per cercare di attaccare con i siluri, così
obbligando gli incrociatori a tenersi a distanza, e permettere ad Ostro e Zeffiro di ritirarsi.
In ogni caso, gli
incrociatori del 7th Squadron concentrarono tutti il loro tiro
sull’Espero, rimasto solo: la nave di
Baroni risponde animosamente al fuoco coi propri cannoni, e lancia anche tre
siluri contro l’Orion, che lo insegue
da poppa dritta. Alle 19.05 il Neptune avvista
le scie dei siluri e lo riferisce alle altre navi; alle 19.12 Tovey ordina
pertanto di accostare, facendo assumere alle sue navi rotta parallela a quella
dei siluri per evitare che siano colpite (le navi rimangono sulla nuova rotta
per tre minuti, prima di ritornare sulla rotta originaria). Il gruppo Orion-Neptune-Sydney manovra
poi per cercare di aggirare la cortina fumogena e raggiungere Ostro e Zeffiro, lasciando a Liverpool e Gloucester il compito di
neutralizzare l’Espero.
Alle 19.21 Orion, Neptune e Sydney,
diminuita la distanza dai cacciatorpediniere a 12.800 metri, accostano a un
tempo di 50° per portare in campo tutti i pezzi da 152, e poco dopo vedono che
il cacciatorpediniere di sinistra (l’Espero)
è stato colpito e sta emettendo fumo bianco.
L’impari
combattimento si protrae per più di due ore: abilmente manovrato, l’Espero fa sprecare ai britannici
più di 5000 colpi prima di essere infine centrato ed immobilizzato. Prima, però
(alle 19.20), è proprio l’Espero a
mettere il primo colpo a segno, sul Liverpool,
che non riporta danni seri ma ripiega, seguito dal Gloucester, ed alle 20.06 segnala a Tovey che gli sono rimasti solo
40 colpi per cannone: osservando la scena, Tovey decide di interrompere
l’inseguimento di Ostro e Zeffiro e dirigere con gli altri
tre suoi incrociatori contro l’Espero,
che ben presto si ritrova sotto una pioggia di colpi da 152 mm. Colpito in più
punti, poco dopo le otto di sera l’Espero viene
ridotto ad un relitto agonizzante: a questo punto, Tovey si volge nuovamente
all’inseguimento di Ostro e Zeffiro; ma l’arrivo del buio e
l’assottigliamento delle sue riserve di munizioni, insieme al sapiente utilizzo
delle cortine fumogene ed alle continue manovre a zig zag dei rimanenti
cacciatorpediniere italiani – che rendono l’avvistamento e la punteria molto
difficili – lo inducono a rinunciare dopo soli dieci minuti, facendo rotta per
Malta e lasciando al Sydney il
compito di finire l’Espero, che sarà
affondato poco più tardi.
29 giugno 1940
Zeffiro ed Ostro raggiungono
Bengasi alle otto del mattino, sostandovi per un po’ prima di proseguire per
Tobruk.
Per l’azione del 28
giugno, il comandante Dessy (36 anni, da Oristano) verrà decorato di Medaglia
d’Argento al Valor Militare («Comandante
di cacciatorpediniere, impegnato per circa due ore con la sua squadriglia
contro una forza nemica composta da incrociatori e da cacciatorpediniere che
l'avevano presa fra due fuochi, impiegava con la massima energia tutti i mezzi
a sua disposizione lanciando anche un siluro contro la formazione nemica.
Inquadrata l'unità dalle salve, manovrava con calma, freddezza ed efficacia per
sregolare il tiro avversario, malgrado notevoli avarie dovute al grosso mare in
prora, e contribuiva, col suo esempio, a mantenere saldo ed altissimo il morale
dei dipendenti»), così come il capo radiotelegrafista di prima classe
Andrea Molino («Durante il corso di un
combattimento sostenuto dal suo cacciatorpediniere contro forze nemiche
preponderanti, si prodigava con slancio e Sereno sprezzo del pericolo per
rimettere in efficienza gli apparati r. t. avariatisi, e vi riusciva dopo
tenace e difficile lavoro. Magnifico esempio agli inferiori per l'altissimo
sentimento del dovere. Pochi giorni dopo sacrificava la vita alla Patria
nell'affondamento della sua nave avvenuto in seguito ad offesa nemica») ed
il capo segnalatore di terza classe Ciro Romano («Durante il corso di un combattimento navale sostenuto dal suo
cacciatorpediniere contro forze preponderanti, compiva il suo dovere con
semplicità, serenità e sommo sprezzo del pericolo coadiuvando efficacemente il
comandante. Magnifico esempio di altissimo sentimento del dovere. Pochi giorni
dopo, sacrificava la vita alla Patria nell'affondamento della sua nave avvenuto
in seguito ad offesa nemica»). Riceveranno la Medaglia di Bronzo al Valor
Militare il sottocapo meccanico Albino Merulla («Durante il corso di un combattimento navale contro forze nemiche
preponderanti, eseguiva alcuni lavori di riparazione a tubolature di vapore in
condizioni eccezionalmente difficili dimostrando elevato spirito di sacrificio
e alto sentimento del dovere. Sacrificava la sua giovinezza alla Patria pochi
giorni dopo, nell'affondamento della sua nave dovuto ad offesa nemica») ed
il secondo capo meccanico Ezzelino Dominici («Imbarcato su un cacciatorpediniere, durante il corso di un
combattimento navale contro forze nemiche preponderanti, eseguiva alcuni lavori
di riparazione a tubolature di vapore in condizioni eccezionalmente difficili
dimostrando elevato spirito di sacrificio e Sereno sprezzo del pericolo. Pochi
giorni dopo sacrificava la vita alla Patria nell'affondamento della sua nave
dovuto ad offesa nemica»).
1° luglio 1940
Nelle prime ore del
mattino Zeffiro ed Ostro arrivano a Tobruk, dove si
ormeggiano in rada.
L’affondamento
Il sacrificio dell’Espero allungò la vita dello Zeffiro soltanto di pochi giorni.
Raggiunta Tobruk, il
cacciatorpediniere vi rimase per diversi giorni, ormeggiandosi in rada. Durante
la sua permanenza nel porto cirenaico, alle dieci del mattino del 4 luglio
1940, Tobruk fu messa in allarme in seguito all’avvistamento di un
idroricognitore Short Sunderland: questi, tenendosi a quota abbastanza elevata
(1500-2000 metri), effettuò diversi passaggi sulla rada nel giro di una decina
di minuti, scattando parecchie foto, mentre la contraerea cercava vanamente di
abbatterlo, dopo di che si allontanò verso nordest. L’allarme cessò alle 11.15.
L’idrovolante
britannico, appartenente al 228th Squadron della Royal Air
Force, proveniva dall’idroscalo di Alessandria d’Egitto: il suo compito era di
fornire osservazioni ed immagini che permettessero di valutare l’opportunità di
lanciare un attacco di aerosiluranti contro il naviglio italiano presente nella
rada di Tobruk. Dalle foto scattate, e dalle informazioni riferite
dall’equipaggio del Sunderland, i comandi britannici poterono rendersi conto che
il porto di Tobruk era gremito di navi, offrendo agli attaccanti solo
l’imbarazzo della scelta in termini di bersagli: oltre allo Zeffiro, infatti, c’erano ben cinque
altri cacciatorpediniere (Turbine, Nembo, Ostro, Euro, Aquilone), tutti della classe Turbine; i piroscafi Sabbia (usato temporaneamente come
nave caserma per gli equipaggi dei cacciatorpediniere, compreso quello dello Zeffiro), Sereno, Serenitas, Liguria e Manzoni (tutti scarichi ed in attesa di tornare in Italia); il
vecchio incrociatore corazzato San
Giorgio, impiegato come unità antiaerea in appoggio alle difese terrestri;
sette sommergibili (Sirena, Fisalia, Smeraldo, Naiade, Topazio, Galatea e Lafolè) e
svariate unità minori.
A parte i
sommergibili ed il Turbine, che
si trovavano attraccati in banchina, tutte le navi erano ormeggiate in rada; i
piroscafi alla fonda formavano una fila più o meno al centro della rada
(nell’ordine Sereno, Sabbia, Liguria, Serenitas e Manzoni, da ovest verso est), e Nembo, Ostro ed Aquilone
erano anch’essi ormeggiati “in fila”, alle boe, nella parte meridionale della
rada. Lo Zeffiro si trovava
all’ancora quasi al centro della rada, accanto alla fila dei piroscafi,
affiancato al Sabbia sulla dritta (cioè a nord rispetto a questo piroscafo) e
con la prua rivolta verso ovest. L’Euro era
ormeggiato in disparte, un po’ più ad ovest della fila del piroscafi.
Sulla base delle
informazioni ricavate dalla missione del Sunderland, il comandante della
Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, ordinò per il giorno
seguente un attacco di aerosiluranti contro Tobruk. L’attacco sarebbe stato
soltanto la componente principale di un’operazione complessa articolata su più
punti: erano infatti previsti anche il contemporaneo bombardamento
dell’aeroporto T2 di Derna (da parte di dodici bombardieri Bristol Blenheim Mk
I del 211st Squadron della Royal Air Force, scortati ed appoggiati
da altrettanti caccia Gloster Gladiator del 33rd Squadron RAF), allo
scopo di impedire alla caccia italiana di intervenire, ed un’azione di
bombardamento navale della piazzaforte di Bardia da parte della 3a
Divisione Incrociatori (3rd Cruiser
Division) del contrammiraglio Edward de Faye Renouf (incrociatori
leggeri Caledon e Capetown, più i cacciatorpediniere Janus, Juno, Imperial ed Ilex), che avrebbe anche il compito
secondario di dare assistenza agli aerosiluranti di ritorno dall’attacco a
Tobruk: il Capetown avrebbe
dovuto facilitare il rientro degli aerei emettendo periodicamente segnali con
il fanale di testa d’albero, ed i cacciatorpediniere erano posizionati in modo
da convergere prontamente verso un qualsiasi aereo che, per danni o per avarie,
fosse costretto all’ammaraggio. Le navi dell’ammiraglio Renouf sarebbero per
questo dovute partire da Alessandria al tramonto, all’ora in cui avveniva
l’attacco degli Swordfish contro Tobruk, per poi effettuare il bombardamento di
Bardia all’alba del 6 luglio.
Ad attaccare le navi
in rada sarebbero stati nove aerosiluranti Fairey Swordfish dell’813th Squadron
della Fleet Air Arm, assegnati alla portaerei Eagle (che si trovava ad Alessandria) ma dislocati in quel momento
nella base egiziana di Dakheila, al comando del capitano di corvetta Nicholas
Kennedy. Prima dell’attacco, un bimotore Bristol Blenheim del 211st Squadron
R.A.F. avrebbe dovuto compiere un ultimo volo di ricognizione per accertarsi
che non vi fossero stati mutamenti significativi nella situazione
precedentemente osservata. Gli Swordfish, per compiere l’attacco (e con i
siluri già a bordo), vennero trasferiti nel tardo pomeriggio del 4 luglio da
Dakheila, troppo lontana da Tobruk, alla base avanzata di Sidi el Barrani (più
precisamente, nella località di Maaten Begush: in verità, più che una base una
pista in terra battuta con i soli servizi minimi indispensabili), da dove sarebbero
poi decollati per l’attacco. I bersagli prioritari dovevano essere i
cacciatorpediniere, con le navi mercantili in subordine. Motivo di questo
ordine di priorità erano le azioni di bombardamento controcosta eseguite nelle
settimane precedenti da altri cacciatorpediniere della classe Turbine, di base a Tobruk fin dal 10
giugno (la I Squadriglia con Euro, Turbine, Nembo ed Aquilone), che
avevano in più occasioni cannoneggiato con le loro artiglierie le posizioni
britanniche nella zona di Sollum: temendo che l’arrivo di Ostro e Zeffiro fosse un
rinforzo ai cacciatorpediniere già dislocati a Tobruk in vista di ulteriori e
più pesanti bombardamenti delle posizioni costiere britanniche in Egitto, i
comandi della Mediterranean Fleet avevano deciso di eliminare questa minaccia
con un attacco di aerosiluranti.
Questi timori non
erano infondati: Zeffiro ed Ostro erano stati infatti inviati a
Tobruk proprio per rinforzare la I Squadriglia in nuove missioni di
bombardamento degli apprestamenti britannici nell’area di Sollum, nel quadro di
una serie di azioni di questo tipo aventi lo scopo di indebolire (“ammorbidire”)
le difese britanniche in quel settore in preparazione della programmata offensiva
italiana in Egitto. Prima dell’affondamento dell’Espero, anzi, Supermarina aveva considerato l’uso anche di parte
della IV Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando Diaz ed Alberto Di
Giussano), scortata proprio dalla II Squadriglia Cacciatorpediniere, per un
bombardamento contro Sollum: i due incrociatori sarebbero dovuti partire da
Taranto, arrivare a Tobruk nelle prime ore del mattino seguente, e qui
avrebbero incontrato i cacciatorpediniere che ne avrebbero assunto la scorta.
Compiuto il bombardamento, sarebbero poi tornati immediatamente a Taranto.
I piani britannici
prevedevano che gli Swordfish avrebbero attaccato Tobruk nella fase terminale
del crepuscolo (che sarebbe durato in tutto, quel giorno, un’ora e 28 minuti),
quando le condizioni di luce sarebbero state più sfavorevoli per gli italiani
(che con l’arrivo del buio avrebbero faticato ad avvistare gli aerei) ed invece
ancora favorevoli per gli attaccanti britannici (la luminosità diffusa che
caratterizzava la conclusione del crepuscolo, infatti, sarebbe stata ancora
sufficiente a permettere ai piloti di avvistare le navi italiane: essendo
queste verniciate di color grigio cenerino chiaro – la mimetizzazione sarebbe
stata adottata soltanto diversi mesi dopo –, esse sarebbero state ben
distinguibili contro il profilo scuro della costa).
La baia di Tobruk era
profonda, al centro, in media una decina di metri. Le difese contraeree della
piazzaforte, di competenza della Marina (che a Tobruk aveva un Comando Marina
ed un Settore Militare Marittimo, retto dal contrammiraglio Massimiliano
Vietina), consistevano in una batteria da 76/50 mm su quattro cannoni, in 16
mitragliere pesanti da 37/54 mm in complessi binati, ed in numerose mitragliere
leggere da 13,2 mm collocate in vari punti del porto e del settore foraneo, cui
si aggiungeva il San Giorgio –
ormeggiato in un duplice recinto di reti parasiluri all’estremità nordorientale
della baia ed integrato nel dispositivo di difesa antinave e contraerea di
Tobruk – che contro gli aerei disponeva di 10 cannoni da 100/47 mm, tre
mitragliere da 20/70 mm ed otto da 13,2 mm. Il tiro delle batterie della difesa
costiera era coordinato dalla centrale DICAT (Difesa Contraerea Territoriale)
di Forte Perrone, situata a 7 km dalla città di Tobruk e collegata via filo con
tutte le batterie. Per la scoperta degli aerei c’erano otto aerofoni,
posizionati in vari punti per coprire le provenienze dal primo e quarto
quadrante (ritenute le probabili direzioni di provenienza di eventuali aerei
attaccanti), e dodici fotoelettriche piuttosto obsolete. Del tutto assenti
palloni frenati, sistemi di annebbiamento del porto o reti parasiluri, salvo che
attorno al San Giorgio. In caso di
attacco aereo anche le navi in rada, a partire dai cacciatorpediniere,
avrebbero ovviamente cooperato alla difesa, ma non erano collegate alla rete
della piazzaforte, dunque dovevano tirare “a vista”. La pre-allerta e l’allerta
erano comunicate alle navi in rada dal semaforo, che faceva parte del
dispositivo di difesa della piazzaforte, mediante segnalazioni con bandiere
oppure con segnali luminosi. La Regia Aeronautica aveva vicino a Tobruk
l’aeroporto di El Adem, che però ospitava soltanto bombardieri; i caccia più
vicini erano i FIAT CR. 42 (biplani, ma d’altro canto erano biplani anche gli
Swordfish, che erano più lenti) dell’aeroporto T2, a sud di Derna, dove aveva
sede l’8° Gruppo Caccia Terrestre, ed i più obsoleti FIAT CR. 32 del 10° Gruppo
Caccia Terrestre, di base a Benina (vicino a Bengasi).
Nel primo pomeriggio del
5 luglio un ricognitore Blenheim del 211st Squadron, come
pianificato, decollò da Dakheila, raggiunse Tobruk e sorvolò la rada per
controllare la situazione, dopo di che rientrò alla base; la disposizione delle
navi, rispetto al giorno precedente, era immutata. Le informazioni raccolte dal
Blenheim vennero subito comunicate per telescrivente alla base di Sidi el
Barrani, dove gli aerei destinati all’attacco erano in attesa; nel briefing il capitano di corvetta Kennedy
illustrò ai suoi piloti il piano d’attacco, diede loro le informazioni di volo
ed assegnò a ciascuno un bersaglio.
Ricevuto alle 18, da
Alessandria, l’ordine di dare inizio all’operazione, gli Swordfish decollarono
da Sidi el Barrani alle 18.50 (al tramonto), in due gruppi, preceduti di venti
minuti dai Blenheim – undici, alla fine, invece dei dodici previsti – che dovevano
attaccare l’aeroporto T2 (i quali invece partirono da Dakheila o, per altra
fonte, da El Daba), i quali regolarono il volo in modo da raggiungere il loro
obiettivo mezz’ora prima che gli aerosiluranti attaccassero il porto. L’attacco
sul T2 venne eseguito in orario e sorprese i caccia italiani a terra; mentre i
Gladiator si tenevano in crociera di protezione per reagire ad eventuali
attacchi provenienti da ovest, dai caccia del 10° Gruppo di Benina, i Blenheim,
giunti sull’obiettivo senza essere stati avvistati, mitragliarono e
spezzonarono a bassa quota gli aerei al suolo e poi, saliti a quota più
elevata, bombardarono gli edifici della base. La contraerea italiana si attivò
in ritardo, ma quando lo fece reagì furiosamente, così che i Blenheim
limitarono l’azione di mitragliamento ad un singolo passaggio e sganciarono le
bombe frettolosamente e senza curare granché la mira. Grazie a questo ed al
fatto che gli aerei italiani erano saggiamente parcheggiati in modo diradato,
proprio per minimizzare i danni da un’azione del genere, i danni furono tutto
sommato contenuti, limitandosi al non grave danneggiamento di otto caccia FIAT
CR. 42 dell’8° Gruppo della Regia Aeronautica, parte dei quali poi riparati in
loco, ed a danni limitati alle installazioni a terra. Vi furono alcune vittime.
Al di là della
limitatezza dei danni, l’incursione contro l’aeroporto T2 aveva raggiunto il
suo obiettivo principale, che era quello di impedire alla caccia italiana di
ostacolare l’attacco degli aerosiluranti: non un singolo aereo italiano,
infatti, apparve sui cieli di Tobruk durante l’incursione degli Swordfish
(sebbene si possa comunque dubitare che anche nel caso di un intervento della
caccia, questa avrebbe potuto ottenere risultati di rilievo, non essendo
adeguatamente preparata – come pure quella britannica all’epoca, del resto –
per un combattimento aereo al crepuscolo, nel quale la poca illuminazione
avrebbe reso difficile individuare gli aerei nemici). Tutti i Blenheim fecero
poi rientro a Dakheila alle 22 circa.
Dopo il decollo, i
nove Swordfish salirono fino alla quota di 1500 metri e seguirono la costa
egiziana e poi libica verso Tobruk, distante circa 110 miglia. Arrivati nei
pressi dell’obiettivo, effettuarono una larga virata in modo da arrivare sulla
rada di Tobruk provenendo dal mare; nella fase finale dell’avvicinamento si
divisero in tre sezioni di tre aerei ciascuna, disposti a cuneo.
Il sole tramontò alle
19.21. Il tempo era buono, con eccellente visibilità, mare calmo e niente
vento.
Gli Swordfish, sempre
volando a 1500 metri di quota, arrivarono davanti a Tobruk intorno alle 20.15,
come previsto; la difesa italiana, messa sul chi va là dagli aerofoni di Bardia
e di Belafarid, era in allarme fin dalle 20.06, ed accolse gli attaccanti con
un rabbioso tiro di sbarramento (definito nelle fonti britanniche come “a hot fire of ‘flaming onions’, pompom and
.5-inch machine gunfire with red and green tracers”). Anche i
cacciatorpediniere aprirono il fuoco con le loro armi antiaeree, ma il loro
campo di tiro era in parte ostruito dagli altri bastimenti ormeggiati in rada.
La reazione della
contraerea – con fuoco di sbarramento di notevole consistenza e spessore,
sviluppato su un ampio spettro di quote – fu più sollecita di quanto i
britannici avessero preventivato, pertanto gli Swordfish dovettero mutare la
loro formazione per non presentarsi troppo concentrati ai mitraglieri italiani,
e si dovettero “tuffare” rapidamente a bassa quota, per poi lanciare i siluri
in rapida successione, uno dopo l’altro, in una successione di corse d’attacco
nell’arco di dodici minuti. Nonostante questo cambio di tattica forzato all’ultimo
momento (che costrinse gli aerei ad un’esposizione più prolungata al tiro della
contraerea), l’attacco degli Swordfish risultò preciso e devastante.
I siluri vennero
sganciati da 400-500 metri di distanza, da una quota di una trentina di metri;
nonostante la scarsa profondità dei fondali (sotto la chiglia delle navi
c’erano pochi metri d’acqua), il “sacco” dei siluri, lanciati da quota tanto
bassa ed a velocità relativamente ridotta, fu molto limitato, così che i siluri
non toccarono il fondale e raggiunsero i loro bersagli. Primo ad attaccare fu
il capo formazione, capitano di corvetta Kennedy: questi lasciò per primo la
formazione, con una rapida scivolata d’ala a sinistra, scese fino ad una
trentina di metri di quota e volando a quell’altitudine percorse la rotta di
avvicinamento al suo bersaglio, che era proprio lo Zeffiro, passando tra il San
Giorgio ed i piroscafi alla fonda. (Altra fonte, probabilmente erronea,
attribuisce il siluramento dello Zeffiro
allo Swordfish dei sottotenenti di vascello G. L. Cooper, A. A. O’Hara e P. R.
Swift).
Alle 20.20 lo
Swordfish di Kennedy, volando a neanche venti metri dal livello del mare,
sganciò il suo siluro contro lo Zeffiro
da una distanza di circa 400 metri: dopo una breve corsa, il siluro colpì il
cacciatorpediniere a prua, sul lato di dritta, tra la plancia e l’impianto
binato prodiero da 120/45 mm, in corrispondenza del deposito munizioni di prua.
L’esplosione del
siluro provocò così anche la deflagrazione delle cariche da 120 mm contenute
nel deposito munizioni, con conseguenze catastrofiche per lo Zeffiro: la deflagrazione spezzò in
chiglia la nave e provocò il distacco della prua, che affondò immediatamente,
scartata lateralmente di ben cinquanta metri dal resto del cacciatorpediniere.
Poco dopo (“Navi militari perdute” indica l’ora dell’affondamento come le
20.35), anche il resto della nave affondò di prua, poggiandosi sul bassofondale
e lasciando emergere soltanto gli alberi e le estremità superiori dei fumaioli
e della plancia. Parte della murata del troncone prodiero venne poi trovata
“scoperchiata” verso l’esterno per una decina di metri.
Persero la vita
ventuno uomini dello Zeffiro (i corpi
di dieci di essi vennero ritrovati, gli altri undici risultarono dispersi), ed
altri venti rimasero feriti, sei dei quali in modo leggero.
Le vittime:
Emanuele Allaria, marinaio fuochista, da San
Remo (deceduto)
Werter Boiardi, sottocapo silurista, da Reggio
Emilia (deceduto)
Angelo Castiglioni, secondo capo S.D.T., da
Larino (disperso)
Agatino Condorelli, marinaio, da Catania
(disperso)
Emilio Debeniak, marinaio, da Gorizia
(deceduto)
Ruggero Del Vecchio, capo meccanico di seconda
classe, da San Ferdinando di Puglia (deceduto)
Ezelino Dominici, secondo capo meccanico, da
Colorno (disperso)
Alfredo Garrone, sottocapo elettricista, da
Genova (disperso)
Giuseppe Gurrieri, marinaio cannoniere, da
Trabia (deceduto)
Antonio La Rosa, sottocapo infermiere, da
Milazzo (deceduto)
Carmelo La Rosa, marinaio cannoniere, da
Catania (deceduto)
Francesco Magnasciutti, marinaio, da
Serrapetrona (disperso)
Alfonso Matarese, marinaio segnalatore, da
Napoli (disperso)
Antonio Mercurio, marinaio, da Catanzaro
(disperso)
Albino Merulla, sottocapo meccanico, da
Sarzana (disperso)
Lorenzo Mechis, marinaio cannoniere, da
Palermo (deceduto)
Andrea Molino, capo radiotelegrafista di prima
classe, da Giovinazzo (deceduto)
Giovanni Piccione, marinaio fuochista, da
Napoli (disperso)
Ciro Romano, capo segnalatore di terza classe,
da Aversa (disperso)
Antonio Sottilaro, sottocapo silurista, da
Villa San Giovanni (deceduto)
Giuseppe Turitto, marinaio fuochista, da Bari
(disperso)
Il comandante Dessy
fu tra i superstiti; venne decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare,
con motivazione «Comandante di
cacciatorpediniere dislocato in base avanzata soggetta a continue offese del
nemico, dimostrava elevate qualità di coraggio e fermezza. Colpita la sua nave
da siluro di aereo nemico, si prodigava con assoluto sprezzo del pericolo,
ammirevole calma e perfetta padronanza di sé stesso, per il salvataggio della
sua gente, lasciando l'unità quando essa stava per scomparire totalmente e dopo
essersi personalmente accertato che più nessuno rimaneva a bordo».
Alla memoria del capo
meccanico di seconda classe Ruggero Del Vecchio venne conferita la Medaglia di
Bronzo al Valor Militare, con motivazione «In
un combattimento navale sostenuto dal suo cacciatorpediniere contro forze
nemiche preponderanti, e sotto la reiterata offesa aerea avversaria nella base
avanzata sede dell'unità, dimostrava costantemente freddezza, serenità e
coraggio. Offriva la vita alla Patria nell'adempimento del dovere, nel corso di
un attacco di aerosiluranti nemici che provocavano l'affondamento del
cacciatorpediniere».
Anche gli altri
Swordfish, subito dopo, andarono all’attacco: il secondo Swordfish ad attaccare
(secondo una fonte, pilotato dal sottotenente di vascello S. T. Tracy con i
sergenti Taylor ed A. T. Cullinan come equipaggio) effettuò la sua corsa d’attacco
nella scia di Kennedy e sganciò il suo siluro contro l’Euro, dilaniandone la prua. Questo caccia ebbe più fortuna dello Zeffiro: il siluro lo colpì molto più a
proravia, ben lontano dal deposito munizioni, e la nave non riportò danni
fatali, anche se si decise comunque di portarla ad incagliare a scopo
precauzionale. Poté essere in seguito riparato, tornando in servizio nel marzo
1941 (ironia della sorte, fu proprio l’Euro
il primo comando assegnato al capitano di corvetta Dessy dopo l’affondamento
dello Zeffiro).
Il terzo ed il quarto
Swordfish tentarono di attaccare i cacciatorpediniere ormeggiati alle boe nella
parte meridionale della rada (Nembo, Ostro e Aquilone), ma a causa dello spazio ristretto in cui dovevano agire
e del nutrito tiro contraereo dei cacciatorpediniere, rinunciarono al lancio;
il quinto, invece, colpì il piroscafo Manzoni,
che si abbatté su un fianco ed affondò rapidamente. Il sesto colpì con un
siluro il grosso trasporto truppe Liguria,
che dovette essere portato all’incaglio per evitarne l’affondamento (non venne,
però, mai disincagliato, andando perduto sei mesi più tardi alla caduta di
Tobruk); il settimo e l’ottavo lanciarono senza successo contro il
piroscafo Sereno, grazie al
forte tiro contraereo che impedì loro di eseguire una corretta manovra di
lancio, mentre il nono ed ultimo colpì col suo siluro il piroscafo Serenitas, che venne anch’esso portato
all’incaglio per scongiurarne l’affondamento (e, come il Liguria, non venne mai più disincagliato
ed andò perduto nel gennaio 1941 alla caduta della città).
Compiuto l’attacco,
gli Swordfish si allontanarono per rientrare alla base: si riportarono
separatamente verso il mare aperto finché non furono fuori tiro rispetto alle
batterie contraeree italiane, indi riformarono la formazione per il rientro.
Guidati dai segnali luminosi del Capetown,
atterrarono tutti a Dakheila verso le 22.30, come previsto; erano stati quasi
tutti più o meno sforacchiati dal tiro della contraerea nel rivestimento della
fusoliera e del castello motore, ma nessuno era stato abbattuto (da parte italiana
si ritenne erroneamente di averne abbattuto uno, oltre ad averne danneggiati
altri due). Alle 21.31, dato che gli aerofoni di Bardia e Belafarid avevano
perso ogni contatto acustico con gli aerei, venne suonato a Tobruk il cessato
allarme.
In uno degli attacchi
aerosiluranti più riusciti della guerra del Mediterraneo, gli Swordfish avevano
affondato due navi (Zeffiro e Manzoni) e danneggiato gravemente altre
tre (Euro, Serenitas, Liguria,
questi ultimi due di fatto perduti, in quanto gli eventi successivi ne impedirono
il recupero) nel volgere di dodici minuti o poco più: quasi la metà delle navi
in rada, cinque su undici, era stata colpita da siluri; i nove aerosiluranti
avevano registrato un 55 % di centri. Da parte britannica, l’attacco era stato
molto ben eseguito, mostrando un’eccellente coordinazione tra Royal Navy e
Royal Air Force, una buona pianificazione effettuata sulla base dell’esperienza
operativa sviluppata, un ottimo addestramento degli equipaggi degli
aerosiluranti e la notevole manovrabilità e robustezza degli Swordfish, che a
dispetto dell’apparenza antiquata si erano rivelati in grado di manovrare
abilmente in spazi ristretti e di resistere bene ai colpi subiti. Da parte
italiana, la reazione della contraerea e soprattutto quella dei
cacciatorpediniere (sui quali, come previsto dalle disposizioni vigenti, le
mitragliere da 40/39 e da 13,2 mm erano mantenute costantemente armate), pur
non ottenendo abbattimenti, era riuscita a costringere quattro aerei su nove
(il terzo, quarto, settimo ed ottavo) a rinunciare ai lanci o a lanciare in
modo affrettato ed impreciso, fallendo i bersagli; consolazione comunque
piuttosto magra. A determinare un esito così disastroso, si ritenne, era stata
soprattutto l’eccessiva concentrazione di navi in un solo porto, e la totale
mancanza di reti parasiluri a loro protezione.
Il comandante della
Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, poté apprendere con
precisione i risultati dell’attacco già dopo poche ore, grazie
all’intercettazione e decifrazione di comunicazioni italiane dalle quali
risultò che «An intercepted Italian
report states that the motor vessel MANZONI and destroyer ZEFFIRO were sunk. The destroyer EURO was hit twice [sic] forward and all compartments flooded. The
motor vessels LIGURIA damaged, but water being kept down». Il 6 luglio Cunningham trasmise
all’Ammiragliato britannico un entusiastico rapporto nel quale menzionò che il
successo dell’attacco era in gran parte dovuto all’eccellente collaborazione
della RAF nello svolgere ricognizione e soprattutto nel compiere l’attacco
diversivo sulla vicina base aerea italiana contemporaneamente all’attacco della
Fleet Air Arm contro le navi, che non aveva così incontrato alcun contrasto da
parte della caccia italiana.
All’alba del 6
luglio, dalle 5.37 alle 6.31, ebbe luogo anche il previsto bombardamento navale
di Bardia da parte di Caledon, Capetown, Imperial, Ilex, Janus e Juno, partiti da Alessandria il giorno precedente, il cui tiro
affondò i piroscafetti Axum e Sant’Antonio ancorati in rada.
L’attacco contro
Tobruk fu il primo di una serie di incursioni da parte degli aerosiluranti
britannici (altre seguirono il 10 luglio contro Augusta, il 20 di nuovo contro
Tobruk, il 22 agosto contro naviglio italiano nel Golfo di Bomba) contro il
naviglio italiano in porto, coronate tutte da notevole successo: protagonisti
furono sempre gli Swordfish, che di lì a pochi mesi avrebbero lanciato il
famoso attacco contro la flotta da battaglia italiana nella base di Taranto.
Fu proprio questa
serie di successi a convincere l’ammiraglio Cunningham che ormai gli Swordfish
della Mediterranean Fleet fossero pronti per un obiettivo di maggior respiro,
così decidendo di “rispolverare”, aggiornare ed attuare il piano d’attacco
contro Taranto, ideato fin dal 1935.
Già l’incursione del
5 luglio generò un certo allarme negli alti comandi della Marina italiana,
perché mostrò che gli aerosiluranti britannici erano in grado di colpire
efficacemente anche navi ormeggiate in bassi fondali; il 24 agosto, dopo che i summenzionati
attacchi avevano provocato la perdita di ben quattro cacciatorpediniere (più un
quinto gravemente danneggiato), un sommergibile, quattro navi mercantili ed una
nave ausiliaria, Supermarina emanò un ordine (dispaccio n. 35901) ai Comandi in
Capo della 1a e 2a Squadra Navale, che insieme ai Comandi
in Capo di Dipartimento dovevano mettere allo studio dei provvedimenti urgenti
per migliorare la protezione delle navi da guerra in porto.
Ciò non bastò, ad
ogni modo, ad impedire la “notte di Taranto”, che vide tra gli attaccanti
proprio gli Swordfish dell’813th Squadron, protagonisti dell’attacco
del 5 luglio 1940. Cunningham e l’ammiraglio Arthur Lumley St. George Lyster,
comandante della Fleet Air Arm nel Mediterraneo ed ideatore del piano di
attacco contro Taranto, citarono proprio il favorevole esito degli attacchi su
Tobruk, Bomba e Augusta dell’estate 1940 per convincere il primo lord del mare,
ammiraglio Alfred Dudley Pound, che l’incursione contro Taranto (pur essendo
questa una base molto meglio difesa di Tobruk o Augusta) fosse concretamente
realizzabile. Col senno di poi, queste incursioni risultarono per gli equipaggi
degli Swordfish un utile “addestramento” che permise loro di raggiungere un
notevole grado di esperienza ed affiatamento che tornarono poi utili
nell’attacco contro Taranto.
Lo Zeffiro venne giudicato troppo
danneggiato per poterne tentare un recupero; ci si limitò a recuperarne
l’armamento, che venne poi destinato a rinforzare le difese costiere della
piazzaforte di Bardia. In seguito alla perdita dello Zeffiro e dell’Espero, la
II Squadriglia Cacciatorpediniere venne sciolta, e le unità superstiti (Ostro e Borea) furono aggregate alla I Squadriglia, che aveva “perso”
temporaneamente l’Euro. Anche Ostro e Borea sarebbero rimasti vittime degli attacchi degli Swordfish nei
mesi successivi.
Sopra, i
fumaioli e le alberature dello Zeffiro
affioranti dalle acque della rada di Tobruk in una foto scattata il mattino del 6 luglio
1940; sullo sfondo si riconoscono il relitto rovesciato e semisommerso del Manzoni ed il San Giorgio. Sotto, un particolare dei fumaioli dello Zeffiro, in un’immagine anch’essa datata
6 luglio 1940 (g.c. STORIA militare)
Una nota conclusiva
riguarda una “leggenda” avente ad oggetto lo Zeffiro, ancor oggi riportata erroneamente da alcune fonti
anglosassoni (specie australiane, come il libro "Who sank the Sydney?" di Michael Montgomery).
Secondo queste, lo Zeffiro sarebbe
stato affondato dal tiro delle unità della Mediterranean Fleet, tra cui
l’incrociatore australiano Sydney
(già affondatore dell’Espero),
durante la battaglia di Punta Stilo, svoltasi il 9 luglio 1940 (cioè quattro
giorni dopo l’affondamento dello Zeffiro).
Stando a questi racconti, durante la battaglia lo Zeffiro si sarebbe lanciato da solo all’attacco contro la flotta
britannica, emettendo una cortina fumogena per coprire il ripiegamento della
flotta italiana, in una valorosa ma suicida carica che sarebbe terminata con il
suo affondamento da parte delle artiglirie britanniche. Notizia del tutto
errata, ovviamente, dato che lo Zeffiro
era già stato affondato da giorni e che nessuna nave, né italiana né
britannica, fu affondata durante la battaglia di Punta Stilo. È possibile fare
qualche ipotesi riguardo alla nascita di questo “mito”: durante la fase
conclusiva della battaglia di Punta Stilo, mentre era in corso lo sganciamento
della squadra da battaglia italiana, diverse squadriglie di cacciatorpediniere
vennero inviate ad attaccare col siluro la flotta britannica. Durante questa
fase, i cacciatorpediniere della XII Squadriglia (Lanciere, Corazziere, Ascari, Carabiniere) uscirono a più riprese dalla cortina fumogena con cui
si erano occultati loro e gli altri cacciatorpediniere italiani che andavano
all’attacco; essendo le uniche unità italiane a risultare visibili in mezzo al
fumo, per una mezz’ora i cacciatorpediniere della XII Squadriglia si
ritrovarono sotto il tiro concentrato di pressoché tutta la Mediterranean
Fleet. Nessuno di essi subì danni, ma non è difficile immaginare che, tra la
grande distanza, il fumo e l’eccitazione del momento, su qualcuna delle navi
britanniche si possa aver avuto l’erronea impressione di aver colpito, e forse
affondato, un cacciatorpediniere che stava cercando di attaccarle. Anche più
semplice la spiegazione su come a questo cacciatorpediniere fu abbinato il nome
dello Zeffiro: il Comando Supremo
italiano diede la notizia della sua perdita («Il nOstro caccia Zeffiro è stato affondato ma l'equipaggio è
salvo») nel bollettino di guerra n. 30 del 10 luglio, lo stesso in cui si
annunciava la battaglia di Punta Stilo, svoltasi il giorno precedente. Nel
bollettino, la notizia dell’affondamento dello Zeffiro era data subito dopo quella della battaglia, dunque se ne
poteva effettivamente trarre l’impressione che il caccia fosse stato affondato
durante quest’ultima; certamente questa fu l’impressione della stampa britannica,
che nell’annunciare le rivendicazioni italiane sulle perdite subite e inflitte
a Punta Stilo affermò che i bollettini italiani avessero ammesso di aver perso
nella battaglia il cacciatorpediniere Zeffiro.
Fu probabilmente così, dunque, che il nome dello Zeffiro venne abbinato dall’equivalente britannico di “radio prora”
a quel misterioso cacciatorpediniere che si credeva affondato durante il suo
attacco solitario, dandò così vita alla “leggenda” della carica suicida dello Zeffiro a Punta Stilo.