La Giove a La Spezia nel primo dopoguerra (g.c. STORIA militare) |
Nave cisterna per
nafta della classe Nettuno (10.313 tonnellate di dislocamento, 5211 tonnellate
di stazza lorda e 2857 tonnellate di stazza netta), lunga 121,6 metri, larga
15,5 e pescante 8,6, con velocità di 14,5 nodi. Armata con 6 cannoni da 57/43
mm (per altra fonte, due da 120/45 mm).
Appartenente alla
Regia Marina, ma in gestione alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione
Garibaldi, con sede a Genova, ed iscritta con matricola 2172 al Compartimento
Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
7 maggio 1914
Impostata nei
Cantieri Navali Riuniti di Palermo per la Regia Marina.
23 dicembre 1916
Varata nei Cantieri
Navali Riuniti di Palermo.
1916
Viene radiata, con
decreto legge, dal quadro del Regio Naviglio, e trasferita al servizio delle
Ferrovie dello Stato.
Gennaio 1917
Entrata in servizio;
appartiene alla Regia Marina, ma inizialmente (ed almeno fino al luglio 1918)
presta servizio per le Ferrovie dello Stato. In origine la stazza lorda e netta
sono rispettivamente 5088 (o 5037) tsl e 2614 tsn.
Durante la prima
guerra mondiale, la Giove viene
impiegata con altre navi (la gemella Nettuno;
Bronte e Sterope, di costruzione prebellica; Prometeo, sequestrata; Margaretha,
noleggiata; Girolamo Ulloa e Luciano Manara, ex austroungariche
catturate), nell’approvvigionamento dei carburanti per la Regia Marina. Non
essendo più possibile rifornirsi di nafta dalla Romania, come invece in tempo
di pace, a seguito della chiusura dello stretto dei Dardanelli (l’Impero
Ottomano è ora nazione nemica), la Giove
e le altre petroliere fanno la spola tra l’Italia e le Americhe, imbarcando il
carburante oltreoceano per poi portarlo in patria.
13 luglio 1918
La Giove viene silurata e danneggiata dal
sommergibile tedesco UC 20 (tenente
di vascello Heinrich Kukat) al largo di Capo Colonne. Il sommergibile la colpisce
con un singolo siluro, durante un’azione eseguita in superficie; la petroliera
rimane però a galla.
Le riparazioni
verranno effettuate nell’Arsenale di Taranto; l’inutilizzazione della Giove, insieme alla perdita di Sterope e Prometeo, affondate nello stesso periodo da U-Boote tedeschi (la Prometeo il 18 marzo 1918 e la Sterope il 7 aprile, entrambe dall’U 155), causerà una temporanea crisi
negli approvvigionamenti di carburante della Regia Marina, provocando una
riduzione nelle scorte e rendendo necessaria la cessione di nafta da parte
della Royal Navy.
1926
Affidata in gestione
alla Cooperativa Garibaldi di Genova, società che gestisce buona parte del
naviglio ausiliario della Marina. La maggior parte dell’equipaggio è composta
da marittimi civili.
17 ottobre 1930
Temporanea
sospensione dell’iscrizione della Giove
nei quadri del Regio Naviglio, con regio decreto.
15 dicembre 1930
Reiscrizione della Giove nei quadri del Regio Naviglio, con
regio decreto.
10 giugno 1940
All’entrata in guerra
dell’Italia, la Giove si trova a
Massaua, in Eritrea (Africa Orientale Italiana), sul Mar Rosso. Formalmente,
essa fa parte del naviglio ausiliario autonomo, alle dirette dipendenze di
Supermarina; nei fatti, seguirà la sorte delle navi del Comando Superiore
Navale Africa Orientale.
Autoaffondamento, recupero, epilogo
Le sorti del naviglio
italiano in Africa Orientale sono già state diffusamente descritte nelle pagine
riguardanti altre navi perdute in Eritrea. Dopo gli iniziali successi del
luglio-agosto 1940 (conquista della Somalia britannica, di Moyale e Buna in
Kenya e di Cassala in Sudan) le truppe italiane in Africa Orientale, a corto di
risorse e nell’impossibilità di ricevere rifornimenti, dovettero passare sulla
difensiva; agli inizi del 1941 le truppe del Commonwealth passarono
all’offensiva, mentre si scatenava anche l’insurrezione dei guerriglieri etiopi
(“Arbegnoch”, cioè “patrioti”). Riconquistato in breve tempo il terreno perso
in Kenya e Sudan, i britannici occuparono la Somalia italiana nel febbraio 1941
ed avanzarono nell’Etiopia meridionale; le sorti dell’Eritrea si decisero nella
lunga battaglia di Cheren (2 febbraio-27 marzo 1941), che vide infine i
britannici vincitori.
Superate l’ultima
resistenza italiana a Cheren, all’inizio di aprile la 5a Divisione
Indiana puntò su Massaua. Comandante della piazzaforte era il contrammiraglio
Mario Bonetti, che aveva ai suoi ordini 10.000 uomini ed un centinaio di carri
armati (nella quasi totalità, i mediocri M11/39 o gli ancor peggiori L3); era
evidente che la resistenza della base navale, ormai del tutto isolata, sarebbe
potuta durare soltanto qualche giorno, e che la sorte delle navi che vi fossero
rimaste sarebbe stata la cattura o l’autoaffondamento.
Le navi dotate di
autonomia sufficiente per affrontare una traversata oceanica erano state fatte
partire tra febbraio e marzo (quattro sommergibili, la nave coloniale Eritrea, gli incrociatori ausiliari RAMB I e RAMB II ed otto mercantili), dirette in Francia od in Giappone; il
2 aprile i residui cinque cacciatorpediniere della III e V Squadriglia
partirono per una missione senza ritorno contro Porto Sudan. Uno di essi, il Daniele Manin, aveva a bordo come mezzo
di salvataggio supplementare la lancia di salvataggio IA 46326, appartenente alla Giove
e ceduta al Manin prima della
partenza: tanto, alla Giove non
sarebbe più servita, mentre era prevedibile che l’equipaggio del Manin avrebbe terminato la sua navigazione
sui mezzi di salvataggio. Su questa scialuppa, dopo l’affondamento del Manin ad opera di aerei britannici, si
sarebbero infatti salvati 42 naufraghi del cacciatorpediniere (tra di essi
anche Eugenio Tealdi, ex primo ufficiale civile della Giove, che allo scoppio della guerra era stato richiamato in Marina
col grado di guardiamarina ed imbarcato sul Manin),
raggiungendo la costa araba dopo sette estenuanti giorni di navigazione.
Tutte le altre navi,
non in grado di raggiungere terre amiche o neutrali (perché sprovviste di
autonomia sufficiente, oppure perché in cattive condizioni dopo mesi e mesi di
sosta nel porto di Massaua) né di arrecare danno al nemico, si sarebbero dovute
autoaffondare per non cadere intatte in mano nemica, e per bloccare al contempo
il porto. Tra queste era anche la Giove.
Il generale
britannico Lewis Heath, comandante della 5a Divisione Indiana,
telefonò all’ammiraglio Bonetti per mandargli un ultimatum: doveva arrendersi
ed astenersi dal bloccare il porto mediante l’autoaffondamento di navi; in caso
contrario, i britannici non avrebbero fornito alcuna assistenza o protezione ai
cittadini italiani in Eritrea ed Etiopia, una volta terminata la campagna.
Bonetti rifiutò, e
mise in atto il suo piano per rendere il porto di Massaua inutilizzabile il più
a lungo possibile: fece disporre le navi lungo le tre imboccature del porto, e
qui le fece autoaffondare, creando altrettante barriere con i loro relitti.
Ricevettero ordine di autoaffondarsi all’imboccatura del porto militare i mercantili
italiani Moncalieri e XXIII Marzo, il piroscafetto Impero, il mercantile tedesco Oliva, due bacini galleggianti ed il
relitto devastato della vecchia torpediniera Giovanni Acerbi; si dovettero autoaffondare all’imbocco del porto
commerciale il mercantile italiano Adua,
il posamine Ostia, un pontone gru, i
mercantili tedeschi Gera e Crefeld; all’accesso del porto
meridionale si autoaffondarono i piroscafi italiani Brenta, Vesuvio ed Alberto Treves, la cisterna militare Niobe, i piroscafi tedeschi Liebenfels e Frauenfels, il transatlantico italiano Colombo.
Gli italiani, che
avevano trasformato da Massaua da piccolo porto dedito al commercio di schiavi
in una delle maggiori basi navali del Mar Rosso, si sfogarono ora su di essa in
una vera e propria frenesia distruttiva, cercando di rendere inservibile
qualsiasi cosa che sarebbe potuta tornare utile ai britannici. Oltre alle navi
destinate a bloccare gli accessi del porto, si autoaffondarono qua e là, per
bloccare le banchine, anche la torpediniera Vincenzo
Giordano Orsini (dopo aver sparato contro le colonne britanniche in
avanzata fino all’esaurimento delle munizioni), le piccole cannoniere Giuseppe Biglieri e Porto Corsini, i vecchi MAS
204, 206, 210, 213 (che aveva
appena silurato l’incrociatore leggero HMS Capetown)
e 216, i rimorchiatori militari Formia, San Giorgio e San Paolo;
e, appunto, la Giove. Su alcune delle
navi, per complicarne il recupero, vennero collocate anche delle trappole
esplosive, mentre altre vennero collocate a terra. Attrezzature ed
installazioni portuali vennero sabotate, ed ingenti quantità di equipaggiamento
militare e persino diversi carri armati vennero gettati nelle acque del porto
per impedirne la cattura.
Un altro gruppo di
navi mercantili ed ausiliarie, trasferitosi nel vicino arcipelago delle Dahlak,
si autoaffondò tra quelle isole, in acque più profondo; solo le cisterne per
acqua Sile, Sebeto e Bacchiglione
vennero risparmiate dall’autodistruzione, perché potessero continuare a servire
ai bisogni della popolazione civile anche dopo l’occupazione britannica.
Le prime navi
italiane iniziarono ad autoaffondarsi il 3 aprile 1941; il 5 aprile la 7a
Brigata Indiana si congiunse con la Briggs Force, proveniente da Port Sudan,
fuori Massaua. I britannici inviarono a Bonetti una nuova intimazione di resa,
che venne nuovamente respinta; l’8 aprile un primo attacco contro la
piazzaforte da parte della 7a Brigata Indiana venne respinto, ma un
contemporaneo attacco della 10a Brigata Indiana, supportato da carri
armati del 4th Royal Tank Regiment, riuscì a sfondare le difese
italiane sul lato occidentale del perimetro. Attacchi da parte di reparti della
Francia Libera sopraffecero le posizioni italiane sul lato sudoccidentale,
mentre gli aerei britannici – che avevano ormai il dominio incontrastato dei
cieli – bombardavano le postazioni d’artiglieria italiane.
Nel pomeriggio dell’8
aprile, Massaua si arrese, ed i britannici entrarono nel porto, in uno scenario
di devastazione caratterizzato da relitti di navi (e carri armati) disseminati ovunque.
È da rilevare che
secondo alcune fonti (compreso “Navi mercantili perdute” dell’USMM, non sempre
corretto) la Giove non si sarebbe
autoaffondata a Massaua, bensì nelle isole Dahlak (precisamente, nel Golfo del
Gubbet o presso l’isola di Nocra); ma a fugare ogni dubbio in proposito è un
filmato propagandistico della British Pathé, girato da cineoperatori britannici
poco dopo la presa di Massaua. Nel filmato la Giove appare chiaramente tra le navi autoaffondate in tale porto,
ormeggiata lungo il molo principale in assetto di navigazione, apparentemente
non molto danneggiata e ben alta sull’acqua, tanto non sembrare neanche
affondata (presumibilmente perché adagiata su un fondale poco profondo).
L’autoaffondamento sarebbe avvenuto, a seconda delle fonti, il 4 o l’8 aprile
1941.
La Giove autoaffondata all’ormeggio, ma ancora alta sull’acqua per via del basso fondale, in un filmato britannico girato dopo la presa di Massaua (British Pathé – Youtube). |
Il relitto della Giove dopo la caduta di Massaua. L’unità in secondo piano è probabilmente la motonave Arabia (Imperial War Museum) |
Gli equipaggi delle
navi autoaffondate vennero inizialmente internati dai britannici in Eritrea, ma
molti di essi incontrarono successivamente un tragico destino: il 16 novembre
1942 molti dei marittimi, insieme ad altri civili italiani internati in Africa
Orientale ed ad alcuni prigionieri di guerra pure italiani, furono imbarcati
sul piroscafo britannico Nova Scotia,
che avrebbe dovuto trasportarli in Sudafrica, verso nuovi campi di prigionia.
Il 28 novembre, il Nova Scotia venne
silurato dal sommergibile tedesco U 177
ed affondò in soli dieci minuti a sudest di Lourenço Marques. Molti affondarono
con la nave, molti altri scomparvero nell’oceano, annegati, periti di stenti, o
divorati dagli squali; le salme di oltre 120 uomini furono portate dalle onde
sulle spiagge del Sudafrica, e sepolte in fosse comuni. L’U 177, pur avendo scoperto di aver affondato una nave carica di
italiani (alleati della Germania), dovette allontanarsi senza soccorrere
nessuno (tranne due marittimi italiani) in ottemperanza alle disposizioni da
poco impartite (di non prestare soccorso ai naufraghi) a seguito di un attacco
aereo subito due mesi prima dall’U 156 mentre
era intento al salvataggio dei superstiti del piroscafo Laconia, anch’esso carico di prigionieri italiani.
Solo il 30 novembre
giunse sul posto l’avviso portoghese Alfonso
De Albuquerque, che trasse in salvo 181 o 194 superstiti, tra cui 117 o 130
internati italiani, che sbarcò in Mozambico. Non ebbero la stessa fortuna altri
655 internati italiani, che scomparvero in mare insieme a 88 guardie
sudafricane, 107 membri dell’equipaggio britannico e tredici passeggeri (cinque
civili ed otto militari).
Tra le vittime del Nova Scotia vi furono anche due marinai
della Giove. Oltre a loro, almeno
altri due membri dell’equipaggio della Giove
non fecero più ritorno dalla prigionia: il marinaio civile Umberto Mattei, di
La Spezia, rimasto in Africa Orientale, vi morì il 18 luglio 1943; l’ufficiale
di macchina Mattia Viola, di Usini (Sassari), anch’egli un marittimo civile, morì
in prigionia in Algeria il 26 aprile 1944.
Trovandosi adagiata
in acque particolarmente basse, la Giove
fu una delle prime navi a divenire oggetto delle attenzioni dei recuperati
britannici incaricati di rimettere a galla le navi e sgombrare il porto per
renderlo nuovamente utilizzabile. Di tale lavoro fu inizialmente incaricato
Joseph Russel Stenhouse, ufficiale della Royal Navy che aveva all’attivo la
partecipazione, nel 1915-1916, alla spedizione antartica di Ernest Shackleton
(durante la quale aveva comandato il panfilo di supporto Aurora, rimasto
intrappolato tra i ghiacci per dieci mesi) e poi alla prima guerra mondiale,
durante la quale era stato più volte decorato. Congedato nel 1931, era tornato
in servizio attivo allo scoppio della seconda guerra mondiale; avendo già
esperienza di recuperi navali, effettuati durante gli anni Venti, Stenhouse fu
chiamato a Massaua subito dopo la presa del porto, e lasciò l’Inghilterra
all’inizio di aprile.
Giunto a Massaua,
Stenhouse si mise subito all’opera sulla Giove,
che venne rimessa in condizioni di galleggiamento, a seconda delle fonti, il 20
giugno 1941 od all’inizio di settembre dello stesso anno. La Giove fu la prima nave recuperata da
Stenhouse a Massaua, ed anche l’ultima: il 12 settembre 1941, infatti,
Stenhouse trovò la morte in Mar Rosso nell’affondamento del rimorchiatore Tai Koo, saltato su una mina.
Quanto alla Giove, venne riparata e trasferita, nel
1942, al Ministry of War Transport britannico, che le diede il nuovo nome di Empire Trophy, la registrò a Londra e la
diede in gestione alla British Tanker Company Ltd.
Sotto il nuovo nome,
la nave riprese a navigare con bandiera britannica, prendendo parte a numerosi
convogli: il BP 68 (Bombay-Bandar Abbas, febbraio 1943), il PA 27 (Bandar
Abbas-Aden, 3-10 marzo 1943), l’AP 24 (Aden-Bandar Abbas, 13-19 marzo 1943), il
PB 34 (Bandar Abbas-Bombay, 4-10 aprile 1943), il BP 76 (Bombay-Bandar Abbas, aprile
1943), il PA 37 (Bandar Abbas-Aden, 4-11 maggio 1943), l’AP 31 (Aden-Bandar
Abbas, 18-25 maggio 1943), il PB 44 (Bandar Abbas-Bombay, 12-18 giugno 1943),
il BM 54A (Bombay-Colombo, 20-25 giugno 1943), l’MB 39 (Colombo-Bomvay, 28 giugno-2
luglio 1943), il BP 86 (Bombay-Bandar Abbas, 5-10 luglio 1943), il PB 49 (Bandar
Abbas-Bombay, 22-28 luglio 1943), il BM 58 (Bombay-Colombo, 30 luglio-4 agosto
1943), l’MB 43 (Colombo-Bombay, 5-10 agosto 1943), il BP 91 (Bombay-Bandar
Abbas, 14-19 agosto 1943), il PB 55 (Bandar Abbas-Bombay, 8-14 settembre 1943),
il BP 95 (Bombay-Bandar Abbas, 16-23 settembre 1943), il PB 58 (Bandar
Abbas-Bombay, 2-8 ottobre 1943), il BP 101 (Bombay-Bandar Abbas, 1-6 novembre
1943), il PB 64 (Bandar Abbas-Bombay, 19-26 novembre 1943), il BM 76 (Bombay
Colombo, 27 novembre-2 dicembre 1943), il JC 28 (Colombo Calcutta, 3-12 dicembre
1943), il CJ 15 (Calcutta Colombo, 4-12 febbraio 1944), l’MB 65 (Colombo-Bombay,
13-18 febbraio 1944), il PA 72 (Bandar Abbas-Aden, 10-16 marzo 1944), l’AP 66 (Aden-Bandar
Abbas, 29 marzo-5 aprile 1944), il PB 76 (Bandar Abbas-Bombay, 20-25 aprile
1944).
Il 2 settembre 1944
l’Empire Trophy giunse a Bombay dal
Golfo Persico con problemi alle caldaie, e venne messa in disarmo. Non tornò
più in mare: dopo due anni e mezzo di disarmo, nel marzo 1947 la nave venne
portata ad incagliare e spogliata di ogni materiale che potesse tornare utile,
poi venne demolita a Bombay. La Marina italiana l’aveva radiata ufficialmente
dai propri quadri solo il 18 ottobre 1946.
Un’altra immagine del relitto della Giove a Massaua, dal medesimo filmato (British Pathé – Youtube). |