In ricordo dei militari e civili italiani scomparsi in mare durante la seconda guerra mondiale
martedì 29 aprile 2014
domenica 27 aprile 2014
Console Generale Liuzzi
Il varo del Liuzzi (da www.marina.difesa.it via Marcello Risolo e www.betasom.it) |
Sommergibile oceanico classe Liuzzi (1166,47 tonnellate di dislocamento in superficie e 1484,20 in immersione). Svolse una singola missione di guerra, percorrendo 1695 miglia in superficie e 420 in immersione.
Breve e parziale cronologia.
1° ottobre 1938
Impostazione nei
cantieri Franco Tosi di Taranto.
17 settembre 1939
Varo nei cantieri
Franco Tosi di Taranto.
Il sommergibile dopo il varo (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it) |
21 novembre 1939
Entrata in servizio.
Il Liuzzi va a formare con gli altri
battelli della sua classe (Capitano
Tarantini, Alpino Bagnolini, Reginaldo Giuliani) la XLI Squadriglia
Sommergibili, facente parte del IV Gruppo Sommergibili di Taranto.
Nei sette mesi che
separano la sua entrata in servizio e l’ingresso dell’Italia nella seconda
guerra mondiale il battello disimpegna esclusivamente la propria attività
addestrativa.
Gennaio 1940
Il Liuzzi esegue la prova di collaudo
finale al largo del golfo di Taranto, immergendosi a 107 metri di profondità e
restandovi per mezz’ora. Tutti i sistemi risultano funzionare in maniera
ottimale.
1° giugno 1940
Assume il comando del
Liuzzi il capitano di corvetta
Lorenzo Bezzi.
Il capitano di corvetta Lorenzo Bezzi (da www.movm.it) |
«MA 3»
All’entrata in guerra
dell’Italia, il 10 giugno 1940, il Console
Generale Liuzzi faceva ancora
parte della XLI Squadriglia del IV Grupsom di base a Taranto, assieme a Bagnolini, Tarantini e Giuliani.
Il 16 giugno 1940 il Liuzzi, al comando del capitano di
corvetta Lorenzo Bezzi, salpò da Taranto per raggiungere il proprio settore
d’agguato, nelle acque di Famagosta, dove avrebbe dovuto attaccare il naviglio
nemico sulle rotte tra Cipro, Siria ed Egitto. Era per il Liuzzi la prima missione di guerra: i cinque giorni di attesa al
largo di Famagosta, però, non portarono a nessun avvistamento, e la sera del 25
giugno, ricevuto l’ordine di rientro, il sommergibile iniziò la navigazione di
ritorno a Taranto.
In quel momento era
però in corso, nel Mediterraneo centrale, un vasto rastrello antisommergibile a
protezione dell’operazione britannica «MA 3», che prevedeva l’invio di convogli
tra Malta, Egitto e Grecia: erano così impegnati nella caccia ai sommergibili
italiani i cacciatorpediniere Dainty,
Defender, Decoy, Voyager e Ilex, riuniti nella Forza «C», oltre a
numerosi idrovolanti antisommergibile. Nei giorni successivi, questo micidiale
dispiegamento di forze avrebbe affondato anche altri tre sommergibili italiani,
l’Argonauta, l’Uebi Scebeli e il Rubino.
La Forza C (i cui
cacciatorpediniere appartenevano alla 2nd ed alla 10th
Destroyer Flotilla) aveva lasciato Alessandria all’alba del 27, con lo scopo di
fornire protezione a distanza ad una formazione navale (portaerei Eagle, corazzate Ramillies e Royal Sovereign, incrociatori Orion, Neptune, Liverpool e Sydney) in mare a scorta dei convogli «MF
1» e «MS 1» da Malta (in questo consisteva, appunto, «MA 3»).
Fu alle 18.30 del 27
giugno che il Liuzzi, in navigazione
in superficie, incappò nelle unità della Forza C: ma all’avvistamento dei
cacciatorpediniere da parte del battello italiano fu contemporanea la sua
individuazione da parte delle navi britanniche (l’orario indicato da parte
britannica sono le 18.28, la posizione circa 100 miglia a sudest di Creta). Il
sommergibile s’immerse rapidamente, tentando di attaccare o di eludere la
caccia, ma presto il Dainty, il Defender, il Decoy e l’Ilex gli furono
sopra, ed iniziarono a bombardarlo pesantemente con cariche di profondità,
effettuando cinque attacchi nel giro di pochi minuti (Dainty, Defender e Ilex erano dotati degli ecogoniometri
più moderni all’epoca in uso nella Marina britannica).
La prima scarica di dieci
bombe colse il battello a 100 metri e fece saltare tutte le luci del Liuzzi tranne che in camera di manovra, fracassò
i profondimetri e strappò un serbatoio della nafta dalla paratia, la seconda
(dieci bombe che esplosero quando il sommergibile era a 120 metri) arrecò
ulteriori danni, comprese vie d’acqua nel compartimento poppiero, che
danneggiarono le batterie, provocando il rilascio di gas nocivi. Gli altri
passaggi scossero violentemente il sommergibile ed aggravarono ulteriormente la
situazione, mettendo fuori uso tutte le strumentazioni ed i timoni, rendendolo
ingovernabile e facendolo sprofondare sino a 190 metri di profondità (laddove
la sua quota di collaudo era di 100 m).
Dopo questi attacchi,
le unità britanniche osservarono una scia di carburante sulla superficie, ed il
Dainty seguì la scia mentre calava il
buio.
Gravemente danneggiato
dagli scoppi, dopo 90 minuti di caccia (durante la quale l’equipaggio contò gli
scoppi di una sessantina di bombe di profondità) il Liuzzi dovette emergere, su ordine del comandante Bezzi (che ordinò
aria per tutto dopo essersi consultato con il direttore di macchina), per non
andare distrutto con tutto l’equipaggio, e per tentare di reagire in superficie
con i propri cannoni. Seguendo la scia di carburante, le unità britanniche
avvistarono il sommergibile emerso a 2290 metri di distanza, e Dainty e Defender aprirono immediatamente il fuoco, colpendolo a prua ed in
altri punti.
I danni causati dalle
bombe di profondità avevano immobilizzato il Liuzzi, che si trovò in superficie senza sufficiente energia, nelle
batterie, per avviare i motori, e senza più nafta. Per giunta, il mare era agitato,
e questo peggiorò ulteriormente le già modeste caratteristiche di stabilità che
facevano dei sommergibili delle pessime piattaforme per l’artiglieria: gli
artiglieri del Liuzzi non riuscirono
a mirare, mentre da parte loro i cacciatorpediniere, che non avevano simili
problemi, poterono colpire ripetutamente il battello italiano con i loro
cannoni (per altra fonte le armi del sommergibile erano state rese
inutilizzabili dal bombardamento). Alcuni uomini del Liuzzi rimasero uccisi, ed il sommergibile fu posto fuori
combattimento. Dopo un breve scontro dall’esito scontato, da bordo del Liuzzi fu agitata una luce bianca, per
chiedere di cessare il fuoco.
Mentre i
cacciatorpediniere cessavano il fuoco, il comandante Bezzi ordinò di
autoaffondare ed abbandonare il sommergibile.
I membri
dell’equipaggio si radunarono nella torretta; il Dainty si avvicinò, per prenderli a bordo e recuperare quelli che
si erano tuffati in mare. Altri cacciatorpediniere misero a mare le loro
imbarcazioni: la baleniera del Voyager
recuperò tredici naufraghi.
Il Dainty giunse quasi a mettere la sua
prua praticamente addosso al Liuzzi
prima che gli ultimi due membri dell’equipaggio potessero essere persuasi a
buttarsi in mare.
Ci vollero in tutto
tre ore ed un quarto perché i più riluttanti abbandonassero il sommergibile,
poi il Dainty gli diede il colpo di
grazia, affondandolo con altre cannonate e bombe di profondità.
Quando l’ultimo dei
suoi uomini ebbe abbandonato l’unità, il comandante Bezzi decise di seguire la
sorte del suo battello: tornò all’interno e vi si rinchiuse, inabissandosi
insieme al Liuzzi quando questo, poco
prima delle otto di sera, affondò a sudest di Creta, nel punto 33°46’ N e
27°27’ E, in un punto dove il mare è profondo 2500 metri. Alla sua memoria fu
conferita la Medaglia d’oro al Valor Militare, e la Scuola Sottufficiali di
Taranto (Mariscuola) porta il suo nome dal 17 maggio 1957. Anche la sezione
ANMI del suo paese, Tortona, fu intitolata alla sua memoria, così come vie e
piazze di diverse città della provincia di Alessandria. La medaglia venne
ricevuta dalla moglie del comandante Bezzi: la figlia, di un anno e mezzo, non
avrebbe mai visto il padre.
Il direttore di
macchina del Liuzzi, maggiore del
Genio Navale Gaetano Tosti-Croce (che aveva assunto tale incarico appena il 20
maggio precedente rilevandolo dal capitano del Genio Navale Umberto Bardelli,
che era stato direttore di macchina del Liuzzi
sin dall'entrata in servizio, dopo averne curato l’allestimento), prima di
abbandonare il sommergibile diede il suo salvagente al marinaio silurista Aldo
Carnevalini, salito tra gli ultimi in coperta quando questa era già
semisommersa, che non ne aveva (non lo aveva trovato al suo posto, forse preso
da qualcun altro) e che non sapeva nuotare (ed era per giunta intossicato dai
vapori di acido solforico che aveva respirato nei locali di poppa). Tosti-Croce era tornato a bordo
per aprire le valvole per l’autoaffondamento (insieme a lui, tornò sottocoperta per questo scopo anche l'operaio di garanzia Alessandro Bonaca, poi scomparso in mare) e per tentare, inutilmente, di
convincere il comandante Bezzi a salvarsi. Non appena Carnevalini ebbe
indossato il salvagente (cosa di cui Tosti-Croce volle sincerarsi, dato che Carnevalini era semincosciente per via dei vapori respirati), entrambi furono scaraventati in acqua da un colpo di mare, e
Tosti-Croce sbatté una gamba, ferendosi. Furono salvati entrambi; il gesto di
abnegazione del maggiore Tosti-Croce venne premiato con una Medaglia d’argento al
Valor Militare.
Carnevalini fu tratto in salvo dopo qualche tempo in acqua insieme ad un nostromo tarantino, che gli disse di “fare il morto” e non consumare inutilmente energie per lottare contro il mare mosso; al momento giusto, aiutato da un colpo di mare, Carnevalini saltò a bordo di una lancia del Voyager.
Il guardiamarina fiorentino Everardo Facibene, campione di nuoto, tentò di portare in salvo con sé alcuni dei suoi uomini (una decina o poco meno), ma morirono tutti, lui compreso.
Aldo Carnevalini, ormai novantatreenne, avrebbe presenziato alla commemorazione del 73° anniversario dell’affondamento, celebrata proprio nella Scuola Sottufficiali Lorenzo Bezzi, e ricordò l’atto eroico del maggiore Tosti-Croce.
Carnevalini fu tratto in salvo dopo qualche tempo in acqua insieme ad un nostromo tarantino, che gli disse di “fare il morto” e non consumare inutilmente energie per lottare contro il mare mosso; al momento giusto, aiutato da un colpo di mare, Carnevalini saltò a bordo di una lancia del Voyager.
Il guardiamarina fiorentino Everardo Facibene, campione di nuoto, tentò di portare in salvo con sé alcuni dei suoi uomini (una decina o poco meno), ma morirono tutti, lui compreso.
Aldo Carnevalini, ormai novantatreenne, avrebbe presenziato alla commemorazione del 73° anniversario dell’affondamento, celebrata proprio nella Scuola Sottufficiali Lorenzo Bezzi, e ricordò l’atto eroico del maggiore Tosti-Croce.
Gesuino De Montis, un
marinaio ventenne, ricordò che gli uomini salirono in coperta passando per la
torretta; gli ultimi ad uscire furono quelli che si trovavano a prua, tra cui
appunto lui. Nessuno voleva gettarsi in acqua, ma il comandante Bezzi ordinò a
tutti di buttarsi in mare. Così fece anche lui, ma con altri si venne a trovare
più lontano rispetto al grosso dei naufraghi, e non fu subito avvistato. Rimase
nel mare mosso per quelle che sembrarono delle ore, pregando mentre le forze lo
abbandonavano, poi, proprio quando era sul punto di perdere conoscenza ed
annegare, venne raggiunto da una delle unità britanniche, svegliandosi a bordo
del cacciatorpediniere. Era nudo; fu il medico britannico dell’unità a dargli
dei vestiti da indossare.
Tutti i superstiti
del Liuzzi (in tutto mancarono
all’appello undici uomini) vennero recuperati dai cacciatorpediniere britannici,
e sbarcati ad Alessandria d’Egitto la sera del 30 giugno. Internati nel campo
di prigionia di Geneifa, in Egitto, furono da lì successivamente avviati alla
prigionia in India, dove rimasero per cinque anni.
A casa, Gesuino De
Montis era stato dato per disperso: vi tornò sano e salvo dopo cinque anni,
trovandovi un ricordo realizzato per la Messa in suo suffragio celebrata nel
1940, ed è ad oggi vivo e vegeto all’età di 95 anni. Ha sovente presenziato a
molte commemorazioni dell’affondamento del Liuzzi,
come l’inaugurazione a Taranto di una statua del comandante Bezzi, nel 2010, e
la 72° commemorazione a Taranto dell’affondamento del sommergibile, quando ha
letto la Preghiera del Marinaio, dedicandola alla memoria del suo comandante.
Non fecero più ritorno:
Lorenzo Bezzi, capitano di corvetta
(comandante), 33 anni, da Tortona
Alessando Bonaca, operaio militarizzato di garanzia, 45 anni, da Trevi
Alessando Bonaca, operaio militarizzato di garanzia, 45 anni, da Trevi
Ideo Cassatella, sergente radiotelegrafista, 24 anni, da Bari
Stelio Degli Innocenti, marinaio cannoniere, 21 anni, da Poggibonsi
Everardo Facibene, guardiamarina, 24 anni, da Firenze
Alberto Furlan, marinaio motorista, 19 anni, da San Vendemiano
Giuseppe Luppino, marinaio fuochista, 21 anni, da Trapani
Francesco Monopoli, marinaio elettricista, 19 anni, da Trani
Luigi Nobili, marinaio elettricista, 20 anni, da Monza
Bartolomeo Sabatini, marinaio silurista, 21 anni, da Arezzo
Rodolfo Scrobogna, marinaio fuochista, 20 anni, da Fiume
Il Liuzzi in una foto tratta da un Almanacco Navale dell’epoca.
|
La motivazione della Medaglia d’oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di corvetta Lorenzo Bezzi, nato a Tortona (AL) il 22 ottobre 1906:
"Comandante di
sommergibile in missione di guerra in acque intensamente vigilate
dall’avversario veniva avvistato e sottoposto a violenta prolungata caccia.
Impossibilitato a mantenere l’immersione per gravi danni subiti dall’Unità,
emergeva con l’intento di impegnare l’avversario in superficie. Accerchiato a
breve distanza e fatto segno al fuoco di cinque CC.TT., visto vano ogni
tentativo di difesa per il mare agitato che impediva l’uso del cannone,
decideva l’auto-affondamento del sommergibile. Messo in salvo l’equipaggio dopo
aver ordinato il saluto alla voce, divideva volontariamente la estrema Sorte
dell’unità al suo comando rientrando nello scafo e chiudendo, con freddo e
cosciente atto, su di sé il portello della torretta. Confermava in tale modo
elevate virtù militari e di comando e faceva rifulgere con il proprio gesto la
nobile tradizione di eroismo della gente di mare.
Mediterrano Orientale,
27 giugno 1940."
Il comandante Bezzi con la moglie (Museo del Mare di Tortona) |
Il ricordo di Gesuino
De Montis (si ringrazia Liliana Manconi del sito www.forumlive.net):
"Avevo vent’anni il
10 giugno 1940 quando scoppiò la guerra e mi ritrovai già il 16 giugno in
missione come silurista di un equipaggio composto da 7 ufficiali e 50 fra
sottufficiali e marinai, sul sommergibile “Console Generale Liuzzi”
della Regia Marina Italiana, affondato in combattimento il 27 giugno 1940.
La mia unità era
stata destinata ad operare nel Mediterraneo orientale, nella zona d’agguato
al largo di Famagosta, tra Alessandria d’Egitto, dove c’era la base inglese, e
Ismailia, con l’incarico di attaccare le navi nemiche che
navigavano fra Cipro, la Siria e l’Egitto. Dopo 9 giorni di missione,
il 25 giugno ci fu ordinato di rientrare per dirigerci verso l’Oceano
Atlantico. Il nostro sommergibile infatti era oceanico ed era uno dei più
grandi: avevamo a bordo un cannone, un mitragliere e ben 16 siluri .
Verso l’imbrunire,
fra Cipro e Candia fummo avvistati da 5 cacciatorpediniere inglesi. Io mi
trovavo a prua, quando sentii la sirena di allarme. Scendemmo con una
immersione rapida a 100 metri ma subimmo la carica di dieci bombe di
profondità. Allora continuammo a scendere a 120 metri di profondità e arrivò
un’altra carica di dieci bombe: 180 chili di tritolo ciascuna. Era il
finimondo. Proseguimmo nella discesa sino a 150 metri, ma arrivarono altre
bombe: ne contammo in totale 60. Il sommergibile era ormai ingovernabile, tutti
gli strumenti di bordo erano distrutti così come avevamo perso tutta
l’attrezzatura. Il nostro comandante, il capitano di corvetta Lorenzo Bezzi,
quando eravamo già a 190 metri di profondità, decise di emergere. La situazione
era assai critica: immersi nel buio più totale, con gli strumenti in disuso e
gli equipaggiamenti rovesciati; una cosa spaventosa.
Il comandante con
l’ingegnere navale diedero a quel punto l’ordine di emergere e poiché non
eravamo più in grado di difenderci, una volta emersi, ci ordinò di uscire dal
sommergibile attraverso la torretta perché il sommergibile stava ormai per
affondare. Noi che eravamo a prua uscimmo per ultimi. Allora il comandante ci
ordinò di buttarci tutti in mare perché nessuno voleva abbandonare il sommergibile;
con il suo ordine “buttatevi tutti quanti in mare” fummo costretti
ad obbedire e a tuffarci in acqua. Subito alcuni caccia ci bombardarono
con un paio di cannonate: una colpì proprio la prua. Il comandante, quando vide
che eravamo tutti in mare, ritornò all’interno del sommergibile e vi si
rinchiuse andando a fondo assieme ad esso. Oggi è stato decorato con la
medaglia d’oro al valor militare e la Scuola Sottufficiali di Taranto, che è la
più prestigiosa d'Italia, porta in suo onore il suo nome: Lorenzo Bezzi.
Quelli che
erano vicino ai caccia furono presi a bordo e immediatamente
catturati; noi invece, che eravamo in una zona più lontana, non fummo avvistati
subito ed io rimasi in acqua per quasi 5 ore. Ormai era notte: un mare
tempestoso mi mandava su e giù e non facevo altro che pregare Dio e la Madonna.
Sentivo che le forze mi abbandonavano, oramai ero stremato e non ce la
facevo più: quando già pensavo che sarei morto, vidi una grande ombra
avvicinarsi; mi sembrò una montagna e persi conoscenza.
Era invece un caccia
che mi soccorse e mi prese a bordo: ripresi i sensi mentre mi rianimavano; il
medico mi fece delle iniezioni e mi accorsi che ci eravamo salvati
soltanto in tre. Ricordo ancora le parole del mio compagno che mi disse:
”Coraggio De Montis, siamo salvi.”
Ci sbarcarono ad
Alessandria d’Egitto e da lì ci portarono ad Ismailia nei pressi di Suez
come prigionieri di guerra; dopo quattro mesi ci portarono in India, ad un
centinaio di chilometri da Bombay, dove ho trascorso ben 5 anni di prigionia: 5
anni di reticolato sono molto duri! Era una vitaccia… sembrava che questi anni
non dovessero finire mai.
Durante la prigionia
in India chiedevo sempre di un amico che era stato imbarcato sul Tigre e all’epoca si trovava in Etiopia.
Si chiamava Novario Mura e venni a sapere che era stato catturato anche lui e
che si trovava proprio nel campo di prigionia situato di fronte al mio, ad una
distanza di circa sessanta metri. Corsi subito a cercarlo e lo trovai, ma con
mia grande meraviglia non mi riconobbe subito: dovetti ricordargli chi ero, ma
lui restava quasi indifferente e mi disse che non poteva credere a ciò che
dicevo, perché aveva saputo dai giornali ed anche dalla famiglia che ero morto
nell’affondamento del sommergibile. Ci volle un po’ per convincerlo che ero
proprio io, il suo grande amico di sempre e che fortunatamente ero
sopravvissuto.
Novario allora mi
raccontò della grande pena dei miei familiari e della Messa in suffragio che
fecero celebrare il 12 agosto del 1940, durante la quale, secondo l’usanza,
consegnarono a tutti i presenti il ricordino funebre con la mia fotografia.
Quando tornai a casa, dopo aver comunicato per lettera che ero ancora in vita,
nessuno mi disse che mi avevano creduto morto in combattimento, ma io trovai –
conservato in un cassetto – il ricordino che era stato consegnato durante la
Messa in suffragio e che riportava queste parole: “Gesuino Demontis, caduto in
un’azione di guerra nel mare di Roma. Presente nei nostri cuori che non
piangono ma orgogliosi di aver offerto in olocausto alla Patria, perché essa
sia sempre più grande, quanto di più caro avevamo. Genitori, fratelli, sorelle
rendono con le funerali espiazioni il supremo tributo di religione e
d’amore”. Ringrazio Dio per essermi salvato: nove furono i morti del
mio equipaggio ed io sono oggi l’unico superstite ancora in vita e, a 92
anni, posso dire che godo ancora di buona salute."
venerdì 25 aprile 2014
F 94 Ursus
Una foto dell’Ursus (g.c. Sergio Bomben, via www.naviearmatori.net) |
Piroscafo rimorchiatore da 407,17 tonnellate, lungo
43,1 metri e largo 8,29. Appartenente alla Società Anonima Rimorchiatori
Riuniti Panfido & C. (con sede a Venezia), matricola 242 al Compartimento
marittimo di Venezia.
Breve
e parziale cronologia.
1917
Impostato negli Ateliers et Chantiers de la Loire di
Nantes per la Marina francese come rimorchiatore-pattugliatore della classe
Pluvier.
1917
Varato negli Ateliers & Chantiers de la Loire di
Nantes come Vanneau II.
Marzo
1918
Entrata in servizio per la Marine Nationale come
rimorchiatore-pattugliatore Vanneau II.
(Per altra fonte l’entrata in servizio risale al 1917). Dislocamento 677
tonnellate, lunghezza 43,4 metri per 8,7 di larghezza e 4,2 di pescaggio,
velocità dieci nodi.
5
novembre 1920
Radiato dalla Marine Nationale e consegnato a
Casablanca al governo del Marocco.
1932
Acquistato dalla società Rimorchiatori Riuniti
Panfido & C. di Venezia e ribattezzato dapprima Dux e poi Ursus.
1°
agosto 1935
Lascia Trieste rimorchiando il nuovo pontone della
Regia Marina G.A. 217, appena
completato dai cantieri San Marco, da portare a Massaua.
6
settembre 1935
Arriva a Massaua con il G.A. 217.
1937-1938
Viene inviato a Massaua, in Eritrea, per partecipare
al recupero del piroscafo passeggeri Cesare
Battisti, affondato in quel porto a seguito di un’esplosione in sala
macchine (forse per sabotaggio) il 24 dicembre 1936, con 30 vittime su 890
persone a bordo. L’Ursus (o meglio il
suo equipaggio, impiegando le attrezzature in dotazione del rimorchiatore)
partecipa alle operazioni per il prosciugamento dello scafo ed alla rimessa in
galleggiamento della nave (effettuate dalla ditta modenese Adolfo Orsi), che
viene poi dall’Ursus stesso rimorchiata
per 7000 km attraverso il Mar Rosso, il canale di Suez ed il Mediterraneo fino
a Pola, dove verrà demolita nel cantiere Scoglio Olivi. In Mediterraneo una
burrasca crea non pochi problemi al Battisti,
che, sprovvisto di macchine e timoni, è in balia del mare, ma anche
quest’ultimo ostacolo viene superato. Il travagliato viaggio si conclude a Pola
alle ore otto del 27 luglio 1938.
Una serie di fotografie dell’Ursus durante il recupero ed il
rimorchio del Cesare Battisti (g.c.
Danilo Pellegrini via www.betasom.it):
24
maggio 1940
Requisito dalla Regia Marina a Venezia.
1°
giugno 1940
Iscritto con sigla F 94 nel ruolo del naviglio ausiliario (dalle ore 00.00 del 1°
giugno) dello Stato ed armato con un cannone da 76/40 mm, che viene collocato
in coperta a prua. Impiegato come nave scorta ausiliaria nel pilotaggio foraneo.
Un
rimorchiatore contro un sommergibile
Il mattino del 30 gennaio 1941 l’Ursus, agli ordini del comandante Ettore De Nueccia, lasciò Zara
rimorchiando il pontone armato GM 239,
che avrebbe dovuto portare a Brindisi (da dove, secondo una versione, il
pontone sarebbe dovuto essere trasferito in Albania, per la difesa del Canale
d’Otranto). La navigazione procedette inizialmente senza problemi (il mattino
del 31 il piccolo convoglio costeggiò Lissa e diresse poi verso sud, verso
Lagosta) ma alle 13.30 del 31 gennaio, subito dopo aver superato Lissa, venne
avvistato un sommergibile emerso ad un paio di miglia di distanza, tra le isole
di Lissa, Cazza e Curzola: era il britannico Rorqual, al comando del capitano di corvetta Ronald Hugh Dewhurst.
Questi, dopo aver avvistato le due navi e valutato la situazione (sarebbe, cioè,
stato pressoché impossibile silurare il pontone armato, dallo scafo con
ridottissimo pescaggio), era emerso a 460 metri di distanza ed aveva dato
ordine di aprire il fuoco contro il rimorchiatore con il cannone (facendo
affidamento sul fatto che il mare mosso avrebbe impedito al pontone di
brandeggiare le proprie artiglierie).
Il Rorqual
attaccò immediatamente l’Ursus con il
cannone, ed in risposta il rimorchiatore, dopo essersi liberato dei cavi di
rimorchio del GM 239 (come ordinato
dal comandante De Nueccia subito dopo l’avvistamento), aprì a sua volta il
fuoco con il suo solo e vecchio cannone e diresse incontro al sommergibile
(forse volendo speronarlo). Il preciso tiro del Rorqual, però, sortì in breve il suo effetto: colpito fin dalla
prima salve alle macchine ed in altri punti, l’Ursus venne immobilizzato ed incendiato; i suoi artiglieri
continuarono comunque a rispondere al fuoco anche se la nave era in fiamme.
(La versione del Rorqual
presenta alcune differenze; secondo tale versione, il primo proiettile sparato
dal sommergibile incendiò l’Ursus
prima che questi potesse reagire, dopo di che il Rorqual spostò subito il suo tiro sul pontone, incendiandolo a
centro nave. Un’altra versione differisce leggermente, affermando che il primo
colpo del Rorqual centrò la plancia
del rimorchiatore. I ogni caso, gli uomini dell’Ursus, nonostante l’incendio a bordo della propria nave, armarono il loro
cannone ed aprirono il fuoco contro il sommergibile, costringendolo con il loro
intenso tiro ad interrompere il tiro contro il GM 239 per rivolgerlo nuovamente contro il rimorchiatore. Questa
volta il Rorqual non cessò di sparare
finché Dewhurst non ebbe la certezza di aver definitivamente posto fuori uso l’Ursus, ridotto ad un relitto in fiamme a
prua ed a poppa, e finché i pochi superstiti dell’equipaggio del rimorchiatore
non ebbero abbandonato la nave).
Ben dodici dei diciotto uomini del suo equipaggio
erano rimasti uccisi nei 45 minuti di cruento combattimento. Il rimorchiatore
trasportava anche parte delle munizioni del GM
239, e le alte fiamme sviluppatasi rischiavano di raggiungerle e provocarne
l’esplosione (per altra versione, anzi, le munizioni avevano già cominciato a
scoppiare): De Nueccia dovette perciò ordinare di abbandonare la nave. I sei
superstiti – il comandante De Nueccia ed altri cinque uomini, tra cui un
marinaio ferito gravemente – s’imbarcarono così su di una lancia.
Il relitto dell’Ursus
fu abbandonato alla deriva: in balia del vento, scomparve presto alla vista,
inabissandosi nella notte (il Rorqual
lo vide per l’ultima volta mentre stava affondando). L’ultima posizione nota
della nave risulta essere stata 42°50’ N e 16°30’ E (cioè il luogo
dell’attacco).
Il Rorqual,
non appena ebbe posto fuori uso il rimorchiatore, diresse il tiro contro il GM 239, che frattanto aveva a sua volta
aperto il fuoco con il suo poderoso armamento (era armato con due pezzi da 149
mm, alcuni da 76 mm antiaerei e due mitragliere da 8 mm). Dopo uno scambio di
colpi (il sommergibile sparò una dozzina di salve, ritenendo erroneamente di
aver danneggiato gravemente ed incendiato il GM 239), gli artiglieri italiani aggiustarono il tiro, perciò il
sommergibile britannico dovette immergersi per non essere colpito. Una volta
immersosi, il Rorqual lanciò un
siluro regolato per passare appena sotto la superficie, alla quota minima, in
modo da colpire il pontone, ma il siluro ebbe un guasto al giroscopio e tornò
indietro: il sommergibile dovette immergersi in profondità per evitare di
essere colpito dalla sua stessa arma.
(Alcune fonti parlano anche dell’arrivo di un
idrovolante jugoslavo, che sarebbe stato scambiato per italiano dal Rorqual, il quale per questo si sarebbe
allontanato dopo l’infruttuoso attacco con il siluro.)
A questo punto il comandante del GM 239, capitano di corvetta G. Giuli, diede ordine di recuperare i
sei sopravvissuti dell’Ursus. Dopo
aver tratto in salvo i naufraghi, si dovette constatare che la situazione era
seria: i danni subiti dal GM 239 non
erano gravi (solo qualche danno da schegge), ma il mare stava iniziando ad
ingrossare, ed il pontone era sprovvisto di apparato motore, dunque
impossibilitato sia a muoversi che a manovrare.
Il pontone rimase in balia delle raffiche di vento, e
fu investito da diverse grosse onde da nord-est; al tramonto il GM 239 venne raggiunto da un
rimorchiatore jugoslavo, il quale però, una volta sceso il buio, fu costretto a
tornare a Lagosta a causa della tempesta sempre peggiore.
Nella notte 15 uomini (l’equipaggio del pontone ne
contava 49 in tutto), presi dal panico, temendo che il GM 239 stesse per capovolgersi ed affondare (si era infatti
traversato ed aveva iniziato ad imbarcare acqua), lo abbandonarono su due lance.
Una fu ritrovata l’indomani pomeriggio sulla costa dell’isola di Milna, con a
bordo solo otto salme; altri tre corpi vennero trovati dai pescatori (due a
Milna ed uno presso Curzola), mentre solo quattro uomini furono trovati ancora
in vita.
Il GM 239
non affondò, ed il vento lo trascinò fino alla costa meridionale di Lesina,
dove si venne a trovare all’alba. Essendo il fondale abbastanza basso, il
pontone si poté ancorare, poi furono lanciati dei razzi rossi per chiedere
aiuto. Le segnalazioni furono viste da terra, e venne inviato il piroscafo Drava, che poté rimorchiare il GM 239 a Lesina. Qui furono sepolte le
vittime (cui si aggiunse il comandante in seconda del GM 239, deceduto in ospedale il pomeriggio del 1° febbraio per le
ferite riportate nello scontro contro il Rorqual),
mentre il ferito grave dell’Ursus fu
trasferito all’ospedale di Zara subito dopo l’arrivo a Lesina. Il pontone poté
essere rimorchiato in Italia da un’unità italiana dopo qualche giorno.
L’azione contro l’Ursus
ed il GM 239 valse al comandante
Dewhurst del Rorqual il conferimento
del Distinguished Service Order, a due suoi ufficiali la Distinguished Service
Cross, a quattro marinai la Distinguished Service Medal ed ad altri cinque
uomini la menzione nei dispacci.
Da parte italiana, il “Corriere della Sera” dell’8
febbraio 1941 celebrò la valorosa azione dell’Ursus e del pontone, sostenendo però – per motivi propagandistici –
che la reazione italiana avesse affondato il sommergibile attaccante.
L’Ursus
in navigazione (Reale Fotografia Giacomelli, Archivio Storico del Comune di
Venezia, via Piergiorgio Farisato e www.naviearmatori.net)
|
Il relitto dell’Ursus
giace in posizione 43°04’ N e 16°16’ E, a sudest di Lissa, su fondali di sabbia
e roccia a profondità compresa tra i 45 ed i 64 metri, sbandato di circa 30
gradi sulla dritta, con la prua rivolta verso il mare aperto. Il relitto giace
a soli 400 metri dalla riva, al largo del faro di Stoncica; è integro ed in
buone condizioni, con ancora riconoscibili i segni dei colpi subiti; il cannone
da 76 mm e gli argani e cavi di rimorchio sono ancora al loro posto, il
fumaiolo si è afflosciato sul ponte. Sulla poppa si possono ancora leggere le
lettere iniziali “URS” del nome.
Si ringrazia Pietro Faggioli.
mercoledì 23 aprile 2014
Sanandrea
La nave quando portava il nome di Hyrcania (g.c. Mauro Millefiorini) |
Piroscafo cisterna da
5077,45 tsl, 3107 tsn e 7570 tpl, lungo 121,92 metri e largo 15,45, pescaggio 9,27 m, velocità
11-12 nodi. Nominativo di chiamata internazionale IBYP, matricola 1690 al
Compartimento Marittimo di Genova. Appartenente alla Società Anonima di
Navigazione Polena, con sede a Genova.
Breve e parziale cronologia.
14 agosto 1908
Varata nei cantieri
W. G. Armstrong Whitworth & Co. Ltd. di Newcastle-upon-Tyne come Hyrcania (numero di cantiere 807), per
la Caspian Oil Company Limited, di Londra.
Ottobre 1908
Completata e
consegnata alla Caspian Oil Company Limited, di Londra.
1924
Essendo la Caspian
Oil Company Ltd. in liquidazione, l’Hyrcania
viene trasferita alla Société Franco-Caspienne des Petroles SA.
14 maggio 1927
L’Hyrcania (al comando del capitano Jules
Momomble) è teatro, a Los Angeles, di un episodio di ammutinamento. Nove
marinai si rifiutano di partire per Yokohama, asserendo di essere stati
ingaggiati per un viaggio dalla Francia a Los Angeles e ritorno, e di essere
invece stati costretti a tre viaggi da Los Angeles all’Estremo Oriente, durante
i quali sono stati malnutriti. Gli uomini minacciano di gettarsi in mare se la
nave (ormeggiata nel porto esterno di Los Angeles) partirà; ne segue una lite
nella quale uno degli “ammutinati” viene gravemente ferito, mentre gli altri
otto vengono incarcerati a Los Angeles.
Per tentare di
ricomporre il dissidio tra marinai ed ufficiali interviene anche il console
francese.
1930
Acquistata dalla
compagnia Scopinich & Monta di Genova.
1932
Ribattezzata Sanandrea.
1934
Passata alla Monta
& Angeloni.
1937
Acquistata dalla
Polena Società di Navigazione, con sede a Genova.
9 dicembre 1940
Requisita dalla Regia
Marina, senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
9 febbraio 1941
La Sanandrea si trova in navigazione al
largo di Pegli, diretta a Savona, quando Genova viene attaccata e bombardata
dalla Forza H britannica (corazzate Renown
e Malaya, portaerei Ark Royal, incrociatore leggero Sheffield, 10 cacciatorpediniere) nell'ambito dell'Operazione "Grog". Verso
la fine del bombardamento (protrattosi dalle 8.14 alle 8.45) la pirocisterna,
mentre cerca di entrare nel porto di Genova, viene cannoneggiata dalle unità
britanniche, e, colpita da un proiettile a 152 mm, rimane immobilizzata ad otto
miglia da Pegli; tuttavia potrà essere rimorchiata in porto.
2 maggio 1941
Parte da Trapani alla
volta di Tripoli insieme ai piroscafi tedeschi Brook e Tilly M.
Russ, al piroscafo italiano Bainsizza ed
al rimorchiatore tedesco Max Barendt,
con la scorta delle torpediniere Polluce, Centauro, Clio e Generale
Carlo Montanari e dell’incrociatore ausiliario RAMB III. Alle 16.23 il
sommergibile britannico Upright (tenente
di vascello Russell Stanhope Brookes) avvista fumi su rilevamento 260°, in
posizione 33°59’ N e 12°01’ E, e dopo aver accostato per avvicinarsi avvista
alle 16.38 il convoglio di cui fa parte la Sanandrea, una cinquantina di miglia a sudest delle secche di
Kerkennah. Alle 16.52, tuttavia, a causa dell’inesperienza del comandante
Brooke, l’Upright si viene a
trovare, al momento stabilito per il lancio, a soli 275 metri da una delle
unità della scorta, così che deve rinunciare all’attacco ed immergersi in
profondità. Alle 17.28 il sommergibile torna a quota periscopica e, avendo
visto che uno dei mercantili (quello di coda della colonna di sinistra) è
rimasto un po’ indietro rispetto al resto del convoglio, gli lancia contro un
siluro alle 17.43, ma l’arma, lanciata da 5500 metri, manca il bersaglio.
20 maggio 1941
La Sanandrea lascia Tripoli alle 16 insieme
ai piroscafi Tembien, Wachtfels (tedesco), Ernesto ed Amsterdam ed alle motonavi Giulia
e Col di Lana per rientrare a
Napoli, con la scorta dei cacciatorpediniere Aviere (caposcorta), Grecale, Dardo e Camicia Nera e della torpediniera Enrico Cosenz. Vi è inoltre una scorta a distanza costituita dalla
VII Divisione Navale (incrociatori Duca
degli Abruzzi e Garibaldi,
cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere ed Alpino).
23 maggio 1941
Il convoglio giunge a
Napoli alle 23.
16 giugno 1941
Effettua un viaggio
da Taranto a Corinto insieme ai piroscafi Berbera e Superga, con la scorta
degli incrociatori ausiliari Città di Napoli ed Egitto.
4 luglio 1941
Derequisita dalla
Regia Marina.
24 agosto 1941
Mentre la Sanandrea si trova ormeggiata a
Salonicco, si verifica a bordo un’esplosione, causata da un corto circuito
nell’intercapedine prodiera. L’esplosione sfonda alcune paratie e rende inutilizzabile
la prima cisterna di prua, anche se non mette a rischio la galleggiabilità
della nave. Ci sono due feriti tra l’equipaggio: l’ufficiale Andrea Deveris ed
il nocchiere Alfonso Raffaelli, quest’ultimo in modo grave.Alfonso Raffaelli, da Viareggio, nostromo della Sanandrea, morirà il 9 settembre per le ferite riportate.
4 ottobre 1941
Arriva al Pireo a
mezzogiorno. Successivamente prosegue per Salonicco, dove viene nuovamente requisita
dalla Regia Marina lo stesso 4 ottobre, alle ore 12.00, senza essere iscritta
nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
12 novembre 1941
Lascia Saonicco alle
14, in convoglio con i piroscafi Artemis
Pitta, Pasubio e Pier Luigi e con la scorta delle
torpediniere Alcione e Castelfidardo.
15 novembre 1941
Arriva al Pireo alle
17. Successivamente raggiunge Kalkis insieme al resto del convoglio.
23 novembre 1941
Lascia il Pireo alle
8.25.
24 novembre 1941
Arriva a Patrasso
alle 15.
25 novembre 1941
Riparte da Patrasso
alle 11, con la scorta dell’incrociatore ausiliario Arborea.
26 novembre 1941
Giunge a Corfù alle
17.15.
27 novembre 1941
Lascia Corfù alle
6.50 ed arriva a Valona alle 14.30, di nuovo scortata dall’Arborea.
28 novembre 1941
Riparte da Valona
alle 7 diretta a Durazzo, dove giunge alle 16.30, sempre scortata dall’Arborea.
4 dicembre 1941
Lascia Durazzo alle 7
diretta a Cattaro; alle 18.30 entra a Teodo.
21 dicembre 1941
Lascia Teodo a
mezzogiorno diretto a Ragusa/Dubrovnik, dove arriva sei ore dopo.
22 dicembre 1941
Riparte da Ragusa
alla volta di Spalato, alle otto del mattino.
24 dicembre 1941
Giunge a Sebenico
alle 15.50.
25 dicembre 1941
Riparte da Sebenico
alle 9 per raggiungere Trieste; alle 17 arriva a Zara, dove sosta.
26 dicembre 1941
Lascia Zara alle 7.20
ed arriva a Lussino alle 15.
27 dicembre 1941
Lascia Lussino alle
12.45.
29 dicembre 1941
Dopo aver fatto scalo
a Pola, arriva a Trieste alle 8.15. Successivamente ritorna a Pola.
31 dicembre 1941
Lascia Pola alle 8.30
per tornare a Trieste, dove arriva alle 16.
5 gennaio 1942
5 gennaio 1942
Lascia Trieste alle
11.20, diretta a Venezia, dove giunge alle 17.30.
17 gennaio 1942
Derequisita dalla
Regia Marina.
18 gennaio 1942
Lascia Venezia alle
15.30.
19 gennaio 1942
19 gennaio 1942
Arriva ad Ancona alle
9.45.
26 aprile 1942
Nuovamente requisita
dalla Regia Marina (ad Ancona, alle ore 08.00) per la terza ed ultima volta:
non sarà mai più requisita, se non, formalmente, dopo la perdita. Non iscritta
nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
Lascia Ancona alle
19, diretta a Venezia.
27 aprile 1942
Giunge a Venezia alle
13.20.
3 giugno 1942
Lascia Venezia alle
5.50.
4 giugno 1942
Arriva a Bari alle
18.50, ripartendo dopo dieci minuti alla volta di Taranto.
5 giugno 1942
Arriva a Taranto alle
14.15.
7 giugno 1942
Lascia Taranto alle
21.30.
9 giugno 1942
Arriva a Patrasso
all’1.10.
10 giugno 1942
Lascia Patrasso alle
5 e raggiunge Corinto, da dove poi prosegue alle 14.20 per il Pireo, ove giunge
alle 17.40.
17 giugno 1942
Salpa dal Pireo alle
11.55.
18 giugno 1942
Arriva a Candia alle
9.37.
20 giugno 1942
Lascia Candia alle
12.20.
21 giugno 1942
Giunge al Pireo alle
8.30.
23 giugno 1942
Riparte dal Pireo
alle 16.20, ma rientra al Pireo dopo un’ora.
6 luglio 1942
Lascia nuovamente il
Pireo alle 5.35 e giunge a Corinto alle otto.
7 luglio 1942
Lascia Corinto alle
5.15 e giunge a Patrasso alle 12.30.
8 luglio 1942
Salpa da Corinto alle
19 e fa scalo a Patrasso, proseguendo poi per Prevesa insieme al piroscafo Tagliamento, con la scorta
dell’incrociatore ausiliario Arborea.
9 luglio 1942
Arriva a Prevesa alle
6.30, ripartendone per Brindisi alle 14.
10 luglio 1942
Giunge a Brindisi
alle 11.20, insieme al Tagliamento e
con la scorta dell’Arborea.
11 luglio 1942
Riparte da Brindisi
alle 4.45, giungendo a Taranto alle 20.28.
16 luglio 1942
Lascia Taranto alle 21 e raggiunge Patrasso e poi Istmia (?).
Lascia Taranto alle 21 e raggiunge Patrasso e poi Istmia (?).
18 luglio 1942
Riparte alle 13.45.
19 luglio 1942
Arriva a Suda alle
9.30.
23 luglio 1942
Riparte da Suda alle
7 e raggiunge Iraklion.
26 luglio 1942
Lascia Iraklion alle
17 per raggiungere il Pireo.
27 luglio 1942
Arriva al Pireo alle
20.35.
28 luglio 1942
Riparte alle 14
diretta a Corinto, dove giunge alle 17.40.
29 luglio 1942
Lascia Corinto alle
6.05 diretta a Patrasso, dove arriva alle 13.35.
31 luglio 1942
Salpa da Patrasso alle
10, diretta a Taranto insieme ad un’altra pirocisterna, l’Alberto Fassio, e con la scorta della torpediniera Antares e dell’incrociatore ausiliario Barletta.
2 agosto 1942
Arriva a Taranto alle
2.30.
7 agosto 1942
Lascia Taranto alle
22, diretta a Patrasso.
9 agosto 1942
Arriva a Patrasso
alle 5.10 e ne riparte cinquanta minuti dopo, diretta al Pireo, dove giunge
alle 20.15.
11 agosto 1942
Riparte dal Pireo
alle 12.15, diretta a Suda.
13 agosto 1942
Dopo aver fatto scalo
ad Iraklion (Candia) per poi proseguire alle 13, arriva a Suda alle 20.30.
14 agosto 1942
Lascia Suda alle 18
per il viaggio di ritorno.
15 agosto 1942
Arriva al Pireo alle
13.46.
19 agosto 1942
Parte dal Pireo a
mezzogiorno (o 13.40). Giunge a Corinto alle 16.35.
20 agosto 1942
Lasciata Corinto alle
quattro del mattino, arriva a Patrasso alle 11.50 (o 12.50).
21 agosto 1942
Riparte da Patrasso
alle 19 (o 19.30), diretta a Corfù.
22 agosto 1942
Giunge a Corfù alle
11.30.
25 agosto 1942
Lascia Corfù alle 20.10
per rientrare a Taranto.
26 agosto 1942
Arriva a Taranto alle
15.30.
Piani costruttivi della Sanandrea (si ringrazia Fabrizio Colucci, che li ha reperiti presso l’U.S.M.M.) |
L’affondamento
Nel corso del 1942 la
Sanandrea, come molte altre navi
cisterna, venne impiegata soprattutto per trasportare carburante in Libia,
necessario alle forze italo-tedesche operanti in Nordafrica. Era un compito
particolarmente pericoloso: ben consci della vitale importanza del carburante
tra tutti i rifornimenti, infatti, i comandi britannici concentravano i loro
sforzi maggiori nell’attacco alle navi cisterna.
La Sanandrea lasciò Taranto per il suo
ultimo viaggio alle 5.45 (o 5.30) del 30 agosto 1942, diretta al Pireo e a Suda,
da dove poi sarebbe dovuta proseguire alla volta di Tobruk, sua destinazione
finale. Il carico, 3959 tonnellate di benzina per le forze italo-tedesche: il
feldmaresciallo Erwin Rommel, comandante dell’Afrika Korps, necessitava di
alcune migliaia di tonnellate di carburante per lanciare un’offensiva contro le
linee britanniche ad Alam Halfa, offensiva che sarebbe iniziata quel giorno
stesso (per altra fonte il carburante trasportato dalla Sanandrea sarebbe servito per la futura avanzata oltre il Nilo, se
l’offensiva avesse avuto successo). La scorta navale era assicurata dalla
torpediniera Antares (capitano di
corvetta Antonio Biondo), quella aerea da un idrovolante antisommergibile CANT
Z. 501 (che volava a proravia del convoglio, sulla dritta, in funzione
antisommergibili), da due bimotori Caproni CA. 314 (che avrebbero dovuto
difendere il convoglio da eventuali attacchi di aerosiluranti), da un
idrovolante antisommergibile Arado (tedesco), da due o tre bombardieri Junkers Ju
88 della Luftwaffe (impiegati però come caccia pesanti) e da tre (per altra
fonte otto) caccia italiani Macchi C. 200.
A bordo della Sanandrea si trovavano in tutto 55
uomini: 25 membri dell’equipaggio civile, 21 militari del Regio Esercito (un
ufficiale, un sottufficiale e 20 artiglieri) e 7 militari della Regia Marina. Il
personale della Regia Marina consisteva in un Regio Commissario (il capitano
del Genio Navale Direzione Macchine Alfredo Torrente), quattro cannonieri e due
segnalatori. I due segnalatori, mandati dall’Ufficio Comunicazioni Interno,
erano stati imbarcati a Taranto, traendoli dal gruppo segnalatori per i
piroscafi.
L’Antares e la Sanandrea, che la seguiva in linea di fila, superarono le
ostruzioni di Taranto alle 6.06 del 30 agosto, imboccando poi le rotte di
sicurezza orientali. Alle 8.10 il convoglietto era al traverso di Torre Ovo.
Le due navi seguivano
rotte costiere radenti la costa pugliese tra le secche di Torre San Giovanni di
Ugento e Capo Santa Maria di Leuca. La Sanandrea
procedeva alla velocità di nove nodi su rotta vera 100°, mentre l’Antares zigzagava a 12 nodi (l’angolo
dello zig zag era di circa 60° sulla direttrice di marcia) tenendosi mediamente
30° di prora a dritta della cisterna, sul lato esterno, ad una distanza di 1200
metri.
Il mare era piatto,
il sole picchiava alto nel cielo. Era una caldissima giornata d’agosto. I
pescatori di Torre Vado, nel tornare in porto, preferivano tenersi alla larga
dalla nave cisterna e dalla torpediniera di scorta.
I servizi britannici,
tuttavia, erano a conoscenza della prevista partenza della Sanandrea per la Libia: i messaggi relativi al viaggio, inviati con
la macchina cifrante C-38 M, erano stati intercettati e decifrati
dall’organizzazione britannica “ULTRA”, che aveva poi inviato ai comandi
britannici ben sei dispacci circa la Sanandrea,
uno dei quali, inviato alle 21.38 del 29 agosto, precisava rotta ed orari
previsti. Venne così ordinato un attacco di aerosiluranti, per impedire che la
cisterna, con il suo prezioso carico, potesse raggiungere la sua destinazione
(gli alleati stavano preparando l’Operazione Lightfoot, che avrebbe portato in
ottobre all’offensiva di El Alamein, ed intendevano pertanto infliggere le
maggiori perdite possibili ai flussi di rifornimento delle forze italo-tedesche
in Nordafrica, specie per quanto riguardava il carburante).
Lo stesso 30 agosto,
in mattinata, un ricognitore britannico raggiunse il convoglio, e completò il
lavoro di “ULTRA” appurando la precisa consistenza della scorta aerea e navale.
Poi, alle 11.45, decollarono da Malta nove aerosiluranti Bristol Beaufort del
39th Squadron al comando del maggiore (Squadron Leader) R. Patrick
Gibbs, scortati da nove caccia Bristol Beaufighter (cinque dei quali muniti di
bombe per attaccare a loro volta la nave) al comando di D. Ross Shore. Tre dei
Beaufighter ebbero però avarie ai motori, e furono costretti al rientro.
Patrick “Pat” Gibbs,
il comandante dei Beaufort, prima del decollo aveva studiato il rapporto del
ricognitore: dato che l’Antares
(identificata come un cacciatorpediniere) proteggeva il lato della Sanandrea rivolto verso il mare, gli
aerei avrebbero dovuto attaccare dal lato opposto, provenendo da terra. Gli
aerei avrebbero dovuto compiere un largo giro, sorvolando la terraferma a due
miglia di quota, per poi tornare verso il mare ed attaccare.
Alle 14.15, quando il
convoglio italiano era ad un miglio per 214° da Torre Vado (cinque miglia a
ponente di Leuca, e precisamente nel punto 39°48’ N e 18°14’ E), da bordo delle
navi vennero avvistati nella lieve foschia, verso sud, degli aerei sospetti. L’Antares li avvistò quando erano a circa
7-8 km di distanza, sulla dritta; volavano a bassa quota, piuttosto distanti
l’uno dall’altro, seguendo una rotta verso sudest, e la leggera foschia
sull’orizzonte rendeva difficile capire che tipo di aerei fossero. Nella
medesima direzione, ma a quota maggiore, erano visibili anche due aerei
tedeschi (identificati nel rapporto dell’Antares
come caccia “tipo Arado”) che seguivano la stessa rotta degli aerei sconosciuti:
la presenza degli aerei della Luftwaffe indusse il comandante dell’Antares a ritenere che i velivoli
avvistati per primi fossero nemici, intercettati ed inseguiti da quelli
tedeschi. Poco dopo, infatti, gli aerei sconosciuti vennero identificati come caccia
britannici Bristol Beaufighter, almeno dodici, che procedevano verso est
bassissimi sul mare. Venne dato l’allarme, ed i caccia italiani e tedeschi
(questi ultimi volavano a quota più alta degli aerei nemici, mentre i caccia
italiani volavano a quota ancora maggiore di quelli tedeschi) diressero contro
la formazione di Beaufighter per attaccarla.
Contemporaneamente,
alle 14.16, il piccolo convoglio venne attaccato da bombardieri nemici,
provenienti da sud. Sotto l’attacco dei caccia tedeschi, i Beaufighter si
aprirono a ventaglio; parte di essi si allontanarono, gli altri si avvicinarono
al convoglio.
A terra, i pescatori
ed i curiosi che da riva assistevano al passaggio del piccolo convoglio
interruppero le loro attività quotidiane e corsero precipitosamente verso il
paese, temendo di essere attaccati dagli aerei; qualcuno gridò “Curriti!
Curriti! Salvaviti!”, in pochi rimasero a guardare quanto accadeva in mare.
Gli aerei condussero
l’attacco individualmente, da una distanza di un migliaio di metri;
avvicinandosi alla Sanandrea,
salivano gradualmente di quota fino a circa 200 metri, lanciavano le bombe e
poi si allontanavano verso ovest.
Sulle prime l’Antares, dato che gli aerei britannici
si mescolavano a quelli italiani e tedeschi, non aprì il fuoco per non colpire
i velivoli amici (per altra versione, prima iniziò il tiro, ma poco dopo lo
sospese per non colpire i due idrovolanti della scorta); poi, quando le
distanze si furono di molto ridotte, la torpediniera dovette aprire ugualmente
il fuoco, dapprima con i cannoni da 100 mm dell’armamento principale, che
tuttavia, a causa della rapidità dell’avvicinamento degli aerei, cessarono
subito il fuoco e vennero rimpiazzati dalle mitragliere. Il tiro dell’Antares venne giudicato «a distanza
utile, preciso ed efficace» (ma con la precisazione che «si ritiene però che il
munizionamento sia troppo sensibile e di conseguenza poco efficace contro aerei
parzialmente protetti»), e da bordo della torpediniera si ritenne di aver
colpito quattro aerei che stavano attaccando la Sanandrea, dei quali il secondo ebbe un principio d’incendio a
bordo ed abbandonò l’attacco. Dovendo fare fuoco sugli aerei che stavano
attaccando la nave cisterna, l’Antares
non poté sparare contro quelli che stavano invece attaccando lei, e venne
mitragliata, subendo pochi danni ma 18 feriti tra l’equipaggio.
Anche la Sanandrea aprì il fuoco con le proprie
mitragliere da 20 mm contro gli aerei attaccanti, ma ormai era troppo tardi:
due dei Beaufighter, provenendo da direzioni diverse, ne mitragliarono il ponte
con tiro molto preciso, poi altri tre sganciarono ognuno due bombe da 250
libbre, che tuttavia finirono in mare. Un quarto Beaufighter, pilotato dal
tenente Dallas W. Schmidt, mise invece a segno le sue due bombe da 250 libbre
sulla petroliera italiana.
Nel frattempo i
Macchi C. 200 e gli Ju 88 avevano attaccato i Beaufort, perciò i Beaufighter
interruppero l’attacco e tornarono indietro per difendere gli aerosiluranti;
nella conseguente battaglia aerea vennero danneggiati un Beaufort e tre
Beaufighter, ma altri quattro Beaufort riuscirono a portarsi all’attacco ed a
lanciare i loro siluri.
Da bordo dell’Antares, vennero distinti quattro aerei
che attaccarono la Sanandrea: il
primo sganciò le bombe a poppa dritta della petroliera, e venne colpito, prima
di sganciare le bombe, dal tiro della torpediniera. Il secondo, probabilmente
già danneggiato dalla caccia aerea mentre si avvicinava al suo bersaglio, venne
colpito ancora dal tiro delle armi di bordo, prese fuoco e, prima di compiere il
lancio, scivolò d’ala a circa trenta metri dalla superficie del mare, ma poi si
riprese e si allontanò verso ovest, in fiamme. Il successivo avvistamento di
una colonna di fumo bianco verso ovest indusse a ritenere che questo aereo
fosse successivamente precipitato in mare, fuori vista rispetto all’Antares. Il terzo ed il quarto
attaccarono più o meno contemporaneamente, colpendo ed incendiando la Sanandrea; l’Antares ritenne di aver colpito anche questi due aerei. Oltre a
sganciare le bombe, tutti gli aerei che attaccarono la Sanandrea la mitragliarono al contempo.
Da fonti britanniche,
risulta che ad ottenere il centro decisivo fu uno dei quattro Beaufort che
riuscirono a lanciare i propri siluri, e precisamente quello pilotato dal
maggiore Gibbs. Sebbene già danneggiato, l’aereo di Gibbs scese basso sul mare,
si avvicinò al suo bersaglio sino a riuscire addirittura a leggere il suo nome
ed a quel punto, da 460 metri, sganciò l’arma, per poi riprendere quota
mancando per un soffio l’albero della cisterna. Dopo una brevissima corsa il
siluro colpì la Sanandrea e la
cisterna esplose in una palla di fuoco e di fumo, proiettando rottami in aria e
venendo immediatamente avvolta dalle fiamme scatenate dall’incendio di quasi
quattromila tonnellate di carburante.
Erano le 14.19. La Sanandrea si trovava in quel momento a 5
miglia per 270° da Capo Santa Maria di Leuca.
Durante la fase
finale dell’attacco, due aerei attaccarono e mitragliarono anche l’Antares, che ebbe diversi feriti tra
l’equipaggio, dopo di che uno di essi mitragliò anche il CANT Z. 501, il quale
rispose al fuoco e cercò vanamente di inseguirlo. Concluso l’attacco, alle
14.20, i velivoli nemici si allontanarono inseguiti dai tre Macchi 200; anche
l’Antares tirò qualche altra
cannonata nella loro direzione.
L’Antares comunicò l’accaduto a Marina
Taranto, e richiese l’invio sul posto di un aereo di soccorso, avendo alcuni
feriti gravi tra l’equipaggio. Nel corso dell’attacco la torpediniera aveva
sparato in tutto tre colpi di cannone da 100 mm (uno per ciascun cannone) e 525
proiettili di mitragliera da 20 mm.
Sebbene incendiata, la
Sanandrea non si fermò dopo il
siluramento: le sue macchine rimasero in moto e, col timone alla banda a
sinistra, la petroliera senza più controllo girò in tondo per tre ore, continuando
a perdere carburante che s’incendiava poi sulla superficie del mare. Purtroppo,
molti naufraghi non riuscirono a uscire dalla zona in cui si era scatenato
l’incendio, e la presenza della nave in fiamme che continuava a girare e
perdere benzina ostacolò i tentativi di soccorso.
Alle 14.25 l’Antares cercò di avvicinarsi alla Sanandrea, per quanto lo permettesse il
rischio rappresentato dalle continue esplosioni di barili di benzina e
munizioni delle mitragliere che si verificavano a bordo della cisterna in
fiamme. Alle 14.40 la torpediniera mise a mare una lancia e la mandò verso la
pirocisterna, con il compito di salvare i naufraghi; alle 14.47 giunse sul
posto il dragamine ausiliario (peschereccio requisito) R 54 Luigi II,
proveniente da Gallipoli, il cui comandante aveva visto a distanza l’incendio
della Sanandrea ed aveva preso
l’iniziativa di dirigersi sul posto per partecipare ai soccorsi, mettendosi a
disposizione del comandante dell’Antares.
Questi gli ordinò di avvicinarsi alla Sanandrea,
trasbordare i naufraghi recuperati dalla lancia e portarli sulla torpediniera.
Così fu fatto: l’R 54 prelevò dalla
lancia i naufraghi recuperati fino a quel momento – soltanto quattro, tutti
feriti – e li trasbordò sull’Antares
alle 15.25. Tornò poi verso la Sanandrea
e prese a bordo altri due naufraghi feriti ed un terzo già morto, che vennero
trasferiti sull’Antares alle 16.04.
Questi sei uomini,
che la lancia dell’Antares era
faticosamente riuscita a salvare lottando contro l’incendio che ardeva sul mare,
erano gli unici sopravvissuti dell’intero equipaggio della Sanandrea. Erano quasi tutti ustionati, e due di essi morirono a
bordo dell’Antares prima di arrivare
in porto.
Alle 16.23 arrivò sul
posto il rimorchiatore Talamone, che
stava rimorchiando una semovente verso Gallipoli quando aveva avvistato la
petroliera in fiamme, e si era a sua volta diretto sul posto per essere di
aiuto, dopo aver mollato il rimorchio della semovente ed averle impartito gli
ordini necessari per proseguire la navigazione. L’Antares gli ordinò di avvicinarsi alla nave cisterna per cercare
altri naufraghi: cosa che fu fatta, ma senza riuscire a trovare alcun altro
sopravvissuto. Alle 16.34 arrivò sul posto l’idrovolante di soccorso richiesto
dall’Antares due ore prima; sorvolò
la Sanandrea e la zona di mare
tutt’attorno ad essa, poi si allontanò verso ovest, senza sorvolare l’Antares e senza vedere così il suo
segnale di ammarare nei pressi, fatto con il telesegnalatore.
Alle 17.15 le
macchine della Sanandrea, finalmente,
si fermarono, ma ormai non c’era molto da fare. Un minuto più tardi, l’idrovolante
CANT Z. 506 n. 171/2, che a differenza dell’aereo di soccorso aveva visto il
segnale, ammarò sottocosta (dove l’acqua era abbastanza calma da permettere
tale manovra), sulla dritta dell’Antares,
e si avvicinò alla torpediniera, che a sua volta diresse verso la costa per
agevolare la manovra. L’Antares trasferì
quindi sull’aereo i feriti più gravi: un sottufficiale della torpediniera ed un
naufrago della Sanandrea, il primo
macchinista Antonio Zuccaroni.
Da Taranto (per altra
fonte, Gallipoli) vennero inviati sul posto il rimorchiatore Tenace ed il piroscafetto F 89 Istria
I, una navicella costiera requisita come vedetta foranea, pilotina e nave
scorta ausiliaria. Arrivò per primo sul posto l’Istria I, cui l’Antares
ordinò di aspettare che l’incendio della Sanandrea
si fosse estinto per poi cercare di prendere a rimorchio la pirocisterna
insieme al Tenace, che si stava
anch’esso dirigendo verso il luogo dell’attacco. Alle 17.36 la torpediniera
ordinò invece all’altro rimorchiatore, il Talamone,
di tornare verso la semovente che stava prima rimorchiando – e che aveva
lasciato per accorrere sul posto – e di riprendere la navigazione.
Anche gli abitanti
del luogo, affollatisi sulla costa da dove avevano assistito all’attacco,
tentarono di portare soccorso: da Torre Vado mollarono gli ormeggi alcune
barche da pesca, per recuperare i sopravvissuti. Purtroppo non ne trovarono
nessuno.
Alle 17.52 il CANT Z.
506, avendo imbarcato Zuccaroni ed il ferito dell’Antares, decollò e si allontanò; otto minuti dopo riapparve l’aereo
di soccorso, che tornò a sorvolare la zona e poi si allontanò verso est.
Alle 18.08 la
stazione semaforica di Santa Maria di Leuca segnalò all’Antares che Marina Taranto ordinava di rientrare. Alle 18.40 la Sanandrea era quasi completamente
sommersa: sembrava spezzata in due a centro nave, e affioravano dal mare
soltanto le sovrastrutture prodiere e poppiere, che continuavano a bruciare. Il
mare, in quel punto, era profondo soltanto 26 metri.
Essendo ormai
evidente che non sarebbe più stato possibile tentare un rimorchio, l’Antares ordinò all’Istria I di rientrare a Gallipoli. Alle 18.55 l’Antares lasciò finalmente il posto
facendo rotta per Taranto, ed alle 19.20 s’imbatté nel Tenace, cui ordinò di raggiungere Gallipoli, dove gli sarebbero
state comunicate per semaforo ulteriori istruzioni da Marina Taranto. Alle
23.20 l’Antares si ormeggiò alla
banchina torpediniere di Taranto, ed alle 23.45 sbarcò i feriti e le salme dei
tre naufraghi della Sanandrea
deceduti dopo il recupero.
Il relitto
semisommerso della Sanandrea continuò
a bruciare per tutto il giorno e la notte seguenti, fino a che non affondò
completamente nelle prime ore del 31 agosto, in posizione 39°49’ N e 18°15’ E, a
un miglio per 214° da Torre Vado.
Due foto dell’enorme incendio della Sanandrea, dal mare e dal cielo (g.c. Stefano Ruia). Nella seconda si nota la grande chiazza di carburante che galleggia sul mare.
Dei 55 uomini che
componevano l’equipaggio della Sanandrea,
sopravvissero soltanto tre membri dell’equipaggio civile ed un
artigliere dell’Esercito. I tre sopravvissuti dell’equipaggio civile erano il
primo macchinista Antonio Zuccaroni, il fuochista Giuseppe Mattaliano ed il marittimo Raffaele Paolillo. Mattaliano era rimasto seriamente ustionato, mentre Zuccaroni e
Paolillo riportarono ferite (alla testa il primo, ad un piede il secondo)
giudicate guaribili in una decina di giorni. Zuccaroni venne ricoverato presso
l’ospedale di San Giorgio Ionico, Paolillo e Mattaliano all’ospedale Rondinella
di Taranto.
Neanche Giuseppe Mattaliano, che aveva 35 anni, riuscì alla fine a sopravvivere alle gravi ustioni riportate: si spense nell'ospedale di Taranto il 22 settembre 1942, a più di tre settimane dall'affondamento della Sanandrea, riducendo così il numero dei superstiti a tre. Riposa oggi nel Sacrario dei Caduti Oltremare di Bari.
Neanche Giuseppe Mattaliano, che aveva 35 anni, riuscì alla fine a sopravvivere alle gravi ustioni riportate: si spense nell'ospedale di Taranto il 22 settembre 1942, a più di tre settimane dall'affondamento della Sanandrea, riducendo così il numero dei superstiti a tre. Riposa oggi nel Sacrario dei Caduti Oltremare di Bari.
Tutto il personale
imbarcato della Regia Marina venne dichiarato disperso.
Come non di rado
accadeva in questi casi, si diffuse tra la gente del luogo la leggenda che a
bordo della Sanandrea vi fosse stata
una spia, che avrebbe segnalato la posizione del convoglio agli inglesi per poi
gettarsi in mare e raggiungere la riva a nuoto poco prima dell’attacco. Tale
storia è in realtà priva di fondamento, una delle tante leggende sorte forse
per cercare di spiegare, quando ancora non si sapeva di ULTRA, come fosse
possibile che le forze britanniche potessero sapere con tanta precisione quando
e dove attaccare i convogli italiani.
Cosimo Renzo, da Morciano di Leuca, così ritrasse l’incendio della Sanandrea, di cui fu testimone (dal sito www.torrevado.info)
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Il 30 agosto il
rimorchiatore Tenace recuperò dal
mare tre salme, due delle quali poterono essere identificate dalle loro
piastrine di riconoscimento come appartenenti ai militari Pietro Palmieri, 21
anni, da Cavoreto (Cosenza) e Vincenzo Rago, 23 anni, da Alessandria di
Carretto (Cosenza), mentre la terza non poté essere identificata. Il Tenace portò le tre vittime a Gallipoli,
dove furono sepolte nel cimitero del paese. Successivamente vennero sepolte a
Gallipoli anche altre due vittime della Sanandrea,
tra cui il capo macchinista Fortunato Senarego, da Genova.
Nel pomeriggio del 1°
settembre 1942 la salma del fuochista Gabriele Calargo (di 50 anni, da Villa
San Giovanni) venne recuperata nelle acque di Marina di Leuca. Fu sepolta nel
cimitero di Castrignano del Capo.
Il 5 settembre il
mare restituì i corpi dell’artigliere Giuseppe Conca, di Napoli, e di altri tre
uomini che non poterono essere identificati. I corpi, rinvenuti sulla spiaggia
di Torre San Gregorio, vennero sepolti anch’essi a Castrignano del Capo. Tra le
vittime recuperate e identificate erano quelle del secondo macchinista
Salvatore Bonomolo (da Porticello), del marinaio Giovanni Lupo (da Siracusa) e
del cameriere Ernesto Brò (da Napoli), tutti facenti parte dell’equipaggio
civile. Venne recuperata e portata a Torre Vado anche la salma del marinaio
Francesco Mattera, da Casamicciola.
In tutto, dei 51
uomini periti sulla Sanandrea il mare
restituì solo 19 corpi, in gran parte carbonizzati. Le vittime vennero sepolte
nei cimiteri di Gallipoli e Castrignano del Capo, dove riposano tuttora.
Militari della Regia Marina dispersi
nell’affondamento della Sanandrea:
Salvatore Alterio, cannoniere puntatore
mitragliere, 28 anni, da Istonio (Chieti)
Carlo Argentino, cannoniere ordinario, 28
anni, da Napoli
Michele Durante, marinaio segnalatore, 19
anni, da Taranto
Antonio Gramazio, sottocapo cannoniere
puntatore scelto, 24 anni, da Manfredonia (Foggia)
Michele Iemma, marinaio segnalatore, 22 anni,
da Taranto
Vincenzo Landi, cannoniere ordinario, 21 anni,
da Messina
Alfredo Torrente, capitano del Genio Navale
D.M. (Regio Commissario), 47 anni, da Trieste
Le vittime tra l’equipaggio civile della Sanandrea:
(si ringraziano Carlo Di Nitto e Giancarlo Covolo)
Salvatore Angelino, marinaio, da Siracusa
Gildo Bogliolo, marinaio, da Laigueglia
Salvatore Bonomolo, secondo ufficiale di
macchina, da Porticello
Ernesto Brò, cameriere, da Napoli
Nicola Buongarzone, tanchista, da Genova
Gabriele Calarco (o Calargo), fuochista, da Villa
San Giovanni
Lorenzo De Palma (o Di Palma), fuochista, da
Molfetta
Francesco Fenelli, nostromo, da Santa
Margherita Ligure
Domenico Lizzio, capitano di lungo corso, da
Catania
Giovanni Lupo, marinaio, da Pozzallo
Luigi Macera, capitano di lungo corso, da
Conception
Giuseppe Mattaliano, fuochista, da Palermo
Francesco Mattera, marinaio, da Casamicciola
Luigi Oliviero, giovanotto, da Ercolano
Vittorio Pezzica, ufficiale di coperta, da Carrara
Aniello Pisani, marittimo, da Barano d'Ischia
Aldo Rocca, ufficiale radiotelegrafista, da Genova
Fortunato Senarego, direttore di macchina, da
Genova
Arcangelo Todisco, giovanotto, da Castellammare di Stabia
Francesco Venturino, capo fuochista, da Buenos Aires
Lorenzo Visca, fuochista, da San Bartolomeo
Bruno Zucchini, cuoco
Non è stato finora possibile rintracciare i
nomi dei militari dell’Esercito
imbarcato sulla nave.
Il sottocapo cannoniere Antonio Gramazio, 24 anni, di Manfredonia (Foggia), al suo primo viaggio con la Sanandrea. Imbarcato come mitragliere addetto all’armamento di bordo, venne dichiarato disperso nell’affondamento; pochi mesi prima era già scomparso in mare il suo fratello minore Francesco, di 20 anni, nell’affondamento dell’incrociatore Trento (foto per g.c. del nipote Fabrizio Colucci).
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L’affondamento della Sanandrea fu l’ultimo successo colto dal
maggiore Gibbs, il quale, fisicamente e mentalmente provato dopo due mesi di
continui attacchi che gli avevano portato diversi successi ma anche la perdita
di parecchi equipaggi, fu decorato con il Distinguished Service Order e messo a
riposo.
La perdita della Sanandrea e del suo carico è sovente
elencata tra le ragioni della scarsità delle riserve di carburante delle forze
di Rommel nella battaglia di Alam Halfa (iniziata proprio il 30 agosto 1942),
che vide le forze britanniche arrestare definitivamente l’avanzata
italo-tedesca in Egitto: talvolta si sostiene anzi che Rommel lanciò la sua offensiva
ad Alam Halfa, poi fallita, proprio facendo affidamento sul prossimo arrivo della
Sanandrea e del suo carico. Un saggio
di Enrico Cernuschi e Vincent O’Hara, tuttavia, asserisce che il carburante
trasportato dalla cisterna non avrebbe avuto influenza sulla battaglia
combattuta nella notte tra il 30 ed il 31 agosto 1942, e che era destinato
all’ulteriore avanzata qualora l’offensiva fosse riuscita. In ogni caso, la
perdita della Sanandrea e del suo
importante carico infuriò i comandi a Roma e Berlino: la Regia Aeronautica,
responsabile della scorta aerea, venne apertamente accusata di disattenzione,
ed il suo capo di Stato Maggiore replicò che l’attacco doveva essere stato
causato da delle spie, dato che nessun ricognitore era stato avvistato prima dell’attacco.
Mussolini, Kesselring e Rommel aderirono anch’essi alla comoda teoria dello
spionaggio e del tradimento, e l’esistenza di “ULTRA” fu ancora una volta
celata.
Del relitto della Sanandrea, dilaniato dall’esplosione e
consumato dalle fiamme, rimane molto poco: poche ordinate dell’ossatura,
un’ancora, cavi, oblò, pezzi di macchina a vapore, attrezzature e lamiere
contorte sparse sul fondale sabbioso a 26 metri di profondità, contornate da
minuscole rocce, in un’area circolare di 200 metri di diametro, in posizione
39°49,330’ N e 18°15,600’ E, poco al largo di Torre Vado.
Documenti relativi alla Sanandrea (si ringrazia Fabrizio Colucci, che li ha reperiti presso l’archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare):
Due
messaggi relativi all’incidente del 24 agosto 1941:
Registro
dei movimenti della Sanandrea dall’ottobre
1941 all’affondamento:
Rapporto del comandante dell’Antares sull’attacco aereo e l’affondamento della Sanandrea:
Diagramma che mostra lo svolgimento dell'attacco:
Due comunicazioni relative all’attacco ed all’affondamento della Sanandrea:
Documenti
relativi al personale della Regia Marina imbarcato sulla Sanandrea (uno dei cannonieri, Pasquale Monteduro, sbarcò prima
della partenza):
Una serie
di documenti e comunicazioni relative ai superstiti ed al recupero delle
vittime:
Si ringrazia Fabrizio Colucci, nipote di Antonio Gramazio.
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