La Vincenzo Giordano Orsini (g.c. Anton Shitarev, via www.naviearmatori.net) |
Torpediniera, già
cacciatorpediniere, capoclasse della classe omonima (dislocamento di 790
tonnellate di dislocamento in carico normale, 850 o 865 tonnellate a pieno
carico).
Breve e parziale cronologia.
2 febbraio 1916
Impostazione nei
cantieri Odero di Sestri Ponente.
23 aprile 1917
Varo nei cantieri
Odero di Sestri Ponente.
Durante le successive
prove in mare, effettuate con dislocamento medio di 685 tonnellate, l’Orsini risulta l’unità più veloce della
sua classe, raggiungendo i 33,6 nodi.
12 maggio 1917
Entrata in servizio.
Dislocato inizialmente
a Brindisi, operando nel Basso Adriatico/Mar Ionio. Successivamente trasferito
a Venezia.
Primo comandante
dell’Orsini, nonché della relativa
squadriglia di cacciatorpediniere (che l’Orsini,
unità caposquadriglia, forma insieme ai gemelli Giovanni Acerbi, Giuseppe
Sirtori e Francesco Stocco), è il
capitano di fregata Ernesto Burzagli.
Ernesto Burzagli, primo comandante dell'Orsini (Coll. famiglia Burzagli, via it.wikipedia.org) |
13-14 agosto 1917
L’Orsini (caposquadriglia) parte
nottetempo da Venezia insieme ad Acerbi,
Sirtori e Stocco, ad una seconda squadriglia di cacciatorpediniere (Ardente, Audace, Animoso e Giuseppe Cesare Abba, salpati in un
secondo momento) ed alla sezione di cacciatorpediniere Carabiniere-Pontiere (questi ultimi partono per ultimi, riunendosi alla
squadriglia «Orsini» in mare aperto), per attaccare una formazione leggera
austroungarica (cacciatorpediniere Streiter, Reka, Velebit, Scharfschutze e Dinara e 6 torpediniere) che ha
fornito appoggio ad un attacco contro Venezia da parte di 32 aerei (9
idrovolanti decollati da Pola, tre idrovolanti decollati da Parenzo e 20
bombardieri dell’aviazione terrestre). Durante l’attacco è stato colpito anche l’ospedale
di San Giovanni e Paolo e sono rimaste uccise 14 persone, e ferite un’altra
trentina; un idrovolante austroungarico, il K.
228, è stato abbattuto, ed un altro – l’aereo capo formazione – è stato
colpito e costretto ad ammarare, venendo catturato insieme all’equipaggio, tra
cui un maggiore ed un colonnello.
Di tutta la
formazione italiana, solo l’Orsini riesce
a prendere brevemente contatto con le navi nemiche, ma, condotto verso i campi
minati nemici, deve rompere il contatto per non finire tra le mine. Il gruppo
navale austroungarico, rotto il contatto, rientra alla base senza ulteriori
complicazioni.
18-19 agosto 1917
Durante la notte le
Squadriglie Cacciatorpediniere «Orsini» ed «Animoso», sotto il comando del
contrammiraglio Mario Casanuova Jerserinch (comandante della Divisione Alto
Adriatico), e la Squadriglia Cacciatorpediniere «Carabiniere» escono da Venezia
per fornire appoggio ad una squadriglia di torpediniere (al comando del
capitano di corvetta Aiello) ed ai MAS 17,
19 e 22 (al comando del capitano di fregata Costanzo Ciano,
capoflottiglia), incaricati di scortare i monitori britannici Earl of Petersburg e Sir Thomas Picton i quali sono diretti a
Mula di Muggia (al largo di Grado) per bombardare con le loro artiglierie le
posizioni austroungariche dell’Ermada, in appoggio alle truppe di terra
italiane impegnate nell’undicesima battaglia dell’Isonzo, iniziata due giorni
prima. I due monitori britannici, ancoratisi nei punti prestabiliti, bombardano
gli obiettivi assegnati dalle 15 alle 17, sparando un totale di 54 colpi da 305
mm contro Quota 279 e le doline dell’Ermada, protetti dalla squadriglia
torpediniere del capitano di corvetta Aiello, dalla Squadriglia MAS di Venezia,
dai MAS di Grado e dalla V Squadriglia Torpediniere del capitano di corvetta
Farina, nonché da idrovolanti ed aerei da caccia (altri aerei vengono usati per
la direzione del tiro). Nel mentre, le squadriglie cacciatorpediniere «Orsini»
ed «Animoso» (sotto il comando del contrammiraglio Casanuova, imbarcato sull’Animoso) vigilano al largo contro eventuali
attacchi da parte di navi di superficie austroungariche, che tuttavia non
escono da Pola.
29 settembre 1917
L’Orsini (caposquadriglia, capitano di
fregata Cesare Vaccaneo) lascia Venezia alle 21.45 insieme ad Abba (capitano di corvetta Comito), Acerbi (capitano di corvetta Vannutelli) e
Stocco (capitano di corvetta Poggi),
che con esso compongono la squadriglia «Orsini», all’esploratore Sparviero (al comando del capitano
di vascello Ferdinando di Savoia-Genova, principe di Udine, e con a bordo il contrammiraglio
Mario Casanuova Jerserinch, capo formazione) ed alla squadriglia
cacciatorpediniere «Audace» (Audace, Ardente, Ardito) per dare appoggio a dieci velivoli Caproni del Regio
Esercito inviati a bombardare Pola, oltre che a seguito dell’avvertimento da
parte dei servizi segreti che un’operazione austroungarica è in corso.
L’attacco italiano, infatti, è pressoché contemporaneo ad un’analoga iniziativa
austroungarica, che vede una squadriglia di cinque idrovolanti della k.u.k.
Kriegsmarine effettuare un’incursione contro la base aerea di Ferrara, nella
quale viene incendiato il dirigibile M
8 della Regia Marina. Anche questo bombardamento fruisce di una forza
navale d’appoggio, segnatamente i cacciatorpediniere austroungarici Turul, Velebit, Huszár e Streiter e le torpediniere TB 90F, TB 94F, TB 98M e TB 99M: uscite da Pola, le navi
austroungariche hanno guidato (proiettando periodicamente, verso l’alto, una
specie di “freccia” visibile ai velivoli) gli idrovolanti fin nei pressi di
Punta Maestra, nel Delta del Po. Ora, concluso il bombardamento, stanno
rientrando alla base a tutta forza.
La formazione
italiana, che già dal tramonto era radunata all’ancora alle boe a nord di Porto
Levante in attesa dell’ordine di partenza (impartito dall’ammiraglio Casanuova
alle 21.45, in seguito alla ricezione di un radiotelegramma convenzionale che
annuncia l’incursione aerea sull'aeroporto di Ferrara), viene informata
dell’incursione nemica su Ferrara e dirige perciò su Rovigno a 22 nodi, con
l’intento di intercettare le navi austroungariche che, tornando alla base,
dovrebbero verosimilmente passare al largo della cittadina istriana. Alle 22.03
la previsione si rivela esatta, in quanto lo Sparviero – che procede in testa alla formazione, seguito in linea
di rilevamento dai cacciatorpediniere – avvista navi sconosciute ad una
distanza di circa due miglia, al largo del Delta del Po, ed alle 22.05 entrambe
le formazioni, mentre scende la sera, aprono un intenso fuoco da 2000 (o
3000) metri di distanza ed iniziano il combattimento.
L’azione, condotta
mentre le navi procedono a tutta forza, si frammenta in vari scontri minori
combattuti tra singole unità a distanza non superiore a 1000 o 2000 metri; lo Sparviero accelera fino a 30 nodi,
continuando a sparare, e riduce le distanze a 2000-3000 metri, e mentre il
gruppo austroungarico più avanzato viene ingaggiato dalle unità di testa
formazione italiana, lo Stocco e l’Acerbi attraversano la linea
austroungarica, tagliando in due la formazione, ed attaccando con cannone e siluro
le quattro o cinque navi nemiche che formano il gruppo di poppa, col quale
serrano le distanze fino a 1000-2000 metri. Il tiro delle unità
austroungariche, che utilizzano proiettili illuminanti e sono in condizioni
favorevoli di luce grazie alla loro posizione, si concentra sullo Sparviero, la più grande delle navi
italiane, che viene infatti colpito da cinque proiettili; l’ammiraglio
Casanuova decide pertanto di aumentare la distanza, assumendo rotta parallela a
quelle delle unità avversarie per cercare di sopravanzarle, aggirarle e tagliar
loro la via di fuga verso la costa istriana. Anche da parte austroungarica si
sono avuti dei danni: il Velebit,
seriamente danneggiato dal tiro italiano, esce di formazione, seguito dallo Streiter che gli presta assistenza.
Secondo la versione italiana, alle 22.30 le unità austroungariche riescono a
distanziarsi dagli inseguitori italiani (rispetto ai quali hanno assunto rotta
divergente); cessato il fuoco, accostano a sinistra e si dileguano
nell’oscurità. Lo Sparviero continua
per un poco a procedere verso nord, sperando di riuscire a riprendere contatto
col nemico, interponendosi tra esso e la costa dell’Istria; ma dopo un po’,
ritenendo pericoloso continuare l’inseguimento col solo e danneggiato Sparviero (i cacciatorpediniere, meno
veloci, sono rimasti indietro), l’ammiraglio Casanuova riduce la velocità per
consentire ai cacciatorpediniere di raggiungerlo.
Ormai lo scontro è
pressoché concluso; alle 22.45 le navi italiane, guidate dallo Sparviero (che apre il fuoco contro le
unità di coda della formazione austroungarica), riprendono fugacemente contatto
col nemico in mezzo ai campi minati difensivi austroungarici antistanti Parenzo
(in questo frangente la TB 98M viene
colpita con una vittima a bordo), per poi perderlo definitivamente dopo pochi
minuti. Casanuova ritiene inutile e pericoloso proseguire la ricerca di un
nemico evanescente di notte, lungo la costa istriana, in acque minate.
Secondo la versione
austroungarica, lo Sparviero subisce
seri danni perché colpito cinque volte (con tre feriti tra l’equipaggio) e
lascia la linea di combattimento, e viene colpito anche l’Orsini (l’unità che segue lo Sparviero
nella formazione), dopo di che l’Ardito,
seguito da Stocco ed Acerbi, taglia la scia della formazione
nemica ed apre il fuoco da 1000-2000 metri (lo scontro sarebbe iniziato ad
una distanza di circa 3000): viene colpito lievemente l’Huszár, mentre il Velebit incassa
diversi colpi, con l’inutilizzazione degli apparati di governo ed un incendio a
bordo. Due altre unità austroungariche, il Turul
e la TB 94F, riportano danni da
schegge. Poi le unità italiane cessano il fuoco e si allontanano. Il Velebit viene poi preso a rimorchio
dallo Streiter, ritirandosi
verso la protezione offerta dai campi minati di Parenzo, ma in quel momento
arrivano due cacciatorpediniere italiani che serrano le distanze ad un
chilometro; questi però si ritirano quando sono fatti a segno del tiro
concentrato dello Streiter, del
Velebit e delle quattro torpediniere,
frattanto accorse dopo aver visto le vampe e sentito il rumore delle cannonate.
(Gli orari riferiti da un’altra fonte sono molto differenti, forse basati fu
fonti austroungariche: il primo scontro sarebbe cessato alle 00.30, il secondo
sarebbe iniziato alle 00.45 protraendosi per pochi minuti). Le navi
austroungariche fanno ritorno a Pola, dove lo Streiter necessiterà di un mese di riparazioni.
Il comandante
Vaccaneo dell’Orsini verrà decorato
per quest’azione con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare ("Comandante di squadriglia di
cacciatorpediniere, con ardimento e perizia guidava le unità dipendenti in un
prolungato combattimento notturno dando, sotto l’intenso fuoco nemico,
bell’esempio di alte virtù militari").
L’Orsini in entrata a Brindisi nel 1917 (Coll. E. Occhini, da “Storia Militare” n. 181/ottobre 2008, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
Ottobre 1917
L’Orsini, insieme ai gemelli Giovanni Acerbi, Giuseppe Sirtori e Francesco
Stocco, forma la V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Venezia.
In questo periodo
presta servizio sull’Orsini il
guardiamarina (poi sottotenente di vascello) Aimone di Savoia-Aosta, duca di
Spoleto, cugino di re Vittorio Emanuele III e futuro ammiraglio. Questi
sbarcherà dall’Orsini a sua domanda
il 10 novembre 1917, per seguire un corso presso la Scuola di Aviazione di
Taranto ed essere poi destinato sugli idrovolanti.
Fine ottobre/Novembre 1917
Dopo la ritirata di
Caporetto ed il ripiegamento fino al Piave, la squadriglia «Orsini», passata
alle dirette dipendenze della Divisione Alto Adriatico (contrammiraglio Mario
Casanuova Jerserinch), viene incaricata inizialmente di effettuare delle
crociere per la protezione dei pontoni armati Alfredo Cappellini e Faà di
Bruno, incagliatisi il 27 ottobre tra Caorle e Cortellazzo (a causa del
forte vento di scirocco) durante il trasferimento a rimorchio da Grado a
Venezia; poi, disincagliati e trasferiti altrove i due pontoni, la squadriglia
viene impiegata per missioni di ricognizione avanzata lungo la costa
dell’Istria, e successivamente viene incaricata di battere d’infilata le linee
austroungariche sul Piave, con le proprie artiglierie, per rallentare
l’avanzata delle forze nemiche. I cacciatorpediniere dovranno altresì
contrastare eventuali attacchi da parte delle siluranti austroungariche contro
le linee italiane.
16 novembre 1917
Orsini, Stocco, Acerbi (squadriglia «Orsini»), Animoso, Ardente, Abba ed Audace (squadriglia «Animoso») escono
da Venezia per contrastare il bombardamento navale attuato dalle corazzate
costiere austroungariche Wien
(capitano di fregata Leopold Huber von Scheibenhain) e Budapest (capitano di vascello
Mahoritsch-Ridolfi) contro le batterie d’artiglieria e posizioni italiane
a Cortellazzo, vicino alla foce del Piave, in appoggio agli attacchi delle
truppe di terra dell’esercito asburgico (che con l’appoggio del tiro navale
occupano l’argine sinistro del Vecchio Piave, tra Capo Sile e Cavazuccherina).
Wien e Budapest, partite da Trieste alle sei
del mattino con la scorta di undici torpediniere e l’appoggio aereo di tre
idrovolanti, sono giunte alle 10.35 davanti a Cortellazzo, ad una decina di
chilometri dalla costa, ed hanno aperto il fuoco sull’ala destra dello
schieramento italiano (in particolare le batterie e le posizioni tenute dalla
Brigata Marina), venendo prontamente controbattute dalle artiglierie di terra e
dall’aviazione italiana (ad un primo attacco con sette aerei ne seguono altri
due con due idrovolanti). Non appena viene ricevuto l’allarme, il Comando in
Capo di Venezia fa uscire in mare i citati cacciatorpediniere italiani, insieme
ai MAS 9, 13 e 15 (il MAS 9 deve però tornare indietro per
avaria) ed ai sommergibili F 11 e F 13. Alle 11.52 le due corazzate
costiere cessano il tiro per non interferire con le proprie truppe di terra e
si allontanano brevemente, poi si riportano a tiro alle 13.30 (dopo aver
avvistato cinque cacciatorpediniere italiani), e riaprono il fuoco alle 13.35. (Secondo
una fonte di incerta attendibilità, Wien
e Budapest avrebbero interrotto il
bombardamento ed iniziato a ritirarsi verso Trieste proprio in seguito
all’avvistamento dei cacciatorpediniere, credendo che questi fossero
l’avanguardia di una squadra italiana di navi maggiori; ma poi i
cacciatorpediniere, a causa della ricezine di un messaggio errato, avrebbero
invertito la rotta per rientrare a Venezia, e le navi austroungariche sarebbero
allora tornate davanti a Cortellazzo, riprendendo il bombardamento).
I cacciatorpediniere
italiani, in base agli ordini ricevuti, si portano a ponente del luogo
dell’azione per dare protezione ai MAS
13 e 15 (al comando
rispettivamente del capitano di fregata Costanzo Ciano e del tenente di
vascello Luigi Berardinelli), che nonostante l’intenso tiro delle navi nemiche
si avvicinano fino a 800-900 metri dalle corazzate (per altra fonte 1500 metri,
per altra appena 600-900 metri) e lanciano contro di esse i loro siluri, per
poi sfuggire all’inseguimento delle torpediniere austroungariche. (Per altra
fonte, invece, risulterebbe che mentre i MAS conducevano il loro attacco i
cacciatorpediniere stavano tornando verso il Lido di Venezia, a causa di un
errore nella trasmissione di un segnale). I siluri non vanno a segno, ma
quest’azione, insieme agli attacchi aerei – idrovolanti italiani sganciano
bombe da un migliaio di metri di quota – ed a quelli effettuati dai
sommergibili F 11 e F 13, nonché alla vivace reazione della
batteria Bordigioni di Cortellazzo, contribuisce a disturbare il bombardamento
navale, sino al ritiro delle due corazzate (delle quali la Wien è stata colpita sette volte da cannonate nelle sovrastrutture,
subendo altresì “parecchie falle prodotte
da schegge”, mentre la Budapest
ha ricevuto un colpo sotto la linea di galleggiamento, che non ha però
penetrato la corazza), che alle 14.30 cessano il fuoco e fanno rotta su
Trieste, dove arrivano alle 18.35. Le corazzate italiane Emanuele Filiberto ed Ammiraglio
di Saint Bon, fatte uscire da Venezia, non riescono a prendere contatto col
nemico, ormai ritiratosi.
18 novembre 1917
Le squadriglie
cacciatorpediniere «Orsini» (capitano di fregata Vaccaneo) ed «Animoso»
(capitano di fregata Arturo Ciano) bombardano a più riprese le truppe e le
linee austroungariche a Grisolera, protette al largo dagli esploratori che si
tengono pronti ad intervenire contro possibili attacchi di navi di superficie
austroungariche uscite da Trieste.
19 novembre 1917
Orsini (caposquadriglia), Sirtori, Stocco ed un altro cacciatorpediniere,
l’Ardito, bombardano con i loro cannoni
da 102 mm le linee austroungariche tra Caorle e Revedoli (sul fronte
del Piave), sparando in totale 400 colpi (per altra fonte, cento colpi per
pezzo), in appoggio alle operazioni delle forze di terra sul Basso Piave.
20 novembre 1917
Altro bombardamento
navale, stavolta contro le linee austoungariche della zona paludosa di
Grisolera (oggi Eraclea), vicino alla foce del Piave.
23 novembre 1917
Altra azione di
cannoneggiamento contro le posizioni nemiche di Grisolera, con l’impiego di
otto cacciatorpediniere. La reazione delle batterie costiere e degli aerei
austroungarichi è del tutto inefficace.
28 novembre 1917
Orsini, Sirtori, Stocco, Acerbi, Animoso, Ardente, Ardito, Abba ed Audace, unitamente agli
esploratori Aquila e Sparviero, lasciano Venezia e – in
cooperazione con idrovolanti da ricognizione – si mettono alla ricerca di
una formazione navale austroungarica che ha appena compiuto un attacco contro
le coste italiane. I gruppi nemici sono due: i cacciatorpediniere austroungarici Triglav, Reka e Dinara e
le torpediniere TB 78, 79, 86 e 90 hanno
cannoneggiato e danneggiato seriamente un treno merci e le linee
ferroviaria e telegrafica alle foci del Metauro, causandone la temporanea
interruzione (e venendo poi indotti alla ritirata dalla reazione del treno
armato n. 3 inviato da Senigallia, anche se il suo tiro non è molto accurato),
mentre i cacciatorpediniere Dikla, Streiter ed Huszar e quattro torpediniere,
formando un secondo gruppo, hanno infruttuosamente attaccato dapprima Porto Corsini, venendo messi in fuga
dall’immediata reazione delle batterie costiere, e poi Rimini, dove sono
stati parimenti respinti dalla decisa reazione del treno armato n. 6. I due
gruppi austroungarici, riunitisi in uno solo, stanno rientrando alle basi, attaccati
più volte da idrovolanti. Le navi italiane arrivano in vista di quelle nemiche
solo quando queste ormai si trovano al largo di Capo Promontore, troppo
vicino a Pola, principale base delle K.u.K. Kriegsmarine, così che devono
lasciar perdere l’inseguimento.
19 dicembre 1917
Su ordine del Comando
in Capo di Venezia, la Squadriglia Cacciatorpediniere «Orsini» esce da Venezia
insieme alle corazzate Emanuele Filiberto
ed Ammiraglio di Saint Bon (al
comando del contrammiraglio Mario Casanuova Jerserinch), agli esploratori Aquila e Sparviero, alle squadriglie di siluranti del capitano di vascello
Carlo Pignatti di Morano ed a cinque MAS (al comando del capitano di fregata
Costanzo Ciano) per attaccare una formazione navale austroungarica – corazzata Arpad, corazzata costiera Budapest, esploratore Admiral Spaun, scortati da due
squadriglie di cacciatorpediniere e numerose siluranti, dragamine e
sommergibili – che poco dopo le nove del
mattino si è presentata davanti a Cortellazzo, aprendo il fuoco con i cannoni
di grosso calibro sulle linee italiane. Il bombardamento navale è stato
preceduto da un volo di ricognizione di due idrovolanti austroungarici, intorno
alle otto del mattino, e dall’apertura del fuoco da parte delle artiglierie di
terra alle nove; vengono anche compiuti dei tentativi di sbarco sui fianchi
delle linee italiane. Dopo tre quarti d’ora di cannoneggiamento, le navi
austroungariche cessano il fuoco e se ne vanno; quando la divisione navale
italiana salpata da Venezia (l’ordine di partenza è stato dato non appena è
arrivata notizia dell’attacco) giunge sul posto, non le trova più. Non
essendoci più un nemico da combattere sul mare, gli esploratori italiani
bombardano a loro volta le posizioni austroungariche di Grisolera e della foce
del Nuovo Piave, con una certa efficacia.
10 febbraio 1918
Secondo qualche
fonte, l’Orsini sarebbe stato tra i
cacciatorpediniere che diedero appoggio all’incursione di tre MAS contro il
naviglio austroungarico all’ancora nella baia di Buccari, nel Golfo del
Quarnaro (poco a sudovest di Fiume), incursione che – famosa per la
partecipazione di Gabriele D’Annunzio, che lanciò bottigliette con messaggi di
scherno rivolti alla flott austroungarica – divenne poi nota come la «beffa di
Buccari».
Primavera 1918
L’Orsini riceve per breve tempo una livrea
mimetica sperimentale, costituita da bande inclinate ondulate probabilmente di
colore grigio scuro, su sfondo grigio azzurro o cenerino chiaro. La Regia
Marina sta infatti effettuando una serie di esperimenti di mimetizzazione di
varie sue unità (principalmente cacciatorpediniere), volti a verificare
l’efficacia della mimetizzazione, che la Royal Navy ha già adottato da qualche
tempo (secondo una fonte, l’Orsini
sarebbe stata la prima nave da guerra italiana ad adottare una colorazione
mimetica). Già nell’ottobre 1918, l’Orsini
sarà tornato alla normale colorazione grigia.
Aprile 1918
Assume il comando
dell’Orsini e dell’omonima
squadriglia cacciatorpediniere il capitano di corvetta (poi promosso capitano
di fregata per merito di guerra) Domenico Cavagnari, futuro capo di Stato
Maggiore della Marina.
Domenico Cavagnari, comandante dell'Orsini nel 1918-1919 e futuro "padre-padrone" della Marina negli anni Trenta (USMM) |
8-9 aprile 1918
L’Orsini ed altre siluranti escono in
mare nottetempo per fornire supporto ad un tentativo di attacco della base
austroungarica di Pola mediante i “barchini saltatori” (siluranti) «Grillo»,
«Locusta», «Pulce» e «Cavalletta». Alle 18 le torpediniere costiere 13 OS, 14 PN, 15 OS, 16 OS, 18 OS, 46 OS e 48 OS escono da Malamocco
rimorchiando i MAS 95 e 96 ed i quattro “barchini saltatori”, ma
l’operazione viene interrotta perché il convoglio procede troppo lentamente, e
non risulta possibile arrivare in tempo utile agli sbarramenti di Pola;
la 13 OS (con un “barchino”
a rimorchio) rientra alle 3 del 9 aprile, seguita dalle altre torpediniere con
i relativi rimorchi alle 5.30.
12-13 aprile 1918
Seconda uscita
notturna per attaccare Pola con i “barchini saltatori”, stavolta solo «Pulce»
(al comando del tenente di vascello Alberto Da Zara) e «Cavalletta» (al comando
del tenente di vascello Mario Pellegrini), sotto la direzione del capitano di
vascello Carlo Pignatti di Morano, coadiuvato dal parigrado Costanzo Ciano. L’Orsini partecipa alla spedizione
con la squadriglia «Orsini», che forma insieme ai tre gemelli; prendono inoltre
parte all’operazione anche gli esploratori Aquila e Sparviero,
la Squadriglia Cacciatorpediniere «Animoso» (Animoso, Abba, Ardente, Audace), le torpediniere 13
OS, 16 OS e 18 OS (avente a bordo Ciano,
Pignatti di Morano ed anche il poeta Gabriele D’Annunzio) ed i MAS 95 e 96. Alle 16 del 12 aprile le torpediniere, al comando del capitano
di corvetta Matteo Spano, lasciano la Giudecca, ed alle 17.30 escono dal Passo
di Spignon ed imboccano la rotta di sicurezza sud (la 18 OS rimorchia i due MAS, mentre 13 OS e 16 OS rimorchiano
rispettivamente «Pulce» e «Cavalletta», seguendo rotta vera 103°.
Alle 00.53 del 13
aprile viene mollato il rimorchio, ed i due MAS e i due barchini (Ciano,
Pignatti di Morano e D’Annunzio sono trasbordati sul MAS 95) proseguono da soli verso Pola. Verso le due, anche i MAS si
fermano, lasciando proseguire i due barchini. Alle 3.53, però, i comandanti di
«Pulce» e «Cavalletta» si rendono conto che neanche stavolta riusciranno a
raggiungere le ostruzioni prima dell’alba; quindi, per non destare sospetti nel
nemico facendosi vedere con le loro imbarcazioni, tornano indietro. Alle 5.15
avviene l’incontro con i MAS, che li prendono a rimorchio per riportarli a
Venezia; dopo non molto, però, il rimorchio si spezza, e viene deciso di
autodistruggere «Pulce» e «Cavalletta» per evitare che la ricognizione
austroungarica – essendo ormai sorto il sole – li possa avvistare ed intuirne
la destinazione d’uso, prendendo contromisure che vanificherebbero nuovi
tentativi. Il personale viene trasferito sui MAS, dopo di che i due “barchini
saltatori” vengono autoaffondati a colpi d’accetta e con il brillamento di
cariche esplosive.
Intanto il Gruppo
Esploratori e Cacciatorpediniere, di cui fa parte l’Orsini, dopo essere uscito dal Passo di Lido durante la notte ha
svolto regolarmente la sua missione; alle 7.30 esso incontra al largo di Punta
Mastra le torpediniere ed i MAS. Durante la manovra di trasbordo di Ciano,
Pignatti di Morano e D’Annunzio dal MAS
95 alla 18 OS, la
formazione viene attaccata da idrovolanti austroungarici, che sganciano bombe
sui cacciatorpediniere, che si trovano poco distanti dalle torpediniere;
nessuna nave viene colpita, ed alle 8 la formazione dirige per Venezia, dove
giunge indenne.
Si decide di
replicare l’operazione nella fase priva di luna del mese seguente, con un solo
barchino.
22 aprile 1918
La squadriglia «Orsini»
viene fatta salpare da Venezia a protezione delle torpediniere costiere 46 OS e 52 AS, inviate a soccorrere l’idrovolante L. 5 che, attaccato da due aerei da caccia austroungarici mentre
rientrava da un attacco contro naviglio nemico al largo della costa istriana, è
stato colpito in un motore e costretto ad ammarare. A bordo dell’aereo è
rimasto il pilota Agnesi, mentre l’osservatore (sottotenente di vascello
D’Orso) è stato recuperato da altri due idrovolanti della squadriglia, L. 2 e L. 3, ammarati nei pressi del relitto (il mare burrascoso ha
impedito loro di recuperare anche Agnesi). Quando però due idrovolanti
italiani, inviati anch’essi in soccorso del pilota, giungono sul luogo del
sinistro, scoprono che sono stati preceduti da un cacciatorpediniere
austroungarico: l’aereo ammarato è stato catturato e sta venendo rimorchiato
verso Pola, il pilota è stato fatto prigioniero. Di conseguenza, sia le
torpediniere (già arrivate a 15 miglia da Rovigno) che la Squadriglia «Orsini»
vengono richiamate alla base.
6-7 maggio 1918
Altra uscita di notte
a supporto di un nuovo tentativo di attacco di Pola con il «Grillo», pure
interrotta.
9-10 maggio 1918
Nuovo tentativo
notturno d’attacco a mezzo «Grillo» a sua volta cancellato.
11-12 maggio 1918
Ennesima uscita
notturna in appoggio ad un altro attacco abortito del «Grillo» contro Pola.
13-14 maggio 1918
Alle 17.30 del
13 Orsini (caposquadriglia), Sirtori, Stocco, Acerbi ed Animoso salpano da Venezia insieme
alle torpediniere costiere 9 PN e 10 PN ed ai MAS 95 e 96 (questi ultimi due al comando del tenente di vascello
Alfredo Berardinelli) per dare appoggio ad un altro tentativo di attacco del
«Grillo» contro Pola: l’operazione, decisa dal viceammiraglio Paolo Marzolo
(Comandante in Capo della Piazza Marittima di Venezia), è affidata al capitano
di fregata Costanzo Ciano, ispettore e comandante superiore dei MAS, imbarcato
sulla 9 PN insieme al
capitano di vascello Cesare Vaccaneo (comandante della Flottiglia Torpediniere)
ed al capitano di fregata Tista Scapin (comandante della Flottiglia MAS di
Venezia). I cacciatorpediniere hanno compiti di vigilanza a distanza.
Torpediniere e MAS
mollano gli ormeggi alle 16.40; la 10
PN rimorchia il «Grillo» (al comando del capitano di corvetta Mario
Pellegrini e con equipaggio composto dal secondo capo torpediniere Antonio
Milani, dal marinaio scelto Francesco Angelino e dal fuochista scelto Giuseppe
Corrias). Alle 17.27 le quattro unità superano il Passo di Spigon, alle 20
raggiungono Punta Maestra e fanno rotta per Capo Promontore, ed alle 23.42
la 9 PN prende a rimorchio
i due MAS, dirigendosi verso Punta Cristo.
Nel mentre, Orsini, Sirtori, Stocco, Acerbi ed Animoso (nave di bandiera del capo flottiglia, capitano di
vascello Giovannini) escono dal Passo di Lido prima di mezzanotte e dirigono
per Punta Maestra lungo le rotte meridionali, dopo di che fanno rotta per Capo
Promontore; al contempo Missori, Ardente, Ardito e La Masa si
tengono pronti per intervenire di rinforzo a mezzanotte.
All’una del 14 maggio
le torpediniere mollano i rimorchi, ed i comandanti Ciano e Scapin trasbordano
sul MAS 95; all’1.15 MAS e
«Grillo» si dirigono verso l’imbocco della rada di Pola, mentre le due
torpediniere si allontanano verso la zona di crociera loro assegnata. Alle
2.18, arrivata la formazione nel punto prestabilito (a 1300
metri dalla diga di Pola), i MAS si separano dal barchino, ed alle 3.16
inizia l’attacco del «Grillo»: il mezzo d’assalto mette il motore alla massima
forza e scavalca la prima ostruzione alle 3.25, ma nel farlo viene scoperto e
fatto segno ad intenso fuoco di fucili, mitragliere ed anche un cannoncino;
nondimeno prosegue e riesce a scavalcare altre tre ostruzioni, ma mentre cerca
di superare la quinta viene illuminato da un proiettore ed attaccato anche da
un’imbarcazione armata di vigilanza. Essendo impossibile proseguire, il tenente
di vascello Pellegrini avvia le manovre per l’autodistruzione ed al contempo
tenta di lanciare i siluri, dal punto in cui si trova, verso l’interno del
porto; in quel momento, tuttavia, il «Grillo» viene colpito in pieno da una
cannonata che ne provoca l’immediato affondamento. Il suo equipaggio è
catturato (uno dei quattro uomini, il marinaio Angelino, è ferito ad un
braccio, gli altri sono rimasti più o meno illesi).
Alle 3.25, frattanto,
i MAS e le torpediniere osservano due fiammate rossastre levarsi da Pola,
seguite alle 3.27 dall’accensione dei riflettori interni della rada e dalle
vampe dei cannoni. Alle 3.30 MAS 95 e 10 PN avvistano un razzo Very
separatore (che dovrebbe segnalae l’affondamento di una corazzata classe
Viribus Unitis: questo, insieme alle esplosioni, indurrà inizialmente a
ritenere che l’attacco abbia avuto successo) seguito da un Very verde, segnale
concordato con Pellegrini per indicare l’affondamento del «Grillo», ed alle
3.35 anche i proiettori foranei di Pola si accendono, illuminando i MAS; le
batterie costiere iniziano a tirare nella loro direzione. Le piccole unità si
ritirano sotto il fuoco nemico, senza riportare danni (neanche quando, alle
3.40, i fasci dei proiettori convergono su di loro, attirando un tiro
particolarmente concentrato di diverse batterie), ricongiungendosi ai
cacciatorpediniere del gruppo di supporto alle 5 del 14 per poi fare ritorno
alla base.
Due foto
dell’Orsini scattate da bordo della
corazzata Sardegna, intenta nella
manovra di ormeggio alle boe antistanti i giardini di Sant’Elena a Venezia,
nella primavera del 1918. Il cacciatorpediniere è pitturato con una colorazione
mimetica sperimentale a bande inclinate con bordi ondulati, verosimilmente di
colore grigio scuro su fondo grigio azzurro o cenerino chiaro; dei tre fumaioli
solo quello centrale è mimetizzato, e con strisce inclinate in modo opposto
rispetto a quelle dello scafo, al probabile scopo di rendere difficile il
telemetraggio. Questa livrea fu abbandonata dopo poco tempo, tanto che queste
sono due delle sole tre foto esistenti dell’Orsini
con tale colorazione (g.c. STORIA militare)
8 giugno 1918
L’Orsini, lo Stocco, l’Acerbi, il Missori, il La Masa e l’Audace salpano
da Venezia alle 22.30 per dare appoggio ad un’incursione dei MAS 94 e 95 (al comando del capitano di fregata Tista Scapin), partiti alle
18.15 dalla Pagoda di Lido a rimorchio delle torpediniere costiere 3 PN e 12 PN (capitano di corvetta Bonaldi), contro la flotta
austroungarica nelle acque antistanti Pola. MAS e torpediniere procedono a 16
nodi sulle rotte di sicurezza fino alla boa di Punta Maestra, indi (20.30)
proseguono verso Capo Promontore; intorno a mezzanotte viene mollato il
rimorchio ed i due MAS, spinti dai motori elettrici, si portano all’agguato
sulla rotta di sicurezza che da Pola porta verso sud. All’1.30 del 9 giugno le
due torpediniere costiere sparano due razzi Very di segnalazione per attirare
l’attenzione dei nemici: l’idea è che un’aliquota di navi austroungariche esca
da Pola per attaccarle, così cadendo nell’agguato dei due MAS che le aspettano
poco fuori, acquattati nel buio; subito dopo, i cacciatorpediniere italiani in
attesa al largo le impegnerebbero in combattimento. Il piano fallisce, perché
da Pola nessuno sembra accorgersi dei razzi: nessuna nave nemica lascia il
porto. Alle 2.45, pertanto, MAS e torpediniere iniziano la navigazione di
ritorno verso Venezia, alla velocità di 20 nodi.
Proprio il giorno
successivo a questo infruttuoso agguato pianificato, la corazzata Szent Istvan, una delle più moderne e
potenti unità della Marina asburgica, sarà silurata e affondata da un altro MAS
– il MAS 15 di Luigi Rizzo – in
seguito ad un incontro pressoché casuale.
2 luglio 1918
All’una di notte del
2 luglio Orsini, Sirtori, Stocco, Acerbi, Audace ed altri due
cacciatorpediniere, il Giuseppe Missori ed il Giuseppe La Masa, salpano a Venezia per dare appoggio a distanza ad
un’azione di bombardamento e sbarco simulato tra Cortellazzo e Caorle. I
cacciatorpediniere sono divisi in due squadriglie: «Orsini», formata da Orsini (capitano di fregata
Domenico Cavagnari, caposquadriglia), Sirtori (capitano
di corvetta Mercalli), Stocco (capitano
di corvetta Bonaldi) ed Acerbi (capitano
di corvetta Guido Po); e «Missori», formata da Missori (capitano di fregata Bellavita,
caposquadriglia), La Masa (capitano
di corvetta Viale) ed Audace (capitano
di corvetta Starita), il tutto sotto il comando del capitano di vascello
Giovannini, capo flottiglia. A copertura della formazione ci sono in agguato
tre sommergibili (uno nel Golfo di Trieste, un altro tra Rovigno e San Giovanni
in Pelago, un altro ancora a sud di Capo Promontore) e due MAS (MAS 9 e MAS 91, ad ovest di Capo Compare, appoggiati dalle
torpediniere 4 PN e 16 OS).
L’operazione vede le
torpediniere costiere 64 PN, 65 PN, 66 PN, 40 OS e 48 OS, appoggiate dalle torpediniere
d’alto mare Climene e Procione, procedere a lento moto tra
Cortellazzo e Caorle bombardando le retrovie austroungariche (specialmente tra
Caorle e Revedoli); un cannoneggiamento “preparatorio” protrattosi per oltre
un’ora, che viene seguito da uno sbarco simulato (eseguito dalle
torpediniere 15 OS, 18 OS e 3 PN che rimorchiano alcuni finti pontoni da sbarco) per
distogliere l’attenzione delle forze nemiche, indirizzandola nel settore dello
sbarco, e così favorire l’avanzata di quelle italiane. Il bombardamento e lo
sbarco simulato hanno infatti lo scopo di attirare il tiro delle artiglierie
austroungariche verso il mare, in modo da agevolare la pianificata e
contemporanea avanzata delle truppe del Reggimento Marina e del 64° e 65°
Reggimento Bersaglieri nei settori contigui del fronte del Piave (attacco che viene
infatti lanciato alle sei del mattino del 2 luglio); le torpediniere del finto
convoglio da sbarco, insieme a rimorchiatori e pontoni armati, si portano
sottocosta ed attirano su di sé un violento fuoco nemico, mentre marinai e
bersaglieri vanno all’attacco, ottenendo tuttavia guadagni territoriali
piuttosto limitati a causa del terreno sfavorevole (boscoso e acquitrinoso, con
vegetazione alta e molti casolari, che rende difficile l’avanzata di grandi
unità e la determinazione degli obiettivi per l’artiglieria) e della forte
reazione delle mitragliatrici nemiche. L’operazione fa parte di una più vasta
azione offensiva intrapresa dalla III Armata sul Piave, da Intestadura al mare,
iniziata il 2 luglio e che entro il 6 luglio porterà alla riconquista del territorio
compreso tra il Piave ed il tratto di Sile chiamato Piave Vecchio.
A supporto delle
diverse formazioni in mare operano alcune squadriglie di idrovolanti, una delle
quali guidata dal sottotenente di vascello Aimone di Savoia, avente come
osservatore incaricato di fare segnalazioni sul tiro il tenente di vascello
Accorretti.
Nel corso di questa
operazione, i cacciatorpediniere italiani s’imbattono negli
austroungarici Csikós e Balaton e nelle torpediniere TB 83F e la TB 88F, partite da Pola nella tarda
serata del 1° luglio per supportare un’incursione aerea su Venezia e giunte in
zona dopo aver superato l’attacco di un MAS – che ha infruttuosamente lanciato
un siluro contro il Balaton, che
ha una caldaia guasta, il che rallenta la formazione – all’alba del 2 luglio.
Le unità italiane
stanno incrociando ad una decina di miglia dalla costa di Cortellazzo, in
condizioni di cielo quasi sereno ma leggermente fosco all’orizzonte (la luna è
sorta da poco) e mare abbastanza calmo con brezza da scirocco, quando avvistano
due “globi luminosi bianchi” scendere dall’alto a forte distanza per poi
spegnersi, dopo di che avvistano anche una lieve nuvola di fumo che va
facendosi via via più nitida. Alle 3.05 vengono avvistate le sagome delle
quattro navi nemiche, ed alle 3.23 (per altra fonte, le 3.10) l’Orsini apre il fuoco per primo,
seguito dagli altri cacciatorpediniere della sua squadriglia, dopo di che anche
le siluranti austroungariche – che per una fonte austriaca alle 3.10 avrebbero
invece avvistato fumo di diverse navi, al traverso e verso poppa, giungendo poi
all’avvistamento – rispondono immediatamente: la distanza è di 4000 metri, in
rapida diminuzione. In breve le formazioni contrapposte si trovano a poco più
di mille metri l’una dall’altra; la Squadriglia «Missori» poco dopo l’apertura
del fuoco si dispiega sulla dritta per avere il campo di tiro libero, dopo di
che, quando la Squadriglia «Orsini» accosta a sinistra, ne imita la manovra,
formando così un’unica linea di fila. Il tiro nemico risulta presto centrato
soprattutto sullo Stocco.
Nel breve scambio di
colpi tutte le unità austroungariche, soprattutto il Balaton, subiscono alcuni danni, ma anche lo Stocco viene colpito da due
proiettili (uno tra plancia e fumaiolo prodiero, l’altro nella riservetta del
cannone n. 3), con alcuni morti e feriti tra l'equipaggio ed un incendio a
bordo che lo obbliga a fermarsi (dopo aver evitato due siluri con la manovra),
e l'Acerbi si deve fermare per
fornire aiuto all’unità gemella; successivamente, soffocate le fiamme quasi del
tutto, lo Stocco ritornerà sul
luogo dello scontro per cercare di unirsi nuovamente al combattimento. Secondo
una fonte, da parte italiana anche l’Orsini
sarebbe stato danneggiato nello scontro. Il Balaton, centrato più volte in coperta a prua, si porta in
posizione più avanzata e successivamente ripiega verso Parenzo, mentre Missori, Audace e La Masa combattono
contro il Csikós e le due
torpediniere, rimaste indietro: da entrambe le parti si lanciano
infruttuosamente siluri, mentre il Csikós viene
colpito da un proiettile nel locale caldaie poppiero ed anche le due
torpediniere ricevono un colpo ciascuna. Alle 3.40, perso reciprocamente di
vista l’avversario, le due parti cessano il fuoco; le unità italiane si
allontanano per riprendere il loro ruolo, mentre quelle austroungariche
accostano per allontanarsi e rientrano a Pola.
Per quest’azione, il
comandante Cavagnari verrà decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare
(motivazione: "In numerose missioni
di guerra in vicinanza di costa nemica e sotto le offese nemiche, dava prova di
ardimento, abilità, sprezzo del pericolo, sempre ottenendo splendidi risultati.
In un combattimento notturno, comandante di squadriglia di cacciatorpediniere e
della unità capofila, prese l’iniziativa del fuoco contro il nemico e lo
mantenne con la massima intensità pur essendo fatto bersaglio in modo speciale
dall’intero gruppo delle siluranti avversarie: inutilizzate temporaneamente
alcune caldaie, proseguiva tuttavia sino alla fine del combattimento, dimostrando
ardire, energia e prontezza di decisione").
17 luglio 1918
Le Squadriglie
Cacciatorpediniere «Orsini» e «Missori» escono in mare per dare appoggio ad
un’incursione aerea in grande stile contro le installazioni militari
austroungariche della base di Pola. L’incursione – preceduta, durante la notte
tra il 16 ed il 17, da un primo attacco compiuto da due dirigibili della
Marina, che sganciano 800 kg di bombe sulle opere militari di Brioni Minore,
Scoglio Olivi, Arsenale e Torre Orlando – vede la partecipazione di ben 47
bombardieri (20 Caproni dell’Esercito e 27 idrovolanti della Marina decollati
da Sant’Andrea) scortati da 41 aerei da caccia (30 della Marina e 11
dell’Esercito); sul mare, fanno da guida e scorta navale cinque torpediniere e
due MAS, con l’appoggio delle due citate squadriglie di cacciatorpediniere.
Primi ad attaccare
sono i Caproni dell’Esercito, decollati da Padova alle cinque del mattino, in
modo da impedire il decollo a contrasto di idrovolanti austroungarici e di
intralciare l’osservazione ed il tiro contraereo; subito dopo sganciano le loro
bombe gli idrovolanti decollati da Sant’Andrea, scortati dai caccia della 242a
Squadriglia di San Nicolò di Lido. Vengono colpite le installazioni militari e
la Stazione Idrovolanti di Pola.
1° novembre 1918
L’Orsini fa parte della V Squadriglia
Cacciatorpediniere, di base a Venezia, che forma coi gemelli Sirtori, Stocco ed Acerbi. La
V Squadriglia forma la Flottiglia cacciatorpediniere di Venezia insieme alle
Squadriglie I (Ardito, Audace, Francesco Nullo e Giuseppe
Cesare Abba) e III (Nicola Fabrizi,
Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo, Giuseppe Missori).
3 novembre 1918
Secondo qualche
fonte, l’Orsini, l’Acerbi e lo Stocco sarebbero stati (insieme ai cacciatorpediniere Rosolino Pilo, Audace, Giuseppe Missori, Giuseppe La Masa e Nicola Fabrizi e ad alcune torpediniere
ed unità minori) tra le unità che il 3 novembre entrarono a Trieste
trasportandovi il generale Carlo Petitti di Roreto, il 7° e l’11° Reggimento
Bersaglieri ed alcuni membri di reparti speciali, che presero possesso della
città in nome dell’Italia. Ciò sembra però alquanto improbabile, risultando
temporalmente incompatibile con l’invio di Orsini,
Acerbi e Stocco (insieme ad altre due unità) a Fiume, che avvenne quello
stesso giorno (vedi sotto).
3-20 novembre 1918
Mentre la prima
guerra mondiale sul fronte italiano volge al termine con la vittoria italiana a
Vittorio Veneto, l’Orsini, il Sirtori, lo Stocco e l’Acerbi
partono da Venezia alle 7 del 3 novembre unitamente all’anziana
corazzata Emanuele Filiberto (nave
ammiraglia del contrammiraglio Guglielmo Rainer, comandante del gruppo) per
raggiungere Fiume, dove tutelare gli interessi italiani e la popolazione
italiana della città dai disordini scoppiati dopo il collasso dell’Impero
Austro-Ungarico.
Il patto di Londra
non ha assegnato Fiume all’Italia, ma alla Croazia (che all’epoca della stipula
del patto di Londra, nel 1915, si pensava sarebbe rimasta unita all’Ungheria,
non potendo prevedere la nascita di un nuovo Stato jugoslavo), ragion per cui
le forze italiane non dovranno occupare la città; il loro invio – che comunque
rappresenta anche un tentativo di porre i presupposti per una futura annessione
all’Italia, reclamata da buona parte della popolazione – è stato determinato da
una richiesta di una delegazione di cinque rappresentanti (divenuti poi noti
come gli «Argonauti del Carnaro»: Mario Petris, Giuseppe de’ Maineri, Giovanni
Siglich, Attilio Prodam e Giovanni Matcovich) del Consiglio Nazionale Italiano
italiano costituitosi a Fiume, che il 2 novembre si sono recati a Venezia – con
un periglioso viaggio in motoscafo fino a Trieste attraverso acque insidiate,
mentre le ostilità sono ancora in corso, per poi imbarcarsi il 29 ottobre su un
piroscafo che li ha portati a Venezia –, presso l’ammiraglio Paolo Thaon di
Revel, capo di stato maggiore della Regia Marina, per chiedere l’intervento
della flotta a tutela della popolazione italiana, minacciata dalle milizie
croate (capeggiate dal capitano Petar Teslić, e cui i fiumani possono opporre una guardia civica molto meno
armata), ed in appoggio al consiglio nazionale italiano.
La popolazione di
Fiume (o piuttosto, la sua componente italiana), città multietnica a
maggioranza italiana (oltre il 60 %) ma con una notevole minoranza slava (circa
il 30 %, soprattutto croati ed in minor misura sloveni), è preoccupata dalla
prospettiva dell’annessione al neocostituito Regno dei serbi, croati e sloveni,
futura Jugoslavia. In seguito all’abbandono di Fiume da parte della polizia e
delle autorità austroungariche (o più precisamente ungheresi, siccome Fiume è
da due secoli parte del Regno di Ungheria, del quale rappresenta l’unico sbocco
sul mare: il governatore ungherese, Zoltan Jekel-Falussy, ha consegnato i
poteri al podestà italiano Antonio Vio, col mandato di trasferirli al Consiglio
Nazionale Croato di Sussak), verificatosi il 29 ottobre a seguito di uno
scontro tra ungheresi e croati, la città è nel caos: sono scoppiati disordini,
si sono costituiti due contrapposti consigli nazionali, uno italiano ed uno
croato/jugoslavo (esiste a Fiume, infatti, anche una considerevole minoranza
croata, che ammonta a circa un quarto della popolazione), e desta
preoccupazione la presenza in città delle truppe dell’ormai ex esercito
austroungarico rimaste senza più comandanti o disciplina, e specialmente di
quelle di etnia croata, che sono ora passate agli ordini del nuovo regno dei
serbi, croati e sloveni che reclama l’annessione di Fiume. Per giunta,
collassato lo Stato asburgico e dissoltesi le sue autorità, iniziano a
scarseggiare in città persino cibo e medicinali. Il 30 ottobre il Consiglio
Nazionale Italiano ha emesso un proclama col quale chiede l’annessione della
città all’Italia, in nome del principio di autodeterminazione dei popoli
enunciato dal presidente statunitense Wilson (del quale si chiede anche la
tutela); nello stesso giorno la sua controparte jugoslava, che fruisce
dell’appoggio armato dei soldati croati ex austroungarici (i quali occupano gli
uffici dell’amministrazione statale e s’impadroniscono di navi, artiglierie e
linee di comunicazione), ha occupato il palazzo del governatore, ed il capo del
Consiglio Nazionale jugoslavo ha assunto l’incarico di governatore provvisorio
(mentre l’amministrazione comunale rimane in mano al consiglio italiano). I due
consigli nazionali, naturalmente, non si riconoscono vicendevolmente alcuna
autorità; sulla torre civica sventola la bandiera italiana, sul palazzo del
governatore quella croata. Data la delicata situazione relativa al patto di
Londra, l’ammiraglio Thaon di Revel ha chiesto specifica autorizzazione per
l’invio delle navi a Fiume al presidente del consiglio Vittorio Emanuele
Orlando, cui ha prospettato la possibilità di catturare alcune navi mercantili
presenti in tale porto.
La navigazione della
divisione navale dell’ammiraglio Rainer è ostacolata dalla fitta nebbia e dalle
mine vaganti; a mezzogiorno giunge notizia che tre U-Boote tedeschi, fuggiti da
Pola prima della consegna della flotta ex austroungarica alla neonata
Jugoslavia, si trovano ora nel golfo di Trieste, pertanto i cacciatorpediniere
vengono disposti in formazione protettiva attorno all’Emanuele Filiberto, e s’intensifica la vigilanza da parte delle
vedette. Ma non viene avvistata traccia di sommergibili.
La formazione, per
via della bassa velocità che deve tenere a causa di nebbia e mine, giunge
all’imbocco del Quarnaro quando è già sera, di nuovo con nebbia (dopo una
moderata schiarita durante il giorno) e scirocco fresco; i piloti ritengono
troppo pericoloso l’attraversamento notturno (notte particolarmente buia, senza
luna) del canale della Faresina in tali condizioni (ci sono anche dei campi
minati), quindi l’ammiraglio Rainer decide di incrociare in quelle acque fino
all’alba. Durante la notte giunge per radio la notizia della firma dell’armistizio
di Villa Giusti, e l’annuncio che le ostilità tra Italia e Austria-Ungheria
cesseranno per mare, per terra e nell’aria dalle ore 15 del 4. Infine, all’alba
del 4 novembre, riprende la navigazione, con lo Stocco in testa, seguito dalla corazzata; la formazione segue
la costa istriana, entra nel Quarnaro, attraversa senza incidenti gli stretti
minati.
Lungo il percorso, Orsini ed Acerbi vengono distaccati per prendere possesso rispettivamente
di Lussino e di Abbazia (le altre tre navi arriveranno invece a Fiume alle
10.30 del giorno stesso, festosamente accolte dalla popolazione italiana della
città).
Alle 13.15 (o 18.15)
del 4 novembre, qualche ora prima che l’armistizio di Villa Giusti entri
formalmente in vigore, l’Orsini, dopo
essere passato tra Zabudaki e Punta Bianca, entra nel porto di Lussinpiccolo,
capoluogo dell’isola di Lussino (al largo della costa orientale dell’Istria), e
ne prende possesso in nome dell’Italia.
A Lussino, come in
tante altre località dell’Istria, la situazione è tesa per via dei contrasti
tra la componente italiana (che in base al censimento austroungarico del 1910
conta 7588 abitanti nei tre Comuni dell’isola, il 58 % del totale della
popolazione dell’isola) e quella croata (che in base al medesimo censimento
assomma a 4289 persone, il 33 % del totale): l’una vuole l’annessione al Regno
d’Italia (ed ha presentato una petizione in tal senso già il 2 novembre),
l’altra al neocostituita Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (poi divenuto Regno
di Jugoslavia). A Lussinpiccolo, il maggiore centro dell’isola, sono in
maggioranza gli italiani (il 59,87 % degli 8390 abitanti), così come ad Ossero
(il 75,37 % dei 2245 abitanti), mentre a Lussingrande la componente più
numerosa è quella croata (il 47,46 % dei 2463 abitanti, mentre gli italiani
sono il 35,44 % ed il restante 17,09 % si considera appartenente ad altri
gruppi etno-linguistici). A fine ottobre 1918 si sono costituiti sia a
Lussinpiccolo che a Lussingrande due contrapposti comitati nazionali, italiano
e croato; a Lussinpiccolo il comitato nazionale italiano ha occupato il
municipio e proclamato, il 1° novembre, l’unione di Lussino all’Italia, ma
nell’isola si trovano ancora numerose truppe ex austroungariche di etnia
croata, ora fedeli alla nascente Jugoslavia, e nel porto le navi già asburgiche
hanno issato la bandiera del regno dei serbi, croati e sloveni, che sventola
anche sui comandi militari ex austroungarici e sulle case di parecchi croati.
L’arrivo dell’Orsini è pertanto accolto festosamente
dalla popolazione italiana: il comandante Cavagnari proclama l’annessione
dell’isola nel nome del re d’Italia e dichiara alla popolazione: “L’Italia vi
ringrazia per la vostra fede”. Sbarca dal cacciatorpediniere un drappello di
marinai armati; il 5 novembre il tenente di vascello Angelo Chiari, comandante
in seconda dell’Orsini, prende
possesso anche del municipio di Lussingrande (dove l’innalzamento del tricolore
da parte del comitato nazionale italiano, il 1° novembre, aveva provocato
scontri tra italiani e croati).
L’arrivo dell’Orsini a Lussinpiccolo, il 4 novembre 1918 (Coll. Marilena Mancini Mattioli, via “Lussino – Foglio della Comunità di Lussinpiccolo”) |
Le tensioni non
mancano: per prima cosa un ufficiale croato, già appartenente alla dissolta
Marina austroungarica, protesta per l’occupazione italiana; poi – la sera del 4
novembre – entra in porto la torpediniera ex austroungarica TB 82, che batte ora bandiera jugoslava,
e che arriva quasi all’incidente con l’Orsini.
Il 5 novembre, il comandante della TB 82
fa infatti issare la bandiera jugoslava sul locale forte; contemporaneamente i
membri della comunità croata cercano di issare la bandiera jugoslava accanto a
quella italiana per dichiarare la sovranità sull’isola della nascente
Jugoslavia, ed il giorno seguente i marinai della TB 82 issano tale bandiera sulla loro caserma. Anche il clero
croato si oppone all’arrivo degli italiani. Il comandante Cavagnari riuscirà
tuttavia a convincere i militari jugoslavi ad ammainare le loro bandiere ed a
lasciarsi disarmare; poi li imbarcherà sulla TB 82 e li farà portare a Fiume, il 7 novembre. Risolto anche
questo problema, il comandante dell’Orsini
può definitivamente affermare la sovranità dell’Italia su Lussino; per questa
iniziativa, con la quale ha risolto la difficile situazione evitando uno
scontro armato, Cavagnari verrà insignito della croce di cavaliere dell’Ordine
Militare di Savoia (motivazione: "Attraverso
lo stretto passaggio fra Zabudaki e punta Bianca penetrava risolutamente col
cacciatorpediniere "Orsini" nel porto fortificato e base navale di
Lussin Piccolo, in piena efficienza militare, e lo occupava con forze esigue
prima dell'entrata in vigore dell'armistizio, dimostrando di possedere qualità
di tatto politico, energia e retto discernimento. Compieva anche altra missione
da Venezia a Fiume attraverso zone minate mai percorse e sotto la minaccia di
sommergibili tedeschi. Lussin Piccolo, 4 novembre 1918").
L’Orsini a Lussinpiccolo a inizio novembre
1918, col ponte gremito di persone: accanto passa la TB 82 (g.c. STORIA militare)
Simili tensioni si
verificano anche nella vicina isola di Cherso, dove il locale Comitato
Nazionale Italiano (qui però gli italiani sono in minoranza, 2296 a fronte di
5708 croati) richiede l’occupazione italiana denunciando “abusi” da parte della
componente croata; il 6 novembre l’Orsini
trasmette tale richiesta al contrammiraglio Rainer a Fiume, e quattro giorni
dopo verrà infatti inviato a Cherso lo Stocco.
L’8 novembre l’Orsini verrà raggiunto a Lussino dal
gemello Acerbi, col quale si
alternerà tra Fiume e Lussino nelle settimane successive, e la situazione
nell’isola verrà gradualmente “normalizzata” entro il 20 novembre, con l’evacuazione
dei forti, il totale disarmo e trasferimento a Fiume di tutti i militari
jugoslavi e la confisca di alcuni piroscafi, di un panfilo (l’U 4, già appartenuto all’arciduca Carlo
Stefano d’Asburgo) e di quantità di materiale bellico. Il 21 novembre arriva
con il Sirtori il capitano di
corvetta Riccardo Paladini, nominato comandante militare di Lussino.
Gli scontri tra abitanti
italiani e croati di Lussino proseguiranno però ancora per mesi, fino all’8
settembre 1919, quando l’isola verrà ufficialmente annessa all’Italia.
Il Vincenzo Giordano Orsini a Fiume in una foto del 17 novembre 1918 (da www.lokalpatrioti-rijeka.com) |
Ancora l’Orsini, a destra, ed i cacciatorpediniere francesi Saklave e Touareg (sulla sinistra) a Fiume il 17 novembre 1918 (da www.lokalpatrioti-rijeka.com) |
L’Orsini (a sinistra) e la corazzata Emanuele Filiberto a Fiume il 17 o 18 novembre 1918 (da www.lokalpatrioti-rijeka.com) |
L’Orsini, l’Emanuele Filiberto e l’incrociatore corazzato San Marco a Fiume il 17/18 novembre 1918 (da www.lokalpatrioti-rijeka.com) |
Fine 1918
L’Orsini partecipa all’occupazione di
alcune località della Dalmazia e dell’Albania, e compie missioni in acque
ancora minate tra Fiume e Venezia.
Sopra, l’Orsini (sulla destra, seminascosto dal Sirtori) ormeggiato a Fiume insieme al
gemello Sirtori, all’Emanuele Filiberto ed ai cacciasommergibili statunitensi SC 124, SC 125 e SC 127 in una
foto del 29 novembre 1918 (Naval History and Heritage Command, via Giorgio
Parodi e www.naviearmatori.net);
sotto, l’Orsini s’intravede sullo
sfondo in una foto ritraente l’arrivo a Fiume di truppe statunitensi, risalente
alla fine del 1918 od all’inizio del 1919 (da www.lokalpatrioti-rijeka.com)
24 marzo 1919
L’Orsini è tra le navi che
partecipano alla «Parata della Vittoria», tenuta a Venezia per celebrare la
vittoria nella prima guerra mondiale, che vedrà il suo culmine nel
trasferimento da Pola a Venezia dell’ormai ex flotta austroungarica (o più
precisamente, della parte di tale flotta assegnata all’Italia), divenuta preda
di guerra.
La Serenissima è
pavesata a festa per l’occasione, e straripante di gente che si affolla sulle
rive per assistere allo spettacolo dell’arrivo della flotta avversaria
sconfitta; sulle antenne di Piazza San Marco e della Basilica sventolano la
bandiera italiana e quella di San Marco, «raffiguranti due pagine di storia
diversamente grande ed immortale». Tra le navi che partecipano alla cerimonia
vi sono i cacciatorpediniere Audace (carico
di autorità: il re d’Italia, Vittorio Emanuele III; il principe di Udine,
nonché capitano di vascello, Ferdinando di Savoia; il viceammiraglio Mario
Casanuova, comandante in capo della Piazza Marittima di Venezia; il capitano di
vascello Giuseppe Sirianni, comandante del Reggimento Marina che nel 1917-1918
ha combattuto alle foci del Piave a difesa di Venezia, e che di lì a poco sarà
ribattezzato Reggimento "San Marco" in riconoscimento della sua opera), Nicola Fabrizi (con a bordo il
generale Pietro Badoglio nonché tecnici, fotografi e cineoperatori dell’Ufficio
Speciale del Capo di Stato Maggiore della Marina, che dovranno riprendere gli
eventi) e Giacomo Medici (con
a bordo gli addetti navali delle altre potenze dell’Intesa), nonché parecchi
altri; le torpediniere Climene (carica
di giornalisti) e Procione (con
a bordo ufficiali del Comando Supremo); i piroscafi San Giorgio (con a bordo le rappresentanze di Camera e
Senato), Roma (con le
rappresentanze del Comune e della Provincia di Venezia, tra cui il sindaco
Filippo Grimani ed il viceprefetto Tiretta) e San Marco (con a bordo i capi servizio dell’Esercito e della
Marina), e quattro MAS, uno dei quali ha a bordo il contrammiraglio Ricci,
comandante in seconda del Dipartimento di Venezia, con l’incarico di dirigere
il “corteo” navale che si va formando. Partecipano inoltre anche 10
idrovolanti.
Le navi del corteo
escono dal porto degli Alberoni e si recano incontro alla flotta ex austroungarica,
in arrivo da Pola e composta tra l’altro dalle corazzate Tegetthoff e Erzherzog Franz Ferdinand,
dall’esploratore Admiral Spaun,
dai cacciatorpediniere Tatra e Csepel, dalle torpediniere TB 80, 81, 82 e 86 e da quattro sommergibili
(questi ultimi sono in coda alla formazione).
L’Orsini è una delle navi che
scortano le unità ex austroungariche da Pola a Venezia: in qualità di
caposquadriglia, procede in testa al convoglio di navi ex nemiche (ed incontra
per primo l’Audace proveniente da
Venezia), mentre sui lati navigano il Sirtori,
lo Stocco e l’esploratore Nibbio (avente a bordo il
viceammiraglio Umberto Cagni). Le navi austroungariche navigano a bassa
velocità; giunte nel punto d’incontro con il corteo uscito da Venezia, issano
bandiera bianca e rossa per segnalare di aver fermato le macchine ed essere in
attesa. Il corteo proveniente da Venezia, guidato dall’Audace, defila sul lato sinistro della formazione ex
austroungarica, i cui equipaggi, schierati in coperta, rendono gli onori
militari; Vittorio Emanuele III passa in rassegna la squadra, e sulla Tegetthoff viene alzato il gran
pavese. Poi, l’Audace si pone in
testa al convoglio per tornare in porto; le navi austroungariche si dispongono
in linea di fila, mentre Orsini,
Sirtori e Stocco si schierano all’estremità della diga settentrionale della
laguna per assistere alla sfilata. Una volta che le navi già avversarie li
hanno superati per entrare in porto, Orsini,
Sirtori e Stocco lasciano Venezia per tornare a Pola.
Le navi dell’ex
k.u.k. Kriegsmarine entrano a Venezia accolti da una moltitudine di gondole e
barche di ogni tipo, dal fischio delle sirene delle navi ormeggiate, e dallo
scampanio di tutti i campanili della città, specialmente quello di San Marco;
tra le navi da guerra che presenziano, anch’esse straripanti di folla, ci sono
le corazzate Re Umberto e Dante Alighieri e gli
incrociatori Goito e Montebello.
Nello stesso mese di
marzo 1919, il capitano di fregata Cavagnari lascia il comando dell’Orsini.
L’Orsini a inizio 1920 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
2 febbraio 1920
Secondo quanto riferito
da alcuni giornali dell’epoca, il 2 febbraio 1920 l’Orsini e la nave ausiliaria Città
di Roma, in navigazione da Ancona a Pola con un carico di 3000 tonnellate
di munizioni, 4000 uniformi da marinaio e derrate alimentari per le forze
navali italiane (a bordo della Città di
Roma), sarebbero stati “catturati” dai "legionari fiumani" di
Gabriele D’Annunzio e condotti come prede di guerra a Fiume, occupata il
precedente 12 settembre da 2600 soldati ammutinati postisi agli ordini del
celebre poeta, che vi ha fondato la "Reggenza del Carnaro".
L’Orsini (a sinistra) ormeggiato accanto all’esploratore Cesare Rossarol nel 1920 (Coll. Luigi Accorsi via www.associazione-venus.it) |
1920
Lavori di modifica
dell’armamento: i 6 pezzi singoli Schneider-Armstrong 1914-1915 da 102/35 mm
vengono sostituiti con altrettanti Scheider-Armstrong 1917 da 102/45 mm, più
moderni.
3 marzo 1922
L’Orsini è presente a Fiume – che dopo la
fine dell’occupazione dannunziana è stata proclamata Stato Libero – quando in
città si svolge un colpo di Stato attuato dai fascisti e dai nazionalisti
italiani del “Comitato di Difesa Nazionale” ai danni del legittimo Governo della
città-stato, presieduto dall’autonomista Riccardo Zanella (uscito vincitore
alle elezioni dell’aprile 1921). Gli uomini del “Comitato di Difesa Nazionale”,
che comprendono anche molte camicie nere del Veneto e della Toscana affluite
sotto il comando del deputato e capo squadrista Francesco Giunta (e sono
appoggiati, secondo una fonte, anche da un battaglione di fanteria italiano di
stanza in città), bombardano il Palazzo del Governo con il cannoncino di un MAS
presente in porto (di cui i rivoltosi si sono impadroniti), azionato dallo
stesso Giunta, e poi lo prendono d’assalto; il presidente Zanella viene
costretto a dare le dimissioni sotto la minaccia delle armi, cedendo i poteri
al “Comitato di Difesa Nazionale”, ed a cercare rifugio in Jugoslavia insieme
ai membri del suo Governo. Muoiono negli scontri il tenente Edoardo Meazzi, l’ardito
Spiridione Stojan (che fanno parte dei rivoltosi), il brigadiere dei
carabinieri Antonio Grossi e tre agenti di polizia.
Il 16 marzo, durante
una discussione in parlamento a Roma, il deputato socialista Ferdinando
Cazzamalli accuserà le forze armate e le autorità italiane di essere
tacitamente complici degli squadristi: "Nessuno ostacola la partenza di queste squadre, in pieno assetto di
guerra. Al confine esse trovano, s'intende, il passaggio libero, i carabinieri
a Fiume lasciano passare per la città le squadre armate di Trieste, in assetto
di guerra. Dopo ciò io voglio credere che la Camera si persuaderà della
evidenza di un fatto, che conviene stabilire in modo chiaro e preciso; la
rivolta del 3 marzo è rivolta di importazione triestina per soffocare nel
sangue la costituente fiumana. È evidente altresì che i rivoltosi sapevano di
poter contare sulla inerzia, sulla cecità voluta, sulla compartecipazione,
sulla solidarietà dei carabinieri e della Regia marina, dopo avere ottenuto
quella di Mosconi e delle autorità politiche e militari della Venezia Giulia".
Anche la Marina ed in particolare il comandante dell’Orsini, rimasto a guardare, sono oggetto delle sue accuse: "La marina consentì all'impossessamento del
Mas, e il comando del cacciatorpediniere Orsini, se ne stette tranquillamente
ad osservare il bombardamento". Francesco Giunta, anch’egli presente
alla seduta parlamentare, dopo aver raccontato la propria versione dei fatti
difende il proprio operato e quello del comandante dell’Orsini, a proposito del quale dichiara: "Che poteva fare il comandante del cacciatorpediniere Orsini? Il caccia
non era in pressione quando sono uscito col Mas, e, per metterlo in pressione,
voi sapete che passa del tempo. Una cosa sola poteva fare: mentre in alto dal
palazzo si tirava sugli italiani, egli doveva mandare a picco degli italiani.
Questo non ha fatto. Giudicate voi".
Il 17 marzo i
rivoltosi affideranno il governo provvisorio dello Stato Libero di Fiume
all’irredentista Attilio Depoli; successivamente l’Italia invierà truppe ad
occupare la città quarnerina, nominando governatore militare, dal 17 settembre
1923, il generale Gaetano Giardino. Il 27 gennaio 1924 il trattato di Roma sancirà
formalmente la fine dell’effimero Stato Libero di Fiume: Fiume città, a
maggioranza italiana, verrà annessa dal Regno d’Italia, mentre le frazioni
periferiche ed il sobborgo di Sussak, a maggioranza croata, saranno annessi
dalla Jugoslavia.
L’Orsini in transito nel canale navigabile di Taranto negli anni Venti (Coll. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net) |
Anni Venti
Per un periodo è
comandante dell’Orsini il capitano di
corvetta Ferdinando Casardi. Nella seconda metà del decennio ricopre per un
periodo il ruolo di comandante in seconda il tenente di vascello Francesco
Dell’Anno, futura Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Ferdinando Casardi, comandante dell’Orsini durante gli anni Venti, qui in divisa da ammiraglio (dal Dizionario Biografico Uomini della Marina) |
1° ottobre 1929
Declassato a
torpediniera, come i tre gemelli e tutti i vecchi “tre pipe”.
11 o 12 settembre 1931
Nel porticciolo di
Apollonia (Cirenaica; altra fonte parla invece di Bardia), l’Orsini imbarca Omar al-Mukhtar, capo dei
ribelli senussiti che da un decennio combattono contro la dominazione italiana
in Cirenaica, ferito e catturato poche ore prima dalle truppe italiane a Uadi
Bu Taga. Portato dall’Orsini a
Bengasi (durante la navigazione viene interrogato una prima volta dal
commissario del Ministero delle Colonie Giuseppe Daodiace, al quale dichiara “la mia cattura è certo avvenuta per volontà
di Dio ed ormai sono nelle mani del Governo, sono prigioniero. Iddio disporrà
di me. Mi avete preso, fate ora quel che volete; certo si è che da me non mi
sarei mai presentato”), dove giungerà la sera del 12, al-Mukhtar verrà
rinchiuso nelle locali carceri ed impiccato il 16 settembre a Soluch, dopo un
sommario processo dall’esito scontato. La morte di al-Mukhtar – assurto in
seguito al ruolo di eroe nazionale libico – segna di fatto la fine della
rivolta senussita ed il completamento della riconquista italiana della Libia.
L’Orsini a Venezia a inizio 1930 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
Inizio anni Trenta
Dislocata a Taranto,
l’Orsini fa parte del Gruppo Navi
Scuola Meccanici [incerto].
1934
L’Orsini è dislocata in Libia.
L’Orsini a inizio 1935 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
6 marzo 1937
Tre marinai dell’Orsini perdono la vita in un incendio
scoppiato a bordo mentre la nave si trova all’ancora a La Spezia.
Una lunga
serie di fotografie dell’Orsini e del
suo equipaggio scattate verosimilmente verso la fine degli anni Trenta, dalla
collezione del marinaio Giuseppe Angelini che vi fu imbarcato nel periodo
1936-1938 (si ringrazia il figlio Luigi):
ca. 1937-1938
È comandante dell’Orsini il tenente di vascello Raffaele
Barbera.
L’Orsini nel bacino di San Marco a Venezia il 15 luglio 1936, il marinaio in foto è Giuseppe Angelini (per g.c. del figlio Luigi) |
3 giugno 1940
In navigazione nel Mar
Rosso, l’Orsini s’imbatte
nell’incrociatore leggero Hobart,
della Marina australiana. Manca ormai soltanto una settimana all’ingresso
dell’Italia nella seconda guerra mondiale.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. L’Orsini,
insieme alla gemella Acerbi, è
dislocata a Massaua (Eritrea), sul Mar Rosso, principale base navale
dell’Africa Orientale Italiana; le due unità sono poste alle dirette dipendenze
del Comando Marina di Massaua (capitano di fregata Filippo De Fraia),
formandone il "Distaccamento Torpediniere".
Nei giorni
immediatamente precedenti, o successivi, alla dichiarazione di guerra, l’Orsini trasporta personale e materiale
dell’Esercito a Marsa Taclai ed a Marsa Belissé, dove sono in via di creazione
dei presidi avanzati.
Nei mesi successivi,
l’Orsini avrà attività molto
limitata, compiendo soltanto alcune sparute missioni di breve durata in acque
costiere. Tra queste missioni ve ne sono alcune che ricordano i tempi della Grande
Guerra in Adriatico: compito dell’Orsini
è infatti di rimorchiare i vecchi MAS di base a Massaua, risalenti anch’essi –
come lei – alla prima guerra mondiale (sono stati costruiti nel 1918 e sono tra
i più vecchi MAS ancora in servizio nella Marina italiana), fino ai settori
d’operazioni ad essi assegnati nello stretto di Bab el Mandeb, in quanto
altrimenti la loro limitatissima autonomia non consentirebbe loro di
raggiungerli, eseguire il pattugliamento previsto e poi tornare alla base. Così
si faceva regolarmente nella guerra ’15-’18, mentre durante la seconda guerra
mondiale, in Mediterraneo, i più grandi e moderni MAS di nuova costruzione non
abbisognano più di siffatto supporto da parte di cacciatorpediniere e
torpediniere. La “guerriglia” navale combattuta in Mar Rosso nel 1940-1941,
d’altra parte, presenta più di qualche somiglianza con quella combattuta in
Adriatico dal 1915 al 1918.
(da www.italie1935-45.com) |
6 agosto 1940
Verso le 18, durante
uno dei frequenti bombardamenti aerei di Massaua (la città subirà oltre una
cinquantina di incursioni nel solo periodo compreso tra il giugno ed il
novembre del 1940), due o tre bombardieri britannici Bristol Blenheim
sganciarono le loro bombe a bassa quota prendendo di mira il seno di Dachilia,
dove Orsini ed Acerbi sono ormeggiate all’estremità meridionale del pontile: una
bomba cade su un pontone adibito a cucina galleggiante per le due torpediniere,
distruggendolo insieme ad un tratto di pontile; un’altra bomba colpisce in
pieno l’Acerbi, uccidendo 16 uomini e
danneggiandola così gravemente da renderla inutilizzabile. L’Orsini, ormeggiata poco distante, non
subisce invece alcun danno.
L’Orsini alla fonda in Mar Grande a Taranto nel periodo interbellico, ormeggiata tra la Giuseppe Cesare Abba e la Generale Antonino Cascino. Sullo sfondo il cacciatorpediniere Nazario Sauro, che come l’Orsini incontrerà la propria fine in Mar Rosso (da www.marina.difesa.it) |
21 ottobre 1940
Inviata nell’isola di
Harmil (arcipelago delle Dahlak) per recuperare l’equipaggio del
cacciatorpediniere Francesco Nullo,
affondato quel mattino in combattimento con il cacciatorpediniere britannico Kimberley. I 190 superstiti del Nullo sono già stati soccorsi dal
presidio italiano di Harmil (le cui batterie hanno anche danneggiato il Kimberley col loro tiro); l’Orsini li prende a bordo e li porta a
Massaua, dove arriva il giorno stesso.
Massaua, ultimo atto
Il principio del 1941
vide anche l’inizio della controffensiva del Commonwealth britannico, le cui
forze invasero l’Africa Orientale Italiana attaccando contemporaneamente a sud,
in Somalia, ed a nord, in Eritrea. Le truppe italiane, a corto di tutto ed
impossibilitate a ricevere rifornimenti, dovettero progressivamente arretrare:
il crollo in Somalia fu piuttosto rapido, mentre sulle montagne dell’Eritrea,
che meglio si prestavano alla difesa, si combatté aspramente per mesi.
Verso la fine del
gennaio 1941 la battaglia di Agordat, nell’Eritrea settentrionale, si risolse
sfavorevolmente per le truppe italiane, che dopo giorni di duri combattimenti
dovettero ripiegare verso Cheren. Fu a questo punto che si iniziò a tenere
seriamente in conto l’eventualità che Massaua potesse essere attaccata nel
prossimo futuro.
Già da tempo il
contrammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in A.O.I.
(Marisupao, che proprio a Massaua aveva il suo quartier generale), stava
studiando le misure da adottare per rinforzare le difese di Massaua nel caso di
un’offensiva nemica, nonché la sorte che avrebbero dovuto seguire le navi ivi
presenti quando la base fosse caduta. I suoi proposito a riguardo, Bonetti li
espresse per la prima volta in una lettera a Supermarina del 14 gennaio 1941;
dopo aver fatto presente che le difese di Massaua erano adatte a contrastare
azioni aeronavali nemiche, ma non certo un attacco di terra in grande stile,
l’ammiraglio esponeva i provvedimenti intrapresi per sopperire il più possibile
a tale carenza e poi le sue proposte relative al destino del naviglio
mercantile e militare. Queste prevedevano, tra l’altro, che i sommergibili
tentassero di raggiungere il Giappone (quelli oceanici) o l’Iran (il Perla, di
piccola crociera); che i cacciatorpediniere conducessero un attacco finale
contro Port Sudan, per poi autoaffondarsi sulle coste dello Yemen o dell’Arabia
Saudita; che il naviglio mercantile ed ausiliario venisse autoaffondato in modo
tale da sottrarlo alla cattura ed al contempo ostruire con i relitti il porto
di Massaua e renderlo inutilizzabile. Per l’Orsini,
così come per la nave coloniale Eritrea
e gli incrociatori ausiliari RAMB I e
RAMB II, il piano originario di
Bonetti prevedeva la seguente sorte: «Uscire
da Massaua possibilmente prima dei cacciatorpediniere oppure insieme;
raggiungere quando possono Porto Sudan; eseguire azioni offensive come i
cacciatorpediniere. Se possibile affondarsi all’imboccatura del porto per
ostruire il passaggio». Tuttavia, questo primo piano venne ben presto
modificato in più punti. Mentre si mantennero le decisioni relative ai
cacciatorpediniere ed al naviglio mercantile, venne stabilito che i
sommergibili avrebbero tentato di raggiungere la Francia, anziché il Giappone;
mentre in Giappone sarebbero andati Eritrea,
RAMB I e RAMB II, che avevano autonomia sufficiente a sottrarsi alla cattura
o alla distruzione. Anche l’Orsini,
come queste tre navi, venne esclusa dalla missione “suicida” contro Port Sudan,
ma con un diverso destino: non avendo l’autonomia sufficiente a raggiungere un
porto amico, la torpediniera sarebbe rimasta a Massaua per appoggiare l’estrema
difesa della città.
Fu più o meno intorno
all’epoca della battaglia di Agordat (fine gennaio 1941) che i comandi italiani
iniziarono ad essere seriamente preoccupati dall’eventualità che Massaua
potesse essere investita da un’offensiva delle forze di terra del Commonwealth.
Già il 24 gennaio, in considerazione dell’evolversi della situazione sul fronte
nord, l’ammiraglio Bonetti scrisse a Supermarina una lettera nella quale
esaminava le possibilità di difesa di Massaua nei confronti di un attacco sul
fronte a terra, possibilità che diveniva ogni giorno più concreta. Il maggior
pericolo veniva falla fascia costiera a nord della città, ampia dai 30 ai 50 km
e facilmente percorribile da reparti motorizzati: già il 20 gennaio Bonetti
aveva discusso la situazione difensiva con il generale Luigi Frusci, comandante
dello Scacchiere Nord, e ne era uscito un quadro a tinte alquanto fosche. La
guarnigione di Massaua, consistente all’epoca in 3000 uomini, era troppo esigua
per poter stabilire una linea di difesa fissa lungo tutta la fascia costiera;
né il terreno, quasi interamente sabbioso, si prestava alla difesa passiva.
Bisognava limitarsi alla difesa ravvicinata della piazzaforte, attorno alla
quale si sarebbe creato un campo trincerato la cui ampiezza era vincolata
all’entità delle forze disponibili. Eventuali truppe residue sarebbero state
utilizzate per una difesa manovrata. Nella lettera si esponevano poi una serie
di previsti interventi volti a rafforzare le difese sul fronte a terra – la
creazione di un battaglione misto di 600 soldati tra italiani ed ascari, la
creazione di quattro autocannoni da 76/30 con pezzi destinati ai dragamine ma
mai imbarcati, la preparazione di postazioni di mitragliere da usare in
funzione anticarro, l’adattamento delle batterie contraeree per il loro impiego
sul fronte di terra – alcune delle quali avevano già il sapore della
disperazione: «È infine in esperimento
avanzato un proiettile incendiario, costituito da bottiglie di benzina munite
di artificio che provoca l’accensione del liquido alla rottura, da lanciarsi
possibilmente con un congegno a balestra o a molla, da costruirsi con mezzi di
ripiego».
Il 26 gennaio, mentre
le difese italiane ad Agordat e Barentu erano investite dall’attacco
britannico, l’ammiraglio Bonetti fu convocato all’Asmara, capitale dell’Eritrea
italiana, dal generale Claudio Trezzani, capo di Stato Maggiore delle forze
italiane in Africa Orientale. Parteciparono al colloquio anche il generale
Frusci ed il generale di squadra aerea Pietro Pinna Parpaglia, comandante
dell’Aeronautica in Africa Orientale. Dopo aver annunciato che la situazione
dell’Eritrea poteva precipitare da un momento all’altro, Trezzani e Frusci
spiegarono a Bonetti che lo Scacchiere Nord non disponeva di truppe con cui
rinforzare Massaua, dunque l’ammiraglio – cui veniva affidato il compito della
difesa ad oltranza della piazzaforte – si sarebbe dovuto arrangiare con quello
che aveva. Bonetti relazionò su questa riunione a Supermarina con una lettera
del 27 gennaio, nella quale concludeva: «Vi
assicuro, Eccellenza, che tutti faremo qui il nostro dovere e anche di più,
fino all’estremo». Il 1° febbraio 1941 venne formalmente creata la Piazza
Militare Marittima di Massaua, il cui comando venne affidato all’ammiraglio
Bonetti. Questi, precedentemente responsabile soltanto della difesa sul fronte
a mare, venne così investito anche della responsabilità del fronte a terra,
precedentemente di competenza dell’Esercito (in una lettera a Supermarina ed al
Comando Superiore Forze Armate in A.O.I. datata 27 febbraio, anzi, Bonetti
arrivava a dire che fino al gennaio 1941 il fonte a terra «non era stato considerato e non esisteva»).
Lo stesso giorno,
Bonetti scriveva ancora a Supermarina annunciando di aver fatto spostare le
batterie contraeree affinché potessero sparare anche contro eventuali
attaccanti di terra, di aver dato inizio alla posa dei campi minati difensivi,
e di aver dato disposizione affinché il centro comunicazioni della Marina
(Maricomun) ed i servizi amministrativi (Maricommi) si trasferissero ad Asmara,
in modo da poter continuare ad operare anche dopo l’eventuale isolamento di
Massaua. I sommergibili venivano preparati alla partenza.
Qualche magro
rinforzo iniziò ad arrivare: un battaglione di 548 camicie nere, che fu subito
adibito alla realizzazione di una linea di difesa interna – appoggiata alle
posizioni delle preesistenti batterie contraeree – con centri di fuoco per
fucili ed armi automatiche, e poi alla creazione di una seconda linea avanzata;
un gruppo mobilitato della Guardia di Finanza, della consistenza di 304 uomini;
un gruppo di artiglieria con una batteria da 120 mm e tre da 77/28 mm. Le
guardie di finanza furono mandate a presidiare il settore settentrionale della
linea esterna, mentre le camicie nere, più numerose, presero posizione lungo il
resto della linea. Intanto, il Comando Marina cercava di formare altri
battaglioni con il personale presente sul posto, sia italiano che indigeno: si
riuscì a formare un primo battaglione di 722 uomini (due compagnie di soldati
italiani, due compagnie di ascari), che venne dislocato lungo la linea di
difesa interna, mentre il tentativo di creare un secondo battaglione si dovette
arrestare per mancanza di effettivi sufficienti: si poterono mettere insieme
soltanto 350 uomini, coi quali vennero formate una compagnia di italiani ed una
di ascari. Venne infine deciso che, quando fosse giunto il momento, anche gli
operai dell’officina mista ed altro personale civile di Massaua sarebbero stati
armati ed inquadrati in un ulteriore battaglione.
Per quanto riguardava
gli apprestamenti difensivi, tre batterie contraeree, non avendo campo di tiro
verso l’interno, vennero spostate in posizioni che permettessero loro di avere
un ampio campo di tiro contro un attaccante proveniente da terra; si
costruirono due piazzole destinate ad ospitare altrettante mitragliere pesanti
da 40/39 mm, normalmente contraeree, ma che qui sarebbero state impiegate in
funzione anticarro; si creò una batteria autocarrata con quattro cannoni da
76/40 mm originariamente destinati ai dragamine; venne realizzata una batteria
fissa (con basamento in cemento) con altri tre cannoni da 76/40 mm prelevati dalla
nave cisterna Niobe, destinata
all’autoaffondamento, e lo stesso si fece con ulteriori due pezzi dello stesso
calibro prelevati dalle cannoniere Biglieri
e Porto Corsini. Altri due cannoni,
da 120 mm, vennero inviati a Massaua dal villaggio di Raheita e riparati per
poi andare a rinforzare le difese di terra.
Non pago di questi
provvedimenti, l’ammiraglio Bonetti cercò ancora di incrementare le artiglierie
a sua disposizione: nella dogana di Massaua languivano inutilizzati da tempo
dodici cannoni da 75/22 mm di fabbricazione tedesca (giunti proprio a bordo di
una delle navi tedesche internate nel 1939), venduti all’Afghanistan ma
bloccati in Eritrea dallo scoppio della guerra. Mancava però il corrispondente
munizionamento. Si era già tentato, in passato, di verificare se tali bocche da
fuoco potessero essere riutilizzate con munizioni italiane da 75 mm, ma
quest’ipotesi era stata scartata in quanto il bossolo del proiettile italiano
risultava troppo lasco nella camera di caricamento. Bonetti volle ritentare: si
fece spedire da Massaua delle munizioni da 75 mm del tipo usato dal Regio
Esercito, mentre il personale del Genio Navale e delle Armi Navali della base
di Massaua (Marimist e Navalarmi) tentava di adattare i cannoni tedeschi alle
munizioni italiane. Allo scopo, uno spessore di metallo venne inserito nella
camera di caricamento di ciascun cannone, fissato con saldatura elettrica e poi
sottoposto a tornitura, fino a ridurre il diametro interno della camera di
caricamento in misura tale da permettere l’introduzione delle munizioni
italiane senza il problema evidenziato dalle precedenti sperimentazioni. Questo
ingegnoso accorgimento permise di adattare i 12 pezzi tedeschi al
munizionamento italiano; otto di essi andarono a formare due batterie di
quattro cannoni ciascuna che integrarono le difese sul fronte a terra di
Massaua, mentre gli altri quattro furono messi a disposizione del Comando
Scacchiere Nord, che aveva intanto fornito munizioni sufficienti per l’impiego
delle due batterie. Vennero anche recuperati, in qualche magazzino, alcuni
decrepiti cannoni Skoda dei primi del Novecento, che vennero a loro volta messi
in batteria.
In questo modo lo
schieramento di artiglieria sul fronte a terra di Massaua giunse a contare 55
cannoni di vario calibro; a questi andavano poi ad aggiungersi altri undici
cannoni presenti nelle batterie di Ras Garar e dell’Isola Verde, che pur non
facendo parte del perimetro difensivo potevano raggiungere, col loro tiro, le
estremità meridionali e settentrionali dello schieramento.
La linea di difesa
interna contava un totale di undici mitragliere singole da 13,2 mm, destinate
all’impiego anticarro. Altre sei mitragliere da 13,2 mm, in impianti binati,
vennero montate su tre autocarri per impiego mobile in funzione contraerea, da dislocare
laddove più servisse (uno degli impianti era assegnato alla batteria
autocarrata da 76/30, alla quale doveva garantire protezione dagli attacchi
aerei). Per allestire alcune postazioni contraeree, si arrivò a recuperare
delle mitragliatrici Breda-SAFAT da 7,7 e 12,7 mm dagli aerei irreparabilmente
danneggiati, montandole su affusti realizzati con mezzi di fortuna.
Davanti alla linea di
difesa esterna vennero creati campi minati ed un reticolato di filo spinato: ma
esaminando più accuratamente il perimetro di difesa così creato, ci si rese
conto che invece di realizzare un sistema integrato ed efficace in grado di
fronteggiare un attacco nemico, si erano create due linee di difesa troppo
lontane tra loro, quasi prive di contatto, non in grado di supportarsi. Venne
allora deciso di arretrare la linea esterna, riducendo la sua distanza da
quella interna a 800 metri, oltre che di costruire un muro in calcestruzzo per
la difesa anticarro lungo la linea esterna.
Mentre fervevano i
lavori sul fronte a terra, si provvide anche a rafforzare il fronte a mare,
rinforzando le difese ed i presidi esistenti nelle isole Dahlak, antistanti
Massaua e rientranti nel suo dispositivo di difesa.
Di tutti i
provvedimenti sopra elencati, l’ammiraglio Bonetti riferì a Supermarina ed al
Comando Superiore Forze Armate in Africa Orientale il 27 febbraio; a
conclusione del suo resoconto, Bonetti dichiarava che «anche se la Piazza di Massaua dovesse cedere dinanzi a forze
preponderanti, questo non avverrà senza che sia stata esercitata la più strenua
resistenza e siano inflitti i maggiori danni possibili al nemico».
Supermarina rispose approvando tutte le decisioni prese e concludendo che «sono sicuro che in caso di attacco Massaua
opporrà la più strenua resistenza al nemico».
Nondimeno, nessuno si
faceva illusioni su quale sarebbe stato l’esito finale: nella stessa missiva,
l’ammiraglio Bonetti pianificava anche la distruzione di tutte le installazioni
che sarebbero potute tornare utili ai britannici e quella di tutte le navi non in
grado di partire. Per le navi da guerra come l’Orsini la sorte prevista era riassunta in due righe: «Le unità di superficie cercheranno fino
all’ultimo di infliggere danni al nemico, dopo di che si affonderanno nel luogo
che le circostanze consentiranno».
Avevano intanto
inizio le partenze delle unità “salvabili”, quelle che – si sperava – avevano
qualche possibilità di raggiungere la Francia occupata od il Giappone. Il 18
febbraio partì l’Eritrea; due giorni
più tardi, la RAMB I; dopo altri due
giorni, la RAMB II. Il 21 febbraio
era partita la motonave tedesca Coburg,
seguita cinque giorni dopo dal piroscafo Wartenfels,
pure tedesco, mentre il 1° marzo lasciò Massaua la motonave italiana Himalaya. Lo stesso giorno salpò anche
il primo dei sommergibili, il Perla, seguito
il 3 marzo dal Galileo Ferraris e dall’Archimede, mentre il Guglielmotti se ne andò il giorno
successivo. Tutte queste navi ce la fecero, ad eccezione del RAMB I e della Coburg. Meno fausta sarebbe stata la sorte delle navi che salparono
nell’ultimo periodo prima della caduta: il piroscafo tedesco Oder (23 marzo), la motonave italiana India (23 marzo), il piroscafo tedesco Bertrand Rickmers (29 marzo), il
piroscafo italiano Piave (30 marzo),
il piroscafo tedesco Lichtenfels (1°
aprile). Furono tutti catturati, autoaffondati o costretti a tornare indietro.
Il 20 febbraio
un’aliquota di velivoli della Regia Aeronautica, provenienti da basi eritree
che nelle settimane precedenti erano state pesantemente bombardate, venne
trasferita all’aeroporto di Massaua, ma quello stesso giorno anche questa base
venne bombardata dai britannici, che misero fuori uso quasi tutti gli aerei che
vi si trovavano. L’indomani, una squadriglia di sette Hawker Hurricane completò
l’opera mitragliando e spezzonando le aviorimesse a volo radente, incendiandone
la maggior parte e subendo la perdita di un aereo, abbattuto da una mitragliera
italiana. La perdita degli aerei stanziati a Massaua si sarebbe fatta sentire
nelle settimane a venire: non fu più possibile condurre voli di ricognizione,
né difendersi attivamente dai bombardamenti sempre più frequenti.
Preso finalmente atto
che il personale della base di Massaua era troppo esiguo per le esigenze della
difesa del fronte a terra, verso fine febbraio il Comando Scacchiere Nord mandò
a Massaua come rinforzo la 42a Brigata Coloniale, forte di 2100
uomini suddivisi in tre battaglioni. Ciò permise di rimpinguare le forze che
presidiavano la linea di difesa interna e di creare anche una massa di manovra
con la quale all’occorrenza si sarebbe anche potuto contrattaccare.
I lavori di
potenziamento delle difese proseguirono: per migliorare ancora lo schieramento
delle artiglierie sul fronte a terra (si era deciso tra l’altro di creare una
catena di cannoni di piccolo calibro per la difesa ravvicinata del muro
anticarro, con la funzione di battere d’infilata ciascun tratto del muro,
nonché batterie in posizioni dominanti per tiro diretto contro fanteria e mezzi
corazzati, ed altre batterie nascoste e defilate per tiro indiretto di interdizione,
distruzione e controbatteria) venne presa la decisione di sbarcare altri
cannoni “superflui” dalle navi destinate all’autoaffondamento («…unità che verosimilmente non potrebbero
concorrere nella difesa del fronte a mare»). Venne così prelevato tutto
l’armamento del posamine Ostia,
consistente in un cannone da 76/40 mm e due da 102/35; un altro cannone da
76/40 venne sbarcato dal rimorchiatore militare Ausonia; e infine anche la vecchia Orsini dovette dare il suo contributo alla difesa del fronte a
terra: due dei sei cannoni da 102/35 mm del suo armamento vennero sbarcati e
mandati a rafforzare lo schieramento d’artiglieria della piazzaforte.
Infine, altri due
cannoni da 76/30 mm vennero prelevati dall’isola di Assarca, dove si trovavano
e dov’erano ormai ritenuti superflui, e si recuperarono dai depositi anche un
cannone da 102/35 già appartenuto all’Acerbi
ed uno da 100/47 che era stato tenuto di riserva per i sommergibili. I dieci
cannoni così ottenuti, tra cui i due dell’Orsini,
vennero in parte posti in batterie defilate e parte adibiti alla difesa
anticarro del muro che si stava costruendo: i lavori di costruzione di
quest’ultimo andavano a rilento – al 17 marzo, soltanto ottocento metri erano
stati completati –, mentre più spedita risultava la realizzazione dei campi
minati, metà dei quali risultavano già attivi alla data del 17 marzo. In
aggiunta alle mine disponibili, venne realizzata e messa in opera anche una
quantità di ordigni artigianali come barattoli riempiti di esplosivo,
proiettili d’artiglieria e persino mine navali sotterrate per poter fungere da
mine terrestri.
Siccome la batteria
di Ras Arb, dotata di quattro pezzi da 120 mm, si trovava troppo al di fuori
del perimetro difensivo, si decise di trasferirla più a sud, poco più a nord
della preesistente batteria di Ras Garara, in posizione interna alla linea di
difesa e tale da permetterle di colpire tanto il fronte a mare quanto quello a
terra.
Giunse un reparto di
lanciafiamme, inviato dal Comando Scacchiere Nord: disponeva di sei lanciafiamme,
e si cercò di costruirne degli altri con il materiale disponibile nell’officina
mista della base navale. Il 17 marzo l’ammiraglio Bonetti scriveva a
Supermarina ed al Comando Superiore FF.AA. in A.O.I. che «nel complesso la difesa del fronte a terra di Massaua presenta ancora
molte deficienze dovute sia al terreno, che offre pochissimi appigli naturali
alla difesa, sia alla scarsità di truppe. Gli apprestamenti difensivi che sono
in corso migliorano tuttavia di giorno in giorno la situazione. Se l’attacco
nemico avvenisse non prima di 7 o 8 settimane la difesa sarebbe certamente in
condizioni di opporre una ben dura resistenza, e di richiedere da parte
dell’attaccante un impiego molto rilevante di mezzi e di truppe, ed il
sacrificio di un’aliquota di tali mezzi. Se l’attacco avverrà prima di questo
termine [come poi avvenne: non passarono che tre settimane tra questa
missiva e la caduta di Massaua] saranno
egualmente sfruttati al massimo gli apprestamenti predisposti, in modo da
infliggere all’attaccante i maggiori danni che le possibilità ci consentiranno».
Sulle montagne a
nordovest di Massaua infuriava, intanto, la battaglia di Cheren. In
considerazione dell’afflusso di forze britanniche da nord, i posti di vedetta
situati lungo la fascia costiera vennero via via ritirati, salvo che per la
linea di sorveglianza della stretta del fiume Lebca: qui un sottufficiale
dell’Esercito, appartenente ad un battaglione costiero, ed un sottufficiale
radiotelegrafista della Marina, capo posto della stazione d’avvistamento di
Scebi, mantennero l’ammiraglio Bonetti continuamente aggiornato sugli
spostamenti delle forze nemiche. Sulle prime si credette che le truppe
britanniche intendessero attestarsi sul Lebca, che avrebbero poi disceso per
puntare su Massaua, seguendo la pista di Scebi; ma invece anche quelle truppe
vennero poi impiegate nella battaglia di Cheren, dove le linee difensive
italiane si stavano rivelando, come scrisse a Winston Churchill il generale
britannico Archibald Wavell, «una noce
dura da schiacciare» (a tough nut to
crack). Sul fronte del Lebca, l’attività britannica si limitò al saltuario
invio di camionette, appoggiate da mezzi corazzati, con compiti di ricognizione
verso sud: qualcuno di questi veicoli saltò sulle mine italiane, appositamente
piazzate sui percorsi da essi di solito seguiti, in base a quanto riferito
dagli osservatori italiani.
Sulla base di questo
atteggiamento, l’ammiraglio Bonetti intuì giustamente che i britannici non
avrebbero attaccato Massaua se prima non fossero riusciti a piegare la
resistenza di Cheren: ed a questo proposito, il 25 marzo 1941 telegrafò al
Comando Superiore Forze Armate in Africa Orientale, che aveva sede (ancora per
poco) ad Addis Abeba: «…finché Cheren
resiste prevedibilmente Massaua non sarà investita. Pertanto è necessario fare
ogni sforzo inviando tutti possibili aiuti conservazione baluardo
settentrionale Eritrea (…) Prolungata
resistenza Cheren può mettere Massaua condizioni resistere lungamente purché
approvvigionata tempestivamente viveri et eventualmente rinforzata uomini».
Intanto, si metteva in linea la settantina di cannoni destinati a difendere il
fronte a terra; nella quasi totalità si trattava di artiglierie navali, a
sistemazione fissa, punteria diretta e traiettoria tesa, nonché sistemati in
posizioni scoperte che li rendevano facilmente individuabili.
In questo periodo il
duca d’Aosta Amedeo di Savoia, vicerè e comandante in capo delle forze armate
italiane in Africa Orientale, si recò ad ispezionare i lavori di fortificazione
in corso a Massaua, per i quali espresse la sua soddisfazione.
Ma ormai, la
battaglia di Cheren era agli sgoccioli. Dopo due mesi di durissimi
combattimenti contro un nemico che disponeva di una superiorità di mezzi schiacciante,
le truppe italiane erano ormai sfinite e ridotte all’osso: come scrisse Bonetti
nella sua relazione, alcuni battaglioni erano ormai ridotti a 150 effettivi, i
soldati combattevano senza riposo da quasi sessanta giorni. Tremila italiani e
novemila ascari erano caduti, i feriti erano oltre 21.000. Il 25 marzo
l’ammiraglio ricevette l’ordine di far partire subito per l’altopiano il XXXV
Battaglione della 42a Brigata Coloniale, così riducendo di un terzo
la consistenza di questa grande unità che aveva ricevuto come rinforzo appena
poche settimane prima. Il 28 marzo 1941 le truppe del Commonwealth riuscirono
infine a spezzare le linee italiane: da Cheren, le truppe italiane dovettero
ripiegare verso Adi Teclesan, dove venne improvvisata un’ulteriore resistenza.
Le esigue forze a disposizione dell’ammiraglio Bonetti subirono un’ulteriore
riduzione quando giunse l’ordine di mandare in quella località un altro
battaglione coloniale: mandò il CI Battaglione. Il 29 marzo giunse infine
l’ordine di far partire anche il CXI Battaglione, ultimo rimasto della 42a
Brigata Coloniale, e con esso anche il comando di brigata: ecco così svaniti,
nell’arco di quattro giorni, tutti i magri rinforzi che il comandante della
Piazza Militare Marittima di Massaua era riuscito ad ottenere.
Per ovviare a queste
“perdite”, il Comando Marina di Massaua riuscì in un modo o nell’altro a
racimolare abbastanza uomini da formare altre due compagnie, una di italiani ed
una di ascari; il 1° aprile, poi, giunse a Massaua l’equipaggio del
cacciatorpediniere Leone,
autoaffondatosi dopo essersi incagliato su una barriera madreporica durante il
tentativo di attacco contro Suez. Questi marinai senza più una nave, poco meno
di duecento, vennero immediatamente armati e mandati a loro volta a presidiare
le linee difensive del fronte a terra, inquadrati in una compagnia posta al
comando dell’ex comandante in seconda del Leone.
Nel frattempo, il
mattino del 31 marzo, il generale Frusci aveva telefonato all’ammiraglio
Bonetti per informarlo che le sue truppe si stavano ritirando verso l’interno:
non era possibile fermare i britannici ad Adi Teclesan. Bonetti domandò quali
misure Frusci avesse preso per la difesa di Massaua; il comandante dello
Scacchiere Nord rispose che aveva ordinato alle superstiti truppe di Cheren,
insieme ad altre che si trovavano a Ghinda (sulla strada che univa Massaua
all’Asmara), di ripiegare su Massaua. Sarebbero venuti i generali Nicolangelo
Carnimeo (artefice della difesa di Cheren), Vincenzo Tessitore (comandante in
capo delle forze italiane in Eritrea) e Carlo Bergonzi (comandante della 5a
Brigata Coloniale), con tutte le truppe che fossero riusciti a raggranellare,
presumibilmente da 8000 a 10.000 uomini. Bonetti rivolse a Frusci un’ultima
domanda, riguardante i viveri; la risposta fu “Verranno anche quelli”.
Quello stesso
pomeriggio, iniziarono ad arrivare a Massaua ufficiali delle più disparate
specialità, senza soldati. Si provvide ad alloggiarli e rifocillarli. Il
generale Carnimeo arrivò a mezzogiorno del 1° aprile, insieme ad alcuni
ufficiali; Tessitore giunse nel primo pomeriggio, con tutto il suo stato
maggiore. Le pattuglie avanzate, ripiegando, portavano notizie dell’avanzata di
nutrite colonne nemiche che puntavano su Massaua percorrendo la stretta del
Lebca e la fascia costiera.
Nel corso della
giornata del 1° aprile, e durante la notte successiva, affluirono a Massaua
migliaia di soldati provenienti da Asmara (occupata dai britannici quello
stesso giorno), sia italiani che ascari. Erano i resti delle truppe che si
erano battute a Cheren: scheletri di reparti, reggimenti ridotti a battaglioni,
battaglioni ridotti a compagnie, soldati laceri, malnutriti, sfiniti, demoralizzati,
molti disarmati (erano state tolte loro le armi ad Asmara), moltissimi
appiedati (vennero mandati a raccoglierli tutti i camion disponibili in città).
Gran parte di questi soldati non apparteneva ad unità combattenti: molti erano
autieri, ordinanze, personale dei servizi. Gli ascari, etiopi di etnia Amhara
(ben poco attaccati alla nazione che aveva brutalmente conquistato il loro Paese
appena qualche anno prima), erano ritenuti poco affidabili.
Il 2 aprile il
generale Lewis Heath, comandante della 5a Divisione Indiana che
aveva occupato Asmara e si apprestava a marciare su Massaua, chiese attraverso
la linea telefonica Asmara-Massaua, rimasta funzionante, di poter parlare con
l’ammiraglio Bonetti. Questi fece rispondere al telefono il suo capo di Stato
Maggiore, capitano di fregata Alberto Beretta, il quale parlò con il tenente
britannico Bellwood, interprete presso il Comando britannico, e riferì a
Bonetti che i britannici sapevano dei piani italiani di distruggere il porto ed
autoaffondarvi il naviglio mercantile presente, e che “poiché questo porterebbe notevoli difficoltà per l’approvvigionamento
della popolazione civile di Asmara e della Colonia, nell’interesse di questa, e
non potendo comunicare con S.A.R. il Vicerè” essi chiedevano all’ammiraglio
di rinunciare a tali propositi, e di consegnare Massaua. In caso contrario, non
si sarebbero assunti la responsabilità di garantire il vettovagliamento per la
popolazione civile (secondo fonti britanniche,
il messaggio originario di Heath era il seguente: "Now that the British forces have entered
Asmara and are advancing on Massawa, I am to inform you that if any of the
ships in Massawa harbour, of which I believe there are twenty-five, are
scuttled, the British forces will consider themselves relieved of all
responsibilities either of feeding the Italian population in Eritrea or
Abyssinia, or of removing them from those countries. This message is being
conveyed separately to the Duke of Aosta, Viceroy of Italian East Africa").
Bonetti fece rispondere che non poteva, né voleva, modificare gli ordini che
aveva ricevuto; fece pervenire la richiesta britannica al Duca d’Aosta (col
quale, contrariamente a quanto credevano i britannici, poteva comunicare) ed a
Supermarina, e da entrambi giunse la stessa risposta: eseguire gli ordini
prestabiliti, ignorando le minacce britanniche. In tal senso fu dunque risposto
al generale Heath.
Nel primo pomeriggio
del 2 aprile i cinque cacciatorpediniere superstiti – Tigre, Pantera, Nazario Sauro, Cesare Battisti e Daniele
Manin – lasciarono Massaua per l’ultima missione, senza ritorno, contro
Port Sudan. In porto restavano soltanto l’Orsini,
il relitto inutilizzabile dell’Acerbi
e le navi mercantili ed ausiliarie, che avrebbero dato inizio
all’autoaffondamento di massa l’indomani.
Nel tardo pomeriggio dello
stesso giorno arrivarono a Massaua le ultime truppe di rinforzo, comandate dal
generale Bergonzi. In tutto, tra il 1° ed il 2 aprile erano affluiti a Massaua
circa 2300 uomini di tutti i corpi: 450 granatieri dell’11° Reggimento
"Granatieri di Savoia", dissanguatosi sui monti di Cheren; 250
camicie nere del 170° Battaglione CC.NN. (seniore Francesco Belloni), anch’esso
decimato a Cheren; 210 alpini del Battaglione "Uork Amba", tutto ciò
che restava di un reparto originariamente forte di 916 uomini; una compagnia di
200 genieri; cinquanta bersaglieri; 40 artiglieri di un gruppo da 65/17 mm;
1100 ascari dei battaglioni Amhara.
I tre generali giunti
in città di spartirono i compiti: Tessitore si offrì di riorganizzare le
eterogenee truppe arrivate in città, mettendo inoltre a disposizione vari
ufficiali per migliorare l’inquadramento delle compagnie di marinai e delle
nuove batterie da poco create; a Carnimeo venne affidato il mantenimento
dell’ordine pubblico in città; Bergonzi fu nominato intendente e procedé subito
a fare l’inventario delle provviste e delle munizioni a disposizione, ben
poche. A dispetto delle promesse del generale Frusci, le uniche provviste per i
reparti del Regio Esercito arrivate a Massaua erano i sacchi di farina
contenuti in un vagone che il generale Tessitore aveva avuto la presenza di
spirito di attaccare all’ultimo convoglio ferroviario in partenza per Massaua.
Ai fini della difesa,
la città di Massaua venne divisa in settori, ognuno dei quali affidati ad un
colonnello. Il comando del fronte di terra venne affidato ad un altro
colonnello di fanteria, Ferdinando Oliveti.
Mentre tutto questo
accadeva, i lavori sulle opere difensive erano ancora in corso: a svolgerli
erano tre ditte, la SICELP, la RAMA e la Focanti. Gli operai della prima
fuggirono non appena arrivò notizia che i britannici avevano travolto l’esigua
resistenza italiana ad Adi Teclasan; il personale della RAMA e della Focanti,
viceversa, continuò a lavorare fino al 3 aprile, quando le truppe del
Commonwealth giunsero in forze davanti a Massaua. Era giunta l’ora: la presenza
italiana in quella città eritrea, dopo cinquantasei anni di dominazione
coloniale, stava per volgere al termine.
Era un esercito
multinazionale, quello presentatosi alle porte di Massaua in quell’inizio di
aprile 1941: agli ordini del generale Heath si trovavano due brigate di
fanteria indiane, la 7a e la 10a, reparti corazzati
britannici del 4th Royal Tank Regiment – dotati dei terribili carri
armati Matilda, pressoché invulnerabili a qualsiasi arma anticarro italiana
all’epoca disponibile in Africa – e truppe della Francia Libera. La 10a
Brigata indiana, al comando del generale Thomas Wynford Rees, faceva parte
della 5a Divisione indiana del generale Heath, mentre la 7a
Brigata, appartenente alla 4a Divisione indiana (che era in corso di
trasferimento in Nordafrica dopo aver combattuto a Cheren), era stata
temporaneamente distaccata ed aggregata alla 5a Divisione per
l’attacco contro Massaua.
I primi colpi li
spararono le batterie italiane del Settore Nord, alle 16.15 del 3 aprile,
contro concentramenti di truppe e veicoli britannici che stavano avanzando nella
zona di Emberemi. Alcuni veicoli saltarono sui campi minati italiani. I
britannici non tardarono a rispondere, iniziando un tiro di controbatteria che
ben prestò iniziò a causare danni alle batterie italiane, sebbene con poche
perdite tra il personale. Non si materializzavano ancora, invece, gli attacchi
aerei: la Royal Air Force sembrava limitarsi a voli di ricognizione e di
osservazione del tiro.
Le truppe contro cui
avevano aperto il fuoco le artiglierie italiane del settore nord erano quelle
della 7a Brigata indiana, che aveva mandato una colonna motorizzata
(1° Battaglione del Royal Sussex Regiment, una batteria del 28th
Field Artillery Regiment, un plotone di artiglieria anticarro a cavallo ed un
plotone della compagnia anticarro della 7a Brigata) da Chelamet alla
località costiera di Mersa Cuba, ov’era stata creata una base per il suo
rifornimento via mare, e da lì verso Massaua. La marcia delle avanguardie di
questa colonna era stata interrotta, a quindici miglia da Mersa Cuba, da un
ponte che le truppe italiane in ritirata avevano bruciato; venne trovato un
guado in un altro punto, ma non era possibile farvi passare le artiglierie,
così si dovette aspettare di aver ricostruito il ponte, lavoro che venne
ultimato il mattino del 3 aprile. Le avanguardie raggiunsero Embereni ed
iniziarono il lavoro di minamento senza inizialmente essere disturbate, ma quel
pomeriggio si vennero a trovare improvvisamente sotto il tiro simultaneo,
ancorché in apparenza poco coordinato, di una trentina di cannoni italiani. Il
giorno seguente la brigata ricevette l’ordine di restare ad Emberemi e
limitarsi ad attività di ricognizione per saggiare la consistenza delle difese
italiane.
A Massaua, intanto, siccome
una piazzola per un cannone da 76/40 mm non era stata completata dal personale
della ditta che la stava costruendo, nella notte tra il 3 ed il 4 aprile una
squadra della locale Direzione del Genio Militare (Marigenimil) con un
ufficiale provvide ad ultimare i lavori col favore del buio, per poi montare
sul posto il cannone il mattino seguente. Gli armaioli delle officine
lavorarono tutta la notte per riparare i cannoni danneggiati dal tiro
britannico durante la giornata. Nel pomeriggio del 4 aprile, il generale
Tessitore ed il suo stato maggiore si recarono ad alloggiare nella sede di
Marisupao, dove l’ammiraglio Bonetti aveva il suo quartier generale, per meglio
tenersi in contatto con lui.
L’arrivo delle truppe
britanniche aveva impedito di ultimare il muro anticarro, e con esso la
prevista linea di difesa: nei settori sud, ovest e nordovest restavano varchi
ampi alcuni chilometri.
Intanto, essendo
evidente che non mancavano che pochi giorni alla caduta, l’ammiraglio Bonetti
diede l’ordine di autoaffondare tutto il naviglio mercantile ed ausiliario: le
navi si autoaffondarono in vari punti del porto mercantile, lungo l’imboccatura
del porto di Massaua e nella baia meridionale, in modo da ostruire tutti gli
accessi del porto e rendere quest’ultimo inutilizzabile per lungo tempo. Tra il
3 e l’8 aprile i piroscafi italiani Moncalieri
e XXIII Marzo, il piroscafetto
requisito Impero, il piroscafo
tedesco Oliva, il relitto
galleggiante dell’Acerbi e due bacini
galleggianti si autoaffondarono all’imboccatura del porto militare, formando
una barriera che ne ostruì l’accesso; il transatlantico Colombo, i piroscafi italiani Romolo
Gessi, Vesuvio e Brenta, i piroscafi tedeschi Liebenfels e Frauenfels e la cisterna militare Niobe formarono un’altra barriera di navi autoaffondate che bloccò
l’accesso del porto meridionale; i piroscafi tedeschi Gera e Crefeld, il
posamine italiano Ostia ed un pontone
gru si autoaffondarono all’imboccatura del porto commerciale. Alle banchine od
in altri punti del porto si autoaffondarono anche la cannoniera Biglieri, i MAS 204, 206, 210, 213
e 216, il piroscafo italiano Adua, il piroscafo tedesco Lichtenfels, la nave cisterna Clelia Campanella, la motonave Arabia e la cisterna militare Giove, mentre alte due navi cisterna, la
Riva Ligure e l’Antonia C., vennero
rimorchiate fuori dal porto ed affondate l’una in una baia a sud di Massaua e
l’altra in acque profonde presso l’isoletta di Sheik Saad. Stessa sorte toccò alle
chiatte, ai rimorchiatori, alle pirobarche, ai pontoni portuali. Non si
autoaffondò, invece, l’Orsini: la
vecchia “tre pipe” avrebbe ancora avuto modo di rendersi utile.
Si distrussero anche
le officine, le attrezzature portuali e tutti gli impianti pubblici e privati,
salvo quelli indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile. La
strada carrozzabile venne minata e fatta saltare nella zona delle colline di
Dogali, e l’esplosione causò anche l’interruzione dell’acquedotto. D’altra
parte, in previsione di questo Bonetti aveva già provveduto ad aumentare la
capacità dell’altro acquedotto, quello di Moncullo, oltre ad esentare dall’ordine
di autoaffondamento le navi cisterna per acqua Sile, Sebeto e Bacchiglione, che sarebbero rimaste a
disposizione della popolazione civile. Vennero contestualmente distrutti tutti
i documenti di Marisupao e dei Comandi dipendenti.
All’alba del 4 aprile
le artiglierie britanniche, appoggiate dall’aviazione, ripresero a bersagliare
le difese italiane nei settori occidentale e settentrionale, inquadrando le
batterie italiane con crescente precisione. Di queste ultime, quelle di
maggiore gittata cercarono di fare fuoco di controbatteria; ma non potendo
effettuare tiro curvo, la loro reazione risultò infruttuosa, e portò soltanto a
rendere più facile per i britannici la loro individuazione e successivo
martellamento.
Passò un’altra notte,
trascorsa come la precedente a riparare i cannoni danneggiati. All’alba del 5
aprile, sia i britannici che gli italiani ripresero vivacemente il duello di
artiglieria. Adesso, il numero dei cannoni da parte Alleata si era notevolmente
accresciuto; alle truppe indiane provenienti da Cheren si era unita la “Briggs
Force” (così chiamata dal nome del suo comandante, generale di brigata Harold
Radon Briggs, che deteneva anche il comando della 7a Brigata indiana)
proveniente da Port Sudan, composta dalla Brigade
d'Orient della Francia Libera (un battaglione della Legione Straniera, un
battaglione di “tiratori senegalesi”, una compagnia di fanteria di Marina, uno
squadrone di “Spahis” marocchini ed un gruppo d’artiglieria coloniale), due
battaglioni già distaccati dalla 7a Brigata indiana (il 1°
Battaglione del Royal Sussex Regiment ed il 4° Battaglione del 16th
Punjabi Regiment), una compagnia mitragliatrici motorizzata della Sudan Defence
Force, un battaglione del 25th Field Regiment, Royal Artillery ed
una compagnia del Genio (“King George V’s Own Sappers and Miners”). Avanzando
lungo la costa a nord di Massaua, la “Briggs Force” si era congiunta con le
truppe anglo-indiane il 5 aprile.
Quel pomeriggio
un’automobile britannica, con bandiera parlamentare, si presentò ad una postazione
italiana sulla strada di Moncullo, chiedendo di parlare con il comandante della
Piazza. A bordo c’erano un maggiore ed un tenente britannici, che furono
bendati e portati nell’ufficio dell’ammiraglio Bonetti; sebbene il tenente
parlasse un po’ di italiano, la conversazione si svolse in inglese. I due
ufficiali dissero che il generale Heath li aveva mandati per informare il
comandante italiano che i loro mezzi aumentavano di ora in ora, mentre lui non
poteva ricevere alcun aiuto: per evitare ulteriori danneggiamenti ed un inutile
spargimento di sangue, chiedevano la consegna della città. Bonetti respinse la
richiesta, ma si offrì di comunicarla al suo governo, e chiese intanto quali
fossero le condizioni poste dai britannici. I due ufficiali risposero di non
avere l’autorità per proporle, e venne dunque deciso che le azioni di pattuglie
ed il tiro delle artiglierie sarebbe stato interrotto da entrambe le parti mentre
si aspettavano le risposte dei rispettivi superiori: da parte italiana, le
decisioni del governo, e da parte britannica, le condizioni per la resa.
L’ammiraglio Bonetti telegrafò quindi al Ministero della Marina, informandolo
della proposta britannica, della situazione delle sue truppe e della scarsità
di provviste; a mezzanotte e mezza i due parlamentari britannici si
ripresentarono con le condizioni poste dal generale Heath, che prevedevano la
rinuncia al danneggiamento delle installazioni portuali e del naviglio in porto
(troppo tardi: lo si era già fatto); il disarmo di tutti i militari, che
sarebbero diventati prigionieri di guerra; la consegna di tutte le armi,
munizioni, provviste ed altre dotazioni di qualsiasi tipo; la rivelazione della
posizione di tutti i campi minati terrestri e navali e la partecipazione alla
loro rimozione; il mantenimento dell’amministrazione civile e la consegna delle
banche intatte. In sostanza, una resa incondizionata. L’ammiraglio Bonetti
rispose che tali condizioni erano inaccettabili, e che comunque le navi erano
già state tutte autoaffondate, gli impianti portuali resi inutilizzabili, ed i
documenti sulla posizione dei campi minati navali già distrutti. I parlamentari
risposero che avrebbe potuto presentare delle controproposte, e Bonetti disse
che avrebbe comunicato la sua risposta quando lui avesse ricevuto risposta dal
suo governo.
Quest’ultima giunse
il mattino del 6 aprile, secca e concisa, in forma di un teledispaccio di
Supermarina: "La consegna è una sola: resistere ad oltranza".
L’ammiraglio Bonetti inviò pertanto un parlamentare al generale Heath, recante
un messaggio con cui il comandante italiano comunicava la decisione di
resistere ("Esaminate le vostre
proposte e sentito il parere del mio Governo, vi comunico che la Piazza di
Massaua non si arrende e resisterà ad oltranza"). Il generale britannico,
letto il biglietto, rispose semplicemente: “Mi dispiace molto, ma capisco” (I am very sorry, but I understand).
Ricominciò dunque
immediatamente, da ambo le parti, il duello di artiglieria; le batterie da 120
mm di Ras Garara riuscirono a tenere a distanza, durante la giornata, le truppe
avversarie che tentavano di avanzare da Emberemi. In seguito alla segnalazione
della stazione di vedetta di Difnein, che comunicava notizia di movimenti di
naviglio britannico da nord verso Mersa Cuba, l’ammiraglio Bonetti ordinò che
due MAS si dislocassero a Dehel per tentare di attaccarlo durante la notte.
Come ormai d’abitudine, la notte tra il 6 e il 7 aprile fu passata a riparare i
danni causati durante il giorno dal bombardamento d’artiglieria. Le ore
notturne videro una breve pausa del tiro d’artiglieria, mentre si svolsero
diversi scontri tra pattuglie: alcune di quelle italiane non fecero più
ritorno.
Sull’altro lato della
barricata, intanto, la giornata del 6 aprile era stata dedicata alla
pianificazione dell’attacco. I generali Heath, Rees e Briggs tennero quel
pomeriggio una riunione presso il quartier generale della 10a
Brigata, nella quale venne deciso di lanciare un attacco concentrico da parte
delle due brigate indiane e della Brigade
d'Orient francese (quest’ultima era comandata dal colonnello Raoul
Magrin-Vernerey, meglio noto con lo pseudonimo di Ralph Monclar). Data prevista
per l’attacco, l’8 aprile. La pianificazione dell’assalto fu notevolmente
facilitata dal ritrovamento, negli uffici dei Comandi italiani ad Asmara, di
una mappa delle difese di Massaua: da questo prezioso documento i britannici
poterono scoprire la posizione di tutte le postazioni d’artiglieria italiane,
che furono così facilmente individuate e battute dall’artiglieria e dall’aviazione
britanniche, e quella degli ostacoli anticarro che i difensori avevano piazzato
lungo la gravina (“khor”) attraversata dalla strada principale che conduceva a
Massaua. Quest’ultima era una vera e propria trappola, con “denti di drago” in
cemento intervallati da mine antinave su un fronte ampio un migliaio di metri:
conoscendone in anticipo la presenza e ubicazione, i carri britannici poterono
aggirarlo, vanificandone del tutto la funzione.
Alla 10a
Brigata indiana, appoggiata dai carri armati dello Squadrone "B" del
4th Royal Tank Regiment, venne assegnato come obiettivo una serie di
poggi che correvano parallelamente alla costa, culminando nella Quota Segnale
(115 metri sul livello del mare): le truppe indiane del reggimento Garwhal
Rifles avrebbero dovuto espugnare le prime di queste alture, poi avrebbero
fatto passare i soldati scozzesi dell’Highland Light Infantry, che avrebbero
conquistato il resto. La 7a Brigata indiana avrebbe invece attaccato
sul fronte nord, appoggiata dall’artiglieria del 25th Field Regiment
e dalla Royal Navy, con l’obiettivo di conquistare la linea Forte
Otumlo-penisola di Abd el Kader, mentre la Brigade
d'Orient del colonnello Monclar avrebbe dovuto espugnare alcune colline
fortificate antistanti il porto, sul lato occidentale del perimetro difensivo,
tra cui Moncullo, il forte omonimo, il Forte Umberto I ed il Forte Vittorio
Emanuele, armati con dodici cannoni da 75 mm ed altrettante mitragliatrici.
Avrebbero partecipato
all’attacco anche la 233a Batteria del 68th Medium Regiment,
il 2nd Motor Machine Gun Group della Sudan Defence Force, la 4th
Motor Machine Gun Company della Sudan Defence Force e le compagnie
"A" e "B" della Light Artillery Battery della Sudan Defence
Force.
All’alba del 7 aprile
ricominciò il reciproco martellamento d’artiglieria. Un gruppo di ascari del
battaglione costiero, di presidio in uno dei capisaldi, abbandonò il posto e
dovette essere sostituito da un reparto italiano; stante la loro scarsa
affidabilità, i battaglioni Amhara rischiavano di essere più un problema che un
aiuto, così venne presa la decisione di sciogliere tali reparti, disarmandone e
congedandone i soldati. A ciascun ascaro venne consegnato un muletto ed una
somma di denaro; poi vennero scortati a gruppi fino al posto di blocco di Arcaico,
dove furono fatti uscire un po’ per volta e lasciati liberi di andarsene. Mille
uomini di meno. Di converso, Bonetti notò che tra gli ascari di Marina, a
differenza di quelli dell’Esercito, soltanto una minima parte tentava di
disertare.
Il tiro britannico,
sempre più intenso e preciso, inflisse gravi danni alle batterie italiane:
quella da 120 mm di Monte Umberto, bombardata senza sosta, venne messa fuori
uso, anche se poté essere parzialmente riparata durante la notte successiva.
Si fece il punto sulla
situazione alimentare: le forze della Marina disponevano di scorte di beni di
prima necessità bastanti per un mese, mentre le riserve di caffè, zucchero ed
olio sarebbero potute durare ancora più a lungo; ma le truppe dell’Esercito,
che anche dopo il congedo degli ascari abbisognavano di 3500 razioni al giorno,
non avevano provviste che per tre o quattro giorni. Dividendo equamente le
scorte disponibili tra Esercito e Marina, l’autonomia alimentare massima
sarebbe potuta essere di venti giorni.
Le truppe affluite
nei primi giorni di aprile, essendo state riarmate, riorganizzate, rifocillate
e fatte riposare per qualche giorno, avevano riacquisito una certa consistenza.
Durante il pomeriggio
del 7 aprile alcuni colpi dell’artiglieria britannica caddero in città, ad Abd
el Kader, tra l’officina mista (Marimist) e la sede di Marisupao.
Nel corso della
notte, l’ammiraglio Bonetti inviò nuovamente due MAS (il cui attacco la notte
precedente era stato infruttuoso) ad attaccare le forze navali britanniche nel
Canale Nord: questa volta l’attacco ebbe successo, un siluro del MAS 213 danneggiò gravemente
l’incrociatore leggero HMS Capetown.
Dopo un breve pausa,
alle 3.30 dell’8 aprile il tiro delle artiglierie britanniche riprese con
rinnovata intensità; protetti dalle gibbosità del terreno, i cannoni britannici
potevano colpire le posizioni italiane senza che queste ultime avessero modo di
rispondere efficacemente, mentre gli aerei della Royal Air Force individuavano
anche le batterie italiane più interne, non visibili da terra, e guidavano su
di esse il tiro delle artiglierie. Riusciva a controbattere con una certa
efficacia la batteria autocarrata, che si era piazzata in una posizione
defilata; ma fu scoperta dagli aerei e pesantemente bombardata sia da essi che
dalle artiglierie, sino ad essere messa fuori uso.
Sul fronte
settentrionale, in direzione di Embereni, si notavano considerevoli movimenti
di veicoli e carri armati britannici, mentre pattuglie nemiche tentavano
d’infiltrarsi nelle linee italiane. Contro le truppe motocorazzate britanniche
spararono rabbiosamente la batteria di Ras Garara ed i cannoni portati da Ras
Arb (ne erano rimasti soltanto due), con apparente efficacia, dal momento che
gli osservatori comunicarono la distruzione o danneggiamento di parecchi mezzi.
Negli scontri con le pattuglie britanniche venne catturata una quarantina di
prigionieri del Royal Sussex Regiment, in parte illesi ed in parte feriti,
compresi alcuni ufficiali (due dei quali feriti). Mentre alcuni di questi
prigionieri venivano portati al Comando dell’ammiraglio Bonetti, però, altre
truppe nemiche avevano già penetrato in altri punti le linee difensive
italiane. Alcune posizioni occupate dai britannici nel settore settentrionale vennero
riconquistate con contrattacchi nei quali si distinsero le guardie di finanza
ed i granatieri dell’11° Reggimento; nel settore occidentale una compagnia di
ascari di Marina, portatasi sul ciglione orientale per riconquistare Quota
Segnale, occupata dalle forze Alleate nelle prime ore del mattino, non riuscì
ad avanzare perché la sommità era continuamente tenuta sotto il tiro
avversario. Onde impedire ai britannici di servirsi di quella posizione,
spararono su di essa anche le artiglierie italiane.
La 7a e la
10a Brigata Indiana attaccarono contemporaneamente: mentre l’attacco
della 7a Brigata Indiana venne respinto, quello della 10a Brigata
Indiana, supportato da carri armati del 4th Royal Tank
Regiment, riuscì a sfondare le difese italiane sul lato occidentale del
perimetro.
Nel corso della notte
e della mattinata, le truppe Alleate conquistarono gradualmente le
fortificazioni italiane sulle alture circostanti la città. La sera del 7 aprile
il generale Rees, nel corso di una ricognizione avanzata, aveva scoperto con un
certo stupore che sulle colline designate quale primo obiettivo della 10a
Brigata non c’era nessuno: decise allora di mandare avanti i Garhwal Rifles con
l’ordine di prendere contatto con gli italiani, ma di non impegnarsi a fondo
qualora avessero incontrato forte resistenza. Entro le undici di sera, i
Garhwal Rifles occuparono i primi due poggi senza colpo ferire, non avendo
incontrato alcun soldato avversario; potevano però sentire delle voci sulla
cresta davanti a loro, e fuochi sulle pendici di Quota Segnale. Come
pianificato, a questo punto – erano le tre di notte – passarono avanti gli
uomini dell’Highland Light Infantry, incaricati di conquistare Quota Segnale:
ora iniziavano ad incontrare resistenza, ma piuttosto debole. Guidati dalla
compagnia del capitano R. Wallace, gli uomini dell’Highland Light Infantry
raggiunsero una strada bianca intagliata nelle pendici dell’altopiano del Ras
Dogon, e si nascosero per circa un’ora nei suoi pressi per non essere scoperti
dalle truppe italiane, delle quali potevano sentire le voci poco al di sopra di
loro. Alle quattro del mattino, le compagnie dei capitani Wallace e Maxwell
andarono all’assalto dell’altopiano: cogliendo di sorpresa i difensori,
riuscirono ad aprirsi un varco nel filo spinato ed a salire sul ciglione, dopo
di che la compagnia "C" del capitano P. T. Telfer-Smollett andò
all’attacco di Quota Segnale, che venne conquistata dopo un breve ma aspro
combattimento in cui gli scozzesi fecero abbondante uso di mitra e bombe a
mano. La storia ufficiale della 5a Divisione indiana nota che “la maggior parte dei prigionieri erano
imbronciati, specialmente un comandante della Marina che era arrivato appena la
sera precedente per assumere il comando di questo settore delle difese”.
Con le prime luci dell’alba, le truppe britanniche attestate su Quota Segnale
vennero prese di mira da mortai e mitragliatrici italiane, ma le perdite furono
limitate, grazie alle trincee scavate dagli stessi difensori italiani e che ora
servivano come riparo ai britannici. Successivamente caddero anche le quote 51
e 66.
Aveva intanto luogo
anche l’attacco delle truppe francesi: secondo il piano d’attacco queste avrebbero
dovuto conquistare la collina di Moncullo subito dopo l’occupazione di Quota
Segnale da parte dell’Highland Light Infantry, in modo da “coprire” il fianco
destro dello schieramento britannico. Tuttavia, stando alla storia ufficiale
della 5a Divisione indiana, le truppe francesi si erano perse
durante la notte a causa del buio, così che il loro attacco iniziò in leggero
ritardo. Ad ogni modo, alle 6.30 dell’8 aprile gli uomini del colonnello
Monclar andarono all’attacco dei tre forti italiani loro assegnati come
obiettivo: Moncullo, Umberto I e Vittorio Emanuele III. In testa alle truppe
francesi era la 13e Demi-Brigade de Légion Étrangère, al comando
del tenente colonnello Alfred Cazaux, coperta verso sud da una compagnia di
fanti di Marina al comando del capitano Savey ed appoggiata da una sezione di
cannoni da 75 mm comandata dal capitano Laurent-Champrosay, cui i britannici
avevano assegnato quale rinforzo altre batterie da 120 e 150 mm. La 1a
Compagnia del capitano Jacques Pâris de la Bollardière avanzò inizialmente con
speditezza, ma incappò in un caposaldo italiano che oppose un’accanita
resistenza; con una manovra aggirante, i francesi riuscirono a sopraffare la
posizione, occupandola e catturando due ufficiali e 82 tra sottufficiali e
soldati italiani. Più a sud, la 2a Compagnia del capitano
Saint-Hillier si trovò in difficoltà fin da subito, dovendo attaccare
fortificazioni italiane solide e ben difese (il forte Moncullo, il fortino di
Zaga e le opere difensive costruite presso il villaggio di Noria); la compagnia
tentò ripetutamente di aggirarle, ma senza successo, e si ritrovò inchiodata
sulle sue posizioni da un violento fuoco di armi automatiche, che uccise due
legionari e ferì altri sei, tra cui un ufficiale. Vennero allora inviate in suo
aiuto la compagnia del capitano Beaudenom de Lamaze ed una compagnia di fanti
di Marina, che passarono nel varco tra le compagnie di Pâris de la Bollardière
e Saint-Hillier ed attaccarono il villaggio di Noria simultaneamente da nord e
da sud, mentre l’artiglieria cannoneggiava i capisaldi italiani; questa volta
l’attacco ebbe successo, portando entro le 9.30 alla conquista del villaggio e poi
del forte Moncullo, con la cattura di 150 prigionieri. Parecchie camicie nere,
riporta una fonte francese, rifiutarono di arrendersi e combatterono fino alla
morte. La conquista di forte Moncullo e di Zaga, che secondo i piani avrebbe
dovuto essere completata in 45 minuti, aveva richiesto due ore. Fu
probabilmente in questi combattimenti che rimase ucciso, tra gli altri, il capo
torpediniere di terza classe Francesco Grilli del Comando Marina di Massaua,
che venne decorato alla memoria con la Medaglia d’Argento al Valor Militare ("Comandante di plotone destinato alla difesa
di caposaldo, incurante dell’intenso fuoco dell’artiglieria e del bombardamento
a bassa quota di aerei avversari, dirigeva il fuoco dei dipendenti contro
gruppi nemici appostati in vicinanza del caposaldo. Con alto senso del dovere,
per meglio dirigere il fuoco, trascurava la propria incolumità finché cadeva
colpito mortalmente").
Fu poi il turno del
forte Vittorio Emanuele di essere preso d’assalto; le artiglierie italiane
esitarono ad aprire il fuoco sugli attaccanti per timore di colpire i propri
connazionali presi prigionieri, perché i francesi, non avendo il tempo di
mandarli nelle retrovie, li avevano portati con sé. Attaccata dalla 1a
Compagnia del capitano Pâris de la Bollardière, la batteria di Monte Umberto
non offrì la stessa resistenza del forte Moncullo: la maggior parte degli
uomini che la presidiavano si arresero alle 11.20 dopo brevi scaramucce. John
Hasey, un americano arruolatosi nella Legione Straniera dove aveva raggiunto il
grado di sottotenente, guidò il suo plotone nell’attacco contro Forte Vittorio
Emanuele: i legionari avanzarono lungo la collina circondando, isolando ed eliminando
uno per uno i nidi di mitragliatrici che incontravano, a colpi di bombe a mano
e talvolta persino con combattimenti alla baionetta; parecchi uomini del
plotone caddero uccisi o feriti, ma i restanti raggiunsero la sommità della
collina, scalarono le mura del forte e piombarono all’interno, cogliendo di
sorpresa i difensori. A questo punto, la guarnigione di Forte Vittorio Emanuele
si arrese; Hasey scrisse nelle sue memorie che “fino a quel momento, gli italiani avevano combattuto bene, ma adesso
non ne potevano più”. Entro le 11.20 sia Forte Vittorio Emanuele che la
batteria di Monte Umberto erano in mano ai legionari, insieme a 400 prigionieri
tra cui un colonnello. L’avanzata continuò, alcuni capisaldi vennero espugnati
con armi automatiche e bombe a mano, altri si arresero quasi subito: qualcuno
per ordine superiore dell’ufficiale al comando di quel segmento delle difese,
che riteneva ogni ulteriore resistenza inutile; qualcun altro spontaneamente,
dopo brevi scambi di colpi con i legionari. Forte Umberto I, già pesantemente
danneggiato dal tiro dell’artiglieria britannica, oppose maggiore resistenza e fu
l’ultimo a capitolare, verso mezzogiorno, dopo essere stato attaccato da tergo.
Vennero così catturati altri ottanta prigionieri; le alture erano adesso in
mano francese, mentre i marinai italiani prigionieri seppellivano i loro morti,
compreso un ufficiale dei corpi amministrativi che quel mattino era voluto
accorrere in prima linea ed era rimasto ucciso da un colpo da 75 mm. Gli uomini
della Brigade d'Orient avevano
complessivamente fatto 2643 prigionieri. I difensori sapevano fin da principio
di non avere speranze, stretti com’erano in una sacca sempre più ristretta, con
le spalle al mare, nessuna possibilità di aiuto o via di fuga. Bombardati e
cannoneggiati da giorni, combattendo contro un nemico preponderante, molti di
essi già sfiniti per i combattimenti sostenuti a Cheren nei due mesi precedenti,
avevano ormai il morale a terra.
Mentre questo
accadeva sul fianco destro dell’Highland Light Infantry, sul fianco sinistro
andavano all’attacco i carri armati Matilda dello squadrone "B" del 4th
Royal Tank Regiment, seguiti dalle truppe indiane del 4° Battaglione del 10th
Baluch Regiment, contro le colline denominate “Black Bumps” e “Ridge 86”. Gli
uomini del Baluch Regiment vennero accolti da un intenso e ostinato tiro di
mitragliatrice, ma tale resistenza venne soffocata con l’aiuto determinante dei
carri Matilda, ed alle 9.15 entrambe le alture erano in mano britannica.
La situazione ormai
andava precipitando: al comando della piazzaforte, gli aggiornamenti arrivavano
in modo sempre più confuso e lacunoso, perché molte linee telefoniche con il
fronte a terra erano interrotte. Via radio, l’ammiraglio Bonetti apprese che
gran parte delle artiglierie italiane erano ormai state distrutte dal tiro
avversario. Il perimetro difensivo era stato sfondato in vari punti, carri
armati britannici aggiravano le posizioni italiane e si addentravano in città:
alcuni erano arrivati fin quasi alla batteria "Dux" da 102 mm, vicino
alla Missione svedese. Nel settore settentrionale, sulla fascia costiera, le
truppe italiane – specie i militi della Guardia di Finanza – continuavano a
contrattaccare, ma riuscivano a riconquistare soltanto parte delle posizioni
perdute. L’ammiraglio Bonetti comunicò al colonnello Oliveti che, qualora
avesse ritenuto impossibile un’ulteriore resistenza, le artiglierie ancora
funzionanti dovevano essere fatte saltare, e le truppe rimaste dovevano essere
fatte ripiegare verso la città.
Fin verso le nove del
mattino fu possibile mantenere il contatto radio con il Ministero della Marina,
cui Bonetti riferiva via via l’evolversi della situazione; dopo le nove, si
continuarono a ricevere le chiamate da Roma, ma le trasmissioni in uscita da
Massaua non sembravano essere ricevute. L’ammiraglio diede pertanto ordine di
mettere fuori uso la stazione radio e distruggere le antenne ed i cifrari
rimasti.
Attacchi da parte di
reparti della Francia Libera sopraffecero le posizioni italiane sul lato
sudoccidentale del perimetro difensivo, mentre gli aerei britannici del 47th
e 223rd Squadron RAF, che avevano ormai il dominio incontrastato dei
cieli, bombardavano le postazioni d’artiglieria italiane. Dopo che i “Matilda”
ebbero sfondato, il collasso delle difese italiane fu piuttosto rapido: ovunque
passavano, i carri britannici seminavano morte e terrore. Ogni resistenza era
vana, mancando del tutto armi anticarro adeguate: come già era accaduto in
Cirenaica qualche mese prima, chi non si arrendeva veniva abbattuto senza
riuscire ad opporre un’efficace resistenza.
La Missione Svedese
cadde senza colpo ferire nelle mani dell’Highland Light Infantry. Quanto peso
ebbe, nell’attacco, l’apporto dei carri Matilda è dato da un semplice fatto:
mentre la 10a Brigata indiana, che godeva del loro appoggio, riuscì
a travolgere le difese italiane senza troppi problemi, sul lato settentrionale
la 7a Brigata, che i carri non li aveva, incontrò una resistenza
molto più decisa ed avanzò ben poco. Il 1° Battaglione del Royal Sussex
Regiment ed il 4° Battaglione del 16th Punjab Regiment rimasero
inchiodati sulle loro posizioni per oltre due ore, dopo l’alba, dal tiro delle
artiglierie italiane; il generale Briggs non poté far altro che aspettare che
la 10a Brigata e la Brigade
d'Orient sfondassero sul lato occidentale, dopo di che i carri del 4th
Royal Tank Regiment vennero inviati dalla sua parte e riuscirono anche qui a
schiacciare rapidamente ogni resistenza.
La battaglia stava
ormai volgendo alla fine. Più che alla difesa di una piazzaforte perduta, ormai
gli italiani pensavano a recare quanto più danno possibile alle installazioni
militari prima che cadessero in mano nemica: i macchinari nelle officine
vennero fracassati a colpi di mazza, depositi di munizioni e di rifornimenti di
ogni genere vennero distrutti, gru portuali, veicoli, pezzi d’artiglieria,
carri armati danneggiati ed ingenti quantità di materiale militare vennero
gettati nelle acque del porto. Aerei britannici osservarono nel porto nove
chiatte i cui equipaggi sembravano intenti a gettare in mare tutto ciò che
avevano a bordo. La battigia era nera per il carburante fuoriuscito dalle navi
autoaffondate. L’ufficiale statunitense Edward Ellsberg, che nel 1942 avrebber
diretto i lavori di recupero nel porto, avrebbe così commentato: “Tutto ciò che l’ingegno degli italiani
potesse suggerire nel campo della distruzione, per rendere Massaua
inutilizzabile per sempre per il conquistatore che si avvicinava, venne
scrupolosamente attuato”.
Poco dopo le due del
pomeriggio, saputo che le truppe britanniche erano ormai nell’abitato e
potevano raggiungere da un momento all’altro il suo quartier generale,
l’ammiraglio Bonetti diede ordine di ammainare la bandiera, momento che così
descrisse nella relazione che scrisse al rientro dalla prigionia: “Vengono resi gli onori con picchetto e
tromba. La bandiera e l’insegna di contrammiraglio, pure ammainata, sono poi
distrutte col fuoco. Faccio Abbattere anche l’asta, perché la bandiera nemica
non sia alzata dove hanno sventolato la bandiera italiana e la mia insegna”.
Questa mesta cerimonia era da poco terminata, quando arrivarono alla sede di Marisupao
alcuni veicoli con a bordo degli ufficiali britannici accompagnati dal maggiore
Guerrieri della Polizia dell’Africa Italiana, ormai prigioniero. Scrive ancora
Bonetti: “Domandano da bere, e sono
accompagnati al Circolo Ufficiali. Domandano anche da mangiare e faccio
rispondere che "questo non è un albergo"”. Dopo i britannici,
sopraggiunsero anche parecchi automezzi – tra cui due FIAT 1100, prelevate dai
legionari nel locale autoreparto – con truppe della Legione Straniera francese:
l’ammiraglio notò che tra i legionari vi erano anche degli italiani.
Ormai i rumori della
battaglia erano cessati: risuonavano invece per la città le esplosioni dei
depositi munizioni delle batterie, che gli artiglieri italiani facevano saltare
prima di arrendersi. Tra le truppe in motocicletta della Legione Straniera
c’era anche il colonnello Monclar, comandante della Brigade d'Orient, che si presentò all’ammiraglio Bonetti, al quale
cavallerescamente disse: “La resistenza era del tutto impossibile, mi
congratulo con voi per aver tentato”. Insieme a Bonetti furono presi
prigionieri anche i generali Tessitore e Carnimeo; prima di arrivare al Comando
di Marisupao, Monclar aveva già catturato per la strada il generale Bergonzi e
120 ufficiali di tutti i gradi, radunatisi presso l’albergo della Compagnia
Immobiliare Alberghiera dell’Africa Orientale, dov’erano alloggiati. Qualche
fonte francese e britannica afferma che prima di arrendersi l’ammiraglio
Bonetti avrebbe dapprima tentato senza successo di spezzare la propria sciabola
contro il ginocchio e poi l’avrebbe gettata in mare dalla finestra del suo
ufficio (che si affacciava sul porto), piuttosto che consegnarla al nemico, e
che questa sarebbe stata poi recuperata con la bassa marea da un legionario
francese e consegnata al colonnello Monclar, che a sua volta ne fece dono al
generale britannico Platt: ciò appare alquanto strano, dal momento che da parte
italiana risulterebbe che Bonetti avesse dato la propria sciabola al comandante
del sommergibile Perla, partito da Massaua settimane prima, affinché la
riportasse in Italia.
Dopo Monclar
arrivarono anche i generali Rees ed Heath, scortati da una colonna di carri
Matilda, da autoblindo della Sudan Defence Force e da 80 fanti del 3°
Battaglione del 18th Garhwal Rifles Regiment e del 4° Battaglione
del 10th Baluch Regiment (metà e metà). Questo gruppo si era messo
in movimento alle 14.20, partendo dalla Missione svedese; in teoria sarebbero
dovuti essere loro ad avere l’“onore” di accettare la resa dell’ammiraglio
Bonetti, ma – scrive la storia ufficiale britannica – il colonnello Monclar non
era riuscito a trattenere la propria impazienza, e li aveva preceduti
contravvenendo agli ordini. Ad ogni modo, la cerimonia che si tenne dinanzi al
Comando di Marisupao non era nulla più che una formalità. Poco dopo giunse sul
posto anche un drappello di giornalisti, che si affrettarono a realizzare foto
e filmati dell’evento. L’ammiraglio Bonetti ed i tre generali, scrive la storia
ufficiale britannica, avevano un contegno “al tempo stesso mogio e dignitoso”.
Fu il generale Briggs
ad assumere il comando del porto, ridotto ad ammasso di attrezzature distrutte
e relitti di ogni dimensione, tale da risultare inutilizzabile per lungo tempo.
Mentre a terra
accadeva tutto questo, poco distante si consumava anche la sorte dell’Orsini. Unica unità di un qualche valore
bellico tra quelle rimaste a Massaua (oltre ai MAS), la torpediniera avrebbe
dovuto contribuire con i suoi cannoni – che da sei erano stati ridotti a
quattro, come detto più sopra, dato che due pezzi da 102/35 erano stati
sbarcati per rinforzare le difese sul fronte a terra – alla difesa della città,
bombardando le forze nemiche che avanzavano verso Massaua, per poi
autoaffondarsi una volta esaurito il proprio compito.
Già il 5 aprile l’ammiraglio
Bonetti aveva ordinato al comandante dell’Orsini,
tenente di vascello Giulio Valente, di distruggere l’archivio segreto, uscire
in rada e lì tenersi costantemente pronto a muovere per condurre azioni di
bombardamento delle truppe britanniche con le proprie artiglierie. La prima di
queste azioni avvenne nel pomeriggio/sera del 7 aprile, quando l’Orsini, in base ad ordine superiore,
uscì una prima volta dalla rada e cannoneggiò con le proprie artiglierie da
102/45 (e secondo alcune fonti anche con le mitragliere pesanti da 40/39 mm,
mentre secondo altre queste armi erano state probabilmente sbarcate per
rinforzare le difese contraeree di Massaua) le truppe britanniche che cercavano
di avanzare a nord di Massaua. La seconda ebbe luogo all’alba dell’8 aprile:
stavolta il tiro della torpediniera fu diretto contro le truppe britanniche
accampate vicino ad Embereni, una ventina di chilometri a nord di Massaua.
Sugli effetti di questo cannoneggiamento, nel gennaio 1945 il capitano di
corvetta Mario Pouchain (ex comandante del sommergibile Perla, rimasto a terra
e fatto prigioniero alla caduta di Massaua) riferì nella sua relazione che un
ufficiale dell’esercito britannico che l’aveva scortato prigioniero ad Asmara,
il 9 aprile 1941, gli aveva confidato che il tiro dell’Orsini era stato molto preciso ed efficace, al punto di provocare
gravi danni ai mezzi britannici concentrati ad Embereni, e di mettere in fuga
le truppe britanniche ivi accampate.
Verso mezzogiorno
dell’8 aprile, l’equipaggio dell’Orsini
ebbe l’impressione che a terra la battaglia fosse cessata: su tutto il fronte
non si notava più alcuna azione di fuoco. Non venne ricevuto alcun ordine, né
comunicazione di qualsivoglia tipo. Verso le 12.25 la torpediniera venne
attaccata da un singolo aereo britannico, reagendo con l’unica mitragliera
ancora funzionante (il capitano di corvetta Pouchain parlò nella sua relazione
di “continui e violenti attacchi aerei
che causarono perdite fra l’equipaggio” ed affermò che la nave fu “attaccata fino all’ultimo dall’aviazione
nemica”; però Pouchain non si trovava a bordo dell’Orsini, mentre Valente non fece riferimento, nel suo rapporto, a
perdite causate dagli attacchi aerei, e l’Albo dei caduti e dispersi della
Marina Militare non contiene il nome di nessun ufficiale, sottufficiale o
marinaio dell’Orsini ucciso a Massaua
in questa od altra data).
Alle 12.40, mentre la
nave rientrava all’ancoraggio al termine della sua azione di bombardamento, il
comandante Valente si rese conto che la bandiera italiana non sventolava più
sulla sede di Marisupao: sulla base di ciò, oltre che della cessazione di ogni
tangibile segno di lotta, comprese che la piazzaforte era caduta. In base alle
disposizioni precedentemente ricevute, pertanto, diede il mesto ed inevitabile
ordine: autoaffondare la nave. (Secondo qualche fonte, tale ordine venne dato
dopo che l’Orsini ebbe esaurito le
proprie munizioni).
L’equipaggio dell’Orsini venne trasferito sulle
imbarcazioni, poi si provvide ad aprire le valvole kingston, per provocare
allagamenti, ed a distruggere alcune tubature della sala macchine per
accelerare l’affondamento. Stante la poca distanza dall’ospedale di Massaua e
dalla nave ospedale RAMB IV, si era
deciso di non adoperare cariche esplosive per l’autoaffondamento, per evitare
potenziali danni “collaterali”. Ultimo ad abbandonare la nave, come voleva la
tradizione, fu il comandante Valente, insieme al direttore di macchina
(capitano del Genio Navale Eliseo Bancalà) ed a due sottufficiali.
Sulle prime l’Orsini andò abbassandosi sul mare
lentamente, un poco per volta, fino a quando gli oblò inferiori non arrivarono
al livello della superficie: a questo punto l’acqua poté irrompere all’interno
attraverso di essi, e l’anziana “tre pipe” sbandò fortemente sulla dritta, alzò
la prua al cielo ed affondò di poppa in 27 metri d’acqua, ottocento metri ad
est della penisola di Abd el Kader, all’altezza del pontile del Comando (nello
specchio d’acqua antistante la sede di Marisupao). Era l’una circa del
pomeriggio dell’8 aprile 1941.
Il tenente di vascello Giulio Valente, ultimo comandante dell’Orsini (da www.icsm.it) |
Il comandante
Valente, il direttore di macchina Bancalà e i due sottufficiali raggiunsero il
molo del porto sul quale era già sbarcato il resto dell’equipaggio: ai suoi
uomini, Valente rivolse “parole di
circostanza”. L’ammiraglio Bonetti lodò il comportamento tenuto da tutto
l’equipaggio; la Commissione d’Inchiesta Speciale (CIS) istituita nel
dopoguerra per giudicare sulla perdita dell’Orsini
(com’era abituale fare per ogni nave da guerra perduta) avrebbe giudicato che «il tenente di vascello Valente (…) abbia ottemperato lodevolmente ai suoi
doveri anche nella dolorosa circostanza in cui, dopo la caduta di Massaua, in
base ad ordini scritti precedentemente ricevuti dovette procedere
all’affondamento della sua nave il giorno 8 aprile 1941. Tutto il suo personale
si comportò con serenità e fredda rassegnazione».
Tutto era finito:
Massaua era caduta. Per un ammiraglio, tre generali, 449 ufficiali e 9140 tra
sottufficiali, soldati e marinai, compreso l’intero equipaggio dell’Orsini, iniziava una lunga prigionia: i
successivi quattro o cinque anni li avrebbero trascorsi nei campi di prigionia
dell’India, del Sudafrica e di altre località dell’impero britannico.
Bonetti, Bergonzi,
Tessitore e Carnimeo vennero trasferiti all’Asmara già due ore dopo la resa,
accompagnati dal generale Heath. Il resto dei prigionieri venne invece
concentrato provvisoriamente nell’aeroporto di Massaua, trasformato in un
improvvisato campo di prigionia con l’aggiunta di una recinzione di filo
spinato attorno agli hangar. La vigilanza era esercitata da una compagnia del Régiment du Tchad. I prigionieri vennero
poi progressivamente smistati verso altri campi di prigionia dell’Impero
britannico, dai quali molti non sarebbero rientrati se non parecchi mesi dopo
la fine della guerra (il comandante Valente dell’Orsini, ad esempio, avrebbe fatto ritorno in Italia soltanto
nell’aprile 1946, esattamente cinque anni dopo la sua cattura ed a quasi un
anno dalla fine delle ostilità in Europa).
Molti mesi sarebbero
trascorsi prima che i britannici potessero gradualmente ripristinare
l’efficienza del porto di Massaua.
Non sembrano esservi
notizie sulla sorte del relitto dell’Orsini.
Essendo questa nave affondata in acque abbastanza profonde da non costituire, a
differenza delle altre navi, un’ostruzione all’impiego del porto di Massaua, i
britannici se ne disinteressarono, ammesso che ne conoscessero l’ubicazione.
Non vi è traccia dell’Orsini nelle
mappe dei relitti redatte dai britannici dopo l’occupazione di Massaua, né
esistono notizie su un suo recupero o demolizione; tutto considerato, appare
estremamente probabile che la vecchia “tre pipe” giaccia tutt’ora nel punto in
cui si affondò quasi ottant’anni fa. Questa supposizione sembra essere
avvalorata dalla carta nautica dell'ammiragliato GB 460(B), Approches Massawa Harbour (scala
1:15000, corr. 2006), che indica la presenza di un relitto a 32 metri di
profondità, esattamente 800 metri ad est di quello che nel 1941 era il pontile
del Comando Marina sul molo di Abd el Kader, cioè nell’esatto punto indicato nel
rapporto del comandante Valente; e di un altro relitto 885 metri ad est del
fanale verde di entrata del porto di Massaua, in posizione 15°37'12,4'' N e
39°29'19,3'' E, con un’elevazione di dieci metri su un fondale di 28,
sull’allineamento dell’imboccatura del porto. Considerato che il “primo”
relitto è indicato come in posizione approssimata ed il “secondo” in posizione
certa, pressoché accanto l’uno all’altro, sembra probabile trattarsi della
stessa nave, e cioè dell’Orsini. Le
immersioni nella zona attorno a Massaua sono ad oggi vietate, e non risulta che
il relitto della torpediniera sia mai stato visitato da subacquei, né tanto
meno identificato, dall’epoca del suo autoaffondamento nel 1941.
Un estratto dal
rapporto della Commissione d’Inchiesta istituita nel dopoguerra sulla perdita
dell’Orsini:
"Nella sua relazione fatta al termine della
prigionia l'allora comandante dell'Orsini, tenente di vascello in s.p.e.
Valente Giulio scrive in data 26 aprile 1946: «Alla sera del giorno 7 uscii
dalla rada per eseguire, all'ordine, un'azione di bombardamento contro truppe
inglesi che premevano a nord di Massaua; altra simile azione eseguii all'alba
del giorno 8. L'armamento di artiglieria della torpediniera era stato ridotto
di due pezzi da 102/35, mandati alle isole Dahlach. Alle ore 12 circa ogni
azione di fuoco cessava sull'intera fronte; a me non giungevano né nuovi ordini
né nuove comunicazioni. Alle 12.25 circa fui bombardato da un aereo nemico
contro il quale rivolsi la superstite mitragliera efficiente. Alle 12.40,
avendo osservato che la bandiera nazionale già innalzata sul Comando Superiore
non sventolava piú, compresi che la base era caduta e quindi, conformemente
agli ordini perentori ricevuti, ordinai di affondare la nave dopo aver fatto
sbarcare l'equipaggio con mezzi di salvataggio. La nave in quel momento era sui
fondali di metri 27, ottocento metri a levante della penisola di Abd el Kader,
all'altezza del pontile del Comando. La lasciai per ultimo insieme col
direttore di macchina capitano D.M. Bancalà Eliseo ed altri due sottufficiali.
Con costoro raggiunsi un molo di Massaua dove all'equipaggio ivi riunito
rivolsi parole di circostanza».
Nei riguardi dell’impiego della torpediniera Orsini approfitto della difesa della base, il capitano di corvetta Pouchain al ritorno della prigionia scrisse nella sua relazione datata Taranto 18 gennaio 1945: «La torpediniera Orsini dopo aver eseguito due azioni di bombardamento sulle posizioni nemiche attorno ad Embereni, portate a termine puntualmente ed energicamente malgrado i continui e violenti attacchi aerei che causarono perdite fra 1'equipaggio, si autoaffondó d'ordine di Marisupao poco dopo la cessazione della resistenza, attaccata fino all'ultimo dall'aviazione nemica. Seppi personalmente da un ufficiale dell'Esercito inglese che mi scortó ad Asmara il giorno 9, che la precisione e l'efficacia del tiro della nostra torpediniera avevano posto in fuga i reparti nemici accampati ad Embereni e danneggiati seriamente gli automezzi ivi concentrati».
La torpediniera Orsini fu dunque fatta affondare aprendo i kingston e rompendo alcuni tubi di macchina. Fu escluso 1'impiego di ordigni esplosivi data la vicinanza della nave ospedale Ramb IV e dell'ospedale a terra. La nave si immerse dapprima lentamente; sbandó poi alquanto sulla dritta quando entró acqua dagli hublots inferiori, quindi alzó la prora e si infiló con la poppa in circa 27 metri di fondo.
Il Comando si loda del comportamento degli ufficiali e di tutto l'equipaggio.
In relazione a quanto precede la Commissione ritiene che il tenente di vascello Valente, quale comandante della torpediniera Orsini, abbia ottemperato lodevolmente ai suoi doveri anche nel1a dolorosa circostanza in cui, dopo la caduta di Massaua, in base ad ordini scritti precedentemente ricevuti dovette procedere all'affondamento della sua nave il giorno 8 aprile I941. Tutto il suo personale si comportó con serenità e fredda rassegnazione".
Nei riguardi dell’impiego della torpediniera Orsini approfitto della difesa della base, il capitano di corvetta Pouchain al ritorno della prigionia scrisse nella sua relazione datata Taranto 18 gennaio 1945: «La torpediniera Orsini dopo aver eseguito due azioni di bombardamento sulle posizioni nemiche attorno ad Embereni, portate a termine puntualmente ed energicamente malgrado i continui e violenti attacchi aerei che causarono perdite fra 1'equipaggio, si autoaffondó d'ordine di Marisupao poco dopo la cessazione della resistenza, attaccata fino all'ultimo dall'aviazione nemica. Seppi personalmente da un ufficiale dell'Esercito inglese che mi scortó ad Asmara il giorno 9, che la precisione e l'efficacia del tiro della nostra torpediniera avevano posto in fuga i reparti nemici accampati ad Embereni e danneggiati seriamente gli automezzi ivi concentrati».
La torpediniera Orsini fu dunque fatta affondare aprendo i kingston e rompendo alcuni tubi di macchina. Fu escluso 1'impiego di ordigni esplosivi data la vicinanza della nave ospedale Ramb IV e dell'ospedale a terra. La nave si immerse dapprima lentamente; sbandó poi alquanto sulla dritta quando entró acqua dagli hublots inferiori, quindi alzó la prora e si infiló con la poppa in circa 27 metri di fondo.
Il Comando si loda del comportamento degli ufficiali e di tutto l'equipaggio.
In relazione a quanto precede la Commissione ritiene che il tenente di vascello Valente, quale comandante della torpediniera Orsini, abbia ottemperato lodevolmente ai suoi doveri anche nel1a dolorosa circostanza in cui, dopo la caduta di Massaua, in base ad ordini scritti precedentemente ricevuti dovette procedere all'affondamento della sua nave il giorno 8 aprile I941. Tutto il suo personale si comportó con serenità e fredda rassegnazione".