La Ciclone (da “Le navi del re. Immagini di una flotta che fu” di Achille Rastelli, SugarCo Edizioni, 1988, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
Torpediniera di
scorta, capoclasse della classe omonima, con dislocamento standard di 1113 tonnellate,
in carico normale 1652, a pieno carico di 1683 o 1695 tonnellate (altre fonti
forniscono dati differenti: dislocamento standard di 1160 tonnellate, in carico
normale di 1652 ed a pieno carico di 1800; oppure, dislocamento standard di 910
tonnellate ed a pieno carico di 1625; oppure, dislocamento standard di 1095
tonnellate ed a pieno carico di 1649).
Progettate dal
Comitato Progetto Navi e concepite inizialmente come una mera ripetizione
dell’ottima classe Pegaso (tanto da essere sovente menzionate anche come "Orsa
seconda serie", essendo la classe Pegaso chiamata anche classe Orsa), delle
quali riprendevano le forme dello scafo, le torpediniere (o avvisi scorta, come
sono talvolta menzionate) della classe Ciclone vennero successivamente
modificate in fase di progetto con l’allargamento di circa mezzo metro dello
scafo (che passò così da una larghezza di 9,5 ad una di 9,9 metri), per
migliorarne la stabilità e la tenuta al mare, e la predisposizione per
l’aggiunta di un terzo cannone da 100/47 mm (in una controplancetta situata
sulla tuga centrale, a poppavia del fumaiolo, che però fu installato solo su
alcune unità della classe), il che andò a rallentarne l’approntamento. Il
dislocamento risultò dunque maggiore (quello standard aumentò di oltre cento
tonnellate, passando a 1130 tonnellate dalle 1016 delle Pegaso; quello a pieno
carico, da 1600 a circa 1800 tonnellate, secondo "Mussolini’s Navy"
di Maurizio Brescia, anche se le fonti ufficiali riportano un dislocamento a
pieno carico di 1652 o 1695 tonnellate), così come il pescaggio (3,77 metri
contro 3,1 delle Pegaso). La lunghezza fu invece leggermente ridotta, 87,8
metri fuori tutto a fronte di 89,3 sulle Pegaso. Sempre al fine di migliorare
la stabilità, vennero eliminati i serbatoi laterali per il carburante.
La costruzione di
questa classe – inizialmente concepita, come detto, come una semplice riproduzione
della classe Pegaso, poi ingrandita e migliorata in base alle esperienze dei
primi mesi di guerra – fu decisa dai vertici della Regia Marina nelle tarda
estate del 1940, essendo divenuta evidente la necessità di dotarsi di moderne
unità di scorta ed antisommergibili per la protezione dei convogli di
rifornimenti inviati in Africa Settentrionale (uniche unità italiane
specificamente progettate per questo scopo, nel 1940, erano appunto le quattro
torpediniere della classe Pegaso, oltre al poco riuscito cacciasommergibili
sperimentale Albatros). Le prime
dodici unità della classe vennero ordinate nel settembre-ottobre 1940, seguite
da altre quattro a inizio 1941 (secondo il sito Navypedia, la decisione di
ordinare sedici unità venne presa a inizio 1941 per compensare le perdite di
cacciatorpediniere e torpediniere subite nei mesi precedenti); le ordinazioni
furono ripartite tra quattro cantieri, ad ognuno delle quali fu assegnata la
costruzione di quattro unità: Ciclone,
Tifone, Uragano e Fortunale ai
CRDA di Trieste; Impavido, Indomito, Intrepido ed Impetuoso ai
Cantieri del Tirreno di Riva Trigoso; Animoso,
Ardente, Ardito ed Ardimentoso
all’Odero di Sestri Ponente; Aliseo, Ghibli, Groppo e Monsone alla
Navalmeccanica di Castellammare di Stabia. Si nota una diversa scelta dei nomi
per i diversi gruppi di unità: i nomi delle quattro torpediniere costruite a
Trieste si riferivano a tempeste e fenomeni meteorologici estremi; le quattro
unità di Castellammare portavano nomi di venti; le otto realizzate a Riva
Trigoso e Sestri Ponente erano battezzate con aggettivi che indicavano
coraggio, inizianti per “I” nel caso delle prime e per “A” per le seconde.
(Secondo una fonte, il tempo intercorso tra l’ordinazione e l’effettiva
impostazione delle Ciclone sarebbe stato dovuto alle modifiche apportate al
progetto originale).
Impostate nella tra
l’aprile e l’agosto del 1941 (ad eccezione di Indomito ed Intrepido,
impostate nel gennaio 1942), le Ciclone iniziarono ad entrare in servizio dalla
metà del 1942; la costruzione di ciascuna di esse richiese tra i 12 ed i 23 mesi,
con una media di 17 mesi e 13 giorni, sei mesi e mezzo in meno rispetto alle Pegaso
(la cui costruzione aveva richiesto in media 24 mesi per nave). La costruzione
delle navi ordinate ai CRDA procedette più speditamente rispetto a quelle
ordinate negli altri cantieri: la Ciclone,
impostata dopo le unità del gruppo “Animoso” (nel maggio 1941, mentre queste
ultime furono impostate un mese prima: l’Animoso
fu in assoluto la prima nave della classe ad essere impostata, ed è probabilmente
per questo che nella "Illustrated Encyclopedia of 20th Century Weapons and
Warfare" la classe Ciclone viene chiamata “classe Animoso”), venne
completata molto prima (nel maggio 1942, cioè in poco più di un anno; anche le
altre unità del suo gruppo vennero completate in 12-15 mesi, mentre le
“Animoso” furono ultimate tra il giugno ed il dicembre 1942, con un tempo per
unità di 14-20 mesi). Le torpediniere costruite a Castellammare furono
costruite in 14-23 mesi, mentre ancor più tempo richiese la costruzione delle
navi ordinate a Riva Trigoso (da 19 a 23 mesi).
Dettaglio della poppa (da www.navymodelling.com) |
L’armamento
contraereo e quello antisommergibili vennero notevolmente potenziati rispetto
alla classe Pegaso. La composizione dell’armamento artiglieresco e contraereo
variava da unità ad unità: la Ciclone
era armata con due cannoni OTO 1937 da 100/47 mm in impianti singoli, uno a
prua ed uno a poppa, e dieci mitragliere da 20/65 mm in impianti binati (altra
fonte parla di mitragliere Scotti-Isotta Fraschini 1939 da 20/70 mm), così come
Aliseo, Ardente, Fortunale, Groppo, Tifone ed Uragano; Ardito, Animoso, Ardimentoso ed Intrepido avevano anch’esse due pezzi da
100/47 ma un totale di dodici mitragliere da 20/65 mm (quattro in un impianto
quadrinato di produzione tedesca, installato sulla tuga centrale al posto del
terzo cannone, ed otto in impianti binati: ciò permise una difesa contraerea
ravvicinata particolarmente efficace), mentre Impavido, Indomito, Impetuoso, Monsone e Ghibli erano
armate con tre cannoni da 100/47 (uno a prua, uno a poppa ed il terzo nella
tuga centrale, successivamente rimosso; il gruppo della Ciclone aveva invece sulla tuga centrale, al posto di tale cannone,
un ulteriore impianto binato da 20/65 mm) ed otto mitragliere da 20/65 in tre impianti
binati e due singoli. Questa differenza era motivata dal fatto che l’esperienza
della guerra in corso aveva mostrato che l’armamento contraereo inizialmente
progettato, per quanto più potente di quello delle Pegaso, era ancora
insufficiente; pertanto sulla maggior parte delle Ciclone si era deciso di
eliminare il terzo progettato cannone da 100/47 mm per installare un altro
impianto binato o quadrinato di mitragliere da 20/65 mm. Uguale per tutte era
invece l’armamento silurante – quattro tubi lanciasiluri da 450 mm in impianti
binati laterali, in coperta –, mentre quello antisommergibili era costituito da
due tramogge per bombe di profondità e quattro o sei lanciabombe laterali di
produzione tedesca (a seconda della disponibilità, sempre in base alle
esperienze della guerra che suggerivano un ulteriore incremento dell’armamento
antisom; fu anche aumentata la dotazione di bombe da getto), più efficienti di
quelli precedentemente in uso sulle unità italiane. Erano tutte munite di
ecogoniometro. Erano anche dotate di attrezzature per trasportare e posare 20
mine.
L’apparato propulsivo
era costituito da due gruppi turboriduttori Franco Tosi da 16.000 CV (11.900
kW) alimentati da due caldaie tipo Yarrow, che azionavano due turbine. La
velocità massima in condizioni operative delle torpediniere classe Ciclone era
di non più di 25-26 nodi, inferiore di due o tre nodi rispetto a quella delle Pegaso
(che raggiungevano i 28 nodi con analogo apparato motore), ed alcune di esse
non raggiungevano neanche tale velocità, indicata nel contratto di costruzione;
ma dati i compiti di scorta convogli cui queste navi erano assegnate, essa
risultava comunque più che adeguata. Anche l’autonomia – 2800 miglia a 14 nodi,
contro le 4000 delle Pegaso, e 1400 miglia a 25 nodi contro le 2000 delle Pegaso,
il tutto con una scorta di carburante di 442 tonnellate – era sensibilmente
ridotta; questo calo delle prestazioni, oltre all’aumento dei pesi ed alle
modifiche apportate rispetto al progetto delle Pegaso, è imputato al fatto che
le Ciclone, a differenza delle Pegaso, furono costruite in tempo di guerra, in
tutta fretta e con materiali “autarchici” di qualità inferiore (altra fonte
afferma invece che l’autonomia fu deliberatamente ridotta, quando furono
eliminati i serbatoi laterali per migliorare la stabilità, dal momento che i
compiti di scorta convogli sulle rotte mediterranee assegnati alle unità di
questa classe non avrebbero richiesto una maggiore autonomia). Ciononostante,
risultarono delle unità molto riuscite, svolgendo al meglio i compiti di scorta
per cui erano nate, e dimostrandosi temibili avversarie per i sommergibili britannici,
dei quali ne affondarono tre o quattro nel giro di pochi mesi (il P 48 dall’Ardente, il P 222 dalla Fortunale, il Turbulent dall’Ardito, e
forse l’Utmost dalla Groppo).
Dieci delle sedici
unità della classe, compresa la Ciclone
stessa, vennero dotate di radar Fu.MO 31/42 di fabbricazione tedesca.
Secondo alcune fonti,
le Ciclone furono inizialmente classificate “torpediniere” e poi riclassificate
“torpediniere di scorta” nel maggio 1943; parecchie fonti le menzionano invece
come “avvisi scorta”, analogamente alle Pegaso.
Breve e parziale cronologia.
9 maggio 1941
Impostazione nei
Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste (numero di costruzione 1267).
1° marzo 1942
Varo nei Cantieri
Riuniti dell’Adriatico di Trieste.
Aprile 1942
Durante le prove in
mare a tutta forza, compiute con un dislocamento medio di 1148 tonnellate, la Ciclone raggiunge una velocità massima
di 25,4 nodi, con una potenza di 14.616 CV (inferiore ai 16.000 CV di
progetto). Durante prove effettuate con dislocamento in carico normale (poco
meno di 1500 tonnellate) la velocità massima in condizioni operative risulta di
23-24 nodi circa.
La Ciclone durante le prove di velocità al largo di Trieste, all’inizio della primavera del 1942 (Coll. Erminio Bagnasco, via “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia) |
Due
immagini della Ciclone durante le
prove in mare al largo Trieste nel maggio 1942, poco prima dell’entrata in
servizio (sopra: da www.navymodeling.com;
sotto: g.c. STORIA militare)
21 maggio 1942
Entrata in servizio.
Giugno 1942
Terminato
l’allestamento ed il periodo delle prove a mare, la Ciclone lascia per sempre Trieste.
L’allora sottocapo
Alberto Ferrari, imbarcato sulla gemella Tifone
che si trovava ancora in allestimento (lui ed altri amici del corso
ecogoniometristi erano stati destinati in parte sulla Tifone ed in parte sulla Ciclone,
in allestimento l’una accanto all’altra: tra i due gruppi, uno per nave, si era
subito accesa una bonaria rivalità…), ricorda così la partenza della Ciclone nel suo libro "L’ultima
torpediniera per Tunisi": “…il Ciclone
aveva già fatto le prove di macchina, i tiri, e non era affondato, come aveva
preconizzato Saravalle [uno dei membri del corso assegnati alla Tifone] a Sciommeri [uno dei membri del corso assegnati alla Ciclone]: aveva eseguito bene tutte le prove ed ora era pronto a salpare
definitivamente. Lo attendevano la Sirte, Tripoli e la Grecia. Infine la
Tunisia! Ci riunimmo per l’ultima volta con gli amici in Cittavecchia per gli
auguri e rimediammo una bella sbronza. Durante la notte il Ciclone salpò
silenzioso, non lo avremmo visto mai più. Sfortunato, magnifico Ciclone!
Precedette la nostra fine di appena un mese (…) Ho ancora una sua vecchia fotografia, con i suoi sedicimila cavalli
scatenati alle prove di macchina, i baffi fin sul castello e la poppa
ribollente di schiuma. Non ho saputo più nulla dei vecchi amici”.
16 agosto 1942
Alle 9.30 la Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di
Paola) e la vecchia torpediniera Generale
Achille Papa salpano da Napoli per scortare a Palermo la nave
cisterna Poza Rica, diretta in
Africa Settentrionale con un carico di 6930 tonnellate di carburante. Vi è
anche una scorta aerea con alcuni velivoli. I decrittatori britannici di "ULTRA"
hanno intercettato e decifrato un messaggio italiano, dal quale risulta che «La rotta della Poza Rica lunedì 17 alle ore
02.00 sarà la seguente: Capo San Vito, Marsala, Sud Ovest Pantelleria. In
seguito, alle ore 02.00 di martedì 18, probabilmente al largo di Punta Africa
ed alle ore 07.00 a Kerkennah. Alle ore 08.00 dello stesso giorno, al largo di
Ras Makhabez ed in seguito a Tripoli»; tuttavia, questo messaggio non
contempla la sosta a Palermo, decisa da Supermarina solo in un secondo momento
(viene comunicata alla Poza Rica solo
alle 18 del 16 agosto), rendendo così inutile la decrittazione del messaggio.
17 agosto 1942
Ciclone, Papa e Poza Rica arrivano a Palermo nelle prime
ore del mattino. La partenza è inizialmente fissata per le 17, ma viene poi
rimandata alle 22 (alle 15.30) e poi sospesa del tutto (alle 20). Il giorno
seguente la Poza Rica scarica a
Palermo alcune delle centinaia di fusti di benzina sistemati a bordo in
aggiunta al carburante contenuto nelle cisterne.
Intanto altre
ricognizioni aeree e decrittazioni di "ULTRA" forniscono ai
britannici notizie parziali e contraddittorie: da una decrittazione del 17
agosto risulta che "La petroliera
Pozarica scortata dalla Ciclone doveva lasciare Napoli alle 09.30 del giorno 16
a 9 nodi e mezzo e dovrà raggiungere Tripoli alle 03.00 del 19", ma
successivamente giungerà la notizia che "La petroliera Pozarica in trasferimento da Napoli a Tripoli è stata
avvistata dalla ricognizione aerea su Palermo il giorno 17. I suoi futuri
movimenti non sono noti".
19 agosto 1942
Alle 7.30 la Ciclone e la Poza Rica lasciano Palermo dirette verso Messina, unitamente ai
cacciatorpediniere Maestrale e Lanzerotto Malocello, inviati a rinforzare la scorta. La Ciclone esce in mare prima della Poza Rica, unendosi a Maestrale
e Malocello che sono in attesa subito
fuori dal porto; non appena la Poza Rica
esce a sua volta da Palermo, le tre siluranti ne assumono la scorta. "ULTRA"
ha intercettato e decifrato anche le nuove comunicazioni relative a questo
viaggio: «Petroliera Poza Rica scortata
da CT Maestrale, Malocello e Ciclone lascerà Palermo per Bengasi alle ore 07.00
locali di oggi diciannove, velocità 8,5 nodi. Itinerario via Messina e stretto
Messina, ove si unirà al piroscafo Dora».
Alle 14.30 un caccia
Supermarine Spitfire del 69th Squadron della RAF decollato da Malta,
impiegato come ricognitore ed inviato a cercare il convoglio in base alle
indicazioni di “ULTRA”, avvista Poza Rica
e scorta ad est di Palermo, mentre vola a 7000 metri di quota. Rientrato a
Malta, comunica rotta e velocità delle navi avvistate.
Il convoglio,
intanto, segue la costa settentrionale della Sicilia con rotta verso est; alle
16.22 le unità della scorta rilevano e segnalano un sommergibile verso
poppavia, ma non si verificano attacchi.
A mezzanotte il
convoglio arriva all’altezza di Punta Raineri, davanti a Messina, e qui
rallenta per permettere ad alcune navi in uscita da Messina di unirsi ad esso.
Si tratta del piccolo piroscafo tedesco Dora (carico di 181 tonnellate di rifornimenti, tra cui 57 di
munizioni, e di 17 automezzi), dei cacciatorpediniere Aviere (caposcorta, capitano di vascello Gastone Minotti) e Camicia Nera e della torpediniera Climene (capitano di corvetta Raffaele
Cerqueti). Queste navi vanno a formare un unico convoglio con Ciclone e Poza Rica, mentre Maestrale
e Malocello lasciano la scorta ed
entrano a Messina. La direzione della scorta del convoglio così formato viene
assunta dall’Aviere.
Il convoglio, che
segue la rotta di levante, costeggiando la Grecia e tenendosi il più lontano
possibile da Malta, subisce attacchi aerei fin dalla partenza: il “pedinamento”
da parte di "ULTRA", infatti, sta continuando.
20 agosto 1942
Il 20 agosto "ULTRA"
riesce ad ottenere informazioni dettagliate grazie alla decrittazione di un
particolareggiato messaggio delle 7.50 del 19, nel quale sono indicati tre
punti in cui il convoglio dovrà passare, con i relativi orari: "Maestrale e Malocello interromperanno la
scorta della Poza Rica fuori Messina ed entreranno in porto. Pozarica con Ciclone
si unirà al piroscafo Dora, diretto a Tobruk, e scortati dai cacciatorpediniere
Camicia Nera ed Aviere e dalla torpediniera Climene, procederanno in convoglio
a 8,5 nodi fino al punto uno (non identificato). Poi alle ore 16.00 di giovedì
passeranno al punto due, probabilmente 39°10’ Nord e 17°25’ Est [al largo
di Crotone]. In seguito al punto tre,
approssimativamente 39°35’ Nord e 18°30’ Est [al largo di Capo Santa Maria
di Leuca], per poi raggiungere alle ore
04.00 di venerdì 21 il punto quattro, approssimativamente 39°55’ Nord e 19°10’
Est [a nordovest di Corfù]".
Procedendo nello
stretto di Messina con rotta verso sud, all’1.20 il convoglio passa a sud del
38° parallelo, tra Reggio Calabria e Saline Ioniche, poi assume rotta nordest
seguendo la costa calabra. All’alba le navi sono al largo di Bova Marina;
intorno alle sette del mattino il convoglio viene avvistato da un Supermarine
Spitfire del 69th Squadron RAF (inviato da Malta sulla scorta delle
informazioni di "ULTRA") con compiti di ricognizione, il quale, non
notato dalle navi, comunica la posizione del convoglio, che in quel momento sta
zigzagando al largo di Capo Spartivento, dopo averlo superato.
Alle 10.54, tre
miglia a nord di Punta Stilo (in posizione 38°29’ N e 16°38’ E, al largo di
Siderno Marina), il convoglio viene attaccato da bombardieri ed aerosiluranti
britannici provenienti da sudovest, cioè da poppavia sinistra. Si tratta di
dodici aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron della Royal
Air Force e di dieci caccia Bristol Beaufighter del 227th Squadron
RAF, tutti decollati da Luqa (Malta) alle 8.40 di quel mattino, dopo la
ricezione del segnale di scoperta dello Spitfire. I Beaufort, guidati dal
tenente colonnello Reginald Patrick Mahoney Gibbs, devono attaccare il
convoglio – specie la Poza Rica,
obiettivo principale – coi siluri, mentre i Beaufighter hanno il duplice
compito di distogliere dagli aerosiluranti la scorta aerea del convoglio e di
bombardare le navi. A questo scopo, alcuni dei Beaufighter sono armati con
bombe da 113 kg: sei dei dodici che erano inizialmente partiti, numero poi
ridottosi a quattro perché due dei Beaufighter muniti di bombe sono stati
costretti a tornare indietro poco dopo la partenza, uno (il "J") per
malore del pilota e l’altro (l’"H") per un incendio ad un motore che
l’ha costretto all’ammaraggio forzato, con una vittima tra l’equipaggio. È
presente anche un ricognitore Martin Baltimore del 69th Squadron,
incaricato di osservare lo svolgersi dello scontro da alta quota e scattare
fotografie.
Non appena gli aerei
britannici vengono avvistati, tutte le navi del convoglio, mercantili e
militari, aprono contro di essi un violento fuoco di sbarramento; i velivoli
della scorta aerea – sei caccia Macchi ed un idrovolante CANT Z. – ingaggiano i
Beaufighters, alcuni dei quali si buttano in picchiata sganciando le loro bombe
contro le navi. Mentre i Beaufighters attirano su di sé il grosso della
reazione sia della contraerea (secondo le memorie di Gibbs, “i cacciatorpediniere, provocati dal fuoco
dei cannoncini e dal fischio delle bombe, sparavano selvaggiamente al cielo sui
Beaufighters in picchiata”) che della scorta aerea, i Beaufort lanciano i
loro siluri contro il lato sinistro della Poza
Rica, rimasto scoperto: ma l’attacco è un clamoroso fallimento, perché i
siluri britannici sono regolati per una profondità eccessiva. La petroliera
riesce ad evitare un primo siluro con la manovra; altri siluri mancano il
bersaglio, ed almeno tre o quattro passano sotto lo scafo della Poza Rica senza esplodere.
Anche le bombe cadono
tutte in mare o sulla costa, senza causare danni. Due dei caccia della Regia
Aeronautica della scorta aerea rimangono danneggiati nel combattimento aereo.
Molto più pesanti le
perdite britanniche: due Beaufort ed un Beaufighter vengono abbattuti (le
perdite sono attribuite dai britannici ai caccia della scorta aerea, mentre da
parte italiana le navi del convoglio e della scorta rivendicano l’abbattimento
dei velivoli nemici con le proprie mitragliere). Il Beaufighter (aereo
"S"), pilotato dal sottotenente neozelandese Donald Brixo con il
sergente Douglas Paterson come navigatore, è stato colpito al motore destro dal
tiro delle navi ed è costretto ad ammarare vicino alla costa; Brixo e Paterson
sopravvivono e vengono fatti prigionieri. I Beaufort (aerei "F" e
"T", pilotati rispettivamente dal sottotenente canadese Peter Roper e
dal sottotenente australiano Condon) vengono abbattuti in mare ed i loro
equipaggi – otto uomini in tutto – vengono anch’essi presi prigionieri (uno dei
due è tratto in salvo dal Dora). Alle
11.03 l’attacco è concluso e gli aerei superstiti si allontanano verso est;
atterreranno a Luqa tra le 13.05 e le 13.30. Il tenente colonnello Gibbs sarà
pesantemente criticato, al suo rientro, per questo disastro. Il convoglio
italiano riprende la regolare navigazione alle 11.10.
Alle 14.10 l’Aviere segnala un avvistamento sospetto
e lancia delle bombe di profondità a scopo intimidatorio, mentre alle 15 il Camicia Nera lascia il convoglio per
altro incarico (secondo altra fonte, avrebbe lasciato la scorta per via dei
molti morti e feriti tra l’equipaggio, causati dal mitragliamento aereo di qualche
ora prima). Alle 17 uno Spitfire del solito 69th Squadron RAF
rintraccia il convoglio al largo di Capo Colonna, mentre naviga verso nordest
con la scort di due idrovolanti e sei caccia.
Due
particolari della Ciclone nel 1942
(da “Le armi delle navi italiane nella seconda guerra mondiale” di Erminio
Bagnasco, via www.betasom.it)
21 agosto 1942
Alle cinque del
mattino giunge a rinforzare la scorta il cacciatorpediniere Geniere, e quaranta minuti più tardi si
unisce alla scorta anche la torpediniera Pegaso. Nuove decrittazioni di "ULTRA" permettono ai
britannici di sapere che «La petroliera Poza
Rica ed il Dora, scortati da Aviere, Camicia Nera, Ciclone e Climene, hanno
lasciato Messina alle 23.45 del 19. Il convoglio deve passare lungo le coste
greche e unirsi al Dielpi che uscirà da Patrasso alle 5.30 del 22. Alle 21.00
del 23 il convoglio si dividerà: Dielpi e Dora procederanno per Tobruk dove
essi arriveranno alle 12.00 del 24; la Poza Rica dirigerà su Bengasi dove è
attesa alle 17.00 del 24; Giorgio e Fassio [navi cisterna, già menzionate
in un precedente dispaccio di "ULTRA"] fanno ora parte di questo convoglio»; altre ancora vedono la decifrazione
di una serie di messaggi relativi alle scorte aeree e navali assegnate al
convoglio, alle azioni antisommergibili preventive che dovranno essere condotte
sulla sua rotta, ed ai segnali luminosi predisposti lungo la sua rotta ("Capo Dukato, Punta Vlioti, Capo Guiscardo,
dalle 19.30 alle 23.00 di venerdì 21. Capo San Nicolò (Itaca) dalle 20.30 alle
23.55 dello stesso giorno. Capo Oxia dalle 23.00 del 21 alle ore 02.00 del 22
agosto. Capo Cataleo dalle 02.00 del 22 agosto sino all’alba").
Alle sette del
mattino un altro Spitfire del 69th Squadron avvista il convoglio al
largo di Capo Santa Maria di Leuca, con rotta verso Corfù, e infatti qualche
ora più tardi un altro Spitfire di Malta riavvista le navi dell’Asse al largo
dell’isola greca.
Nella tarda mattinata
il convoglio giunge in vista di Corfù ed assume rotta sudest, per imboccare il
canale tra tale isola e la costa greca; verso le due del pomeriggio le navi
passano al traverso di Capo Sidero, imboccando il Canale di Corfù e venendo
raggiunte dalla torpediniera Calliope,
che va a rinforzare la scorta. All’altezza dell’isolotto di Sivota si aggrega
al convoglio anche il piroscafo Richard,
impiegato come nave pilota alle dipendenze di Marina Corfù.
Alle 16.17, al largo
di Sivota e di Paxos, il convoglio viene nuovamente attaccato da aerosiluranti
provenienti da Malta: si tratta di nuovo dei Beaufort del tenente colonnello
Gibbs, deciso a vendicare lo smacco del giorno precedente. I Beauforts, sempre
del 39th Squadron, sono nove, mentre i Beaufighter stavolta sono
tredici: per garantire il successo, infatti, il tenente colonnello Gibbs ha
chiesto e ottenuto un incremento della scorta di caccia, con la partecipazione
di Beaufighters del 248th e del 252nd Squadron oltre a
quelli del 227th. Il numero previsto di Beaufighters era anzi ancora
superiore, quindici (sei del 227th Squadron e nove del 248th
Squadron), ma due dei caccia del 227th Squadron sono rimasti a terra
per dei guasti, mentre uno di quelli del 248th Squadron è dovuto
tornare indietro poco dopo il decollo per problemi al motore. Mai prima d’ora i
Beauforts si sono spinti così lontano da Malta: Gibbs ha scelto di attaccare il
convoglio durante il transito nel Canale di Corfù perché più lontano dalle basi
aeree italiane, e perché riteneva che per passare nel Canale il convoglio
avrebbe assunto una formazione tale da agevolare l’attacco. Tutti gli aerei
sono decollati tra le 12.45 e le 13: i Beauforts ed i Beaufighters del 227th
Squadron da Luqa, i Beaufighters del 248th Squadron dall’aeroporto
maltese di Ta Kali, loro abituale base.
Avvicinandosi al
convoglio, gli aerei britannici avvistano uno Junkers Ju 88 tedesco intento a
pattugliare il tratto di mare tra Corfù e Sivota: l’aereo della Luftwaffe
lancia un razzo di segnalazione per avvisare il convoglio, ma viene poco dopo
raggiunto e abbattuto da due Beaufighters.
Le navi del convoglio
sono in allerta già dalle 15.55, quando l’Aviere
ha comunicato a tutte le unità "Probabile attacco di aerosiluranti e
bombardieri", e non tardano ad aprire un nutrito fuoco con le armi
antiaeree. Gli attaccanti si avvicinano dalla direzione di Paxo (cioè da
proravia): volando a bassa quota, gli aerosiluranti si scindono in due gruppi a
circa un miglio dal convoglio, per attaccare da entrambi i lati, suddivisi in
tre ondate. I Beaufighters, intanto, si buttano in picchiata sul convoglio
mitragliandone le navi, specialmente le torpediniere, e sganciando le bombe
senza successo; altri ingaggiano la nutrita scorta aerea, per tenerla lontano
dai Beauforts. Gibbs scriverà in seguito che “Proprio mentre stavo raggiungendo la distanza per il lancio dei siluri,
il fuoco [contraereo delle navi scorta] diminuì
improvvisamente, e l’acqua attorno al convoglio si trasformò in un calderone di
schiuma dal quale emersero una dopo l’altra enormi colonne d’acqua; i
Beaufighter, calcolando il loro attacco alla frazione di secondo, avevano
picchiato dal sole per spazzare di proiettili i cacciatorpediniere e per
bombardare l’obiettivo”. Il tenente di vascello Giuseppe Muzio di Marina
Corfù descriverà così l’attacco nel suo rapporto: “L’azione nemica [dei Beaufighter] fu molto intensa ed efficace (…) direttrice d’attacco da poppa a prora e viceversa; quota degli aerei
metri 50. Subito dopo, ma quasi contemporaneamente, fu effettuato l’attacco degli
aerosiluranti (…)”.
Degli otto
Beaufighters del 248th Squadron, quattro attaccano le navi di scorta
che si trovano in testa alla formazione, distogliendone il tiro dagli
aerosiluranti, mentre gli altri quattro manovrano per attaccare le due navi di
scorta di coda, ma s’imbattono nella scorta aerea e la ingaggiano in un duro
combattimento aereo, nel quale ritengono – esagerando – di aver abbattuto
cinque o sei aerei (due Piaggio P. 32 – modello in realtà non più in uso da
tempo nella Regia Aeronautica –, due FIAT BR. 20, uno Junkers Ju 52 ed uno
Junkers Ju 88).
Oltre all’armamento
contraereo delle navi, che hanno iniziato a sparare non appena gli aerei sono
stati avvistati, aprono il fuoco anche le mitragliere della stazione di vedetta
di Capo Bianco (Corfù), che ritengono di aver abbattuto un aereo, il cui
equipaggio viene poi recuperato e fatto prigioniero da un’imbarcazione con a
bordo soldati dell’Esercito, accorsa sul posto.
Aviere e Geniere sono
particolarmente presi di mira dai Beaufighter, venendo pesantemente mitragliati
da poppa a prora e viceversa, subendo parecchi morti e feriti tra i loro
equipaggi (lo stesso caposcorta Minotti rimane gravemente ferito); anche la Ciclone viene mitragliata a più riprese,
con un morto e parecchi feriti tra l’equipaggio, e deve manovrare per evitare i
siluri lanciati dagli aerei britannici. L’azione di mitragliamento da parte dei
caccia sortisce così l’effetto desiderato di scompaginare e “sopprimere” la
reazione di buona parte della scorta nel momento cruciale dell’attacco degli
aerosiluranti, che sono così in grado di avvicinarsi con minor rischio e
lanciare con maggior precisione: e infatti, alle 16.18 la Poza Rica viene colpita in rapida successione da ben tre siluri (uno
sul lato di dritta, a proravia della plancia, e due su quello di sinistra, a
poppavia della plancia, praticamente nello stesso punto). La motocisterna non
s’incendia, ma inizia subito ad appruarsi e sbandare, perdendo pericolosamente
benzina dagli squarci aperti nello scafo dai siluri.
Della scorta aerea,
un aereo italiano viene abbattuto (il pilota riesce a paracadutarsi e viene
recuperato da un motoveliero del locale Comando Marina, ma muore poco dopo) ed
un secondo velivolo italiano ed un aereo tedesco sono costretti ad atterrare a
Corfù con danni e feriti a bordo.
Da parte britannica,
le perdite ammontano ad un Beaufighter (del 248th Squadron) ed un
Beaufort abbattuti, ed un Beaufighter (del 227th Squadron)
danneggiato ma rientrato alla base. La storia ufficiale dell’USMM attribuisce
l’abbattimento di entrambi gli aerei al tiro della Pegaso. L’equipaggio del Beaufort (tenente Woolfe, sudafricano)
sopravvive e viene preso prigioniero.
Il comandante del Geniere, capitano di fregata Marco
Notarbartolo, assume il comando del convoglio al posto del ferito comandante
Minotti dell’Aviere; viene deciso che
tutte le navi entrino a Corfù, salvo la Poza
Rica, che con le sue copiose perdite di benzina metterebbe a repentaglio
tutte le altre navi presenti nel porto. Proprio la Ciclone riceve il compito di fornire assistenza e protezione alla
petroliera danneggiata, che si trova in condizioni molto critiche: appruata,
sbandata a sinistra, circondata da un mare di benzina fuoriuscita dalle
cisterne danneggiate, ed abbandonata da oltre metà dell’equipaggio. Oltre alla Ciclone, vengono inviate per assistenza
da Marina Corfù la motonave requisita Pola
(impiegata come nave scorta ausiliaria) ed il rimorchiatore militare San Benigno; la Ciclone conduce la Poza Rica
nella baia di Saiada (vicino a Corfù), dove la motocisterna giunge alle 20.10 e
dà fondo all’ancora.
Le altre navi, intanto,
arrivano a Corfù alle 20.30; tutti i feriti causati dal mitragliamento,
complessivamente una quarantina (compresi quelli della Ciclone), vengono ricoverati nel locale ospedale.
La Ciclone, per effetto del mitragliamento
aereo, ha dovuto lamentare un caduto – il marinaio cannoniere Giovanni Maiano,
di 21 anni, da Imperia – e parecchi feriti tra l’equipaggio. Due di questi
ultimi, i marinai cannonieri Antonio D’Acquisto (22 anni, da Santa Flavia) e
Cleofino Ruffini (19 anni, da Termoli), sbarcati a Corfù e ricoverati nel
locale ospedale, moriranno rispettivamente il 22 ed il 23 agosto per la gravità
delle ferite riportate. Alla memoria del cannoniere armaiolo Cleofino Ruffini
sarà conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare ("Caricatore di mitragliera di silurante, nel
corso di un violento attacco di aerei nemici, benché gravemente ferito,
continuava in ginocchio ad assolvere il suo incarico, fino all’estremo limite
delle sue forze, permettendo alla sua arma di reagire efficacemente fino ad
allontanare la minaccia avversaria. Ricoverato successivamente in ospedale,
conservava sereno e stoico contegno fino al sacrificio della giovane vita, da
lui offerta in olocausto alla Patria nel supremo adempimento del dovere"),
mentre Giovanni Maiano ed Antonio D’Acquisto saranno decorati alla memoria con
la Croce di Guerra al Valor Militare ("Imbarcato
su silurante, di scorta a convoglio, assolveva con serenità e fermezza i propri
incarichi, fino all’estremo sacrificio della vita, durante un intenso
mitragliamento da parte di aerei nemici").
22-25 agosto 1942
Durante la giornata
del 22 agosto vengono inviate a Saiada, per l’assistenza della Poza Rica, diverse unità da Argostoli e
Prevesa: i rimorchiatori Alghero, Orion e Trapani, i motopescherecci requisiti Idrangela (attrezzato con mezzi antincendio) e Fanum Fortunae e le
motovedette Caron e Satta della Regia Guardia di Finanza,
impiegate come cacciasommergibili. Il mattino arriva sul posto anche
l’ammiraglio di divisione Alberto Marenco di Moriondo, comandante militare
marittimo della Grecia Occidentale (Marimorea, con sede a Patrasso), che si trattiene
alcune ore per esaminare la situazione ed organizzare i lavori di recupero;
successivamente giunge sul posto la nave cisterna Sanandrea, scortata dalla torpediniera Antares, mandata da Supermarina per trasbordarvi il carico della Poza Rica. La sera del 22 agosto,
dinanzi al graduale incremento della sua immersione, la Poza Rica viene portata ad incagliare su un bassofondale onde
evitarne l’affondamento.
Il mattino del 23 si
reca a Saiada anche l’ammiraglio di divisione Guido Porzio Giovanola,
comandante militare marittimo dell’Albania, che assume la direzione dei lavori
di recupero. Arrivano altri mezzi: ufficiali del Genio Navale, palombari, le
navi recuperi Artiglio II (il 23
agosto) e Raffio (il 24). Alle 9.30
del 23 agosto vengono celebrati a Corfù i funerali solenni di dieci marinai
rimasti uccisi nell’attacco aereo di due giorni prima, alla presenza
dell’ammiraglio Porzio Giovanola e delle autorità civili e militari del luogo;
qualche ora dopo arrivano due aerei da soccorso sui quali vengono caricati
dodici feriti gravi, che vengono trasferiti a Brindisi. Il mattino del 24
l’ammiraglio Porzio Giovanola lascia Corfù, affidando la prosecuzione dei lavori
al tenente colonnello del Genio Navale Biagi; questi riesce a rimettere la Poza Rica in condizioni di
galleggiabilità sbarcando 500 fusti di benzina che si trovavano a bordo e
spostandone altri, mentre tentativo di allibo del carico contenuto nelle
cisterne si rivelano infruttuosi. La sera del 24 la nave viene nuovamente fatta
poggiare sul fondo a scopo precauzionale, e durante la notte viene attaccata
infruttuosamente da un aereo che lancia spezzoni incendiari. Il mattino del 25
la Poza Rica si trasferisce da Saiada
a Butrinto.
(da www.regiamarinaitaliana.it) |
26 agosto 1942
Alle 00.50 la Ciclone salpa da Butrinto per scortare
la Poza Rica a Porto Edda (Saranda,
in Albania), come ordinato da Supermarina nel tardo pomeriggio del 25. La
torpediniera esegue rastrellamento protettivo attorno alla Poza Rica, che muove a rimorchio dei rimorchiatori Trapani e Sant’Elia. Alle 4.30 la petroliera giunge nella baia di Limione,
vicino a Porto Edda; successivamente riuscirà finalmente a trasbordare il
carburante sulla cisterna militare Devoli
per poi trasferirsi a tappe verso Venezia (scortata da altre unità), dove sarà
sottoposta ai lavori di riparazione.
14 settembre 1942
Secondo una fonte la Ciclone sarebbe stata presente a Tobruk
durante il fallimentare attacco britannico noto come operazione "Agreement",
ed avrebbe contribuito, con le altre unità presenti, a respingere i tentativi
di sbarco britannici, decimando le piccole unità ad essi adibite. Sembra in
realtà probabile un errore, dal momento che non risulta che la Ciclone fosse tra le navi presenti a
Tobruk in questa circostanza; erano invece presenti, e reagirono efficacemente
contro le unità britanniche, le torpediniere Castore, Generale Antonino Cascino e Generale Carlo Montanari.
18 settembre 1942
La Ciclone salpa da Taranto alle
18.50, scortando, insieme al cacciatorpediniere Antonio Da Noli ed alle torpediniere Pallade e Centauro, la motonave Monginevro diretta
a Bengasi (carica di 650 tonnellate di munizioni, 2354 di benzina e lubrificanti,
162 autoveicoli e tre carri armati, oltre a 82 militari di passaggio).
19 settembre 1942
Alle sette il
convoglio cui appartiene la Ciclone
si unisce ad un altro, proveniente da Brindisi, composto dalla motonave Apuania con la scorta dei
cacciatorpediniere Freccia (capitano
di fregata Alvise Minio Paluello, che diviene caposcorta del convoglio unico)
e Nicolò Zeno e della torpediniera Calliope. Il convoglio segue le rotte costiere della Grecia
Occidentale.
20 settembre 1942
Durante la notte
(approssimativamente tra le 22.15 del 19 e le due di notte del 20) il
convoglio, dopo essere stato illuminato da aerei britannici con lancio di
bengala (le navi, peraltro, sono già ben visibili a causa della luna piena, con
cielo sereno e mare calmo), viene pesantemente attaccato a più riprese da
bombardieri, ma grazie alla reazione della scorta, che occulta i mercantili con
cortine fumogene ed apre un violento tiro di sbarramento contro gli aerei
nemici, nessuna nave viene colpita.
Alle nove del mattino
il convoglio, che gode anche di nutrita scorta aerea, viene avvistato dal
sommergibile britannico Taku
(capitano di corvetta Jack Gethin Hopkins), il quale alle 9.25, in posizione
33°30’ N e 21°10’ E, lancia tre siluri da 1370 metri contro una delle motonavi,
per poi scendere subito in profondità data la pericolosa vicinanza di una delle
siluranti di scorta. Le navi del convoglio avvistano i siluri e riescono ad
evitarli con la manovra: l’Apuania ne
avvista ed evita uno, la Monginevro
gli altri due.
Alle 17 il convoglio
raggiunge indenne Bengasi; subito dopo la Ciclone
riparte scortando la nave cisterna Caucaso,
partita alle 16 e diretta al Pireo.
23 settembre 1942
Ciclone e Caucaso giungono al
Pireo alle 4.15.
29 settembre 1942
La Ciclone salpa dal Pireo per Tobruk alle
23.35, insieme alle torpediniere Sirio
(caposcorta, capitano di corvetta Romualdo Bertone), Libra e Solferino,
scortando il piroscafo Tagliamento
(avente a bordo 146 tra veicoli e rimorchi, 2246 tonnellate di munizioni e
materiale d’artiglieria, 680 tonnellate di materiali vari e 115 soldati), e la
nave cisterna Lina Campanella (avente a bordo 4000
tonnellate d’acqua), provenienti da Brindisi. Il convoglio dovrà fare scalo
intermedio a Suda; inizialmente fanno parte del convoglio anche altri
piroscafi, per i quali Suda rappresenta la destinazione finale.
Durante la notte il
convoglio viene infruttuosamente attaccato da aerei.
30 settembre 1942
Alle sette del
mattino la Solferino lascia il
convoglio.
Nella notte
successiva si verificano altri attacchi aerei, di nuovo senza risultato.
1° ottobre 1942
Giunto a Suda, il
convoglio riparte in serata per Tobruk con Tagliamento
e Lina Campanella scortati da Sirio,
Ciclone e Libra. Le navi procedono alla velocità di 6,8 nodi.
Nel tardo pomeriggio
si verifica un altro attacco, da parte di bombardieri, che nonostante la
presenza di una scorta aerea italo-tedesca riescono a bombardare a più riprese
le navi per oltre mezz’ora. Ciononostante, nessuna bomba va a segno.
2 ottobre 1942
Il convoglio
raggiunge indenne Tobruk alle 12.15.
8 ottobre 1942
La Ciclone salpa da Tobruk alle 14.50
scortando la nave cisterna Proserpina,
diretta in Italia.
Alle 20 si uniscono al
convoglio anche la torpediniera Castore
ed otto motozattere italiane da essa scortate, partite da Tobruk alle otto di
quel mattino; la Ciclone mantiene il
ruolo di caposcorta.
9 ottobre 1942
A ponente di Creta,
alle 14.50, il sommergibile britannico Traveller (tenente
di vascello Michael Beauchamp St. John) avvista su rilevamento 160° due aerei
dai cui movimenti il comandante britannico intuisce correttamente che stanno
scortando un convoglio in procinto di entrare nel canale di Antikythera.
Il Traveller scende
pertanto in profondità e si dirige verso sudest; alle 15.21 torna a quota
periscopica ed avvista in posizione 35°45’ N e 23°13’ E il convoglio italiano
(scambiando Ciclone e Castore per due cacciatorpediniere
“classe Grecale”), su rilevamento
195°, aventi rotta 327° verso Kythera. Il sommergibile lancia allora quattro
siluri da 1830 metri, contro la Proserpina (che
valuta come in zavorra e stazzante circa 6000 tsl), e scende in profondità.
Nessuna nave viene colpita; la Castore avvista
la scia di un siluro e lancia tre pacchetti di bombe profondità, la Ciclone le ordina di restare sul
posto fino al crepuscolo. In tutto vengono lanciate 29 bombe di profondità
(secondo una fonte, anche velivoli della scorta aerea avrebbero lanciato delle
bombe di profondità), che però causano solo danni minori al Traveller.
10 ottobre 1942
Il convoglietto
raggiunge il Pireo alle 6.30 (le motozattere alle 10). Da qui la Proserpina proseguirà successivamente
per Taranto con la scorta di altre unità.
12 ottobre 1942
La Ciclone viene fatta salpare dal Pireo per
andare assumere la scorta della torpediniera Antares, gravemente danneggiata da un attacco aereo all’una di
notte durante la scorta di un convoglio da Tobruk a Salonicco e Navarino.
Giunta sul posto, la Ciclone assume
la scorta dell’Antares, diretta a
Suda a rimorchio della torpediniera Lupo.
13 ottobre 1942
Ciclone, Lupo ed Antares arrivano a Suda alle 13.
(foto tratta dal libro “British Submarine vs Italian Torpedo Boat” di David Greentree) |
24 ottobre 1942
Alle 8.30 la Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di
Paola) e la vecchia torpediniera Calatafimi (tenente
di vascello di complemento Giuseppe Brignole) salpano da Suda scortando la
motonave Tergestea, diretta a Tobruk
con 1000 tonnellate di carburante ed altrettante di munizioni.
Alle 17.24 (o 17.30) Ciclone, Tergestea e Calatafimi si
congiungono in mare aperto – più precisamente nel punto 36°18’ N e 23°11’ E, a
nord di Suda – con un convoglio proveniente da Taranto, via il Pireo, e formato
dalla nave cisterna Proserpina (con a
bordo 4553 tonnellate di carburante) e dal piccolo piroscafo tedesco Dora (carico di 400 tonnellate di
rifornimenti), scortati dalle torpediniere Lira
(tenente di vascello Agostino Caletti), Partenope (caposcorta,
capitano di corvetta Gustavo Lovatelli) e Monzambano
(tenente di vascello di complemento Attilio Gamaleri). Viene allora formato,
come prestabilito, un unico convoglio, denominato «TT» (Taranto-Tobruk),
formato da Proserpina, Dora e Tergestea e scortato da Ciclone,
Lira, Partenope (caposcorta) e Calatafimi,
mentre la Monzambano, che deve
eseguire un’altra missione, viene lasciata libera dal caposcorta dopo la
riunione, alle 17.45. Il convoglio fruisce anche di una nutrita scorta aerea da
parte di numerosi caccia e bombardieri della Regia Aeronautica e della
Luftwaffe: tra i tre ed i cinque aerei tedeschi costantemente in volo in tutte
le ore diurne del 24 e 25, portati a dieci aerei (con il concorso della 5a Squadra
Aerea della Regia Aeronautica) nella giornata del 26. L’arrivo a Tobruk è
previsto per le 18.50 del 26 ottobre.
Sin dal 21 ottobre,
tuttavia, i decrittatori britannici di «ULTRA» hanno intercettato e decifrato
numerosi messaggi radio riguardanti il convoglio «TT», apprendendone così la
composizione, i porti e gli orari di partenza e di arrivo, la velocità ed
alcune informazioni sulla condotta della navigazione.
Alle 18 del 24 un
primo gruppo di quattro Wellington del 38th Squadron RAF,
guidati dal tenente colonnello Pratt, decolla per cercare il convoglio, con
l’ordine di incontrarsi con un Wellington del 221st Squadron;
forti tempeste elettriche costringono però gli aerei al rientro. Alle 23.30
altri due Wellington del 38th Squadron, pilotati dal capitano
Wiggins e dal sergente Taylor, decollano per cercare il convoglio; Wiggins deve
rientrare a causa del maltempo e viene costretto ad un atterraggio d’emergenza,
mentre Taylor riesce a superare il maltempo, ma non a trovare il convoglio.
25 ottobre 1942
Alcuni ricognitori britannici
vengono inviati a cercare il convoglio a nordest di Bengasi, sia per avere
informazioni aggiornate sulla sua posizione e situazione che per coprire il
ruolo di «ULTRA», inducendo a credere che l’avvistamento sia casuale.
A mezzogiorno,
Supermarina informa il convoglio che è stato avvistato da aerei nemici; alle
15.05 i velivoli della scorta aerea segnalano aerei nemici in avvicinamento,
che tuttavia non appaiono alla vista delle navi.
Nella notte tra il 25
ed il 26 ottobre il convoglio viene ripetutamente ed intensamente attaccato da
bombardieri britannici Vickers Wellington e statunitensi Consolidated B-24
Liberator, che sganciano numerose bombe e siluri, ma senza riuscire a colpire
niente. Contro il convoglio vengono inviati numerosi Wellington Mk Ic decollati
dall’Egitto, ciascuno dotato di due siluri Mk XII; nove aerosiluranti del 38th Squadron
di base a Gianaclis (Egitto); un Wellington del 221st Squadron
dotato di radar ASV (Air to Surface Vessel, per la rilevazione delle navi da
bordo di un aereo) ed uno del 458th Squadron della Royal
Australian Air Force, decollato da Shallufa.
26 ottobre 1942
Dalle 00.35 alle 2 di
notte del 26 si sente continuo rumore di aerei nei pressi del convoglio; alle
due di notte un aereo lancia un siluro contro la Proserpina, ma non riesce a colpirla. Alle 2.15 un secondo
aerosilurante ripete l’attacco, di nuovo senza successo; alle 2.24 un altro
aereo lancia due siluri contro la Calatafimi,
mancandola, e sei minuti più tardi un bombardiere sgancia un gruppo di sette
bombe a poppa della Lira,
facendo anch’esso cilecca. Durante tutti gli attacchi le navi del convoglio
manovrano per evitare i siluri e rispondono con violento fuoco contraereo.
Intanto, però,
ricognitori Martin Baltimore seguitano a pedinare il convoglio nella sua
navigazione verso est. Dalle 3.18 alle 4.02, le navi del convoglio sentono
aerei che volano continuamente nel loro cielo, senza attaccare; alle 4.27
sopraggiungono finalmente i primi aerei italiani della scorta notturna.
Un nuovo attacco
aereo si sviluppa tra le 12.10 e le 12.30 del 26 ottobre, quando 18 bombardieri
statunitensi Consolidated B-24 "Liberator" (del 98th Bombardment
Group, di stanza a Fayid, in Egitto), ripartiti in tre «flying boxes» di sei
velivoli ciascuna, sganciano le loro bombe da 6000-7000 metri con l’ausilio del
congegno di puntamento «Norden». Secondo la storia ufficiale dell’USMM, si
verificano tre distinti attacchi di Liberators, tra le 11.10 e le 11.32 (la
differenza di un’ora è data dal fuso orario, mentre il numero complessivo di
aerei contati differisce un poco da quello effettivo): il primo, da parte di un
gruppo di 10 Liberators, alle 11.10, a 50 miglia da Tobruk; vengono sganciate
circa 60 bombe, tutte cadute vicinissime alle navi – specie alla Proserpina – ma nessuna a segno,
così che non vi sono danni. La scorta aerea attacca i bombardieri mentre questi
si allontanano. Il secondo attacco si verifica alle 11.25, quando altri cinque
Liberators sganciano dalla medesima quota circa 30 bombe, perlopiù cadute
attorno a Dora e Ciclone senza causare danni; il
terzo ha luogo alle 11.32, con l’impiego di undici Liberators che sganciano una
salva di bombe ben centrate, che però non colpiscono nulla.
Alle 13.30, quando il
convoglio è ormai a sole 30 miglia da Tobruk, la Proserpina viene colta da un’avaria di macchina e rimane
indietro, scortata dalla Calatafimi,
mentre il resto del convoglio prosegue.
Frattanto, alle
11.30, otto aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th e 47th Squadron
RAF, al comando del tenente colonnello Richard Sprague (che tuttavia, data la
sua scarsa esperienza negli attacchi siluranti, ha delegato la conduzione della
squadriglia al più esperto capitano Ronald Gee, un veterano) sono decollati
dall’aeroporto egiziano di Gianaclis. Ai Beaufort si sono uniti in volo anche
cinque bombardieri Bristol Blenheim V del 15th Squadron della
South African Air Force (ognuno dei quali ha a bordo quattro bombe GP da 250
libbre; li guida il maggiore Douglas W. Pidsley), decollati da Gianaclis alle
11.35, e nove caccia Bristol Beaufighter, quattro del 252nd Squadron
e cinque del 272nd Squadron (tutti questi Squadrons fanno parte
del 201st Group, con compiti di cooperazione aeronavale).
La Proserpina, obiettivo
principale, è assegnata ai Beaufort; gli altri mercantili ai Blenheim; ed i
Beaufighter dovranno neutralizzare la scorta aerea.
I Beaufort volano
bassi sul mare (ad appena 30 metri di quota), mentre i Beaufighter di scorta
volano più alti, sopra di loro, a varie quote. La formazione aerea vola verso
ovest fino a circa 50 miglia dalla costa nemica, venendo presa sotto il tiro di
batterie contraeree pesanti durante l’avvicinamento a Tobruk, e poi s’imbatte
in un grosso gruppo di traghetti che a loro volta aprono il fuoco (secondo una
versione, abbattendo un Blenheim).
Alle 14.25 i
Beaufighter avvistano il grosso del convoglio e lo segnalano ai Beaufort (che,
volando più bassi, non lo hanno ancora visto) scuotendo le ali. Da parte
italiana, le navi avvistano gli aerei attaccanti alle 14.30; tutti, mercantili
e navi scorta, aprono il fuoco con l’armamento contraereo.
Il Dora procede primo in linea di
fila, seguito dalla Tergestea; Ciclone e Partenope proteggono il lato che dà verso il mare aperto,
mentre la Lira procede in
coda al convoglio. Sul cielo del convoglio vola la scorta aerea formata da due
bombardieri tedeschi Junkers Ju 88, due caccia italiani Macchi C. 202 ed un
caccia tedesco Messerschmitt Bf 109. I Beaufighter si dirigono contro la scorta
aerea, per attaccarla, mentre la maggior parte dei bombardieri punta sui mercantili.
I primi tre Blenheim,
avendo scambiato il Dora, in
quanto nave di testa, per la nave cisterna che cercano (la Proserpina), lo attaccano, ma le bombe
mancarono il bersaglio ed uno dei bombardieri viene abbattuto, mentre gli altri
due si allontanarono danneggiati (uno dei due precipiterà per i danni durante
il volo di rientro, entrando in collisione con un Beaufort e causando anche la
sua perdita).
Cinque Beaufort
lanciano i loro siluri contro il Dora,
mentre il sesto lancia contro la Tergestea.
Un Blenheim ed un Beaufort vengono abbattuti, mentre altri due Blenheim ed un
Beaufort sono danneggiati; uno dei Blenheim, come detto, precipiterà per i
danni durante il volo di rientro, travolgendo nella sua fine un Beaufort. Parte
degli aerei (sei, secondo il rapporto del caposcorta Lovatelli, anche se ciò
risulta in contrasto con le fonti britanniche) passa sulla sinistra della Ciclone per andare ad attaccare la Proserpina.
I restanti due
Beaufort (pilotati dal sottotenente Ralph V. Manning, canadese, e dal tenente
Norman Hearn-Phillips), tuttavia, si rendono conto che la nave cisterna non
c’è, quindi non attaccano e si mettono alla sua ricerca lungo la costa, insieme
ai due Blenheim rimasti (quello del maggiore Pidsley e quello del tenente E. G.
Dustow). Dopo qualche minuto la loro ricerca è premiata, ed avvistarono Proserpina e Calatafimi (riparata l’avaria, la
petroliera sta per ricongiungersi al resto del convoglio; la Calatafimi la scorta sul lato
mare): queste li accolgono con un muro di fuoco contraereo, cui si unisce anche
la Lira. Il Beaufort di
Hear-Phillips attacca per primo, ma viene danneggiato da un proiettile
contraereo (che mette fuori uso l’impianto elettrico) e perde il proprio siluro
(che si sgancia e cade in mare a causa di tali danni) prima di poterlo
sganciare; rimane comunque sul posto per attirare su di sé il fuoco contraereo
delle navi. Subito dopo l’aerosilurante di Manning, rimasto così l’unico
Beaufort ancora dotato del suo siluro, attacca la Proserpina insieme ai due Blenheim. La petroliera vira a
sinistra, verso il Beaufort di Manning, presentandogli la prua e così
rovinandogli la mira, costringendolo a girare in cerchio sopra la terraferma,
continuamente bersagliato dal tiro contraereo, per cercare un migliore angolo
per l’attacco. A questo punto la Proserpina compie
un’altra accostata per dare la prua al Beaufort; stavolta, però, l’accostata è
verso dritta, e l’effetto contrario di questa e della precedente accostata a
sinistra è che, per alcuni brevi momenti, la nave si trova pressoché immobile:
abbastanza per dare a Manning l’opportunità di attaccare. Da una quota di 24
metri, volando a 140 nodi, il Beaufort si avvicina sino a circa 550-640 metri
prima di sganciare il siluro, con un angolo di 45°; al tempo stesso, i due
Blenheim aggirano le navi (che procedono con rotta parallela alla costa) per
attaccarle dal lato della costa, mentre un Beaufighter si avventa sulla Calatafimi; l’aereo del tenente Dustow,
attaccando per primo, sgancia le sue bombe, che cadono ai lati della prua
della Proserpina, mancandola di
poco. Subito dopo l’aereo di Dustow viene colpito dal fuoco contraereo della
petroliera, urta con un’ala l’albero di trinchetto della Proserpina e precipita in mare,
capovolgendosi più volte, con la perdita di tutto l’equipaggio. Pochi secondi
più tardi, tre delle quattro bombe da 250 libbre (113 kg) sganciate dall’aereo
di Pidsley (anch’esso crivellato di colpi dal tiro delle navi), che ha
attaccato volando ad appena sei metri di quota (evita di stretta misura albero
e fumaiolo della nave italiana), colpiscono la petroliera in prossimità della
plancia; subito dopo la Proserpina viene
colpita a prua sinistra anche dal siluro del rimanente Beaufort, e s’incendia
immediatamente, a 20 miglia per 320° da Tobruk. Dopo una lunga agonia, affonderà
alle 6.45 del 27 ottobre.
Durante il volo di
ritorno alla base, la formazione aerea britannica verrà attaccata da dei Macchi
C. 202, che danneggeranno un Beaufort (proprio quello di Manning, che però
riuscirà a rientrare alla base). Durante l’attacco, inoltre, un Beaufighter è
stato abbattuto ed un altro danneggiato da un Messerschmitt Bf 109, mentre uno
Ju 88 è stato a sua volta danneggiato da un Beaufighter.
Lira
e Calatafimi vengono distaccate
per provvedere al salvataggio dei naufraghi della Proserpina (in tutto vengono recuperati 62 dei 77 uomini che
componevano l’equipaggio della petroliera), mentre il resto del convoglio – Ciclone, Partenope, Dora e Tergestea – prosegue.
Gli attacchi non sono
finiti: i comandi britannici intendono distruggere completamente il convoglio,
perciò una seconda ondata, formata da cinque Beaufort del 39th Squadron
scortati da nove Beaufighter degli Squadrons 252 e 272, decolla da Gianaclis
per attaccare le altre navi. Al largo della costa libica la formazione britannica
s’imbatte in cinque bombardieri tedeschi Heinkel He 111, che vengono impegnati
dai Beaufighter (nello scontro un Beaufighter viene abbattuto ed un altro
danneggiato, mentre da parte britannica si rivendicano due Heinkel abbattuti ed
uno danneggiato), mentre i Beaufort continuano a cercare il convoglio.
Terminato lo scontro
con gli Heinkel, i Beaufighter si riuniscono ai Beaufort, che non hanno trovato
il «TT» ma hanno infruttuosamente lanciato tre siluri contro un convoglio di
traghetti.
Da parte britannica
si vuole fare ancora un ultimo tentativo di distruggere il convoglio prima che
arrivasse a destinazione: ormai, però, non ci sono più aerosiluranti idonei per
attacco diurno disponibili, soltanto Wellington del 38th Squadron
in grado di attaccare con buona sicurezza esclusivamente di notte, ma entro
notte il convoglio sarebbe già giunto in porto. Si decide di mandare lo stesso
i Wellington: il 38th Squadron tenterà per la prima volta un
attacco al tramonto.
Tre aerosiluranti
Vickers Wellington del 38th Squadron, guidati dal capitano
Albert Wiggins, decollano alle 15.40 dall’aeroporto di Gambut, e volano a soli
30 metri (in modo da non essere avvistati se non all’ultimo momento) fino a 60
miglia dalla costa, poi virano verso ovest e volano parallelamente alla costa
sin quando giungono 60 miglia a nordest di Tobruk, dove puntano dritti sul
convoglio. Il tempo è buono, la visibilità ottima, con annuvolamento minimo.
Questa volta il
convoglio viene avvistato, proprio quando è giunto davanti a Tobruk, ad un paio
di miglia dal porto, e colto di sorpresa. I marinai si apprestano ad entrare in
rada, quando vedono le sagome nere dei Wellington apparire all’orizzonte, a due
miglia di distanza. Le sagome dei Wellington si confondono con il cielo scuro
del crepuscolo, mentre la Tergestea
– che si appresta a superare le ostruzioni della rada di Tobruk – si
staglia perfettamente visibile contro il sole che tramontava.
Le unità della scorta
aprono subito il fuoco ed iniziano freneticamente a fare segnalazioni
alla Tergestea, ma i Wellington
lanciano tutti i loro siluri, due per ogni aereo, da distanze comprese tra i
450 ed i 550 metri, tutti contro la motonave italiana, che agli equipaggi degli
aerei sembra quasi ferma.
Uno dei tre
bombardieri, pilotato dal sergente Viles, viene colpito e precipita vicino al
porto (tre membri del suo equipaggio vengono catturati, ma due fuggiranno e
raggiungeranno le linee britanniche l’11 novembre), e gli altri due aerei
(quello di Wiggins e quello del sottotenente Bertram) vengono entrambi
danneggiati, ma alle 18.16, nel punto 32°02’ N e 24°04’ E, almeno uno (forse
anche tre) dei sei siluri lanciati colpisce la Tergestea a poppa. La sfortunata motonave si disintegra in una
nuvola di fumo che si leva per oltre 900 metri, a un passo dalla salvezza; l’intero
equipaggio di 80 uomini trova la morte nell’esplosione. Del convoglio «TT»,
pertanto, solo il Dora riesce a
raggiungere la destinazione, entrando in porto alle 18.50 insieme a Ciclone e Calatafimi.
27 ottobre 1942
La Ciclone (caposcorta) e la Calatafimi lasciano Tobruk per Taranto
alle 17.30, scortando la motonave tedesca Ankara.
28 ottobre 1942
Il convoglietto
raggiunge il Pireo alle 21.15, sostandovi fino all’indomani mattina.
29 ottobre 1942
Ciclone, Ankara e Calatafimi ripartono dal Pireo alle 7.30
e raggiungono Patrasso alle 16.10, per poi sostarvi per due giorni.
31 ottobre 1942
Il convoglio lascia
Patrasso a mezzanotte.
1° novembre 1942
Il convoglio, cui si
sono aggregate anche la nave cisterna Giorgio
e la torpediniera Climene, raggiunge
Taranto alle 18.30.
22 novembre 1942
La Ciclone salpa Reggio Calabria per
Biserta alle 12.30 scortando, insieme alle torpediniere Procione (caposcorta), Ardente ed Uragano, il traghetto Aspromonte.
Alle 14.25 le navi
sono attaccate infruttuosamente da un sommergibile; l’Ardente reagisce, forse danneggiando l’attaccante.
23 novembre 1942
Il convoglietto
giunge a Biserta alle 18.45.
25 novembre 1942
La Ciclone (capitano di corvetta Luigi
Di Paola) salpa da Napoli per Tunisi alle 4.30, scortando, insieme a Procione (capitano di corvetta
Renato Torchiana, caposcorta) ed Ardente (tenente
di vascello Rinaldo Ancillotti), un convoglio formato dai piroscafi Sant’Antioco ed Honestas, cui si aggrega poi anche la
motozattera tedesca F 477 proveniente
da Trapani. Sulle torpediniere sono imbarcate anche modeste aliquote di
personale del Reggimento "San Marco", diretto in Tunisia.
26 novembre 1942
Alle 21.15 il
convoglio viene avvistato da ricognitori nemici, ed a partire dalle 22 – a
nordovest di Capo Bon – viene ripetutamente e pesantemente attaccato dal cielo
(gli attacchi proseguiranno durante la notte); ma nessun mercantile viene
colpito, grazie al violento fuoco di sbarramento aperto dalle torpediniere, che
creano quasi una “barriera di fuoco” intorno ai trasporti.
27 novembre 1942
Alle 00.04 il
convoglio viene avvistato (su rilevamento 235°) anche dal sommergibile
britannico Una (tenente di
vascello John Dennis Martin), che accosta per avvicinarsi, s’immerge alle 00.06
(mentre il convoglio accosta per 185°) ed alle 00.47 lancia tre siluri da 1370
metri di distanza, in posizione 37°34’ N e 10°33’ E (nella zona settentrionale
del Golfo di Tunisi). Nessuna nave viene colpita; le unità del convoglio
avvertono due esplosioni subacquee (forse i siluri a fine corsa: le esplosioni
vengono sentite anche sull’Una, il
cui comandante ne trae così l’erronea impressione di aver colpito il bersaglio,
decidendo pertanto di non lanciare, contrariamente a quanto deciso in
precedenza, un quarto siluro). L’Una intraprende azioni evasive, ma non si
verifica alcun contrattacco.
Il convoglio giunge a
Tunisi alle 8.
5 dicembre 1942
La Ciclone parte da Palermo per Biserta
alle 4.15, in missione di trasporto truppe, con a bordo personale del
Reggimento "San Marco". Giunge a destinazione alle 17.45.
7 dicembre 1942
Lascia Biserta alle
6.40 e raggiunge Palermo alle 17.
La Ciclone nel 1942 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
2-3 gennaio 1943
Nella notte tra il 2
ed il 3 gennaio, mentre la Ciclone si
trova ormeggiata a Palermo, il porto del capoluogo siciliano viene attaccato da
cinque "chariots" britannici, mezzi d’assalto copiati dai siluri a
lenta corsa italiani, nell’ambito dell’operazione «Principal» (talvolta
menzionata erroneamente come «Principle»), che rappresenta il primo impiego
operativo di questo mezzo. E proprio la Ciclone,
per poco, non ne rimane vittima.
Gli "chariots"
sono stati portati fin davanti al porto da due sommergibili britannici, il Trooper (tenente di vascello John
Somerton Wraith) ed il Thunderbolt
(tenente di vascello Cecil Bernard Crouch), partiti da Malta il 29 dicembre 1942
insieme ad un terzo sommergibile, il P
311, avente anch’esso a bordo due "chariots" ma destinato invece
ad attaccare La Maddalena (non ci arriverà mai: giunto al largo di Tavolara,
urterà una mina ed affonderà con tutto l’equipaggio). Gli "chariots",
trasportati in contenitori stagni fissati sulla coperta, sono identificati dai
numeri XV, XVI, XIX, XXII e XXIII; il Trooper
ha trasportato gli chariots XVI, XIX e XXIII, il Thunderbolt il XV ed il XXII. L’operazione, inizialmente
pianificata per la notte tra il 1° ed il 2 gennaio, è stata poi rimandata alla
notte successiva in seguito alla segnalazione, da parte della ricognizione
aerea, della presenza di diverse siluranti italiane tra Marettimo ed il banco
di Skerki: in conseguenza di questa notizia, Trooper e Thunderbolt
sono stati trattenuti parecchie ore a sud di Pantelleria, in attesa di sapere
dal P 311 (che li precedeva lungo la
rotta, essendo partito per primo, il 28 novembre) se il Canale di Sicilia fosse
“sgombro” dalla vigilanza antisommergibili italiana.
I due sommergibili
sono giunti nelle acque antistanti Palermo la sera del 2 gennaio; il Thunderbolt per primo, e poi anche il Trooper, si sono portati in affioramento
(con la torretta al di sopra della superficie ed i cilindri-contenitori a pelo
d’acqua) a quattro miglia dal porto, da una posizione sottocosta vicino a Capo
Gallo. In particolare il Thunderbolt,
giunto nella posizione stabilita alle 21.38 del 2 gennaio, ha messo a mare i
suoi "chariots" tra le 22.02 e le 22.16, seguito poco dopo dal Trooper. L’operazione stessa di messa a
mare dei mezzi si rivela tutt’altro che agevole, anche a causa del mare
piuttosto mosso (addirittura forza 5, secondo il libro "The Real X-Men"
di Robert Lyman): l’equipaggio del chariot XII fatica parecchio a trascinare in
acqua il suo mezzo e, quando finalmente ci riesce, evita di stretta misura di
restare impigliato nel cavo antireti del sommergibile, che ha iniziato ad
immergersi; i due uomini del chariot XV vengono spazzati in mare mentre stanno
montando sul loro "chariot", e devono tenersi a galla aggrappandosi
al loro mezzo, riuscendo successivamente a raddrizzarlo e mettere in moto verso
Palermo. Dopo aver rilasciato gli "chariots", Trooper e Thunderbolt
lasciano subito la zona per rientrare a Malta; poco più tardi – alle 2.50 –
giunge invece sul posto il sommergibile P
46 (poi Unruffled, al comando del
tenente di vascello John Samuel Stevens), partito il 30 dicembre da Malta con
lo specifico incarico di per recuperare gli incursori al termine
dell’operazione. Questo avvicendamento è dovuto alle minori dimensioni del P 46, un sommergibile classe U, ritenute
più adatte ad un compito di “esfiltrazione”; Trooper e Thunderbolt,
appartenenti alla più grande classe T, sono infatti ritenuti troppo voluminosi
e vulnerabili.
Per tre dei cinque "chariots",
la missione si conclude prima ancora di poter cominciare. Il numero XXIII,
pilotato dal sottotenente di vascello H. L. H. Stevens e dal sottocapo Carter
ed avente come obiettivo principale la motonave tedesca Ankara e come obiettivo
secondario tre altre motonavi, perde quasi cinque ore a causa di difficoltà
nell’individuare l’imboccatura del porto; poi il respiratore di Carter si
guasta (altra fonte parla di avaria al "chariot" stesso) e vengono
riscontrare anche infiltrazioni d’acqua nella muta del pilota, il che induce
Stevens a lasciare Carter su una boa e tentare di proseguire da solo verso
l’imboccatura del porto. Non riuscendo a trovarlo lo stesso, Stevens finisce
col rinunciare all’attacco, riprendendo a bordo Carter e tornando indietro
senza neanche essere entrato nel porto. Anche peggio va al chariot XV (sergente
J. M. Milne, marinaio W. Simpson), incaricato di collocare le sue cariche
esplosive sulle chiuse del bacino di carenaggio per distruggerle: prima di
poter entrare nel porto, il mezzo affonda a causa dell’improvvisa esplosione
della batteria; uno dei due operatori, Simpson, rimane incastrato nei rottami
del mezzo ed affonda con esso (il suo corpo non verrà mai ritrovato), l’altro –
Milne – riesce faticosamente a liberarsi quando già è sprofondato a quasi
trenta metri ed a raggiungere la riva a nuoto, prendendo terra ad Isola delle
Femmine, ma qui viene catturato. Lo chariot XIX (tenente di vascello H. F.
Cook, marinaio Worthy), incaricato di minare e affondare la
motonave Calino (obiettivo secondario sono tre cacciatorpediniere), riesce
invece a penetrare nel porto, ma durante il superamento delle ostruzioni la
muta del pilota Cook rimane lacerata, e questi inizia a risentire di forti
dolori e vomito (secondo altre fonti, invece, Cook stava male già poco dopo
aver lasciato il Trooper,
probabilmente per effetto del mal di mare). Worthy si dirige allora verso terra
con il "chariot", fa scendere Cook e tenta di proseguire da solo;
resosi però conto di non riuscire a controllare il mezzo da solo, lo
autoaffonda e poi torna dove aveva lasciato Cook, ma non lo trova più:
l’ufficiale è annegato, anche il suo corpo non sarà mai ritrovato. Raggiunta la
terra, Worthy viene fatto prigioniero.
Gli altri due
chariots riescono invece a collocare le loro cariche esplosive. Lo chariot XVI
(sottotenente di vascello Rodney G. Dove e sottocapo James M. Freel), in
particolare, colloca la sua carica esplosiva principale sullo scafo della
motonave Viminale, dopo di che i due
operatori, esausti per lo sforzo sostenuto nel superamento delle reti
all’ingresso del porto, rinunciano a collocare le mine adesive sulle altre navi
(per altra fonte, non l’avrebbero fatto perché avevano perso le mine al momento
di lasciare il Trooper, quando erano
stati travolti da una violenta onda) e raggiungono direttamente la riva, dove
sono fatti prigionieri.
La più efficace è
però l’azione dello chariot XXII, pilotato dal tenente di vascello Richard
Thomas Goodwin Greenland, con il sottocapo segnalatore Alex Mitchell Ferrier
come secondo: loro obiettivo primario è l’incrociatore leggero Ulpio Traiano, in costruzione nei
cantieri di Palermo (è stato varato poco più di un mese prima e si trova in
fase di allestimento), loro obiettivo secondario sono quattro cacciatorpediniere.
Dopo aver lasciato il Thunderbolt ed
aver percorso le quattro miglia che li separano dall’imboccatura del porto in
condizioni di mare piuttosto mosso, i due operatori si riposano brevemente
riposati sulla costa, indi superano le due reti di sbarramento e poi vanno
all’attacco: per prima cosa i due incursori superano le reti parasiluri tese
attorno allo scafo dell’Ulpio Traiano e piazzano la loro carica
principale (da 270 kg di esplosivo) sulla carena dell’incompleto incrociatore,
operazione che richiede una decina di minuti, poi applicano le loro quattro
mine adesive di minori dimensioni (“mignatte”) sugli scafi del piroscafo Gimma, del cacciatorpediniere Grecale e della Ciclone stessa. Secondo quanto
raccontato da Ferrier molto tempo dopo, Ciclone
e Grecale erano ormeggiate di poppa
alla banchina; il "chariot" suo e di Greenland si portò tra le due
navi e piazzò le prime tre mine sui loro scafi, e fu durante questo lavoro che
si i due rischiarono di essere scoperti: nell’invertire la rotta, infatti, il "chariot"
urtò con la poppa un cavo d’ancoraggio, e la sua elica fuoriuscì per pochi
istanti dall’acqua, producendo un leggero sommovimento in superficie. Un
marinaio su una delle navi italiane se ne accorse e si sporse dalla murata per
dare un’occhiata, ma intanto Greenland era riuscito tempestivamente a riportare
il mezzo sotto lo scafo, così il marinaio italiano non li vide e tornò,
apparentemente, alla sua occupazione. Dopo aver minato Ciclone e Grecale, i due incursori
cercarono altre siluranti da attaccare, essendo state queste designate come
obiettivo secondario; non riuscendo però a trovarne altre, decisero di collocare
l’ultima carica rimasta sullo scafo di un mercantile, cioè il Gimma. (Secondo una fonte, nel collocare
le mine adesive su queste unità Greenland e Ferrier avrebbero perso troppo
tempo, il che avrebbe impedito loro di giungere all’appuntamento con il P 46). Completata quest’operazione,
Greenland e Ferrier riescono anche ad uscire dal porto con il loro "chariot"
(non senza inconvenienti: durante il tragitto verso l’uscita il "chariot"
va infatti a sbattere a tutta velocità contro una rete di protezione, e poi
anche contro lo scafo di un mercantile) per raggiungere il P 46 in attesa al largo, e farsi riprendere a bordo; ma sono
esausti, hanno respirato ossigeno puro per troppo tempo e dopo un po’ si
rendono conto che stanno semplicemente girando in tondo davanti al porto perché
la loro bussola si è rotta, mentre le batterie del loro mezzo si vanno
esaurendo. A questo punto, pertanto, autoaffondano il loro "chariot"
e poi raggiungono a nuoto la riva, dopo di che si tolgono le mute e cercano di
lasciare la città per sottrarsi alla cattura. I due incursori riescono in
effetti ad uscire indisturbati dal cantiere navale e ad allontanarsi dalla zona
portuale prima che le cariche esplodano; lasciata la città, si dirigono verso
le campagne con l’intenzione di attraversare la Sicilia verso sudest, impadronirsi
di un’imbarcazione e raggiungere Malta, ma poco fuori Palermo s’imbattono in un
carabiniere. In un primo momento Greenland e Ferrier tentano d’ingannarlo
sostenendo di essere tedeschi, con apparente successo; dopo essersi
allontanato, però, il militare ritorna insieme ad altri tre carabinieri. Di
nuovo i due britannici sostengono di essere membri della Wehrmacht, mostrando
ai carabinieri dei documenti tedeschi (ovviamente falsi); ma lo stratagemma non
funziona, i due sono condotti presso la locale stazione dei Carabinieri,
interrogati in varie lingue ed infine smascherati con l’arrivo di un tenente
della Luftwaffe, convocato dai carabinieri. Ricondotti a Palermo e consegnati alla
Regia Marina (Junio Valerio Borghese, comandante dei loro “colleghi” italiani
della X Flottiglia MAS, chiederà e otterrà di incontrarli), Greenland e Ferrier
vengono interrogati e poi mandati in un campo di prigionia.
Dei dieci operatori,
pertanto, soltanto due riescono a sfuggire alla cattura: si tratta di Carter e
Stevens, i due operatori del "chariot" che è tornato indietro, i
quali vengono recuperati in mare aperto alle 4.35, sei ore dopo aver lasciato
il Trooper, dal P 46, in attesa a tre miglia e mezzo dall’imboccatura del porto di
Palermo. Degli altri otto, due (Cook e Simpson) hanno perso la vita, ed i
restanti sei sono stati fatti prigionieri. Uno degli "chariots" verrà
poi recuperato intatto da parte italiana.
Le cariche a contatto
magnetico applicate allo scafo della Ciclone, così
come quelle piazzate su Gimma e Grecale, non si attivano (forse
perché piazzate troppo frettolosamente dagli operatori britannici, mentre per
altra fonte Greenland e Ferrier si sarebbero dimenticati di armarle, probabilmente
perché intontiti dal troppo ossigeno puro respirato; secondo Greenland, lui ed
i suoi compagni non avevano mai visto prima, nemmeno durante le esercitazioni, un
“detonatore a matita” del tipo di quelli delle mine adesive loro fornite per
l’attacco, né ricevuto istruzioni in merito, e da parte italiana, dopo averle
esaminate, verranno espressi dubbi sull’efficacia di spolette di questo tipo
per delle mine subacquee) e vengono scoperte e rimosse da subacquei italiani il
mattino stesso del 3 gennaio, senza alcun danno per le tre navi. Sulla Ciclone, il comandante Di Paola si
occupa personalmente della rimozione delle mine, imbarcandosi su un battellino
ed ispezionando le unità minate, per poi tempestivamente rimuovere le mine che
vengono individuate (sarà per questo decorato di Medaglia di Bronzo al Valor
Militare, con motivazione: "Mentre
si verificavano esplosioni dovute a mezzi insidiosi avversari, si portava audacemente
con battello presso unità militari e mercantili, sullo scafo delle quali
risultavano applicati ordigni esplosivi, e si prodigava con coraggio e perizia
per effettuarne la tempestiva rimozione. Con tale ardito gesto assicurava
l’incolumità delle navi, dimostrando alto senso del dovere e noncuranza del
pericolo").
Le mine applicate
sugli scafi di Ulpio Traiano e Viminale, invece, esplodono dopo alcune
ore. Per prima scoppia, alle 5.45, la carica collocata sullo scafo della Viminale, che subisce gravi danni, anche
se rimane a galla; due ore dopo, alle 7.58, esplode anche la carica sistemata
sullo scafo dell’Ulpio Traiano, con effetti più gravi:
l’incrociatore, ancora incompleto, si spezza in due e affonda rapidamente. Lo
scoppio di questa carica danneggia gravemente anche l’adiacente banchina del
cantiere navale, che crolla parzialmente per un tratto di circa trenta metri, e
provoca 5 vittime (quattro operai italiani ed un soldato tedesco) e 21 feriti.
Greenland e Ferrier,
prigionieri in Italia fino all’8 settembre 1943 e poi in Germania fino alla
fine della guerra, saranno decorati rispettivamente con il Distinguished
Service Order e con la Conspicuous Gallantry Medal per l’azione di Palermo.
La Ciclone al traverso (da www.navymodeling.com) |
19 gennaio 1943
Alle 10.30 la Ciclone, in navigazione a circa 25
miglia da Lampedusa, avvista e soccorre 6 naufraghi. Si tratta di superstiti
del piccolo trasporto militare Stromboli,
affondato la notte precedente dai cacciatorpediniere britannici Nubian e Pakenham e dal greco Vasilissa
Olga; tra di essi vi è anche il
comandante dello Stromboli, capo
nocchiere di prima classe Leonardo Carofiglio, rimasto ferito. Dei 33 uomini
che componevano l’equipaggio dello Stromboli,
oltre ai 6 recuperati dalla Ciclone,
10 sono stati salvati dopo l’affondamento dalle stesse unità affondatrici,
mentre 17 hanno perso la vita.
La Ciclone raggiunge poi Lampedusa alle 15
dello stesso giorno.
27 gennaio 1943
All’una di notte la Ciclone (capitano di corvetta Luigi
Di Paola) salpa da Palermo diretta a Biserta, aggregandosi alla scorta di un
convoglio proveniente da Napoli e formato dai piroscafi Noto e Spoleto, scortati
dai cacciatorpediniere Lampo
(caposcorta, capitano di corvetta Loris Albanese) e Saetta (capitano di corvetta Enea Picchio).
Alle 4.15, circa
cinque miglia a nord di Trapani, il convoglio viene attaccato da un singolo
aerosilurante, che lancia infruttuosamente il suo siluro.
Alle 8.22 il
convoglio viene avvistato dal sommergibile britannico Turbulent (capitano di fregata John Wallace Linton), che apprezza
il convoglio come composto da due mercantili di 6000 e 10.000 tsl, scortati da
tre torpediniere classe Spica ed una dozzina di aerei, perlopiù da caccia. Alle
8.55, in posizione 37°46’ N e 11°14’ E, il Turbulent
lancia quattro siluri da 2750 metri contro i due mercantili, che in quel
momento si stanno “sovrapponendo” nel periscopio, per poi scendere in
profondità.
Subito dopo il lancio
(le fonti italiane indicano le 8.54, con leggerissima discrepanza rispetto
all’orario di lancio indicato dal Turbulent),
i velivoli della scorta aerea segnalano al convoglio le scie dei quattro
siluri, in arrivo da sinistra: il caposcorta ordina a tutte le navi di
accostare ad un tempo di 90° a dritta, manovra che viene prontamente eseguita,
permettendo così di evitare tutti i siluri, uno dei quali passa 200 metri a
poppavia della Ciclone. Due corvette
in zona per una crociera antisommergibili si occupano di dare subito la caccia
all’attaccante (senza però riuscire a danneggiarlo: nessuna delle bombe di
profondità esplode vicino al Turbulent),
mentre il convoglio prosegue.
Le navi entrano a
Biserta alle 16.30.
5 febbraio 1943
Alle 15 la Ciclone e la torpediniera Pallade sostituiscono le torpediniere Libra ed Orione nella scorta ad un convoglio formato dalle motonavi Ines Corrado (italiana) e Pierre Claude (tedesca) e dal trasporto
militare tedesco KT 3, partiti da
Napoli alle quattro di quel mattino e diretti a Biserta. Il convoglio entra a
Palermo alle 21 e vi sosta per alcune ore.
6 febbraio 1943
La Ciclone ed il resto del convoglio
lasciano Palermo alle tre di notte, senza più la Pallade, ma con l’aggiunta delle torpediniere Fortunale e Calliope. Il
convoglio raggiunge Biserta alle 23.30.
7 febbraio 1943
Ciclone, Fortunale
(caposcorta) e Calliope
salpano da Biserta per Napoli alle 9, scortando le motonavi Manzoni ed Alfredo Oriani.
Alle 23.30 iniziano i
primi attacchi di bombardieri ed aerosiluranti, che si protrarranno senza sosta
fino all’1.30 dell’8. Nessuna nave viene colpita.
8 febbraio 1943
Il convoglio giunge a
Napoli alle 10.30.
25 febbraio 1943
Alle 15 la Ciclone salpa da Napoli insieme
alle torpediniere Sirio (caposcorta), Sagittario, Castore, Pegaso e Generale Antonino Cascino ed ai
cacciasommergibili tedeschi UJ 2209, UJ 2210 e UJ 2220, per scortare a Biserta i piroscafi Teramo e Forlì.
Sei ore dopo la
partenza, il convoglio viene avvistato da ricognitori avversari.
26 febbraio 1943
Individuato da
ricognitori avversari, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti alle 3.30,
38 miglia a sudovest da Punta Licosa; nessuna nave viene colpita.
Alle 14.30 esso
subisce un nuovo attacco, stavolta da parte di 18 bombardieri, 38 miglia a nord
di Capo Zaffarano. Nessuna nave è colpita tranne l’UJ 2209, lievemente
danneggiato da schegge ed assistito dalle altre unità della squadriglia.
Nelle acque
antistanti Palermo, si uniscono al convoglio anche le navi cisterna Bivona e Labor ed il piroscafo Volta,
nonché le torpediniere Groppo ed Orione, la corvetta Gabbiano ed il dragamine
tedesco R 15; si forma così un
unico convoglio, scortato da Groppo (caposcorta), Ciclone, Orione, Pegaso, Cascino, Gabbiano e R 15. Sirio e Sagittario, al pari dei tre cacciasommergibili tedeschi, rientrano
invece a Napoli, mentre la Castore è
costretta ad entrare a Palermo e restarvi a causa di un’avaria.
Al largo di Trapani
la Gabbiano lascia la
scorta.
27 febbraio 1943
Alle 10.40 un aereo
da caccia italiano, di scorta al convoglio, precipita per avaria; l’Orione ne salva il pilota.
28 febbraio 1943
Il convoglio giunge a
Biserta all’1.45.
(da www.navymodeling.com) |
L’affondamento
Alle 6.20 del 7 marzo
1943 la Ciclone, al comando del
capitano di corvetta Luigi Di Paola, salpò da Biserta per andare incontro ad un
convoglio in arrivo dall’Italia, che avrebbe dovuto pilotare sulla rotta di
sicurezza che conduceva appunto a Biserta. Lasciatosi alle spalle il porto
tunisino, la torpediniera assunse rotta 19°, ossia opposta a quella del
convoglio in arrivo, lasciandosi esattamente di poppa l’isola di Zembra.
Il convoglio, partito
da Napoli alle 2.30 del 6 marzo, era stato in origine composto dalla motonave
italiana Ines Corrado e dai piroscafi
tedeschi (ex francesi) Henry Estier e Balzac, scortati dalle torpediniere Groppo (caposcorta, capitano di corvetta Beniamino Farina), Ardito, Cigno, Orione e Generale Antonino Cascino; ma
attacchi aerei subiti il mattino del 7 marzo avevano causato la perdita dell’Ines Corrado, mentre Orione, Ardito (che poche ore prima aveva affondato il sommergibile HMS Thunderbolt, che aveva tentato di
attaccare il convoglio) e Cascino
erano state distaccate per il recupero dei naufraghi. Il convoglio che la Ciclone incontrò al largo di Zembra,
pertanto, era ridotto ai soli Estier
e Balzac scortati da Groppo e Cigno (capitano di corvetta Carlo Maccaferri). Quando la Ciclone incontrò queste quattro navi,
esse stavano procedendo a 9 nodi in linea di fila, con in testa la Groppo seguita nell’ordine da Cigno, Balzac ed Estier. La
riunione avvenne alle 12.25; quando le altre navi la raggiunsero, la Ciclone si trovava già con la prua sull’isola
di Zembra, navigando a lento moto su rotta 199° in attesa dell’arrivo delle
navi da pilotare.
La rotta di sicurezza
prescritta (rotta vera 199° con prua su Zembra) passava tra i campi minati
difensivi italiani X 2 e X 3: tra l’estremità settentrionale del primo e quella
meridionale del secondo esisteva un passaggio libero ampio appena quattro
miglia e mezzo. Zembra distava venti miglia da tale varco, a nord del quale era
avvenuta la riunione tra la Ciclone
ed il convoglio.
Il caposcorta Farina
della Groppo ordinò alla Ciclone di accodarsi al convoglio, che
intanto aveva ridotto la velocità a 6 nodi, ed assunse personalmente la
conduzione diretta della navigazione.
Pochi minuti dopo la
riunione del convoglio con la Ciclone,
alle 12.32, l’Henry Estier venne scosso da un’esplosione;
rapidamente incendiatosi, il piroscafo colò a picco in breve tempo, tra lo
sconcerto dei comandanti delle altre navi. Non si riusciva a capire che cosa
avesse provocato l’esplosione, una mina oppure un siluro: l’Estier era la quarta nave della
formazione e seguiva esattamente in linea di fila Groppo, Cigno e Balzac, dunque sembrava strano che, se
ci fosse stata una mina, non fosse stata una delle tre navi che precedevano l’Estier ad attivarla. D’altra parte,
nessuno aveva avvistato scie di siluri. Farina ordinò alla Ciclone di mettere a mare la propria motobarca per recuperare i
naufraghi.
Poco dopo, alle
12.40, furono dei bombardieri ad attaccare il convoglio: ben quattro formazioni
distinte di quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, che arrivarono in
rapida successione da direzioni diverse, volando ad alta quota, ed iniziarono a
sganciare una pioggia di bombe sul convoglio prima ancora di essere avvistati
dalle navi (erano stati inviati sulla base di informazioni ottenute tramite la
decrittazione di messaggi italiani intercettati poche ore prima dall’organizzazione
"ULTRA", nei quali erano indicati porti ed orari di partenza e
destinazione del convoglio: «Ines Corrado,
Henri Estier, Balzac (…) sono partiti
da Napoli alle 03.00 del giorno 6. (…) Balzac
ed Henri Estier devono essere a Tunisi alle 15.30 del giorno 7 (…)»). Molte
bombe caddero vicinissime ai bersagli; non appena si resero conto di essere
sotto attacco, le navi aprirono subito il fuoco con i propri cannoni, e la Cigno invertì la rotta per diradare la
formazione, mentre la Groppo restava
vicino al Balzac, unico piroscafo
superstite. Tutto inutile: alle 12.42, esattamente dieci minuti dopo
l’affondamento dell’Estier, anche il Balzac venne colpito in pieno da diverse
bombe, esplose ed affondò rapidamente. Non paghi, i bombardieri continuarono
imperterriti il loro diluvio di bombe, sganciate a gruppi, indirizzate adesso
contro le torpediniere. Grazie a pronte contromanovre, tutte e tre le siluranti
riuscirono ad uscirne del tutto indenni. Ma ormai il convoglio non esisteva
più: senza più una nave da scortare, al caposcorta Farina non rimase che
ordinare a Ciclone e Cigno di provvedere al salvataggio dei
superstiti di Estier e Balzac. Così fu fatto, ma le sventure di
quella funesta giornata non erano ancora finite.
Alle 13.09, mentre
Farina stava domandando al comandante Di Paola se egli ritenesse che anche l’Estier fosse stato colpito da bombe, la Ciclone, che in quel momento stava avvicinandosi
al punto in cui era affondato l’Estier
(oppure al relitto in affondamento del piroscafo, non è del tutto chiaro se si
fosse già inabissato) per recuperarne i naufraghi, procedendo ad appena tre o
quattro nodi, con l’ecogoniometro in funzione, venne a sua volta scossa a poppa
da un’improvvisa esplosione, che fece sussultare tutta la nave. Alcuni uomini
rimasero uccisi; altri, alcuni dei quali feriti, vennero lanciati in mare
dall’esplosione. Questa volta si comprese subito che si era trattato di una
mina: il convoglio era finito in un campo minato, l’Estier ne era stato la prima vittima e la Ciclone sarebbe stata la seconda. L’esplosione fu vista anche a
bordo delle altre torpediniere: sulla Groppo
il caposcorta Farina annotò che «alle
13.10 sulla poppa della Tp Ciclone si nota una colonna d’acqua. Si presume sia
lo scoppio di una mina. Cigno conferma tale ipotesi». In quel momento, la Ciclone si trovava 18 miglia a nord di
Zembra.
Pur essendo rimasta
immobilizzata, leggermente appoppata e sbandata a sinistra, la torpediniera sembrò
resistere abbastanza bene allo scoppio della mina: solo la poppa era stata
interessata dall’esplosione, vi erano delle infiltrazioni d’acqua in sala
macchine e vie d’acqua anche in altri punti, ma nel complesso la situazione era
tale da far ritenere al comandante Di Paola che la nave sarebbe potuta rimanere
a galla per parecchio tempo; pensò di poter riuscire a salvarla. Verso le 13.30
vennero issati a bordo gli uomini che l’esplosione aveva gettato in mare; il
personale indenne che non aveva incarichi specifici venne radunato sul castello
a dritta, mentre si approntava la braga da rimorchio prodiera nella speranza di
potersi far prendere a rimorchio e portare in salvo. Groppo e Cigno, però, si
stavano allontanando, con rotta verso sud.
Alle 13.50 circa (le
13.51 secondo il rapporto della Groppo)
la situazione precipitò improvvisamente quando la Ciclone, andando alla deriva, urtò con la poppa una seconda mina,
provocando una nuova esplosione. Lo scoppio asportò quello che restava della
poppa e lanciò ovunque schegge, che ferirono altri membri dell’equipaggio;
nella sala macchine poppiera aumentò l’ingresso di acqua dagli assi e
soprattutto dalla paratia stagna, danneggiata dalla duplice detonazione. Dalle
informazioni pervenute in plancia si sospettò che vi fosse anche un’altra via
d’acqua sotto lo scafo. La Ciclone
aumentò il suo appoppamento, sbandò ancor più sulla sinistra; la situazione si
era tanto aggravata che il comandante Di Paola, che appena pochi minuti prima
era stato convinto che la nave sarebbe potuta galleggiare ancora per molto,
aveva ora l’impressione che la sua unità potesse affondare da un momento
all’altro. Farina, nel suo rapporto, è ancora più esplicito, scrivendo di
ritenere la Ciclone, dopo questa
seconda esplosione, «ormai finita».
Dal rapporto di Farina emerge anche il motivo dell’allontanamento di Groppo e Cigno dalla nave danneggiata: avendo osservato le due esplosioni a
poppa della Ciclone alle 13.10 ed
alle 13.51, seguite poco dopo da altre due esplosioni nelle vicinanze, Farina
aveva giustamente compreso che la Ciclone
doveva essere finita in mezzo ad un esteso campo minato avversario.
Addentrarvisi per portare aiuto alla “collega” immobilizzata avrebbe rischiato
di fare più male che bene: la possibilità che le unità soccorritrici finissero
semplicemente col saltare a loro volta sulle mine era tutt’altro remoto. Quelle
stesse acque erano già state oggetto, nei mesi precedenti, di tragedie simili: il
9 gennaio 1943 il cacciatorpediniere Corsaro
era affondato su mine mentre tentava di soccorrere il cacciatorpediniere Maestrale, danneggiato da una mina; il
31 gennaio la torpediniera Generale Marcello Prestinari aveva fatto la stessa fine per cercare di soccorrere la
corvetta Procellaria; il 3 febbraio
era toccato al cacciatorpediniere Saetta,
saltato mentre tentava di avvicinarsi alla torpediniera di scorta Uragano – gemella della Ciclone – che aveva perso la poppa su
una mina. Con questi precedenti in mente, Farina giudicò saggiamente che fosse
meglio non avvicinarsi alla Ciclone, dunque
ordinò alla Cigno di seguire la Groppo e contattò Biserta per chiedere
l’invio di mezzi veloci di salvataggio. In attesa dell’arrivo di questi ultimi,
nonché di ulteriori disposizioni da parte di Supermarina, le due torpediniere
si diressero a nord di Zembra e presero a pendolare in quelle acque. Essendosi
guastata la radio della Groppo,
Farina ordinò alla Cigno di informare
Supermarina.
A bordo della Ciclone, intanto, la situazione appariva
grigia. Dal castello della torpediniera venne avvistato alle 13.55 uno degli
ordigni responsabili di tanta distruzione, chiaramente visibile a pochissima
distanza: immobile, inerte, inanimata ed al contempo più pericolosa di
qualsiasi nemico “umano”, una mina faceva minacciosa mostra di sé a soli cinque
o sei metri dallo scafo della torpediniera, tre o quattro metri sotto la
superficie del mare. Il comandante Di Paola la descrisse così nel suo rapporto:
«…caratteristiche: un disco centrale del
diametro di circa 10 cm leggermente sopraelevati dalla superficie della
torpedine; non si notano urtanti. Lo stato di conservazione della torpedine è
ottimo: nessuna traccia di ossidazione e vegetazione sulla sua superficie».
Né avrebbe potuto essercene, di vegetazione: quella mina, così come le altre
che la Ciclone e l’Estier avevano urtato, era lì da neanche
tre giorni. Il posamine veloce britannico Abdiel
(capitano di vascello David Orr-Ewing) aveva infatti posato un campo minato
(indicato dalle fonti italiane come “numero 11”) in quelle acque, dieci miglia
ad est di Capo Bon, nella notte tra il 4 e il 5 marzo. Questo nuovo campo minato
era stato posato vicinissimo ai due sbarramenti difensivi italiani, X 2 e X 3,
tra i quali passava la rotta di sicurezza che il convoglio aveva imboccato: l’Abdiel aveva posato le sue 160 mine a
nord dello sbarramento X 2 e ad est dell’X 3, cioè proprio sulla rotta di
sicurezza di Zembra. Non era un caso: i britannici conoscevano la posizione
degli sbarramenti difensivi italiani, grazie alle intercettazioni di "ULTRA"
ed a documenti catturati, ed avevano appositamente inviato l’Abdiel a posare le sue mine nel
“corridoio” sicuro che le navi attraversavano. Andando incontro al convoglio, anzi,
la Ciclone doveva aver
inconsapevolmente attraversato il campo minato, senza causare esplosioni per
puro caso. (Interessanti, in proposito, le annotazioni sul diario di guerra
della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine: in merito
alla perdita di Estier, Balzac e Ciclone, vi venne riportato in un primo momento che “in base ad un rapporto dell’aviazione sulla
posizione, è possibile che il BALZAC, l’ESTIER e la torpediniera siano stati
affondati dalle nostre stesse mine”, mentre successivamente fu annotato che
“le mine sono state probabilmente posate
da un sommergibile lungo la rotta di traffico [che passa] tra i nostri campi minati. Nelle presenti
condizioni è improbabile che le nostre navi potessero urtare le nostre mine”).
Alle 14.05, ritenendo
che fosse imminente un’altra esplosione, Di Paola diede ordine di abbandonare
la nave. L’equipaggio scese ordinatamente sulle zattere e sulle imbarcazioni,
mantenendo la massima calma; il comandante Di Paola s’imbarcò sulla motolancia,
sulla quale aveva fatto portare la carta di navigazione, alcune altre carte
nautiche, i brogliacci radio e di navigazione, la cassetta dei documenti
segreti che si trovava in plancia, il foglio assegni della contabilità del mese
di febbraio, e la cartella di guerra che conteneva tutte le notizie utili alla
navigazione. La carta "Mirafiori", sulla quale erano indicati i campi
minati del Canale di Sicilia, venne invece bruciata. Alle 14.30 non c’era più
nessuno sulla Ciclone; tra quell’ora
e le 14.30 e le 17.30 la motolancia al comando di Di Paola setacciò il mare
attorno all’ormai deserta torpediniera, raccogliendo i naufraghi e prendendo a
rimorchio le altre imbarcazioni e le zattere; poi si allontanò di circa un
chilometro dalla Ciclone, sempre
portandosi a rimorchio il resto dei galleggianti carichi di naufraghi. Verso le
17 un idrovolante CANT Z. 506 ammarò vicino a due imbarcazioni che la Cigno aveva lasciato in mare prima di
allontanarsi, due o tre chilometri più a sud del punto in cui si erano radunate
le imbarcazioni della Ciclone;
l’idrovolante ripartì dopo circa venti minuti.
I mezzi di soccorso
richiesti dalla Groppo arrivarono
finalmente alle 18.30 (per altra fonte, verso le 18): i MAS 552 e 554 e le
motosiluranti MS 13 e MS 21, partite da Biserta al comando del
capitano di corvetta Luigi Ghittoni (secondo il diario operativo della
Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine, avrebbero
partecipato ai soccorsi anche motodragamine tedeschi della 6.
Räumboots-Flottille). Il comandante Di Paola fece trasbordare sulle
motosiluranti i feriti e la quasi totalità dei naufraghi illesi presenti sulle
zattere, mentre le scialuppe contenenti gli altri naufraghi della Ciclone ed anche quelli di Estier e Balzac vennero da queste prese a rimorchio. Terminato il trasbordo,
Di Paola disse a Ghittoni che sarebbe rimasto sulla motolancia insieme al
comandante in seconda e ad otto uomini validi, con l’intenzione di restare
vicino alla Ciclone – che nonostante
tutto continuava a galleggiare –, aspettando che arrivassero mezzi idonei a
tentarne il rimorchio. Ghittoni gli mise a disposizione per questo scopo il MAS 554,
dunque alle 19 Di Paola e gli altri nove uomini trasbordarono dalla motolancia
su questo MAS; il comandante di quest’ultimo, capo nocchiere di seconda classe
Giuseppe Prati, informò Di Paola della posizione in cui si trovavano, e da ciò
il comandante della Ciclone poté
stimare che la sua torpediniera era andata scarrocciando verso sudest di cinque
o sei miglia. Intanto le due motosiluranti ed il MAS 552 avevano fatto
rotta per Biserta, dove giunsero alle 23.30, sbarcando i naufraghi della Ciclone e dei due piroscafi.
A frustrare le
speranze di un salvataggio della Ciclone
ci si misero anche le condizioni meteorologiche: alle 19 il vento, che fino
allora aveva soffiato da Maestrale,
girò improvvisamente a scirocco, aumentando gradualmente di forza; alle 22
anche lo stato del mare era in peggioramento, ed entro le due di notte (per
altra fonte, le 00.25) dell’8 marzo le condizioni del mare erano diventate
insostenibili per il MAS. Di Paola decise pertanto di fare rotta su Biserta,
sperando d’incontrare per strada qualche mezzo di soccorso diretto verso la Ciclone, sul quale sarebbe potuto
trasbordare. Ma le sue aspettative rimasero deluse: non trovò nessuno, e giunse
a Biserta alle 7.30 di quel mattino. Ma qui non rimase che mezz’ora;
trasbordato sulla MS 21 con i suoi nove uomini, Di Paola
ripartì da Biserta già alle 8.05 dell’8 marzo per raggiungere nuovamente la sua
nave.
Groppo e Cigno, intanto,
essendo finite col trovarsi più vicino a Tunisi che non a Biserta, erano
entrate in quella rada – anche per sbarcarvi alcuni naufraghi feriti dei
mercantili affondati, che la Cigno
aveva recuperato – e vi avevano sostato per parecchie ore; prima dell’alba
presero nuovamente il mare per cercare la Ciclone,
che per effetto del vento e del mare era scarrocciata di parecchie miglia verso
nord. Allo stesso scopo salparono due dragamine da Tunisi ed un rimorchiatore
da Biserta.
Alle 10.25 la Groppo e la Cigno raggiunsero finalmente la Ciclone;
la Groppo prese immediatamente a
rimorchio la torpediniera danneggiata, facendo rotta per Marettimo, mentre la Cigno ne assunse la scorta. Alle 11.40
giunse sul posto anche la MS 21 con il comandante Di Paola.
Il rimorchio si
protrasse per un paio d’ore, ma alle 12.48 il mare grosso provocò la rottura
del cavo: il capitano di corvetta Di Paola coi suoi nove uomini tentò di
trasbordare sulla Ciclone per
ristabilire il rimorchio, ma le condizioni del mare e l’assetto della torpediniera,
la cui agonia era ormai giunta alla fine, non gli consentirono di risalire a
bordo. Alle 13.25 la Ciclone levò la
prua verso il cielo e colò a picco nel punto 37°40’ N e 10°59’ E (quasi al
centro del Canale di Sicilia, leggermente spostato verso nord: a nord di Capo
Bon, 70 miglia a nordest di Biserta ed a sudovest delle Egadi, quasi
esattamente a metà strada tra Trapani e Biserta), circa cinque miglia a sud del
punto in cui erano affondati Estier e
Balzac.
Lo stesso 8 marzo "ULTRA"
intercettò e decifrò comunicazioni italiane sull’accaduto, che permisero ai
comandi britannici di apprendere del successo degli attacchi lanciati: «Nel convoglio di tre navi che dirigeva verso
i porti tunisini nella giornata del 7 la Ines Corrado è stata colpita da bombe (…)
incendiata e fermata (…) mentre entro le 15 del 7 (…) l’Henri Estier ed il Balzac sono stati
affondati. La Ciclone, una torpediniera di scorta, è stata danneggiata da una
mina a 18 miglia a nord di Zembra». Il giorno seguente, nuove decrittazioni
aggiunsero che «La torpediniera Ciclone,
che scortava l’Henri Estier ed il Balzac e che era incappata sulle mine, è
affondata intorno alle 14.00 dell’8».
Dei 158 uomini che
componevano l’equipaggio della Ciclone,
quattordici (quindici secondo il volume "La guerra di mine" dell’USMM)
avevano perso la vita, uccisi dalle due esplosioni delle mine che avevano
demolito la poppa.
I loro nomi:
Enzo Bachini, sottocapo silurista, da Reana
del Rojale (disperso)
Giulio Bendoricchio, marinaio torpediniere, da
Dignano d’Istria (disperso)
Giuseppe Bosia, marinaio cannoniere, da Asti
(deceduto)
Spartaco Corsini, marinaio cannoniere, da
Pistoia (disperso)
Domenico D’Arrigo, marinaio, da Catania
(disperso)
Egidio Dragogna, marinaio torpediniere, da
Albona (disperso)
Vincenzo Infante, marinaio cannoniere, da
Minori (disperso)
Francesco Lai, marinaio fuochista, da Sassari
(disperso)
Giovanni Madaro, sottocapo cannoniere, da
Francavilla Fontana (disperso)
Napoleone Masini, marinaio fuochista, da Roma
(disperso)
Pasquale Massa, sottocapo fuochista, da Napoli
(disperso)
Carmelo Pulvirenti, marinaio, da Acireale
(disperso)
Duilio Resti, sottocapo silurista, da
Montevarchi (deceduto)
Mario Schiavone, marinaio fuochista, da Bari
(disperso)
Alla memoria di tutte
le vittime fu conferita la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione: "Imbarcato su naviglio silurante, partecipava
a numerose rischiose missioni di scorta convogli in acque fortemente insidiate
dall’avversario. Nel corso di una di esse, in seguito ad urto della propria
Unità contro torpedini avversarie, mentre un furioso attacco aereo si abbatteva
sul convoglio, coronava l’opera di dovere sempre serenamente compiuta con
l’estremo tributo della propria vita".
L’albo dei caduti e
dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale elenca anche un
altro caduto della Ciclone, il
Giovanni Dori da Pola, che tuttavia sarebbe deceduto il 28 maggio 1944, a più
di un anno dall’affondamento della torpediniera, e per di più “in Jugoslavia”. È
forse possibile che si trattasse di un superstite della Ciclone rimasto gravemente ferito nell’affondamento, e deceduto
oltre un anno dopo (dal momento che nell’Albo in questione il “territorio metropolitano”
italiano e la “Jugoslavia” sono definiti nei confini postbellici, il termine
“Jugoslavia” potrebbe anche riferirsi alla stessa Pola); oppure, più
semplicemente, si tratta di un errore dell’Albo.
I 144 superstiti
della Ciclone, sbarcati a Biserta, vi
rimasero per tre giorni, dopo di che vennero trasferiti a Tunisi e da lì
rimpatriati per via aerea una settimana più tardi, raggiungendo Taranto dopo
scali intermedi a Palermo e Messina.