Il Berillo (da “Sommergibili italiani” di Alessandro Turrini ed
Ottorino Ottone Miozzi, USMM, Roma 1999)
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Sommergibile di
piccola crociera della classe Perla (dislocamento di 695 tonnellate in
superficie e 855 in
immersione). Svolse in guerra quattro missioni offensive ed una di
trasferimento, percorrendo complessivamente 3978 miglia in superficie e 320 in
immersione, e passando un mese ai lavori.
Breve e parziale cronologia.
14 settembre 1935
Impostazione nei
Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di cantiere 1141).
14 giugno 1936
Varo nei Cantieri
Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone. Ne è madrina Alma Antonimi Laudati,
moglie del comandante in seconda della base navale di Pola, capitano di fregata
Guglielmo Laudati.
Berillo in allestimento (da “I
sommergibili di Monfalcone” di Alessandro Turrini, supplemento alla “Rivista
Marittima” n. 11 del novembre 1998)
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5 agosto 1936
Entrata in servizio.
Assegnato alla XXXV Squadriglia Sommergibili (di base a Messina) e dislocato ad
Augusta.
1936
Compie una lunga
crociera addestrativa nel Mediterraneo centrale, toccando Tobruk, Bengasi,
Marsa el Hilal, Porto Bardia, Lero e Napoli.
Gennaio-Settembre 1937
Partecipa
clandestinamente alla guerra civile spagnola, svolgendo in tutto tre missioni.
1° gennaio 1937
Salpa da Napoli al
comando del capitano di corvetta Vittorio Prato, per la prima missione della
guerra di Spagna (da effettuarsi al largo di Cartagena). A bordo, quale
ufficiale di collegamento, è il capitano di corvetta Bobadilla della Marina
spagnola nazionalista.
17 o 18 gennaio 1937
Rientra alla base a
mani vuote.
5 agosto 1937
Salpa da Augusta, al
comando del capitano di corvetta Andrea Gasparini, per la seconda missione
della guerra civile spagnola. Raggiunta la zona assegnata (Canale di Sicilia, a
nordovest di Pantelleria, tra Capo Lilibeo e Capo Bon), vi rimane per undici
giorni, durante i quali si verificano 45 tra avvistamenti e manovre d’attacco
(ma solo in una lancerà dei siluri).
14 agosto 1937
Lancia infruttuosamente
due siluri contro un piroscafo.
16 agosto 1937
28 agosto 1937
Parte per la terza
missione nell’ambito della guerra di Spagna, stavolta al largo di Cartagena.
6 settembre 1937
Rientra alla base
senza aver avvistato navi sospette.
1938
Dislocato a Massaua
(Eritrea), in Mar Rosso, insieme ai gemelli Iride ed Onice.
Primavera 1939
Torna in
Mediterraneo, a Taranto. Successivamente trasferito ad Augusta.
Gennaio 1940
Assume il comando del
Berillo il tenente di vascello
Camillo Milesi Ferretti.
10 giugno 1940
All’ingresso
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Berillo fa parte della XIII Squadriglia Sommergibili (insieme a Gemma ed Onice), avente base a La Spezia (I Grupsom); viene però dislocato
ad Augusta. Effettua alcune missioni nel Mediterraneo centrale, senza
incontrare navi nemiche.
13 luglio 1940
Inviato in
pattugliamento a levante di Gibilterra, insieme ai più grandi sommergibili Morosini, Nani e Faà di Bruno. Non
incontra alcuna nave nemica.
In una successiva
missione è inviato nelle acque di Malta, ma di nuovo non avvista nulla.
L’affondamento
Il 17 settembre 1940
il Comando del Gruppo Sommergibili di Messina telefonò al tenente di vascello Camillo Milesi Ferretti,
comandante del Berillo, per chiedere
se il sommergibile fosse pronto a partire; Milesi Ferretti rispose che il
battello era pronto in attesa di ordini da settimane, e la mattina del 18
giunse l’ordine di passare dall’approntamento in due ore all’essere pronti a
partire non appena fosse stato ordinato. Un fuochista, avendo la febbre alta,
dovette essere lasciato a terra, contro la sua volontà (disse di non voler
sbarcare e che si trattasse di un male passeggero, ma Milesi Ferretti dovette
lasciarlo a terra).
Verso le 16,
l’equipaggio venne richiamato a bordo e messo al corrente della missione.
Arrivò poi l’ordine
d’operazioni, in busta sigillata, portata da un ufficiale in motocicletta:
agguato offensivo al largo di Sidi el Barrani e Marsa Matruh, fino al limite
dell’autonomia, anche a supporto dell’offensiva italiana in Egitto. Milesi
Ferretti venne anche informato della presenza di un sommergibile avversario
lungo la sua rotta, subito fuori dalla base.
Mezz’ora più tardi, alle
otto di sera del 18 settembre 1940, il Berillo,
salutato da uomini degli equipaggi di altre unità presenti ad Augusta, salpò
dalla base siciliana diretto nel settore ad esso assegnato, al largo di
Alessandria d’Egitto, a sud di Creta ed a sudovest della Turchia.
Dopo aver navigato in
superficie per tutta la notte, il battello s’immerse l’indomani alle undici di
mattina, per evitare l’avvistamento da parte di un ricognitore britannico;
riemerse solo dieci ore dopo, col favore del buio, per cambiare aria e
ricaricare le batterie, proseguendo verso la zona assegnata per la missione.
All’alba s’immerse di nuovo; trascorse la giornata in ascolto idrofonico alla
quota di 50 metri, per poi riemergere alle 18. Durante la navigazione si
verificarono alcune avarie; alle 24, infatti, la pompa di poppa dovette essere
fermata per avaria, ma venne riparata dal fuochista Giovanni Barcaro e da un
collega, dopo alcune ore di scomodo lavoro sotto i tubi di lancio.
Con l’alba il Berillo s’immerse di nuovo, e di nuovo
passò la giornata in agguato a profondità variabili (nessuna traccia di navi)
per poi riemergere con il buio e proseguire verso la propria destinazione.
Nuova immersione alle quattro del mattino successivo, e nuova avaria: dopo
poche ore, i timoni elettrici di profondità di poppa smisero di rispondere ai
comandi, costringendo a passare alla manovra manuale mentre si provvedeva a
laboriose riparazioni che si conclusero solo alle 17, senza che il problema
fosse risolto in modo definitivo (i timoni non funzionavano più in modo
ottimale, ed erano seriamente esposti al rischio di una nuova avaria). Giunta
la sera, altra emersione per ricarica accumulatori e ricambio d’aria. Nella
notte, procedendo ad una decina di miglia dalla costa, si videro gli incendi
dei bombardamenti ed il fuoco della contraerea in direzione di Marsa Matruh; il
bagliore era tale che il sommergibile si dovette allontanare, perché rischiava
di diventare troppo visibile.
Alle quattro del
mattino del 25 settembre (altra fonte parla del 21 settembre) il Berillo raggiunse il settore da
pattugliare, a nord di Ras Ultima; due ore dopo s’immerse a 50 metri di
profondità, ponendosi in agguato in ascolto idrofonico.
Due giorni
trascorsero senza che niente accadesse (vennero avvistate di prora delle ombre
che sembravano quelle di navi in fila, ma il sommergibile, avvicinatosi per
attaccare, scoprì che si trattava di scogli), e la sera del 27 settembre, come
sempre alle 21, il Berillo riemerse
per cambiare aria, ricaricare le batterie e gettare in mare i rifiuti. Quando
però fu ordinato di mettere in moto i motori, questi non partirono (ciò secondo
il motorista Gian Battista Civetta, mentre il fuochista Barcaro affermò invece
che i motori, prima quello di dritta e poi quello di sinistra, si fermarono
dopo qualche ora di navigazione), per interruzione della circolazione dell’olio;
nonostante l’immediato intervento dell’equipaggio, che lavorò tutta la notte
per rimettere in funzione i motori – quello di sinistra poté essere rimesso in
moto, ma solo a due cilindri, mentre per quello di dritta non si riuscì ad
ottenere nulla –, il sommergibile rimase immobilizzato per tutta la notte, e
non poté perlustrare l’area assegnata.
Giunta l’alba, alle
sei del mattino del 28, il Berillo si
immerse di nuovo, tenendosi poi in agguato, cambiando di quando in quando la
quota, ma sempre senza notare alcuna traccia di navi nemiche. Alle 21, solita
emersione per cambio aria e ricarica batterie; il motore di sinistra era ancora
malfunzionante, mentre rinnovati sforzi per riattivare il motore di dritta non
portarono ad alcun risultato.
Trascorse un altro
giorno, come al solito in immersione (con un solo motore elettrico funzionante:
l’altro era in avaria perché rimasto ingranato con il motore diesel, a causa
della viratrice), ed alle 21.30 del 29 settembre il Berillo riemerse, in condizioni di navigabilità sempre più precarie
per via dello stato dei suoi motori. Appena emerso (secondo Civetta; secondo
Barcaro, invece, verso le 23), il sommergibile ricevette un messaggio cifrato
da Roma: «Prolungata missione 5 giorni – stop – zona = ALFA = 60 miglia N.O.
zona attuale – stop – Avvistamento formazioni nemiche rotta N.O. a sud di
Candia = stop – Operare in collaborazione coi sommergibili zone 1 – 2 – 3 – 4 –
5 – stop = eventuali informazioni da Supermarina ore X = stop = Super Marina
ore 0,01 – per conoscenza a tutte le navi in rotta per il Mediterraneo
Orientale». Il messaggio precisava inoltre la composizione della forza navale
avvistata: una corazzata, una portaerei, cinque incrociatori e 19
cacciatorpediniere. Erano in mare per l’operazione «MB. 5», un (riuscito)
tentativo di rifornire Malta; la reale consistenza della formazione britannica
era di due corazzate (Valiant e Warspite), una portaerei (Illustrious), due incrociatori leggeri (Orion e Sydney), un incrociatore pesante (York) ed undici cacciatorpediniere. Le navi incaricate di rifornire
Malta erano gli incrociatori leggeri Liverpool
e Gloucester, su cui erano stati
imbarcati 1200 uomini più un carico di materiali; inoltre sarebbe stato in mare
durante l’operazione il convoglio «AN. 4», partito da Port Said e diretto al
Pireo, con la scorta dell’incrociatore antiaereo Calcutta e di quattro cacciatorpediniere. La prospettiva di un tale
potenziale “bottino” non mancò di destare entusiasmo tra l’equipaggio.
Trascinandosi alla
esasperante velocità di cinque nodi, il Berillo
riuscì egualmente a raggiungere il nuovo settore assegnato (al largo di Sidi el
Barrani, 60 miglia più a nord rispetto al settore precedente) alle sette del
mattino del 30 settembre. L’equipaggio, desideroso di scontrarsi con le navi
britanniche dopo tanti giorni trascorsi senza avvistare nulla, lavorò ancor più
alacremente alla riparazione del motore di dritta: non solo i motoristi, ma
anche gli elettricisti si unirono ai lavori, e quando a sera il battello
riemerse, finalmente il motore di dritta ritornò a funzionare. All’alba del 1°
ottobre, il sommergibile tornò ad immergersi, per poi restare in agguato a
quota periscopica per il resto del giorno. Ancora una volta, nessuna nave
avversaria entrò nel raggio visivo del Berillo.
Il mare era calmo; la
vita a bordo, durante le ore diurne di immersione (una quindicina al giorno),
era alquanto monotona. Era fatto divieto di parlare o produrre altri rumori
(che sarebbero stati rilevati dagli idrofoni di eventuali unità nemiche),
dunque gli uomini stavano ognuno per proprio conto, leggendo, dormendo, o
scambiandosi le proprie foto per vederle e farle vedere. All’interno del
sommergibile faceva terribilmente caldo – 50° C – e la trasudazione era tale
che dal soffitto gocciolava continuamente sudore condensato. Nonostante tutto,
nessuno si lamentava.
Alle 21 del 1°
ottobre, una volta di più – sarebbe stata l’ultima –, il Berillo tornò in superficie per il solito ricambio d’aria e
ricarica batterie. Quando però il comandante ordinò di mettere in moto, i
motori ricominciarono a dare noie: questa volta fu la pompa dell’olio ad andare
in avaria, ma gli elettricisti, lavorando a lungo nel piccolo spazio
disponibile, riuscirono infine a ripararla; i motoristi, intanto, lavoravano al
motore di sinistra, ancora malfunzionante (smontarono gli stantuffi per pulire
i canali di circolazione dell’olio sulle loro testate). Verso l’una di notte
del 2 ottobre il motorista Gian Battista Civetta, sfinito (era sveglio e al
lavoro ormai da sessanta ore), unto e sporco di nafta (l’acqua a bordo era
razionata, tanto da non potersi nemmeno lavare), andò a dormire in cuccetta,
mentre il fuochista Giovanni Barcaro lo sostituì tra quanti stavano lavorando
ai motori (ma secondo il racconto di Barcaro, sembrerebbe che anche lui andò a
riposare all’una, dopo lungo lavoro, nelle stesse condizioni di Civetta).
Il sonno di Civetta
durò poco: verso le tre di notte il nemico tanto atteso venne avvistato, ed a
tutto l’equipaggio venne ordinato di andare ai posti di combattimento. Le navi
avversarie, che avevano rotta verso Alessandria e distavano 6000 metri, erano i
cacciatorpediniere Havock (capitano
di fregata Rafe Edward Courage) ed Hasty
(capitano di corvetta Lionel Rupert Knyvet Tyrwhitt), che stavano rientrando al
Pireo dopo aver scortato il convoglio «AN. 4» (fonti britanniche indicano
l’orario dell’incontro tra il Berillo
ed i cacciatorpediniere italiani come le cinque del mattino del 2 ottobre, però
dicono anche che s’immerse subito: la discrepanza di orario potrebbe quindi
spiegarsi con l’avvistamento del Berillo,
da parte dei britannici, solo dopo che questo aveva lanciato i siluri, dunque
molto più tardi dell’avvistamento dei cacciatorpediniere da parte dei
sommergibili).
Restando in
superficie (per via del malfunzionamento dei motori diesel, vennero utilizzati
i motori elettrici), il comandante Milesi Ferretti fece assumere rotta
perpendicolare alla direzione di avvistamento; il profilo della prima nave
avvistata venne identificato come quello di un cacciatorpediniere quando la
distanza fu calata a 4000 metri, mentre la seconda nave, che seguiva la prima a 2000 metri,
rimase un’ombra indistinta, tanto che Milesi Ferretti pensò che potesse
trattarsi di un piroscafo (in quanto la distanza tra le due navi era superiore
a quella che normalmente tenevano tra loro due cacciatorpediniere in linea di
fila in navigazione notturna). La velocità della prima nave venne stimata in
circa 25 nodi; quando la distanza fu calata, anche la seconda nave venne
riconosciuta come un cacciatorpediniere.
Il Berillo, non visto dalle navi
britanniche (che invece Milesi Ferretti distingueva ormai benissimo anche ad
occhio nudo), serrò le distanze fino a 800 metri; il comandante ordinò di
preparare dapprima il tubo numero 1 e poi anche il 2 ed il 3, quindi attese che
il bersaglio assumesse un’angolazione favorevole al lancio ed ordinò di
preparare al lancio il tubo numero 2; infine, diede l’ordine di lanciare.
L’ennesima avaria colpì stavolta il sistema di lancio elettrico dei siluri,
impedendo il lancio, così i siluristi dovettero procedere al lancio manuale;
passarono i secondi, mentre a bordo del Berillo
tutti fremevano in attesa dello scoppio, ma non si udì nessuna esplosione che
confermasse il buon esito del lancio. Sulla coperta del cacciatorpediniere di
testa si generò un certo movimento, e la nave iniziò a trasmettere un segnale
alla sezionaria, mediante il fanale azzurro di poppa.
Milesi Ferretti diede
allora ordine di lanciare altri due siluri – la distanza era frattanto calata a
600 metri –, ma nemmeno questi andarono a segno; ordinò allora tutta la barra a
sinistra, per presentare la poppa al secondo cacciatorpediniere, e lanciargli
due siluri con i tubi poppieri (dato che a prua era rimasto un solo siluro).
Uno dei siluri già lanciati, però, percorse in superficie (anziché alla quota
regolata) i primi cento metri, sollevano una vistosa scia, che ne permise
l’avvistamento. (Per altra fonte Havock
ed Hasty avvistarono il primo siluro
ed evitarono gli altri due; per altra ancora, il secondo ed il terzo siluro
passarono sotto lo scafo di uno dei cacciatorpediniere, senza esplodere).
A questo punto, le
navi britanniche illuminarono simultaneamente il Berillo con quattro proiettori, ed al contempo spararono una salva
d’artiglieria, che non colpì il sommergibile, ma lo inquadrò alla perfezione.
Prima che il battello potesse lanciare sul secondo cacciatorpediniere, il primo
accostò fortemente a sinistra (evitando il siluro di pochi metri), accelerò
fortemente e mise la prua sul Berillo,
con l’evidente intenzione di speronarlo; a Milesi Ferretti non rimase che
ordinare l’immersione rapida.
In trentadue secondi,
il Berillo s’immerse a 90 metri di
profondità, mentre i cacciatorpediniere iniziavano il lancio delle bombe di
profondità. Una dopo l’altra, ne esplosero cinque, sopra la coperta del
sommergibile; l’equipaggio rimase calmo, il comandante seguitò impassibile a
dare ordini. I manometri vennero messi fuori uso, così come bussola e telefoni.
Seguirono altre cinque bombe di profondità, sempre a quota di poco superiore a
quella a cui si trovava il sommergibile; questa volta tutto lo scafo venne
scosso violentemente e venne a mancare la luce, costringendo all’uso delle
lampade d’emergenza. Intanto, il battello stava sprofondando rapidamente; le
continue esplosioni delle bombe di profondità rendevano molto difficile
mantenerne il controllo, continuando a farlo appruare od appoppare, facendo
scricchiolare e deformare lo scafo.
Milesi Ferretti
ordinò di fermare le macchine e mettere tutti i timoni in alto, ma il timoniere
rispose che i timoni non funzionavano; allora il comandante trasmise a prua ed
a poppa, mediante interfonico, telefono e trasmettitore di ordini, di fermare
le macchine e mettere tutti i timoni in alto con manovra manuale, ma tutti i
sistemi di trasmissione erano fuori uso. A questo punto, ordinò di aprire le
porte stagne e passare l’ordine a voce; poi dispose «Un filo d'aria a prora, un
filo d'aria al centro». Il Berillo
continuò a sprofondare, anche se più lentamente: superata la quota di collaudo
di 80 metri, raggiunse presto i 110, mentre il comandante dava ordini per
arrestare questa caduta con opportuno dosaggio dell’aria; il sommergibile
arrivò fino a 135 metri di profondità, prima di fermarsi ed iniziare lentamente
a risalire. Arrivò a 40 metri di profondità, poi di nuovo ricominciò a
precipitare verso l’abisso: 130 metri. Poi, di nuovo, la risalita.
Il comandante Milesi
Ferretti diede ordine di sfogare i doppi fondi verso l’interno; ciò ebbe però
l’effetto di far salire la pressione nei locali a 3,5 kg/cm2, con
notevole sensazione di “schiacciamento” sugli uomini, specie sui timpani.
Da poppa venne
riferito che si sentivano delle specie di “guizzi” sullo scafo: i
cacciatorpediniere stavano usando i periteri per localizzare il Berillo. Dato che fermare i motori non
serviva a niente contro un nemico dotato di peritero (sarebbe stato invece
utile nel caso in cui avessero avuto solo degli idrofoni, che potevano solo
rilevare i rumori), Milesi Ferretti ordinò di mettere il motore di dritta
avanti a mezza forza, per muoversi e rendere più difficile la “mira” dei lanci
di bombe di profondità.
Il Berillo si era fortemente appruato
(almeno 18°); il motorista Civetta, con altri uomini, si recò nella camera di
lancio poppiera per tentare di ripristinare l’assetto.
L’idrofonista informò
Milesi Ferretti che una delle navi britanniche si stava avvicinando (si sentiva
il rumore delle sue eliche); poi il rumore delle eliche divenne così forte da
potersi sentire ad orecchio. Il Berillo
stava nuovamente scendendo; era a 70 metri quando il cacciatorpediniere passò
sulla sua verticale, poi – otto minuti dopo la prima scarica di bombe – seguì
una nuova serie di violentissime esplosioni, con cadenza regolare.
Questa volta i danni
furono ingenti: caddero lampade, si staccarono strumenti fissati alle paratie,
motori vennero divelti dai basamenti, a poppa scoppiò un incendio. La
detonazione di una bomba investì in pieno l’asse motore di sinistra, rendendo
inutilizzabile quel motore (ciò secondo Civetta; secondo Barcaro il motore di
sinistra si fermò perché saltarono i massimi, mentre ad essere deformato fu
l’asse dell’elica di dritta, e l’attrito causato dal pressatrecce fu
all’origine dell’incendio) e provocando una prima via d’acqua nello scafo; fu
necessario fermare anche il motore di dritta e domare le fiamme con gli
estintori, dopo che Barcaro aveva infruttuosamente tentato di raffreddare
l’attrito gettandovi sopra dell’acqua. L’acqua entrata si accumulò in camera di
manovra, poi prese a scorrere da prora a poppa e viceversa, ogni volta che il
battello si appruava o si appoppava.
Nonostante i
tentativi del comandante di ripristinare l’assetto, il Berillo continuava in uno snervante saliscendi; ogni otto minuti un
cacciatorpediniere ripassava e lanciava un’altra scarica di bombe di profondità,
ogni volta più violenta e più vicina.
Spento l’incendio,
Milesi Ferretti ordinò di mettere in moto un’elica, ma il motore non partì,
essendo «andato a massa». Ancora saliscendi: per due volte il Berillo fu ad un passo dall’affiorare in
superficie, nonostante i tentativi di fermarlo, ma ogni volta ritornò a
scendere. Anche le cassette degli accumulatori si erano rotte.
Intanto il
sommergibile era sceso a più di 120 metri di profondità, oltre quaranta metri
in più rispetto alla quota di collaudo, e continuava a sprofondare, a causa
dell’acqua imbarcata: 130 metri, e ancora più giù.
Milesi Ferretti
riuscì finalmente a ridurre l’ampiezza dei “saliscendi”, mantenendosi tra 50 e
90-100 metri, ma ogni otto minuti il cacciatorpediniere si ripresentava con la
sua pioggia di cariche di profondità. Vennero accese due o tre lampade
portatili ad accumulatore; tutte le apparecchiature erano ormai a pezzi, tranne
l’idrofono.
Verso le 5.30, subito
dopo un’altra scarica di bombe, il Berillo
si fermò finalmente a 90 metri, ma subito dopo arrivò la ventesima scarica di
bombe di profondità: stavolta esplosero ancora più vicine, tanto da deformare
vistosamente lo scafo, e la discesa del sommergibile riprese più veloce di
prima, molto più veloce. Milesi Ferretti ordinò “Aria per tutto” al direttore
di macchina Bassi, ma la pressione dell’aria era minore di quella dell’acqua:
non restava più nulla da fare per arrestare la caduta verso l’abisso.
Gli uomini erano
sdraiati nelle loro cuccette, ormai disperando di poterne uscire vivi, qualcuno
già rassegnato; il motorista Civetta guardò negli occhi il collega Loris
Petrolini, sdraiato accanto a lui, e gli strinse le mani; sentì un altro
giovane marinaio pregare ed invocare sottovoce la madre. Ricacciò le lacrime. Il
fuochista Barcato strinse al petto le foto dei cari. Un guardiamarina, Maggio,
chiese al comandante in seconda, sottotenente di vascello Vittorio Nordio: “Non
c’è proprio speranza?”, e questi rispose semplicemente “No”.
Nonostante i timoni a
salire, il Berillo era sprofondato forse
alla quota di 170 metri, forse addirittura 200 (i manometri a giro completo
erano arrivati al massimo della loro scala, 150 metri, ma il sommergibile aveva
continuato a scendere); quasi tutta l’aria era stata consumata nelle manovre
precedenti. Il sommergibile era sbandato su un fianco per l’acqua imbarcata,
molte apparecchiature erano divelte. Milesi Ferretti chiese quanta aria fosse
rimasta e, quando gli fu risposto che ce n’erano solo 40 kg, ordinò di aprirla
comunque ed aspettare.
Quando tutto sembrava
perduto, il Berillo arrestò la sua
interminabile discesa verso l’abisso e poi, quasi impercettibilmente, iniziò
lentamente a risalire; prima lentamente, poi via via più velocemente. Non si
sentivano più le navi britanniche, tanto da destare l’illusione che se ne
fossero andate. In ogni caso, Milesi Ferretti si preparò ad un combattimento in
superficie: diede ordine di preparare in torretta le casse contenenti
l’archivio segreto, pronte ad essere gettate in mare, ed ai serventi del
cannone di prepararsi a salire in coperta appena fossero emersi; sarebbe stato
Nordio a dirigere il tiro, dalla torretta, mirando al cacciatorpediniere più
vicino. Il resto dell’equipaggio avrebbe atteso sottocoperta, in prossimità dei
portelli, ed avrebbe abbandonato il battello solo al suo ordine. Milesi
Ferretti decise di restare sottocoperta, per provvedere all’autoaffondamento
qualora vi fosse stato pericolo di cattura; disse a Nordio di aprire subito il
fuoco e che lui, se non avesse sentito sparare né ricevuto comunicazioni di
Nordio entro tre minuti dall’emersione, avrebbe avviato l’autoaffondamento. A
quel punto, Nordio avrebbe dovuto ordinare l’abbandono nave, non appena avesse
sentito a prua gli sfoghi d’aria.
La risalita fu lenta
fino a circa 40 metri, poi accelerò di colpo; gli ultimi 40 metri furono
risaliti “a pallone”.
Alla fine – alle 5.30
del 2 ottobre, due ore dopo l’inizio del bombardamento con cariche di
profondità – il sommergibile riaffiorò in superficie, sbandato di 45° su un
fianco (tanto da far cadere tutti a terra); a causa del contatto delle batterie
con l’acqua di mare, si produsse del cloro, che bruciava i piedi e dava
fastidio alla respirazione.
Dalla camera di
comando, il sergente cannoniere puntatore scelto volontario Sebastiano Parodi
ed il secondo capo nocchiere volontario Alberto Maya salirono in torretta per
aprire il portello ed uscire, ma il volantino era andato distrutto nel
bombardamento, impedendo l’apertura. Milesi Ferretti ordinò di aprirlo con una
chiave, ed al contempo dispose l’apertura dei portelli di prua e di poppa; ma
anche qui i volantini erano spariti, i perni tranciati: l’equipaggio era
intrappolato dentro il sommergibile, ed intanto fuori si sentivano già i boati
delle prime cannonate sparate dai cacciatorpediniere britannici.
L’Havock e l’Hasty, infatti, non si erano affatto allontanati: quando videro il Berillo emergere e poi restare fermo in
superficie, non tardarono ad aprire il fuoco coi loro cannoni.
Sul Berillo i membri dell’equipaggio,
impazienti di uscire dopo il lungo bombardamento e soprattutto per via del
pericoloso cloro e della pressione insopportabile, si accalcavano intorno ai
portelli, generando una certa confusione. Il comandante Milesi Ferretti invitò
alla calma, mentre Maya e Parodi lavoravano all’apertura dei portelli. Deciso
ad impedire la cattura del suo sommergibile, Milesi Ferretti, calcolando che i
cacciatorpediniere avrebbero impiegato almeno una decina di minuti per
ammainare un’imbarcazione e mandarla verso il Berillo, fece scattare il cronometro e decise che avrebbe atteso
quattro minuti, poi, se ancora non si fosse riusciti ad aprire i portelli,
avrebbe aperto gli sfoghi d’aria ed autoaffondato il sommergibile, a costo di
condannare tutto l’equipaggio.
Due minuti erano
passati, quando un proiettile sparato dai cacciatorpediniere centrò la torretta
del sommergibile, passandola da parte a parte, ed investì in pieno proprio Maya
– che si era appena rivolto a chi era di sotto per chiedere che gli porgessero
un volantino – e Parodi, uccidendoli sul colpo: Parodi, ucciso da una grossa
scheggia allo stomaco, rimase appoggiato al controportello; Maya, senza più la
parte posteriore della testa, cadde ai piedi di Milesi Ferretti e di Barcaro,
suo intimo amico, che lo chiamò vanamente più volte prima di rassegnarsi alla
triste evidenza. Un altro marinaio rimase ferito leggermente. La cannonata,
fatale per Maya e Parodi, salvò invece la vita al resto dell’equipaggio: spalancò
infatti il portello, permettendo finalmente di uscire.
Subito Milesi
Ferretti ordinò di gettare a mare la cassetta con l’archivio segreto, ed ai
serventi del cannone di raggiungere il pezzo.
Passando attraverso
il foro della cannonata, gli uomini salirono in coperta, mentre i due
cacciatorpediniere si avvicinavano. Il cannone era incatastato, reso inutilizzabile
dalle esplosioni delle bombe, con l’otturatore bloccato ed il portello della
riservetta contorto: impossibile rispondere al fuoco. Agli uomini del Berillo non rimase che gettarsi in mare,
e mettersi a nuotare in direzione dei cacciatorpediniere.
Milesi Ferretti,
rimasto da solo sottocoperta (anche il controportello venne richiuso), aspettò
per due minuti, sentendo le cannonate dei cacciatorpediniere, ma nessun rumore
che indicasse che anche il cannone del Berillo
avesse aperto il fuoco. Attese ancora per altri due minuti, tenendosi sulla
bocca un fazzoletto per non essere soffocato dal gas di cloro che si era
diffuso ovunque, poi aprì gli sfoghi d’aria, per affondare il suo sommergibile.
Diede un’occhiata ai
manovri, per vedere se segnavano una perdita di quota, ma erano deformati e
bloccati sul valore di 40 metri, a causa dell’eccesso di pressione dell’ultima
caduta.
Dato che il Berillo non sembrava affondare, Milesi
Ferretti decise di salire in coperta per vedere cosa stesse succedendo; dopo
essere faticosamente riuscito ad aprire uno spiragli spingendo sul
controportello, uscì in plancia sotto la luce dei proiettori dei
cacciatorpediniere, distanti forse cinquecento metri. Il Berillo era appruato ed affondava lentamente; a bordo non c’era più
nessuno, ad un centinaio di metri si vedeva una macchia scura e si sentivano
voci, l’equipaggio.
Milesi Ferretti vide
l’acqua venirgli incontro, ed istintivamente aprì la cintura per togliersi i
pantaloni; poi, ricordando che aveva deciso di affondare col suo battello,
riallacciò la cintura e si appoggiò all’affusto di una mitragliera contraerea,
ritenendo che il gorgo dell’affondamento lo avrebbe risucchiato con sé. Dopo
aver guardato un’ultima volta il suo Berillo,
incrociò le braccia ed attese, mentre l’acqua saliva.
Poi – erano le sei
del mattino del 2 ottobre (altra fonte parla delle 5.15: orario incompatibile
con quanto sopra riportato, forse le 6.15) –, il sommergibile s’inabissò per
sempre nel punto 33°09’ N e 26°24’ E (o 33°10’ N e 26°24’ E), ad est di Sollum,
50 miglia a sud di Creta e 120 miglia a nord di Sidi el Barrani.
Civetta, il
motorista, si era allontanato di una ventina di metri quando vide il Berillo colare a picco, portando con sé
le salme di Maya e Parodi, unici caduti nell’azione. Il sommergibile sarebbe
stato il loro sepolcro.
Il comandante Milesi
Ferretti non riuscì nell’intento di affondare col sommergibile. Una bolla
d’aria, fuoriuscita dalla torretta, lo portò a galla, e si ritrovò in acqua,
poco distante da altri naufraghi; sentendoli chiamare “Comandante, comandante”,
rispose. Ormai non aveva più molto senso cercare la morte. I pesanti pantaloni
e le scarpe alte gli intralciavano i movimenti in acqua; tentò infruttuosamente
di slacciare le scarpe e di levarsi i pantaloni, che però rimasero
attorcigliati attorno alle ginocchia, poi venne raggiunto da due uomini, uno
dei quali gli offrì di appoggiarsi a lui; lo aiutarono a liberarsi di scarpe e
pantaloni, poi il primo dei due uomini disse che sarebbe andato a cercare
un’imbarcazione. Milesi Ferretti rispose “Lascia perdere, vai tu, non voglio
niente” e l’uomo si allontanò a nuoto; quanto a lui, non essendo un gran
nuotatore, ed avendo già esaurito le forze, si girò sulla schiena e nuotò
lentamente, il necessario a restare a galla. Dopo circa un’ora si ritrovò
sottobordo ad uno dei cacciatorpediniere, da dove gli venne lanciata una cima;
dopo che ebbe vanamente tentato di issarsi a bordo con le sue forze, gli fu
avvolta la cima intorno alla vita, e venne issato sul cacciatorpediniere.
Affondato il Berillo, l’Havock e l’Hasty misero a
mare delle lance, che provvidero al recupero dei 45 naufraghi (5 ufficiali e 40
sottufficiali e marinai; per altra fonte, probabilmente erronea, 47 tra cui 7
ufficiali). Sette membri dell’equipaggio (i marinai Antonio Casole, Ambrosino e
Barberi, il sergente segnalatore Appoggi, il sottocapo silurista Manes, il
secondo capo elettricista Diofebi ed il motorista navale Rosario Cavallero) erano
rimasti feriti (secondo un elenco compilato da un superstite, uno di essi, Diofebi,
morì per le ferite; non vi è però traccia di questo nome negli elenchi dei
caduti in guerra della Marina, né vi è menzione della morte di membri
dell’equipaggio del Berillo oltre a
Maya e Parodi).
Sbarcati ad
Alessandria la sera successiva, scortati da sentinelle armate, gli uomini del Berillo vennero condotti nel campo di
prigionia di Geneifa, in Egitto (dove già si trovavano i superstiti di altre
navi italiane affondate dai britannici: l’incrociatore Colleoni, il cacciatorpediniere Espero,
i sommergibili Rubino, Gondar, Console Generale Liuzzi e Uebi
Scebeli, oltre a militari dell’Esercito e dell’Aeronautica catturati in
Nordafrica), dove sarebbe iniziata la lunga prigionia che li avrebbe
successivamente portati a Ramgarh, nella lontana India, nel 1941, ed in seguito
a Yol, anch’esso in India.
Il comandante Milesi
Ferretti non si rassegnò all’idea della prigionia: tentò di fuggire già da
Geneifa, senza successo; poi ritentò a Yol, insieme ad altri due ufficiali (il
capitano armi navali Elios Toschi ed il tenente Luigi Faggioni, entrambi della
X Flottiglia MAS), stavolta con successo. I tre ufficiali, travestiti da
indiani (su di loro, le autorità britanniche avevano messo una taglia di 20.000
rupie), vissero per due mesi con i pastori locali, poi si divisero, e Milesi
Ferretti raggiunse Goa, nella colonia dell’India portoghese.
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al
motorista navale Giovanni Civetta:
“Imbarcato su
sommergibile durante impari combattimento contro due siluranti avversarie, si
prodigava nella riparazione di un motore termico in avaria, sotto la violenta
prolungata caccia nemica, desisteva dal suo lavoro solo quando per l’imminente
affondamento, ne riceveva esplicito ordine. Salito in coperta affrontava impavido
il ravvicinato tiro delle navi avversarie, dando prova, nelle difficili
circostanze,
della massima calma e del più sereno coraggio.
(Mediterraneo
Centrale, 2 ottobre 1940).”
Sopra, tre foto del motorista
Giovanni Civetta; sotto, la medaglia del Berillo
(per g.c. di Valerio Civetta, figlio di Giovanni Civetta).