Il varo del Torricelli (da www.wrecksite.eu) |
Sommergibile di
grande crociera della classe Brin. Torricelli
ed Archimede, impostati un anno più
tardi delle altre tre unità della classe (Brin,
Guglielmotti e Galvani), presentarono diverse differenze rispetto ad esse: maggior
dislocamento in superficie (1110,14 tonnellate in luogo di 1016,92) ed in
immersione (1402,53 tonnellate anziché 1265,77), maggiore lunghezza (76,22 metri
contro 72,50), e pescaggio (4,30 m anziché 4,20) ma minore larghezza (6,72
metri invece di 6,80); anche la velocità massima in superficie era
marginalmente superiore (17,47 nodi contri i 17,37 nodi delle prime tre unità).
L’autonomia in superficie era di 1520 miglia a 17 nodi e 6109 miglia a 8 nodi
in carico normale (per i primi tre era invece, rispettivamente, 1580 e 5662
miglia nelle stesse condizioni) e 2845 miglia a 17 nodi e 11.503 miglia a 8
nodi in sovraccarico (per i primi tre, 2861 e 9753 miglia); l’autonomia in
immersione era di 10 miglia a 8,6 nodi (anziché 9 miglia a 8,5 nodi) e di 120
miglia a 4 nodi (invece di 90 miglia a 4 nodi).
In origine, la classe
Brin doveva comprendere soltanto tre sommergibili (Brin, Guglielmotti e Galvani); Torricelli ed Archimede
vennero costruiti per sostituire due precedenti omonime unità, appartenenti
alla classe Archimede (costruite nel 1934) e cedute nell’aprile 1937 alla
Marina spagnola nazionalista. Per occultare tale cessione, che non si voleva
divenisse di dominio pubblico (dato che l’Italia non si avrebbe dovuto
intervenire nella guerra civile spagnola), i precedenti Torricelli ed Archimede
non vennero ufficialmente radiati dai quadri del naviglio militare, ed i due
nuovi sommergibili che ne presero il posto risultarono costruiti con «pezzi di
rispetto» delle unità della classe Brin; la loro costruzione fu coperta da particolare
segretezza.
Breve e parziale cronologia.
23 dicembre 1937
Impostazione presso i
cantieri Franco Tosi di Taranto.
26 marzo 1939
Varo presso i
cantieri Franco Tosi di Taranto.
7 maggio 1939
Entrata in servizio. Insieme
ai quattro gemelli, va a formare la XLI Squadriglia Sommergibili. Suo primo comandante è il capitano di corvetta Alessandro Michelagnoli.
Nei mesi che
precedono l’inizio della seconda guerra mondiale il Torricelli e le altre unità della classe svolgono attività
addestrativa particolarmente intensa e numerose esercitazioni, con l’obiettivo
di comprendere quali siano le condizioni ottimali per l’impiego dei
sommergibili della classe Brin.
Il Torricelli in una foto d’anteguerra (da “Sommergibili in guerra” di Erminio Bagnasco ed Achille Restelli, Albertelli editore, 1994, via Sergio Mariotti e www.betasom.it) |
12 aprile 1940
Assume il comando del Torricelli, al posto del capitano di corvetta Michelagnoli, il parigrado Salvatore Pelosi.
Aprile 1940
Il Torricelli (capitano di corvetta Salvatore Pelosi) viene trasferito in Mar
Rosso, assegnato alla base di Massaua, in Eritrea (Africa Orientale Italiana).
Il Torricelli ed il gemello Galvani sono mandanti in A.O.I. in
sostituzione di due sommergibili di piccola crociera, Iride ed Onice, che sono
stati fatti rientrare in Mediterraneo.
10 giugno 1940
Al momento
dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Torricelli (capitano di corvetta Salvatore Pelosi) fa parte,
insieme al gemello Archimede ed ai
sommergibili di piccola crociera Perla
e Macallè, della LXXXII Squadriglia
Sommergibili, inquadrata nel VIII Gruppo Sommergibili di base a Massaua.
Quattro (o cinque?) contro uno
I piani del Comando
Superiore Navale Africa Orientale Italiana per le operazioni dei primi giorni
di guerra non prevedevano l’impiego del Torricelli,
che era uno dei quattro sommergibili che sarebbero dovuti inizialmente rimanere
a Massaua in riserva (per criteri di economia bellica, era ritenuto poco
opportuno impiegare subito tutti i sommergibili contemporaneamente: il piano
iniziale prevedeva di mandarne in missione tre, poi portati a quattro, su otto;
poi, però, sia per la decisione di assumere una condotta più offensiva che per
rimpiazzare le unità perdute o rientrate per avaria, di fatto finirono col
prendere il mare tutti e otto i battelli entro i primi undici giorni). Il 14
giugno 1940, tuttavia, il sommergibile Galileo
Ferraris dovette rientrare alla base prematuramente a causa di un’avaria
alle batterie, interrompendo la sua missione nel settore d’operazioni al largo
di Gibuti (colonia francese, ancora nemica in quei primi giorni di guerra): quello
stesso giorno, pertanto, il Torricelli,
al comando del capitano di corvetta Salvatore Pelosi, salpò da Massaua per
sostituire il Ferraris nell’agguato
al largo di Gibuti.
Il Torricelli dovette sostare ad Assab il
16 e 17 giugno per provvedere alla riparazione di alcune avarie (relative al
raffreddamento dei motori diesel) verificatesi durante la navigazione; risolti
questi problemi, proseguì verso la zona di agguato (a sudest di Ras el Bir), ma
lo stesso 17 giugno ebbe una nuova avaria mentre si trovava a sud di Perim:
questa volta si guastò una delle pompe dell’impianto di condizionamento
dell’aria. Il battello si posò sul fondale, profondo in quel punto 52 metri,
per effettuare le riparazioni, in condizioni infernali: il caldo e l’umidità
erano tali che all’interno del sommergibile si era formata una fitta “nebbia”,
tanto che all’interno dei compartimenti la visibilità non superava il metro e
mezzo. Di quando in quando veniva immesso dell’ossigeno nell’aria all’interno
del sommergibile; vennero fermate le cucine, per impedire che aggravassero
ulteriormente il caldo e l’umidità.
Risolto anche questo
problema, il Torricelli riprese la
navigazione e giunse finalmente nel settore di agguato (Golfo di Tagiura, nelle
acque di Gibuti) all’alba del 19 giugno, dopo aver attraversato senza
inconvenienti lo stretto di Bab el Mandeb, così entrando in Oceano Indiano.
Per il resto della
giornata, il sommergibile si tenne in agguato nel settore assegnato, in
condizioni molto precarie: mare turbolento (una fonte parla di una violenta
tempesta tropicale), con conseguenti difficoltà nautiche, ed al contempo
temperature infernali, che negli angusti locali del Torricelli toccavano i 45 gradi aggravati da un’umidità prossima al
100 %. La sera stessa del 19 giugno arrivò da Massaua l’ordine di trasferirsi
la sera del 21 in un nuovo settore, situato più a sud/sudest (verso la Somalia
britannica), i cui confini erano segnati a nord dal parallelo dell’isola di
Muscia/Moussa (a nordest di Gibuti) e ad est dal meridiano di Arab Shoal, per
restarvi fino al 24 luglio. In sostanza il nuovo settore aveva forma
triangolare, con lato di 12 miglia; la costa della Somalia, costellata di
scogli e bassifondali, ne rappresentava la base, mentre l’Arab Shoal, altro
bassofondo che si estendeva per qualche miglio con fondali minimi sui quattro
metri, ne costituiva il vertice. In caso di necessità, il battello si sarebbe
dovuto spostare verso sudest.
Avendo il dubbio che
potesse esserci stato qualche errore nella compilazione del messaggio ricevuto,
dato che il nuovo settore era molto pericoloso per la navigazione a causa dei
bassifondali della zona di Arab Shoal, il comandante Pelosi chiese ed ottenne
la conferma, dopo di che il 21 giugno il Torricelli
si trasferì nella nuova zona di agguato.
Lo stesso 21 giugno,
il Torricelli avvistò il
cacciatorpediniere britannico Kingston,
e manovrò per attaccarlo; prima di poter portare a termine l’attacco, però,
alle 11.09, il sommergibile venne a sua volta attaccato dal Khartoum, gemello e sezionario del Kingston, in posizione 11°52’ N e 43°14’
E (per una fonte, avrebbe partecipato a quest’azione anche lo sloop Shoreham).
(A posteriori si
ipotizzò che lo scambio di messaggi radio tra Torricelli e Massaua in merito ai nuovi ordini, avvenuto il 19
giugno, fosse stato intercettato, ed i messaggi forse decifrati con l’ausilio
di cifrari catturati pochi giorni prima sul sommergibile Galileo Galilei, e che questo avesse messo in allarme il Comando
britannico di Aden, inducendolo a mandare i cacciatorpediniere. Ciò in effetti
sembra rispondere al vero; secondo una fonte i britannici radiogoniometrarono
le trasmissioni del Torricelli,
inviando sul posto i cacciatorpediniere.)
Il Khartoum avvistò il Torricelli a proravia sinistra, ad una distanza di appena 18 metri,
e passò all’attacco; ne seguì una breve ma pesante caccia antisommergibili da
parte dei cacciatorpediniere britannici che, ritenne Pelosi, oltre a lanciare
bombe di profondità utilizzavano probabilmente anche torpedini da rimorchio. La
temperatura interna del sommergibile, costretto a restare immerso ed immobile
per ridurre la probabilità di essere individuato, era compresa tra i 45 e i 50
gradi. Passando nel locale motori, Pelosi vide uno dei macchinisti, il più giovane membro dell’equipaggio (aveva solo 18 anni: era il marinaio motorista Antonio Ferri, ischitano), che
sorrideva, e gli chiese: “Ma sei matto?”, e questi rispose: “No, comandante,
trovo semplicemente ironico che oggi sia il mio compleanno ed il nemico ci stia
bombardando”. (Ferri, che fu decorato con la Croce di Guerra al Valor Militare, sopravvisse all'affondamento del Torricelli ed a sette anni di prigionia in India; continuò a prestare servizio in Marina nel dopoguerra, imbarcando su un cacciamine e raggiungendo il grado di capo motorista. Il Torricelli sarebbe rimasto impresso nella sua mente fino alla morte, avvenuta negli anni '90 in seguito ad un incidente automobilistico, proprio come per il suo ex comandante).
Le unità britanniche
dovettero interrompere la caccia dopo i primi due attacchi con bombe di
profondità, a causa di una violenta tempesta di sabbia, che si scatenò durante
la caccia e si protrasse per tutto il giorno, azzerando la visibilità e
costringendo i cacciatorpediniere ad andarsene (Pelosi pensò invece che se ne
fossero andati per evitare il rischio di essere attaccati con i siluri durante
la notte).
Il comandante
britannico, capitano di fregata Robson del cacciatorpediniere Kandahar (che faceva parte della stessa
squadriglia di Kingston e Khartoum, coi quali si trovava in mare),
non era però intenzionato a lasciarsi sfuggire la preda: con le sue navi, si
dispose in pattugliamento dello stretto di Perim, vicino alla costa dello Yemen.
Gli scoppi delle
cariche di profondità, mirate ad occhio contro un bersaglio che risultava
visibile senza bisogno di strumentazioni specifiche, arrecarono seri danni agli
impianti del sommergibile: vennero messi fuori uso i timoni di profondità, i sistemi
di comunicazione interna, il girocompasso ed il compasso magnetico; i serbatoi
esterni erano stati danneggiati e perdevano carburante, mentre all’interno
stava filtrando acqua dai premistoppa dell’asse dell’elica.
Nel complesso, i
danni erano tali da mettere il Torricelli
nell’impossibilità di trattenersi ulteriormente nella zona d’agguato; il
comandante Pelosi dovette prendere la decisione di tornare a Massaua per le
necessarie riparazioni. Le difficoltà nautiche non mancarono neanche nel
viaggio di ritorno, ma nelle prime ore del mattino del 23 giugno il Torricelli riattraversò lo stretto di
Bab el Mandeb, rientrando nel Mar Rosso.
I problemi iniziarono
alle 4.30 di quello stesso 23 giugno, quando il Torricelli avvistò una silurante nemica poco lontana, al largo di
Dimeila e dell’isola di Perim. Non si trattava, in realtà, di una silurante, ma
dello sloop britannico Shoreham, che
aveva avvistato il sommergibile alle 4.18, da circa 2300 metri di distanza, ed
aveva manovrato per avvicinarsi e speronarlo, non sembrando che il sommergibile
l’avesse vista (per altra versione, il sommergibile venne avvistato a circa 3
miglia di distanza dal Kingston, che
gli diresse incontro, ma a questo punto il Torricelli
s’immerse; poi intervenne la Shoreham).
Sul Torricelli venne ordinata
l’immersione rapida; alle 4.20 il Kingston,
che si trovava nei pressi, illuminò il bersaglio, e mentre il battello italiano
s’immergeva lo Shoreham lanciò una
singola bomba di profondità, che non causò danni seri. Concluso il proprio attacco
dopo un tempo piuttosto breve, la nave avversaria sembrò allontanarsi verso
Perim (così risultava dall’ascolto dell’idrofono), ed il comandante Pelosi
decise di emergere per allontanarsi in superficie alla massima velocità
possibile, verso nordovest, allo scopo di portarsi il prima possibile sotto la
protezione delle batterie costiere di Assab.
Questa decisione era
basata sulle seguenti considerazioni: la corrente contraria avrebbe impedito di
allontanarsi da quella zona prima dell’alba navigando in immersione, data l’ora
già avanzata; era impossibile posarsi sul fondale, perché non vi erano fondali
adeguati nelle immediate vicinanze (raggiungere tali fondali avrebbe richiesto
una navigazione piuttosto lunga, e per contrastare la forte corrente sarebbe
stato necessario procedere a forte andatura, così rischiando di farsi sentire
dal nemico); nelle ore diurne le perdite di nafta avrebbero rivelato la
posizione del sommergibile; e cercare di posarsi sul fondale o di allontanarsi
in immersione avrebbe richiesto in ogni caso un’immersione troppo prolungata
per le debilitate condizioni fisiche dell’equipaggio, stremato dalle
conseguenze dell’avaria dell’impianto di condizionamento dell’aria. Sulla base
dell’entità dell’attacco subito, e delle informazioni ricevute a Massaua prima
di partire per la missione, il comandante Pelosi giudicò inoltre che la nave
che aveva attaccato il Torricelli
dovesse essere quasi sicuramente una cannoniera avente una velocità di 13 nodi,
cinque di meno rispetto alla velocità massima del sommergibile italiano, che
sarebbe dunque riuscito a seminarla in superficie.
Prima di emergere,
comunque, Pelosi scrutò attentamente l’orizzonte con il periscopio; nella luce
lunare (c’era la luna piena) e nei primi bagliori dell’alba il comandante del Torricelli avvistò di poppa una
cannoniera, molto lontana, che puntava su Perim con rotta opposta alla sua (era
la Shoreham). Viste così confermate
le sue supposizioni, il comandante Pelosi diede ordine di emersione; il
sommergibile venne dunque in superficie, mise i motori a tutta forza
(raggiungendo una velocità di 17,5 nodi) e si preparò ad affrontare con ogni
mezzo un combattimento in superficie, qualora se ne fosse presentata la
necessità.
E la necessità non
tardò a presentarsi, perché circa cinque minuti dopo l’emersione la cannoniera
scorta al periscopio invertì la rotta e si diresse verso il Torricelli; poco dopo un’altra
cannoniera si materializzò nella direzione dell’arcipelago dei "Sette
Fratelli", anch’essa in avvicinamento, e trascorsero solo pochi minuti
prima che ben tre cacciatorpediniere apparissero dal Piccolo Stretto di Bab el
Mandeb, in avvicinamento a tutta forza. Era fin troppo evidente che il Torricelli era caduto in una trappola
accuratamente predisposta.
Erano le 5.30 circa
del 23 giugno 1940, il sommergibile si trovava in quel momento a nord di Perim
e dello stretto di Bab el Mandeb.
Secondo fonti
britanniche, le unità coinvolte nell’azione erano i cacciatorpediniere Kandahar (capitano di fregata William
Geoffrey Arthur Robson), Kingston
(capitano di fregata Philip Somerville) e Khartoum
(capitano di fregata Donald Thorn Dowler), e lo sloop Shoreham (capitano di corvetta Francis Duppa Miller), tutti
britannici. Il comandante Pelosi nel suo rapporto menziona però anche una seconda
cannoniera, per un totale di cinque navi coinvolte nell’azione; fonti italiane,
compreso il volume dell’USMM sulle operazioni navali in Africa Orientale,
attribuiscono a questa seconda cannoniera il nome di “Indo”, ma in realtà non esisteva una nave del Commonwealth con
questo nome. Vi era però effettivamente ad Aden, in quel periodo, la cannoniera
(sloop) Indus della Marina indiana,
che potrebe ben essere l’“Indo” di
cui si parla; ma nessuna fonte britannica ufficiale ne menziona una
partecipazione al combattimento in cui fu affondato il Torricelli.
Un interessante e
dettagliato articolo a firma del capitano di vascello R. F. Channon della Royal
Navy, pubblicato sulla “Naval Review” dell’ottobre 1994, sembra forse fare un
po’ di luce della questione. Nel suo articolo, infatti, Channon afferma che
dopo il primo attacco contro il Torricelli
svoltosi il 21 giugno ed interrotto dalla tempesta di sabbia, il capitano di
fregata Robson, comandante del Kandahar
e del gruppo di cacciatorpediniere impiegati in quella missione, decise di
organizzare un pattugliamento nello stretto di Perim, per intervenire qualora
da Massaua fossero stati inviati dei cacciatorpediniere in aiuto del Torricelli. A questo scopo, nelle prime
ore del 23 giugno era stata disposta lungo lo stretto una linea di
pattugliamento per effettuare un rastrello in direzione sudest, formata proprio
da cinque navi scaglionate lungo lo stretto di Perim: da sudovest a nordest, si
trovavano Shoreham, Khartoum, Kingston, Kandahar e Flamingo. Il Flamingo (capitano di fregata John Herbert Huntley) era anch’esso
uno sloop, non molto diverso da Shoreham
e Indus: sembra probabile che fosse
questa, e non l’Indus, la seconda
“cannoniera” e quinta nave avvistata dal comandante Pelosi, anche se non è
chiaro se e quanto abbia preso parte al successivo combattimento. A parte
Channon, le fonti britanniche non fanno quasi mai menzione della presenza di
questa quinta unità.
Per il Torricelli, la situazione si presentava
come priva di vie d’uscita: le cinque navi nemiche coprivano tutto l’orizzonte,
ed al loro armamento, che complessivamente contava 22 cannoni da 100 o 120 mm
ed una cinquantina di mitragliere da 12,7 e 40 mm, il Torricelli poteva opporre soltanto un cannone da 100 mm e quattro
mitragliere da 13,2 mm. Nondimeno, il comandante Pelosi decise di dare
battaglia in superficie. (Varie fonti riferiscono che il Torricelli era impossibilitato ad immergersi, ma le motivazioni
addotte sono molto diverse a seconda della fonte: generica avaria, o i gravi danni
causati dai precedenti attacchi con bombe di profondità, od un malfunzionamento
delle casse di zavorra; altri ancora – con ogni probabilità, erroneamente –
parlano invece di esalazioni tossiche di cloruro di metile o di danni causati
da attacchi aerei, dei quali tuttavia nella storia ufficiale dell’USMM non vi è
traccia. "Navi militari perdute" dell’USMM dice semplicemente che
«Date le avarie [subite nella precedente caccia] non era possibile un
disimpegno in immersione». "Struggle for the Middle Sea" di Vincent O’Hara
fornisce forse la spiegazione più convincente: i seri danni subiti nei
precedenti attacchi, ed insieme ad essi le chiare acque della zona, nelle quali
anche un sommergibile immerso risultava agevolmente visibile – situazione
aggravata dalle vistose perdite di carburante dai serbato danneggiati –
rendevano il Torricelli una preda
troppo facile per quattro o cinque navi antisommergibili, che non gli avrebbero
lasciato scampo).
Alle 5.30 il Torricelli aprì il fuoco col cannone di
coperta, per primo, da circa 5000 (per altra fonte 6000) metri di distanza, ingaggiando
la Shoreham. Le navi britanniche non
tardarono a rispondere: si scatenò così un impari combattimento che si sarebbe protratto
per oltre quaranta minuti.
Il secondo colpo
sparato dal Torricelli andò a segno,
colpendo a prua la Shoreham, che
abbandonò lo scontro e si allontanò accompagnata dalla seconda cannoniera,
rientrando ad Aden nel pomeriggio per le riparazioni. Questo secondo la stima
del comandante Pelosi e la storia redatta a suo tempo dall’USMM, ripresa anche
da alcune fonti britanniche; fonti ufficiali britanniche, però, affermano
invece che due colpi del Torricelli
caddero subito a proravia della Shoreham,
mancandola di poco, ma senza colpirla. Il Kingston,
che guidava i cacciatorpediniere, aprì il fuoco alle 5.36 con i cannoni
prodieri, imitato da Kandahar e Khartoum non appena questi giunsero a
loro volta a tiro.
Mentre le salve delle
navi britanniche cadevano in acqua tutt’intorno, il Torricelli manovrò con accortezza in modo da ostacolare la mira
alle navi nemiche, che infatti faticarono ad aggiustare il tiro, ed intanto
continuò imperterrito a sparare a ritmo serrato col suo unico cannone.
Inceppatosi più volte, il cannone venne ogni volta rimesso in efficienza per
continuare a combattere.
Dopo la prima fase
dello scontro, le due cannoniere iniziarono a scadere, ed una di esse accostò
in fuori ed iniziò ad allontanarsi. I cacciatorpediniere, invece, continuarono
ad avvicinarsi con cautela, cercando di allargare il "beta" in modo da
circondare il Torricelli; quando essi
furono giunti entro il cerchio di lancio, il sommergibile lanciò, in tempi
successivi, i quattro siluri di poppa. La calma del mare rendeva però le scie
particolarmente visibili, e tutti i siluri vennero così evitati con rapide
accostate (per una fonte, tutti e quattro i siluri vennero lanciati contro il Kingston, che li evitò con la manovra);
queste ebbero, però, l’effetto benefico di disturbare ulteriormente il tiro
britannico, ed indurre le navi britanniche ad avvicinarsi con maggior cautela,
prolungando lo scontro e rimandando la pur inevitabile fine del Torricelli.
Dalle casse esterne
del Torricelli fuoriusciva ormai
abbondante la nafta, che formava un’ampia scia nella quale il battello si
muoveva; il meccanismo che permetteva al cannone di sparare s’inceppò per tre
volte, e per continuare a fare fuoco fu necessario prenderlo a martellate. Colonne
d’acqua sollevate dalle cannonate si levavano tutt’intorno.
Quando furono giunti
a distanza ravvicinata, i cacciatorpediniere aprirono il fuoco anche con le
mitragliere di calibro maggiore, spazzando scafo e falsatorre del Torricelli; quest’ultimo, da parte sua,
aprì a sua volte il fuoco con le mitragliere non appena la distanza lo
consentì, “con evidenti risultati sulle plance dei cacciatorpediniere nemici”
(secondo la relazione redatta dalla C.I.S. sulla perdita del sommergibile; ma
da parte britannica non risulterebbero vittime tra gli equipaggi delle navi
coinvolte). Una versione sostiene che le mitragliere del Torricelli avrebbero colpito il Kingston,
ma ciò è negato dalle fonti britanniche, le quali sostengono che l’unico danno
subito dal Kingston nello scontro fu
autoinflitto, causato da un proiettilie di mitragliera da 40 mm che colpì un
cavo, ferendo otto uomini. Secondo "Struggle for the Middle Sea" di
Vincent O’Hara, dopo questo evento i cacciatorpediniere britannici, che prima stavano
cercando di falcidiare l’equipaggio del Torricelli
ma senza affondare il battello, per permettere un abbordaggio e la cattura, cambiarono
modalità di attacco ed iniziarono a tirare con l’obiettivo di affondare il
somergibile. Il Khartoum riferì che
alcune delle cannonate sparate dal Torricelli
contro il Kingston caddero
“spiacevolmente vicine” a quest’ultimo, ma senza colpirlo.
Alle 6.05 un
proiettile da 120 mm colpì il Torricelli
nella cassa assetto prodiera e, scoppiando, fece entrare acqua nella camera di
lancio, anche se senza sfondare la paratia. Al contempo, il tiro delle
mitragliere britanniche danneggiò gravemente i timoni prodieri ("parzialmente
asportati" secondo la C.I.S.) ed una scheggia ferì al malleolo il
comandante Pelosi. (I britannici ebbero l’impressione di aver messo a segno una
cannonata sulla torretta del sommergibile).
Alle 6.08 il timone
verticale andò in avaria (una fonte secondaria attribuisce invece questa avaria
ad un colpo britannico, ma si tratta probabilmente di un errore), facendo
violentemente accostare il Torricelli
sulla sinistra; le navi britanniche, ormai distanti appena 200 metri (400
secondo la relazione inviata in Italia nel 1940 dal comandante Pelosi),
tentarono l’abbordaggio, continuando intanto a sparare con tutte le armi, ma la
maggior parte dei proiettili continuava ad esplodere intorno al sommergibile
(«lasciando miracolosamente illeso il personale», secondo la relazione del
comandante Pelosi; ciò però appare strano, dal momento che tra l’equipaggio del
Torricelli vi furono sei vittime che,
verosimilmente, morirono per il tiro britannico durante il combattimento). Alle
6.10 l’unità italiana, ormai ingovernabile, era accerchiata dalle navi nemiche,
che riversavano su di essa una valanga di colpi da ridottissima distanza; a
questo punto il comandante Pelosi, ritenendo impossibile arrecare ulteriore
danno al nemico, e giudicando che il Torricelli
sarebbe stato distrutto entro pochi minuti, diede ordine di autoaffondare il
sommergibile e mettere in salvo l’equipaggio.
Non appena il
comandante in seconda ebbe confermato l’esecuzione dell’ordine di affondamento,
Pelosi diede ordine di abbandonare la nave; lui voleva restare a bordo, per
seguire la sorte del suo battello. L’equipaggio si rifiutò di scendere in mare
senza il suo comandante, e Pelosi ribadì l’ordine, aggiungendo che non c’era
tempo da perdere; alla fine furono i suoi stessi uomini a trascinarlo in mare,
mentre il Torricelli s’inabissava nel
punto 12°34’ N e 43°16’ E (o 12°35’ N e 43°15’ E), ad ovest dell’isola di Perim.
Il sommergibile affondò lentamente, con la bandiera a riva, salutato a voce
dall’equipaggio; scomparve alla vista alle 6.24.
Alcuni uomini
aiutarono il comandante Pelosi, che faticava a muoversi e non poteva nuotare a
causa della ferita subita poco prima (e che poi svenne momentaneamente a causa
di tale ferita), a restare a galla.
Il gruppo di
naufraghi tra cui era il comandante Pelosi venne soccorso dopo una decina di
minuti dal Kandahar; Pelosi venne
ricevuto con gli onori militari dal comandante Robson. Questi aveva notato
Pelosi già in acqua, dove egli aveva raccolto attorno a sé gli altri naufraghi
e pronunciato loro un breve discorso, dopo di che aveva lanciato via il suo
berretto; avendo assistito a questo gesto, Robson disse al suo sergente
segnalatore di segnarsi quell’uomo, e di portarglielo in plancia non appena lo
avessero issato a bordo. Mentre Pelosi saliva la scaletta, Robson si rese conto
di non essere vestito in modo appropriato per riceverlo: data l’ora del
mattino, indossava ancora il suo pigiama verde. Si calcò allora in testa il suo
berretto da comandante, ed accolse Pelosi congratulandosi per il suo valoroso
combattimento contro forze tanto superiori, ed esprimendogli il suo dispiacere
per la perdita della sua unità (“Sono dolente che abbiate perduto la vostra
nave, ma questa è la guerra. Permettetemi di esprimere la nostra più alta
ammirazione per tanto valoroso comportamento”); poi gli chiese se desiderasse
da bere. L’italiano rispose di no, e l’inglese provò allora a chiedere: “Magari
vorreste un bagno ed un po’ di colazione?” al che Pelosi replicò rabbiosamente:
“Affondate il mio sommergibile nuovo di zecca e mi offrite un bagno! Bah!”.
Robson spiegò, “Ma vi stavo offrendo un sorso di cognac”, e questa volta Pelosi
acconsentì; “Cognac, sì”. I due comandanti avversari bevvero allora del cognac
insieme.
Intanto, il Kingston recuperò un secondo gruppo di sopravvissuti,
tra cui il comandante in seconda. Il Khartoum
recuperò dal mare 16 sopravvissuti del Torricelli;
14 di essi vennero trasferiti sul Kingston
dopo una decina di minuti, mentre dei rimanenti due uno morì poco dopo il
salvataggio nonostante un tentativo di respirazione artificiale (venne sepolto
in mare poco più tardi), e l’altro venne trattenuto a bordo del Khartoum perché presentava sintomi di
parziale annegamento, ed il medico di bordo aveva deciso di trattenerlo a bordo
per poterlo tenere sotto osservazione.
Kandahar e Kingston, a corto di
carburante, diressero insieme verso Aden, dove sbarcarono i prigionieri, mentre
il Khartoum rimase a pattugliare lo
stretto di Perim. Durante la navigazione verso Aden, tre caduti del Torricelli vennero sepolti in mare da Kandahar e Kingston con gli onori militari.
Per il suo valoroso
combattimento contro forze soverchianti, il comandante Pelosi sarebbe stato
decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Secondo il marinaio
Edmund Carroll del Kandahar, alle
vittime causate tra l’equipaggio del Torricelli
dal combattimento se ne aggiunsero altre provocate dagli squali, che
attaccarono i naufraghi mentre il sommergibile affondava: “Tra tutti e tre, i nostri cacciatorpediniere avevano un armamento di
diciotto pezzi da 120 mm, ed il comandante italiano deve aver capito di non
avere nessuna possibilità con il suo unico cannone. Manovrammo in modo tale da
impedirgli di poter lanciare i siluri, dopo di che un paio di colpi ben
piazzati spazzarono via il cannone italiano ed i suoi serventi. Il sommergibile
stava lentamente affondando in assetto di navigazione e l’equipaggio lo stava
già abbandonando, quando rimanemmo inorriditi nel vedere le pinne dorsali di
decine di squali che si muovevano a zig zag tra quei poveracci. Sentimmo le
grida mentre venivano mangiati vivi. Tutte le nostre scialuppe furono
rapidamente messe in mare. Ero alla mitragliera da 12,7 mm ed il comandante mi
ordinò di sparare delle raffiche brevi per indurre gli italiani a tornare a
bordo del sommergibile, che era ancora a galla, e salvarli così dagli squali,
ma l’unico risultato fu di indurre ancora più uomini a gettarsi in mare, perché
fraintesero le intenzioni del nostro comandante. Mentre le nostre imbarcazioni
recuperavano i sopravvissuti che riuscivano a trovare, soltanto la torretta del
sommergibile era ancora visibile; una scialuppa le si affiancò ed il nostro
grande, robusto timoniere si sporse e ne trascinò fuori il comandante italiano.
Durante la navigazione di rientro ad Aden, il quadrato ufficiali del Kandahar
venne usato come sala operatoria ed il nostro chirurgo fece un lavoro magnifico
per ridurre le sofferenze degli italiani, alcuni dei quali erano orrendamente
mutilati. Fu poi decorato”. Nessun’altra fonte, italiana o britannica,
sembra però fare menzione di squali nel descrivere l’ultimo combattimento e
l’affondamento del Torricelli.
Su 59 uomini che
componevano l’equipaggio del Torricelli,
53 vennero tratti in salvo e fatti prigionieri dalle unità britanniche, mentre persero
la vita sei uomini: quattro risultarono deceduti, e due dispersi.
Dei 53 sopravvissuti,
due non sarebbero più tornati dalla prigionia in India: il sottocapo radiotelegrafista
Carmelo Di Raimondo morì di malattia in India il 18 marzo 1941, ed il
militarizzato Ettore Zavatta, operaio di garanzia della ditta Tosi, morì
anch’egli in prigionia in India il 1° giugno 1941, per la medesima causa.
Caduti tra l’equipaggio del Torricelli:
Davide Cecio, marinaio radiotelegrafista, 20
anni, da Napoli, caduto
Carmelo Di Raimondo, sottocapo
radiotelegrafista, 21 anni, da Pagliara (Messina), deceduto in prigionia
Pietro Racchelli, marinaio silurista, 19 anni,
da Schio (Vicenza), disperso
Nando Rando, marinaio fuochista motorista
navale, 19 anni, da Roma, caduto
Angelo Sanna, capo silurista di terza classe,
32 anni, da Sassari, caduto
Angelo Salvato Signore, marinaio elettricista,
21 anni, da Monteroni (Lecce), caduto
Pierino Sorba, marinaio, 20 anni, da San
Damiano (Asti), disperso
Ettore Zavatta, operaio militarizzato, 36
anni, da Rimini, deceduto in prigionia
La motivazione della
Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita al capitano di corvetta Salvatore Alfonso
Nicola Pelosi, nato a Montella (Avellino) il 10 aprile 1906:
"Comandante di
sommergibile dislocato in acque lontane ed insidiatissime, durante ardua
missione svoltasi in condizioni ambientali oltremodo avverse, scoperto e
sottoposto a prolungata caccia da parte di numerose siluranti, visto
impossibile il disimpegno, emergeva accettando il combattimento in evidenti
condizioni di inferiorità. Aperto il fuoco con il cannone e con le mitragliere, si impegnava in epica
lotta a distanza ravvicinata contro tre cacciatorpediniere e due cannoniere.
Lanciati anche i siluri, a corto di munizioni e con l'unità ripetutamente
colpita, ed egli stesso ferito, decideva di salvare i suoi marinai ed affondava
il battello che scompariva con la bandiera a segno salutato alla voce dal valoroso
equipaggio. Nell'impari lotta, il sommergibile affondava un Ct. ed infliggeva danni alle
rimanenti unità avversarie. Trascinato in mare dai marinai che si erano
rifiutati di abbandonarlo era da loro stessi sostenuto allorché, in seguito
alla ferita riportata, aveva perduto i sensi. Coloro ai quali egli aveva
indicato la via dell'onore e del dovere ridavano in tal modo alla Nazione ed
alla Marina uno dei suoi figli migliori affinché a questi fosse ancora concesso
di operare per il bene della Patria. Magnifico esempio di uomo e di Ufficiale al quale lo stesso nemico ha tributato
ammirazione e rispetto.
Mar Rosso Meridionale, 21 – 22 – 23 giugno 1940."
Un’altra foto del Torricelli (da “Sommergibili italiani” di Alessandro Turrini ed Ottorino Ottone Miozzi, USMM, 1999, via www.betasom.it) |
A proposito del modo
in cui si svolse il combattimento, la Commissione d’Inchiesta Speciale
istituita per la perdita del Torricelli
opinò che «data la durata dello scontro, la serrata distanza, la preponderanza
delle forze nemiche, i danni subiti dal Torricelli
non sono proporzionati all’entità dell’offesa», avanzando l’ipotesi che il tiro
britannico non fosse mirato tanto a distruggere il sommergibile, quanto a causare
perdite e seminare scompiglio tra l’equipaggio, nel tentativo di catturarlo come
avvenuto con il Galilei (fu questa
anche l’impressione del comandante Pelosi). Per questa ragione, secondo la C.I.S.
(poi ripresa da vari autori, come Giorgio Giorgerini nel suo "Uomini sul
fondo"), i cacciatorpediniere fecero uso prevalente, se non esclusivo,
delle mitragliere. In altre parole: un gruppo di navi armate con un totale di
22 cannoni da 100 o 102 mm, se lo avessero voluto, avrebbero certamente
distrutto il Torricelli in molto meno
di 40 minuti di combattimento; se questo non era avvenuto, era perché i
britannici avevano deliberatamente cercato di non affondare il bersaglio, bensì
di causare panico e perdite tra il suo equipaggio per indurlo alla resa.
Da parte britannica,
però, non risulta nulla del genere: risulterebbe anzi che i cannoni vennero
usati eccome, sparando in tutto circa 700 colpi da 102 e 120 mm, oltre a 5000
colpi di mitragliera, durante i 40 minuti del combattimento. Semplicemente, il
tiro britannico fu estremamente impreciso (mettendo a segno una sola cannonata
su oltre 700 sparate), presumibilmente a causa della luce ancora incerta
dell’alba e delle continue brusche manovre intraprese sia dal Torricelli che dalle navi britanniche,
che impedivano di aggiustare il tiro. Paradossalmente, l’imprecisione del fuoco
britannico, che da parte italiana è considerata intenzionale e mirata alla
cattura del sommergibile, viene riferita come involontaria da parte dei
britannici stessi (che, da parte loro, avrebbero forse avuto più interesse a
dichiarare, a posteriori, che una simile imprecisione fosse stata deliberata). Imprecisione
che comunque risulterebbe reciproca, dal momento che, secondo le fonti
britanniche, diversi colpi del Torricelli
avrebbero mancato di molto poco la Shoreham
ed il Kingston, ma nessuno sarebbe
andato a segno (l’atmosfera incerta dell’alba ebbe buon gioco nell’ingannare
Pelosi a questo proposito, dandogli l’impressione di aver messo a segno qualche
cannonata: d’altro canto, annota Channon nel suo articolo, anche i rapporti
delle unità britanniche non combaciano tra loro, frutto di impressioni errate e
contrastanti causate dalla confusione di quello scontro).
Le circostanze che
portarono all’intercettazione del Torricelli
sono piuttosto controverse: secondo diverse fonti (tra cui "Il vero
traditore" di Alberto Santoni, "In guerra sul mare" di Erminio
Bagnasco e "Struggle for the Middle Sea" di Vincent O’Hara), esso
venne localizzato dalle navi britanniche sulla base di documenti ritrovati a
bordo di un altro sommergibile, il Galileo
Galilei, catturato pochi giorni prima dopo un combattimento con la
cannoniera britannica Moonstone. I
britannici rinvennero sul Galilei
l’ordine di operazioni che comprendeva anche notizie relative alla dislocazione
di altri sommergibili italiani, e poterono così tendere agguati al Torricelli e ad un altro sommergibile,
il Galvani, anch’esso affondato negli
stessi giorni. Altre fonti affermano invece che il solo Galvani venne localizzato dai britannici grazie a documenti trovati
sul Galilei, mentre non vi era alcun
collegamento tra la cattura di quest’ultimo e la perdita del Torricelli. Altre ancora (tra cui "Uomini
sul fondo" di Giorgio Giorgerini ed un lungo articolo pubblicato nel 1990
dall’allora ammiraglio Antonio Mondaini, superstite del Galvani) sostengono invece che la notizia del ritrovamento sul Galilei di documenti relativi alla
posizione di altri sommergibili fosse del tutto falsa ed ideata dai britannici
per coprire la loro efficace rete di spionaggio in Africa Orientale, che
sarebbe stata la loro vera fonte di informazioni sui sommergibili italiani: ad
esempio, si seppe nel dopoguerra che il barista dell’albergo frequentato
all’Asmara da molti ufficiali di Marina italiani non era, come si credeva
all’epoca, siciliano, bensì una spia maltese ivi infiltrata dai britannici. A
questo proposito, nel suo articolo l’ammiraglio Mondaini menzionò anche che il
comandante Pelosi, durante la prigionia ed anche dopo, dichiarò che dopo la
cattura i britannici gli avessero mostrato gli “specchi caratteristici” della
maggior parte degli ufficiali dei sommergibili italiani del Mar Rosso, il che
attestava un livello d’informazione che non poteva derivare da semplici
documenti catturati su un sommergibile.
Per la verità, è
pressoché impossibile che il Torricelli
possa essere stato individuato a causa di piani d’operazione catturati sul Galilei. Ciò per un motivo molto banale:
quando il Galilei partì per la missione
in cui venne catturato, il 10 giugno, la partenza del Torricelli non era prevista; essa avvenne soltanto il 14 giugno, in
sostituzione del Ferraris avariato.
Non solo; dopo aver raggiunto in un primo momento la posizione precedentemente
assegnata al Ferraris, che poteva
anche trovarsi su eventuali documenti catturati dai britannici, il Torricelli aveva ricevuto ordine di
spostarsi in una nuova zona, situata decine di miglia più a nord della
precedente, e questo, ovviamente, negli eventuali documenti del Galilei non poteva essere indicato.
Proprio in questa nuova zona avvenne il primo incontro con le navi britanniche,
il 21 giugno.
Secondo una versione
ancora differente, già accennata più sopra, fu effettivamente la cattura del Galilei a permettere l’intercettazione
del Torricelli, ma non per mezzo di
ordini d’operazione, bensì a causa del rinvenimento dei cifrari, che consentirono
al comando britannico di Aden di intercettare e decifrare le comunicazioni
radio tra il Torricelli ed il Comando
di Massaua avvenute il 19 giugno, quando il sommergibile ricevette i nuovi
ordini, così apprendendo della sua nuova posizione. A quest’opera avrebbe
collaborato persino l’esploratrice britannica Freya Stark, che aveva trascorso
gran parte della sua infanzia e giovinezza in Italia, e che apparentemente era
l’unica persona ad Aden a conoscere l’italiano. Tutto considerato, questa
ultima versione sembra la più plausibile.
E proprio il Torricelli è protagonista di un altro
“mistero” riguardante materiale segreto. Il sottotenente di vascello Geoffrey John
Kirkby, del Kingston, venne decorato
con la Distinguished Service Cross per aver guidato una squadra d’abbordaggio
mandata sul Torricelli abbandonato ed
agonizzante, allo scopo di impossessarsi dei codici segreti presenti a bordo
(analoga decorazione, "per il coraggio e l’intraprendenza mostrati"
nell’azione che portò all’affondamento del Torricelli,
fu conferita al tenente di vascello Erlend Richard Storer Clouston, anch’esso
del Kingston). Kirkby scese
all’interno del sommergibile in affondamento, e riemerse dalla torretta appena
in tempo, pochi istanti prima che il sommergibile venisse definitivamente
inghiottito dal mare: quando aprì un portello per chiedere che qualcuno lo
aiutasse con una scatola di libri, venne investito da un torrente d’acqua,
perché il mare aveva già raggiunto il portello. Ciò che non appare del tutto
chiaro è se Kirkby sia effettivamente riuscito a prelevare i codici prima che
il Torricelli affondasse: la risposta
sembra essere negativa, in quanto non se ne fa menzione né da parte italiana né
da parte britannica, se non in alcune fonti “secondarie” od anche “terziarie”,
riferite esclusivamente a Kirkby. Una fonte secondaria italiana afferma che
prima di ordinare l’autoaffondamento ed abbandono del battello, Pelosi avesse
anche fatto distruggere cifrari e documenti segreti, ma la storia ufficiale
dell’USMM non menziona tale ordine (anche se ciò non significa che esso non sia
stato impartito). Alberto Santoni, nel suo libro "Il vero traditore",
basato su approfondite ricerche compiute negli archivi britannici, documenta la
cattura di cifrari e codici italiani avvenuta in corrispondenza della cattura o
affondamento di vari sommergibili italiani durante tutto il corso della guerra
(compreso il Galilei), ma non
menziona tra di essi il Torricelli.
Pochi giorni dopo la perdita del Torricelli,
ad ogni modo, in considerazione delle altre perdite avvenute nel medesimo
periodo, che facevano temere la cattura di codici da parte britannica (come
avvenuto in effetti sul Galilei), la
Marina italiana cambiò i codici in uso per i sommergibili, così vanificando i
risultati raggiunti dai britannici in questo settore nelle prime settimane
della guerra.
Oggetto di lunga
diatriba è stata la sorte toccata al Khartoum
poche ore dopo la conclusione del combattimento con il Torricelli. Alle 11.50 dello stesso 23 giugno (cinque ore dopo la
fine dello scontro), infatti, il Khartoum,
mentre si trovava in pattugliamento a 7 miglia per 165° dal faro di Perim,
venne scosso da uno scoppio verificatosi nel tubo lanciasiluri di dritta del
complesso lanciasiluri poppiero. La testata del siluro ivi contenuto venne
lanciata fuori dal tubo, trapassando da parte a parte la mensa ufficiali,
danneggiando una tubatura di un serbatoio di carburante e così scatenando
subito un incendio (provocato dalla frizione causata dal passaggio del siluro
attraverso la paratia della mensa ufficiali, che fece incendiare la vernice, e
subito alimentato dal carburante fuoriuscito dalla tubatura danneggiata), pur
senza esplodere a sua volta (cadde sul ponte di poppa e lì rimase). Le fiamme
dilagarono immediatamente, ed i tentativi dell’equipaggio di contenerle si
rivelarono vani: l’esplosione ed il lancio della testata avevano lesionato o
messo fuori uso anche alcune delle pompe e le relative valvole. Le fiamme ed il
fumo impedirono anche di allagare il deposito munizioni poppiero; il comandante
del Khartoum, temendo un’esplosione
dalle conseguenze catastrofiche, fece rotta verso il porto di Perim alla
massima velocità possibile in quelle condizioni, nell’intenzione di portare la
nave ad incagliare su un bassofondale all’interno del porto, per permetterne il
successivo recupero. All’imboccatura del porticciolo, tuttavia, le macchine vennero
fermate (a causa di un malinteso riguardo un ordine di evacuazione parziale
della sala macchine), e venne a mancare anche la corrente elettrica; rimesse in
moto le macchine, con le sue ultime energie il Khartoum si portò entro il porto, senza riuscire a raggiungere la
secca per incagliarsi, e calò le ancore, poi venne dato l’ordine di abbandonare
la nave. Alle 12.45, quando tutti meno una ventina di uomini avevano
abbandonato la nave, le fiamme raggiunsero il deposito munizioni poppiero, che
esplose. Le schegge proiettate dall’esplosione uccisero un uomo e ne ferirono
un altro, e la nave toccò il fondale; alle 12.59 si verificò una nuova ed ancor
più violenta esplosione (forse le bombe di profondità od i siluri rimasti nei
tubi a poppa) in seguito alla quale il Khartoum
accentuò il suo appoppamento e sbandò di 25°-30° sulla sinistra. Infine, via
via che l’aria sfuggiva anche dai compartimenti prodieri, il cacciatorpediniere
affondò completamente sul bassofondale (la profondità era tra gli 8 e i 13
metri), tornando in assetto normale e lasciando affiorare solo il fumaiolo, le
sovrastrutture e la parte superiore degli impianti dei cannoni. La nave venne
giudicata irrecuperabile, ed abbandonata sul posto (38°52’ N e 43°24’55” E),
dove il suo relitto giace tuttora.
Vi fu un’unica
vittima, il marinaio J. Thompson (ucciso da una scheggia), e quattro feriti
gravi, il capitano di corvetta Alan Collins Reed (direttore di macchina) ed i
marinai J. W. Toms, Reginald Casson e Stanley G. Lace (i primi due rimasero
seriamente ustionati dall’incendio iniziale, gli ultimi due vennero feriti da
schegge proiettate dalle ultime due esplosioni).
L’evento che aveva
dato il via all’incendio, e di conseguenza alle esplosioni che avevano
provocato la perdita del Khartoum,
venne invidivudata nello scoppio di un serbatoio d’aria compressa di uno dei
siluri dell’impianto lanciasiluri poppiero. Lo scoppio aveva provocato il
lancio del siluro, che trapassando la mensa ufficiali aveva scatenato
l’incendio in quel locale, subito rivelatosi indomabile.
Il volume "Le
operazioni in Africa Orientale" dell’U.S.M.M. attribuisce lo scoppio del
serbatoio d’aria del siluro ai danni causati da una scheggia di una granata del
Torricelli, che avrebbe colpito il
siluro; il libro "Che ha fatto la Marina?" pubblicato nell’immediato
dopoguerra da Marc’Antonio Bragadin affermò che uno degli ultimi colpi sparati
dal Torricelli avesse colpito il Khartoum alle sei del mattino del 23
giugno, e che una sua scheggia avesse provocato lo scoppio del siluro. Molte
altre fonti italiane, ed anche alcune fonti britanniche (come "The
Admiralty Regrets: British Warship Losses of the 20th Century" di Paul
Kemp, che parla di un colpo da 100 mm che avrebbe colpito vicino al complesso
poppiero di tubi lanciasiluri, facendo scoppiare con una sua scheggia il serbatoio
d’aria di un siluro; nonché "British Fleet Destroyers AFRIDI to NIZAM
1937-43" di John English), danno credito a questa versione, secondo la
quale la perdita del Khartoum sarebbe
così stata provocata dal combattimento del Torricelli;
tuttavia, accurate indagini condotte nel luglio 1940 da una commissione
d’inchiesta della Royal Navy (istituita allo scopo di accertare le cause della
perdita della nave), con l’interrogatorio di numerosi superstiti del Khartoum, esclusero questa possibilità.
William James Collier, marinaio addetto ai siluri, attribuì lo scoppio del
serbatoio d’aria compressa del siluro a debolezza costruttiva dell’arma o a
corrosione; venne rilevato che i siluri della squadriglia cui apparteneva il Khartoum presentavano, in generale, un elevato
livello di corrosione, cosa che fu confermata da ispezioni sul Kandahar e sul Kimberley. Collier riferì
di essersi già lamentato in passato della grave corrosione esterna dei serbatoi
d’aria dei siluri del Khartoum
(causata presumibilmente dal periodo di servizio del cacciatorpediniere nel
Mare del Nord), riferendola sia al comandante che agli addetti del deposito di
siluri di Devonport. Proprio per via della corrosione, i siluri erano stati
consegnati a tale deposito per essere sottoposti a revisione, che si era
protratta per sei mesi, ed erano stati poi restituiti al Khartoum con la dichiarazione che fossero ora sicuri.
Il comandante del Khartoum, capitano di fregata Dowler,
venne specificamente interrogato sulla questione del combattimento con il Torricelli e sulla possibilità che
questo avesse qualcosa a che fare con la successiva esplosione
(nell’eventualità che una scheggia di proiettile potesse aver lesionato
l’impianto lanciasiluri poppiero, causando il successivo incidente); Dowler
affermò di non ritenere che il tiro del sommergibile, durante lo scontro, fosse
mai stato diretto specificamente contro il Khartoum,
e che il colpo di cannone finito più vicino era caduto a non meno di 1100 metri
dal cacciatorpediniere. A domanda specifica, Dowler si dichiarò certo che la
nave non fosse stata colpita da alcuna scheggia o frammento di proiettile.
La commissione
d’inchiesta concluse che la causa della perdita del Khartoum fosse dovuta allo scoppio del serbatoio d’aria compressa
del siluro contenuto nel tubo di dritta del complesso lanciasiluri poppiero,
che aveva deformato il tubo e lanciato la testata del siluro (il resto
dell’arma era rimasto bloccato nel tubo), la quale aveva passato da parte a
parte la mensa poppiera, tranciando la tubatura del serbatoio di carburante
della mensa, e provocando l’incendio. Altri incidenti del genere (scoppio del
serbatoio di aria compressa), con conseguenze meno disastrose, si verificarono
con altri siluri tipo Mark IX a bordo di altre navi (l’incrociatore Newfoundland, il cacciatorpediniere Partridge, il cacciatorpediniere
olandese Tjerk Hiddes, nonché alcuni
siluri destinati al cacciatorpediniere Quality).
In una successiva
sessione, la commissione d’inchiesta indagò anche sulla possibilità che
l’incidente fosse stato causato da un atto di sabotaggio. Il comandante Dowler
venne interrogato in merito ai naufraghi del Torricelli recuperati dal Khartoum
dopo l’affondamento; i 14 che erano stati trasferiti al Kingston erano rimasti sempre sotto sorveglianza di guardie armate
durante la loro breve permanenza a bordo, ed il quindicesimo, trattenuto a
bordo per necessità di ulteriori attenzioni mediche, si era venuto a trovare in
prossimità dell’impianto lanciasiluri soltanto durante il funerale del
commilitone deceduto dopo il salvataggio. Anche in quell’occasione, giudicò
Dowler, non v’era modo che il prigioniero, piuttosto indebolito e con indosso
soltanto un paio di pantaloncini, potesse aver commesso atti di sabotaggio.
Il sergente Cyril
Horace Haywood Poole, interrogato in merito ai prigionieri del Torricelli, spiegò che essi erano
passati sul lato di dritta transitando quindi anche accanto al complesso
lanciasiluri, ma erano sempre stati sotto sorveglianza e non potevano aver
commesso atti di sabotaggio. Dopo il salvataggio erano stati mandati a prua, sul
ponte ove si trovava la mensa, dopo di che erano stati imbarcati sulle lance
che li avevano trasferiti sul Kingston.
Soltanto due erano rimasti a bordo del Khartoum;
uno al quale stava venendo praticata la respirazione artificiale, ma che morì
ugualmente, ed un altro che si trovava sotto sorveglianza sul lato sinistro del
castello di prua. Il tenente di vascello Charles Anthony Buckle confermò che i
prigionieri erano passati accanto ai tubi lanciasiluri, ma sempre sotto sorveglianza,
e che non riteneva possibile che l’esplosione fosse dovuta a sabotaggio; anche
il marinaio Collier asserì di non ritenere possibile che lo scoppio del
serbatoio del siluro potesse essere stato causato da un sabotaggio.
Dai documenti
ufficiali britannici e dalla deposizione del comandante Dowler, pertanto,
risulta che la perdita del Khartoum
non fu causata dalle conseguenze del tiro del Torricelli.
Di converso, qualche
fonte neozelandese menziona erroneamente che il 27 giugno 1940 l’incrociatore
leggero neozelandese Leander, insieme
al Kandahar ed al Kingston, conducendo una ricerca sulla
base di una segnalazione dello Shoreham,
avrebbe individuato il Torricelli
incagliato sulla costa eritrea, distruggendolo col proprio tiro e con le bombe
sganciate dal suo idrovolante Walrus. Ciò è del tutto erroneo, dato che il 27
giugno il Torricelli giaceva già da
quattro giorni sul fondo del Mar Rosso; in realtà, il sommergibile attaccato
dal Leander era il Perla, incagliatosi sulla costa
dell’Eritrea a causa dell’intossicazione del proprio equipaggio da esalazioni
di cloruro di metile, e quasi tutte le bombe e le cannonate lo mancarono, tanto
che poté essere disincagliato pochi giorni dopo e successivamente riparato.
Il 25 giugno 1940,
due giorni dopo l’affondamento del Torricelli,
il capitano di fregata Robson organizzò una cena a bordo della nave appoggio
HMS Lucia, ormeggiata ad Aden,
invitando sia i comandanti delle unità dipendenti che avevano preso parte al
combattimento, sia il comandante Pelosi (e, per una versione, anche gli altri
ufficiali del Torricelli, oppure il
solo comandante in seconda).
Il 12 luglio, subito
prima che i naufraghi del Torricelli
venissero inviati in India per la prigionia, fu il comandante delle forze
navali britanniche nel Mar Rosso, contrammiraglio A. J. L. Murray, a convocare
il comandante Pelosi, complimentandosi per la sua valorosa azione: “Cinque
nostre navi non sono riuscite a catturarvi od indurvi alla resa”. Murray
organizzò una cena ufficiale in onore del comandante italiano, e brindò sia a
Pelosi che al comandante del Khartoum,
capitano di fregata Dowler, accomunati dalla perdita della propria unità.
Pelosi avrebbe
mantenuto per molti anni, dopo la guerra, un rapporto di amicizia personale con
il comandante britannico Robson: una lettera di Pelosi, che ringraziava Robson
per il cavalleresco trattamento riservatagli, rimase per lungo tempo appesa
nella Kandahar Ski Clubhouse di Mürren.
Dopo un iniziale
periodo di prigionia ad Aden per poche settimane, il 12 luglio 1940 il
comandante Pelosi ed i sopravvissuti del Torricelli
vennero imbarcati sul piroscafo Takliva
ed inviati in prigionia nel Central Internment Camp di Ahmednagar, in India
(250 km ad est di Bombay), insieme ai sopravvissuti del Galilei e di un altro sommergibile affondato negli stessi giorni
(anch’esso per conseguenza dei documenti catturati sul Galilei), il Galvani: in
tutto, 16 ufficiali e 102 tra sottufficiali e marinai. Furono i primi dei quasi
67.000 prigionieri di guerra italiani ad arrivare in India nel corso del
conflitto.
Il campo di Ahmednagar
era sorto nel settembre 1939 come campo per internati civili tedeschi; nel
giugno 1940 era stato ampliato con la creazione di un settore per internati
civili italiani (circa 400, cittadini italiani residenti in India: perlopiù
religiosi e missionari, ma anche gli equipaggi delle navi mercantili italiane
sorprese dalla dichiarazione di guerra nei possedimenti britannici dell’India o
del Medio Oriente). Creato utilizzando delle installazioni in precedenza adibite
ad acquartieramento e riposo delle truppe britanniche, quello di Ahmednagar era
migliore di molti altri campi di prigionia; sorgeva in una zona con clima
piuttosto gradevole, era pulito e bene organizzato. C’erano anche letti con
materassi, lenzuola e cuscini di crine, zanzariere e persino un cinema, aperto
due volte a settimana, ed una piccola piscina realizzata durante la prima
guerra mondiale da prigionieri turchi.
Dato il loro ridotto
numero, i prigionieri di guerra italiani vennero inviati nel campo creato per
gli internati civili loro connazionali, ancorché in una parte separata (e non
comunicante, nemmeno a voce, con la sezione per gli internati civili) che
divenne così il primo campo per prigionieri di guerra italiani dell’India
britannica. Qui i prigionieri erano alloggiati in ampie tende (a due posti per
gli ufficiali, ad otto posti per sottufficiali e marinai); mancando
l’illuminazione elettrica (se non per il reticolato della recinzione), ogni
tenda aveva una lampada a petrolio, che veniva ritirata ogni mattina dal
contabile del Torricelli, capo di
prima classe Giuseppe De Giosa, il quale la riforniva di petrolio (e, se
necessario, di stoppino) e poi la restituiva la sera.
La mensa ufficiali,
allestita sotto una grande tenda, era servita da personale indiano, che
cucinava pietanze “all’inglese” (essendo abituato a servire i britannici):
abbondante colazione con caffè, tè, latte, uova al bacon, uova al tegamino,
uova sode, salamini di bacon, frutta fresca e succhi di frutta; pranzo leggero
con roast beef freddo e talvolta insalata; cena con zuppa piatto di carne con
contorno e dolce. Più sbrigativo il trattamento riservato ai marinai: dovevano
radunarsi in fila indiana per la consegna del cibo, che dovevano poi cucinare
da sé (tra i prigionieri, comunque, tale compito era delegato ai sottufficiali
e marinai con la qualifica di cuochi). Inizialmente la distribuzione delle
provviste per i marinai veniva effettuata allo scoperto, ma dopo che un grosso
uccello locale ebbe rubato un pezzo di carne buttandosi in picchiata sulla
colonna di marinai, si preferì svolgere la distribuzione, per il futuro, sotto
una tettoia.
Successivamente
vennero realizzati due distinti campi, per ufficiali e per soldati, affiancati
e comunicanti tra loro durante il giorno; accanto avevano il campo per
internati civili italiani, mentre quello per gli internati civili tedeschi era
frontistante ad essi, sul lato opposto della strada. Proprio il comandante
Pelosi, chiamato “Pelo” dagli amici, svolgeva un ruolo chiave nell’organizzazione
del campo, condotta con ordine e disciplina ma anche cordialità. In base alle
regole della convenzione di Ginevra, i britannici fornivano ai prigionieri
delle banconote appositamente stampate, da utilizzare per comprare merce nello
spaccio del campo; dato però che la paga per i soldati e marinai era molto
magra (poche annas al giorno), si decise di operare una trattenuta sulle paghe
degli ufficiali, per creare un fondo comune in favore della truppa.
Nell’agosto 1940 il
numero dei prigionieri si accrebbe di oltre 500 unità con l’arrivo dei
superstiti dell’incrociatore Bartolomeo
Colleoni, affondato in Mediterraneo dall’HMAS Sydney. Quando, nel dicembre 1940, cappellani ed ufficiali medici
vennero rimpatriati, per l’assstenza spirituale ai prigionieri vennero
trasferiti nel campo due missionari salesiani (Padre Alfonso Ferrero e Padre
Guglielmo Balocco), che oltre al conforto religioso si dedicarono anche
all’insegnamento della lingua inglese. Alla fine dell’anno, la popolazione del
campo per prigionieri di guerra di Ahmednagar ammontava ad oltre un centinaio
di ufficiali ed un migliaio di soldati, avieri e marinai: più di metà erano
personale della Marina, il resto in gran parte personale dell’Esercito
catturato durante le prime schermaglie di confine tra Libia ed Egitto (presa
della Ridotta Capuzzo, distruzione della colonna D’Avanzo) e durante
infiltrazioni di autoblindo britanniche in Cirenaica (tra di essi anche un
generale: Romolo Lastrucci).
Nel medesimo periodo,
iniziarono ad affluire in India migliaia di prigionieri italiani, in massima
parte personale dell’Esercito, catturati in Egitto e Cirenaica durante
l’offensiva britannica nota come "Operazione Compass"; per alloggiare
questa notevole massa di prigionieri venne creato un nuovo campo di prigionia a
Ramgarh, nell’India nordorientale (460 km a nordovest di Calcutta, ai confini
tra gli stati del Bengala e del Bihar, dalla parte opposta dell’India rispetto
ad Ahmednagar). In questo campo vennero trasferiti anche i prigionieri in
precedenza detenuti ad Ahmednagar, compreso il comandante Pelosi e gli altri
superstiti del Torricelli. I
prigionieri lasciarono Ahmednagar in tre scaglioni, ognuno composto da 40
ufficiali e 350 soldati e marinai; il primo gruppo partì a inizio dicembre,
l’ultimo il 12 dicembre 1940.
A Ramgarh, cittadina
circondata dalla giungla, esistevano tre campi per prigionieri di guerra,
numerati dal 18 al 20. Le condizioni climatiche e sanitarie, nonostante la
presenza nel campo di un ospedale da campo con medici italiani, erano peggiori
rispetto ad Ahmednagar; il caldo era soffocante e l’acqua, impura (un ex
prigioniero la ricordava addirittura come “torbida, color terra”), causò la
rapida diffusione della dissenteria e di altre malattie, che mieterono diverse
vittime tra i prigionieri. Fu proprio durante il periodo passato a Ramgarh,
infatti, che si ammalarono e morirono in prigionia due uomini del Torricelli, Carmelo Di Raimondo ed
Ettore Zavatta, deceduti per malattia rispettivamente il 18 marzo e 1° giugno
1941.
A seguito dell’invasione
della Birmania da parte delle forze giapponesi (aprile-maggio 1942), i
prigionieri detenuti a Ramgarh vennero in seguito nuovamente trasferiti verso
altri campi di prigionia più lontani dal fronte, separando gli ufficiali dai
soldati e marinai (sia per ragioni pratiche, che su direttiva del Political
Warfare Executive): gli ufficiali vennero mandati nel campo di Yol, i marinai e
soldati in quelli di Bangalore e Bhopal.
I sopravvissuti del Torricelli rimasero prigionieri in India
fino alla fine della guerra, rientrando in Italia soltanto tra il 1945 ed il
1946.
Il comandante Pelosi
venne rimpatriato dalla prigionia il 20 gennaio 1945, su richiesta del governo
italiano, frattanto diventuo cobelligerante con gli Alleati dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943. Pelosi proseguì la sua carriera nella Marina del
dopoguerra, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra prima di essere
posto in ausiliaria per raggiunti limiti di età nel 1969; morì il 24 ottobre
1974 in un incidente automobilistico. Gli è stato intitolato un sottomarino
della classe Sauro (S 522, in
servizio nel 1987) che nel 2007 è divenuto il primo sommergibile italiano ad
entrare nel Mar Rosso dai tempi della seconda guerra mondiale, per la prima
volta dopo 66 anni.
Il 18 marzo 2007, durante
tale viaggio in Mar Rosso, il Salvatore
Pelosi ha deposto una corona di fiori nel punto in cui, quasi 67 anni
prima, si era inabissato il sommergibile comandato dall’uomo di cui porta il
nome.
Il relitto del Torricelli è stato scoperto nel maggio 2022 nei pressi dello stretto di Bab el Mandeb: il sommergibile del comandante Pelosi riposa su un fondale sabbioso a soli trenta metri di profondità.