mercoledì 23 ottobre 2013

Arno

La nave bianca (g.c. Giacomo Toccafondi)

Nave ospedale, già piroscafo misto di 8024 tsl e 4709 tsn, lungo 130,6 metri, largo 17,28 e pescante 10,39. Di proprietà della Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino, con sede a Trieste, ed iscritto con matricola 376 al Compartimento Marittimo di Trieste; nominativo di chiamata radio IBDP.
 
Durante la seconda guerra mondiale effettuò 46 (per altra fonte, probabilmente erronea, 49) missioni di rimpatrio di feriti e malati, trasportando e curando 17.262 o 19.522 pazienti, ed otto missioni di salvataggio, soccorrendo 1178 naufraghi. In precedenza, con il nome di Cesarea, aveva compiuto 17 missioni come "nave trasporto infermi" durante e dopo la guerra d’Etiopia, trasportando 5898 tra feriti e malati, e tre missioni come nave ospedale, due in Spagna durante la guerra civile ed una terza nel Dodecaneso.
Dato interessante perché indicativo dell’andamento delle operazioni e della situazione dei soldati al fronte, i pazienti dell’Arno furono in prevalenza malati nella maggior parte delle missioni (specie gli affetti da malattie infettive, nella prima fase del conflitto) ma il numero dei feriti andò gradualmente crescendo con il procedere della guerra, fino a divenire la maggioranza dei pazienti nelle ultime missioni eseguite prima della perdita.
 
Scrisse dell’Arno il generale medico Mario Peruzzi: “L’Arno era una nave ospedale modello; il suo profilo era familiare nei porti libici e nel Canale di Sicilia, lungo la “rotta della morte”; le sue missioni avventurose gli avevano creato un’aureola di prestigio ammirata ed invidiata; la sua storia era già molto interessante e piena di episodi commoventi: al salvataggio dei naufraghi del Lanciere ed a quello dell’equipaggio del Diana si erano viste imprese leggendarie e la gente dell’Arno era gelosa della sua nave e del suo prestigio. Ma l’Arno godeva di particolari simpatie anche per la sua velocità, per il conforto delle sue installazioni e per la comodità degli alloggi”.
Il suo motto come nave ospedale, coniato dal capitano di vascello Djalma Viotti, era «Lenio placide, dum fluo» ("curo dolcemente mentre scorro sulle acque").
 
Breve e parziale cronologia.
 
1911
Impostato nei cantieri William Beardmore & C. (Beardmore Naval Construction Works) di Dalmuir, in Scozia.
25 maggio 1912
Varato come Wandilla (numero di costruzione 506) nei cantieri William Beardmore & C. (Beardmore Naval Construction Works) di Dalmuir.
Costruzione ed allestimento vengono seguiti da tre funzionari della Adelaide Steamship Company, il committente.
Durante le prove in mare nel Firth of Clyde, completate nella prima settimana di novembre, il Wandilla raggiunge i sedici nodi di velocità, navigando per un centinaio di miglia con risultati ampiamente soddisfacenti.
Novembre 1912
Completato come piroscafo misto Wandilla per la Adelaide Steamship Company di Adelaide (Australia). Stazza lorda 7785 tsl e netta 4189 tsn, velocità di crociera 14,5 nodi, massima 16,36 nodi; è dotato di celle frigorifere della capacità complessiva di trecento tonnellate nonché illuminazione e ventilazione in tutti gli spazi comuni e tutte le cabine. Può trasportare 417 passeggeri, di cui 240 in prima classe, 117 in seconda e 60 in terza (altra fonte parla invece di 423, di cui 231 in prima classe, 120 in seconda e 72 in terza). Ha due gemelli, Warilda (primo ad essere completato) e Willochra (ultimo ad essere completato).
La costruzione di ciascuna delle tre navi, destinate al servizio di linea lungo le coste australiane, è costata 217.197 sterline, 57.862 in più di quanto previsto in sede contrattuale.

Wandilla e Warilda in allestimento nei cantieri Beardmore: tra i due piroscafi si trova la corazzata britannica Conqueror, anch’essa in allestimento (g.c. Giacomo Toccafondi)

Il Wandilla a Glasgow subito dopo la consegna (Glasgow University, via libro “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

22 novembre 1912
Al comando del capitano James Sim, il Wandilla lascia Dalmuir diretto in Australia. Dopo un breve scalo a Plymouth il giorno seguente, la nave prosegue verso la sua destinazione senza ulteriori soste intermedie, doppiando il Capo di Buona Speranza il 13 dicembre.
29 dicembre 1912
Arriva in mattinata a Fremantle, dopo una traversata travagliata dal forte vento e mare avverso. Ha percorso 10.691 miglia, con una velocità media di 13,17 nodi.
Viene quindi posto in servizio sulla rotta costiera Sydney-Melborune-Adelaide-Albany-Fremantle, al comando del capitano Colin Campbell MacKenzie, trasportando merci e passeggeri e riscuotendo un buon successo tra la clientela.
Il viaggio inaugurale, da Fremantle ad Adelaide, si conclude con l’arrivo in porto il 4 gennaio 1913; in occasione del Capodanno viene gettata in mare una bottiglia con un menù di bordo firmato dal comandante Sim e da alcuni passeggeri, corredato da un messaggio di auguri e dalle coordinate. La bottiglia verrà ritrovata a Fanny Cove, sulla costa meridionale dell’Australia, il 26 novembre 1915, quasi due anni più tardi.
Maggio 1913
Il Wandilla perde una “gara” di velocità con il piroscafo Canberra della rivale Howard Smith Line, sulla rotta Melbourne-Sydney.

Il Wandilla (State Library of Victoria, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

4 giugno 1913
Il passeggero D. M. Rubino muore a bordo del Wandilla durante una traversata da Adelaide a Fremantle: sentitosi male quando la nave è giunta in mare aperto, si è ritirato in cabina dopo aver bevuto del brandy, ma è stato trovato morto nel letto da uno steward. Il decesso viene attribuito ad insufficienza cardiaca; gli viene data sepoltura in mare il giorno seguente.
23 ottobre 1913
Mentre si sta procedendo al carbonamento del Wandilla nel porto di Sydney, il carbonaio Henry Hill viene travolto dal crollo di un mucchio di carbone, rimanendovi sepolto per tre quarti d’ora. Fortunatamente, viene tratto in salvo senza aver subito lesioni gravi.

Un’altra bella immagine del Wandilla (State Library of Victoria, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

Giugno 1914
La polizia australiana arresta a bordo del Wandilla, nel porto di Albany, il giovane passeggero James Johnstone, accusato di rapimento per aver condotto a bordo con sé, con l’intenzione di raggiungere Perth, la sedicenne Doris Fisher, scappata con lui da Kalgoorlie contro la volontà della madre, cui la ragazza viene riconsegnata.
18 luglio 1914
Il marittimo francese Theodore Bernier, membro dell’equipaggio del Wandilla, viene arrestato dalla polizia portuale di Perth mentre tenta di allontanarsi dalla nave con una barca non illuminata, carica di cibarie sottratte alla cambusa di bordo.
12 maggio 1915
Il comandante McKenzie viene censurato dal Maritime Board per alcuni (lievi) danni causati scendendo il fiume Brisbane con il Wandilla a velocità eccessiva, il precedente 27 aprile.

(State Library of Victoria, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

17 maggio 1915
Arriva a Melbourne dal Queensland, concludendo l’ultimo viaggio in servizio di linea prima della requisizione.
18 maggio 1915
Requisito dalla Marina australiana per essere impiegato come trasporto truppe (HMAT Wandilla) durante la prima guerra mondiale, con sigla A 62. I lavori di conversione vengono completati in meno di un mese; spariti i lussuosi arredi da nave passeggeri, vengono ricavati a bordo docce, mense e servizi igienici per molte centinaia di soldati, modificate le cucine ed allestito anche un ospedale di bordo.
14 giugno 1915
Imbarca a Sydney truppe per il Medio Oriente (cinque ufficiali, cinque sottufficiali e 146 soldati), sacchi di frumento e balle di lana.
17 giugno 1915
Imbarca a Melbourne altri 15 ufficiali, 12 sottufficiali e 535 soldati del 1st Australian General Hospital, per poi trasferirsi a Fremantle.
Il 22 giugno alcuni soldati del 12° Battaglione – R. V. Cairns, B. Hawkesford, J. Copping e R. H. McNally di Hobart, A. J. Torpy di Longford e W. O’Brien di Zeehan – lanciano in mare un messaggio in bottiglia, indirizzato al "Daily Post" di Hobart e contenente l’augurio di essere a casa per Natale. Il messaggio sarà trovato sulla spiaggia di Middleton il 17 ottobre, ma passeranno ancora tre anni prima che quei soldati – quelli tra di essi che faranno ritorno – possano passare il Natale a casa.
25 giugno 1915
Dopo aver imbarcato un altro ufficiale e 267 soldati a Fremantle, il Wandilla lascia l’Australia diretto ad Aden con il convoglio numero 8 (piroscafi Wandilla, Karoola, Uganda e Clan McEwen, aventi a bordo 55 ufficiali, 56 sottufficiali e 2277 soldati), sempre al comando del capitano MacKenzie. A bordo è imbarcato come cappellano per i soldati anche il reverendo Charles Hamilton Shedden.

Il Wandilla imbarca truppe australiane durante la prima guerra mondiale (Australian War Memorial, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

12 luglio 1915
Arriva ad Aden alle 6.30, sostandovi fino alle 19 per poi proseguire alla volta di Suez. Durante la sosta contribuisce alla difesa di Aden contro un attacco da parte di truppe turche provenienti dalla Mecca, cui si sono uniti numerosi ausiliari arabi armati dagli stessi britannici ma passati dalla parte dei turchi con armi, rifornimenti e mille cammelli.
18 luglio 1915
Giunge a Suez e vi sbarca le truppe imbarcate, per poi proseguere verso Alessandria, dove imbarca ottocento feriti e malati convalescenti che porta a Plymouth; indi prosegue per Londra, dove sbarca il frumento e la lana al Victoria Dock superando indenne due attacchi aerei, il secondo dei quali – che la coglie al Tilbury Dock, dove si è spostata dopo aver sbarcato il carico – abbastanza vicino da tranciare gli ormeggi.
Fa poi ritorno in Australia, seguendo stavolta la rotta del Capo di Buona Speranza.
8 ottobre 1915
Arriva a Sydney.
9 novembre 1915
Salpa da Sydney con a bordo 35 ufficiali, 57 sottufficiali e 1260 soldati del 31° Battaglione, insieme al convoglio 14 (trasporti Wandilla, Bakara, Botanist, Kabinga, Ceramic, Persic, Port Macquarie, Uganda, Bulla, Beltana, Suffolk, Geelong e Katuna: in tutto hanno a bordo 12.039 soldati).
13 dicembre 1915
Raggiunta Port Said, vi imbarca truppe degli Inniskillings e degli Scottish Borders evacuati da Gallipoli e le porta a Marsiglia; si reca poi a Malta, dove imbarca un migliaio di convalescenti che porta ad Alessandria, indi ritorna in Australia via Canale di Suez.
17 gennaio 1916
Arriva a Sydney.

Il Wandilla in navigazione in convoglio (Australian War Memorial, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

31 gennaio 1916
Parte da Brisbane con a bordo 22 ufficiali, 30 sottufficiali e 997 soldati, diretto a Sydney.
3 febbraio 1916
Imbarca a Sydney altri nove ufficiali, undici sottufficiali e 310 soldati, indi salpa per l’Europa con il convoglio 17 (trasporti Wandilla, Osterley, Ballarat, Himettue, Saldanha, Warilda, Miltiades e Temistocles, con a bordo complessivamente 8395 militari).
7 marzo 1916
Arriva a Suez.
Il percorso di questo viaggio è per il resto analogo a quello del viaggio precedente, fino al ritorno in Australia.
2 giugno 1916
Salpa da Sydney senza truppe a bordo, diretta a Melbourne.

Il Wandilla in partenza dal molo Pinkeba di Brisbane con truppe australiane del 15° Battaglione, nel 1916 (Australian War Memorial)

5 giugno 1916
Lascia Melbourne con il convoglio 21 (trasporti truppe Wandilla, Warilda, Ascanius, Afric, Ajana, Argyllshire, Berrima, Benalla, Beltana, Honorata, Demosthenes, Persic, Runic, Suevic, Medic, Marathon: in tutto hanno a bordo 25.287 soldati), diretto nel Regno Unito, dopo aver imbarcato 42 ufficiali, 74 sottufficiali e 1231 soldati, tra cui personale dell’Hospital Transport Corps e del 1st Australian General Hospital. Oltre alle truppe il Wandilla trasporta anche un carico di materie prime.
25 luglio 1916
Arriva a Liverpool, dopo aver fatto scalo a Plymouth.
5 agosto 1916
Requisito (o noleggiato) a Liverpool dall’Ammiragliato britannico per essere trasformato in nave ospedale. (Altra fonte lo dà come noleggiato dal Commonwealth fino al 24 gennaio 1917).
Finisce così, dopo soli quattro (per altra fonte, sei) viaggi, la sua carriera di trasporto truppe: in tutto ha trasportato 9907 soldati (uno dei quali deceduto a bordo, in Mar Rosso, per un colpo di calore) e percorso 79.172 miglia.
Vengono ricavate a bordo sistemazioni per dodici ufficiali, 346 feriti gravi in letti dotati di appositi supporti metallici pensati per assecondare il rollio della nave, e 188 feriti meno gravi in cuccette. All’originario equipaggio australiano, sempre sotto il comando di MacKenzie, si aggiunge il personale sanitario britannico del Royal Army Medical Corps e della St. John’s Ambulance: nove ufficiali medici, 17 infermiere, un sottufficiale e 63 assistenti.
Anche il Warilda viene convertito in nave ospedale; le due navi gemelle sono impiegate per l’evacuazione dei feriti dal fronte di Gallipoli verso gli ospedali di Mudros, nell’isola di Lemno, dove vengono poi trasferiti su navi ospedale di maggiori dimensioni (Aquitania e Britannic) che non possono imbarcarli direttamente a Gallipoli per mancanza di ancoraggi sufficientemente profondi per il loro elevato pescaggio, e che li porteranno a Malta o nel Regno Unito. Talvolta, invece, Wandilla e Warilda trasportano i feriti direttamente a Malta, in Egitto (Alessandria) od a Salonicco, dove sono allestiti altri ospedali militari. In seguito verranno impiegate anche nel Canale della Manica.
Nelle acque di Salonicco, la Wandilla assiste a ben undici attacchi aerei.

La Wandilla dopo la trasformazione in nave ospedale (g.c. Giacomo Toccafondi)

3 gennaio 1917
In navigazione nel Golfo di Biscaglia, la Wandilla assiste all’affondamento del piccolo piroscafo danese Viking, in navigazione da Sunderland a Setubal con un carico di carbone, fermato ed affondato a cannonate dal sommergibile tedesco U 82 (tenente di vascello Hans Adam). Allontanatosi il sommergibile, la Wandilla trae in salvo i naufraghi del Viking.
17 febbraio 1917
In Mar Egeo la Wandilla trae in salvo sette naufraghi del piroscafo italiano Minas, silurato e affondato due giorni prima al largo di Capo Matapan (in posizione 36°25’ N e 18°24’ E) dal sommergibile tedesco U 39 (tenente di vascello Walter Forstmann) durante la navigazione da Napoli a Salonicco carico di truppe e materiali. Nell’affondamento sono morti 870 uomini, una delle più gravi tragedie che abbiano coinvolto una nave italiana durante la Grande Guerra. I superstiti del Minas scrivono una lettera di ringraziamento al comandante ed all’equipaggio della Wandilla.
Maggio 1917
Scaduto il contratto, l’equipaggio australiano della Wandilla viene sbarcato e rimpatriato, venendo sostituito con un equipaggio britannico, ad eccezione degli ufficiali di coperta e di macchina, che rimangono quelli di prima.
11 giugno 1917
Viene attaccata da un sommergibile tedesco con il lancio di un siluro, che non va a segno.
Agosto-Novembre 1917
Opera in Africa Orientale, facendo scalo in Tanzania, Kenya, Nigeria, Sudafrica, Ghana e Sierra Leone. Tra fine agosto ed inizio settembre la nave – al comando del capitano Robert Sunter e con il maggiore W. Pikey del RAMC come direttore sanitario – viene ispezionata a Dar-es-Salaam dal generale William Watson Pike del Royal Army Medical Corps, che nel suo rapporto ne lamenta l’estrema sporcizia e la scarsa ventilazione dei reparti di degenza, ubicati nelle stive, dichiarandola pertanto non adatta all’impiego in climi tropicali e suggerendo di rimandarla in patria usandola per evacuare trecento pazienti da rimpatriare.
Al termine della missione africana, la Wandilla rientra in Mediterraneo a inizio novembre, raggiungendo Malta.

Un’altra immagine della Wandilla come nave ospedale, a prua è visibile un dispositivo antimine (g.c. Giacomo Toccafondi)

1918
Nel corso del 1918 la Wandilla trasporta feriti e malati prevalentemente ad Avonmouth, con un paio di puntate a Dublino; inoltre compie due viaggi da Brest a Lisbona per rimpatrio di soldati portoghesi, in maggioranza tubercolotici. In altri due viaggi trasporta invece ad Alessandria soldati australiani dichiarati inabili al servizio – in gran parte mutilati – ed in corso di rimpatrio; in entrambi i viaggi si verificano due suicidi tra i rimpatriandi.
Febbraio 1918
Viene colpita da un siluro lanciato da un U-Boot, ma fortunatamente l’arma non esplode.
18 maggio 1918
La Wandilla, in navigazione di andata verso il Mediterraneo e dunque senza feriti a bordo, viene fermata a sud di Capo Palos dal sommergibile tedesco U 50 (tenente di vascello Franz Becker) per un’ispezione. Ordinato alla nave di fermarsi con tre colpi d’avvertimento sparati con il cannone davanti alla prua, in tarda mattinata, l’U-Boot manda a bordo un ufficiale ed un marinaio, che vengono “accolti” dal comandante e dal direttore sanitario della Wandilla e da Lorenzo Moya, ufficiale spagnolo (e dunque neutrale) imbarcato proprio per vigilare sul rispetto delle convenzioni internazionali. L’ufficiale tedesco ignora i due britannici e si rivolge soltanto a Moya, cui consegna la chiave del locale radio, che ha chiuso dopo averne fatto uscire l’operatore, con l’ingiunzione di non usare la radio per un certo lasso di tempo. Poi, insieme al marinaio, compie un accurato giro d’ispezione della nave ospedale, controllando ovunque ma constatando che a bordo tutto è in regola, pertanto senza dire niente ritorna sul sommergibile, che se ne va. La Wandilla può così riprendere la navigazione.
31 marzo 1919
Finita la guerra, il Wandilla salpa da Londra (per altra fonte, Southampton) carico di truppe australiane rimpatrianti.
Durante il servizio come nave ospedale nel corso della Grande Guerra, ha trasportato in tutto 26.425 tra feriti e malati (britannici, australiani, portoghesi, africani delle truppe coloniali), 42 dei quali deceduti a bordo, tra Liverpool, Southampton, Avonmouth, Cardiff, Plymouth, Dublino, Newport, Le Havre, Brest, Lisbona, Marsiglia, Malta, Gibilterra, Alessandria, Mudros, Port Said, Stavros, Salonicco, Suda, Limassol, Beirut, Haifa, Alessandretta, Tripoli di Siria, Zanzibar, Mombasa, Kilwa Kisiwani, Dar es-Salaam, Lagos, Accra, Capetown e Freetown, percorrendo complessivamente 112.241 miglia.
23 maggio 1919
Arriva a Sydney, sbarca parte delle truppe e prosegue per Brisbane, dove sbarca le rimanenti. Fa poi ritorno a Sydney il 27 maggio.
27 maggio 1919
Restituito alla Adelaide Steamship Company, che lo manda subito al Mort’s Dock di Balmain per riconvertirlo in nave passeggeri.
15 agosto 1919
I lavori vengono completati, ma il Wandilla non può riprendere subito servizio a causa di uno sciopero del personale della Adelaide Steamship Company.
6 settembre 1919
Riprende servizio sulla linea Melbourne-Adelaide-Fremantle.

Il Wandilla in servizio di linea (State Library of Victoria, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

Gennaio 1921
Reso ormai superfluo dal potenziamento della rete ferroviaria australiana e dalla conseguente riduzione dei flussi di passeggeri sulle rotte costiere, il Wandilla viene venduto per due milioni di sterline dalla Adelaide Steamship Company alla Bermuda & West Indies Steam Ship Company di Hamilton (Bermuda), una controllata della Furness, Withy & Co. Ltd. di Hartlepool (che in precedenza aveva già comprato il gemello Willochra). Lascia per sempre l’Australia diretto a New York, via Canale di Panama.
Nelle intenzioni dei nuovi proprietari il Wandilla, ribattezzato Fort St. George, dovrà andare ad affiancare proprio il gemello, che naviga sotto il nome di Fort Victoria, per potenziare il servizio sulla linea che collega New York a Hamilton: tale tratta, nata a inizio ‘900 per garantire il trasporto regolare di posta, merci e passeggeri tra New York e Bermuda (in precedenza servita in modo irregolare dal vecchio ex incrociatore protetto Charybdis), ha conosciuto un forte impulso sotto la Furness Withy, che nel primo dopoguerra l’ha rilevata dalla Canada Steamship Lines Ltd., per due ragioni: lo sviluppo del turismo a Bermuda (cui contribuisce la stessa Furness Withy, stabilendo convenzioni con alcuni dei più importanti alberghi dell’isola e costruendone altri essa stessa) e l’inizio del proibizionismo, che spinge molti americani alle cosiddette “booze cruises”, crociere su navi passeggeri straniere sulle quali, a differenza che in patria, la vendita di alcolici – fuori dalle acque territoriali statunitensi – è consentita. La costituzione della Bermuda & West Indies Steam Ship Company – colloquialmente nota anche come "Forts Line" per via dei nomi delle sue navi – è stata decisa dalla Furness Withy per poter registrare i propri piroscafi a Bermuda, dove il regime fiscale è più favorevole ed i controlli meno rigidi.
Giunto a New York, il Fort St. George viene sottoposto a lavori di adattamento per il nuovo servizio come nave da crociera; le sistemazioni interne vengono pesantemente modificate, ricavando 262 cabine di prima classe (per un totale di 380 passeggeri) e quindici di seconda classe (per un totale di 50 passeggeri) e rinnovando gli arredi di bar e saloni. Tutte le cabine sono dotate di ventilatore elettrico ed acqua corrente, e sono disponibili suite con soggiorno e bagno privato; gli allestimenti di bordo comprendono sala musica, sala fumatori, caffè panoramico e diversi salotti e saloni da pranzo. Siccome la nave dovrà essere impiegata anche nel trasporto di acqua dolce a Bermuda, nelle stive vengono ricavate delle cisterne per l’acqua.

La nave poco dopo aver assunto il nome di Fort St. George (g.c. Giacomo Toccafondi)

1921
Completati i lavori, il Fort St. George effettua due viaggi sulla linea New York-Bermuda, al comando del capitano J. W. MacKenzie, dopo di che ritorna in cantiere per nuovi lavori, stavolta di conversione dell’alimentazione delle caldaie dal carbone alla nafta. Torna poi in servizio sulla stessa linea; Fort St. George e Fort Victoria sono i due più grandi (almeno fino all’immissione in servizio sulla tratta dei grandi Araguaya e Arcadian di 12.000 tsl da parte della rivale Royal Mail Line), veloci (16,5 nodi, il che permette di compiere la traversata New York-Hamilton in 40 ore) e lussuosi piroscafi in servizio tra New York e Bermuda. Fanno servizio bisettimanale, con partenza da New York giovedì e sabato e ritorno da Bermuda venerdì e sabato.
22 marzo 1924
In partenza da New York per Bermuda al comando del capitano Arthur R. Francis, il Fort St. George dà vita ad una “gara” lungo l’Hudson con il piroscafo Arcadian della rivale Royal Mail Line, con esito disastroso: lanciato a velocità eccessiva, il Fort St. George non è infatti in grado di evitare l’enorme transatlantico Olympic della White Star Line (capitano Frank Briscoe Howarth), in uscita a marcia indietro dal molo 59 del North River, e lo sperona a poppa. Mentre l’Olympic subisce quelli che sulle prime sembrano danni di poco conto, e parte regolarmente per il Regno Unito (dove più approfonditi esami in bacino mostreranno che in realtà il dritto di poppa ha subito danni irreparabili, che costringeranno alla ricostruzione dell’intera sezione poppiera, al costo di 60.000 sterline), sul Fort St. George crolla l’albero prodiero, vengono distrutte diverse lance di salvataggio, strappati i parapetti e deformati i ponti per una lunghezza di 45 metri. La nave è costretta a trasbordare i passeggeri sull’Arcadian e tornare indietro; viene però rimessa in servizio dopo frettolose riparazioni provvisorie condotte in un paio di giorni, a causa dell’elevato flusso di passeggeri diretti a Bermuda, rimandando lavori più approfonditi alla bassa stagione.
Sulla collisione si scatenerà una diatriba legale tra la Bermuda & West Indies Steam Ship Company e la White Star Line presso la corte distrettuale di New York, che il 29 luglio 1927 attribuirà la colpa dell’accaduto al Fort St. George, per l’eccessiva velocità tenuta durante la discesa del corso dell’Hudson.
22 ottobre 1926
In navigazione da New York a Bermuda, il Fort St. George incappa in un uragano di eccezionale violenza; per evitare di finire nell’occhio del ciclone, la nave si allontana di una quarantina di miglia da Bermuda, riuscendo così a superare indenne la turbolenza, che causa invece l’affondamento di altre due navi, lo sloop HMS Valerian ed il piroscafo britannico Eastway.
1928-1929
Trasferito sulla linea New York-St. John's (Terranova)-Quebec, in seguito all’acquisizione da parte della Furness Wihty della Red Cross Line, compagnia canadese che tra l’altro gestiva tale tratta.

Il Fort St. George a Terranova (Centre for Newfoundland Studies, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

18 dicembre 1929
Il Fort St. George si trova a New York quando il Fort Victoria, in partenza per Hamilton, vi affonda in seguito a collisione con il piroscafo statunitense Algonquin: il Fort St. George viene messo a disposizione dei passeggeri intenzionati a proseguire il viaggio per le Bermuda, ma solo 62, su 206, accettano.
In seguito alla perdita del Fort Victoria, il Fort St. George rimane l’ultimo superstite dell’originario trio Wandilla-Warilda-Willochra (il Warilda è stato affondato durante la prima guerra mondiale, silurato nel Canale dalla Manica dal sommergibile tedesco UC 49).
Giugno-Luglio 1931
Il Fort St. George viene brevemente rimesso in servizio sulla linea New York-Hamilton in temporanea sostituzione del transatlantico Bermuda, danneggiato da un incendio. Il suo nuovo servizio su questa linea dura poche settimane, essendo l’anziano piroscafo ormai inadatto ai nuovi standard richiesti dai sempre più esigenti passeggeri che si recano in vacanza a Bermuda.
8 luglio 1931
Lascia per l’ultima volta Hamilton diretto a New York, dopo di che viene definitivamente trasferito alla Red Cross Line.

Un’altra immagine del Fort St. George (g.c. Giacomo Toccafondi)

1935
Acquistato dalla Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino, con sede a Trieste.
Settembre 1935
Proveniente dagli Stati Uniti, arriva a Trieste, dove viene ribattezzato Cesarea. Senza essere immessa nel servizio passeggeri di linea, viene subito mandata in cantiere a Trieste per lavori di conversione in nave trasporto infermi: sta per scoppiare la guerra d’Etiopia.
Quello delle "navi trasporto infermi" è un espediente escogitato dal governo italiano per avere unità dedicate per il trasporto e la cura di feriti e malati, ma utilizzabili anche per altri scopi militari (a differenza delle navi ospedale vere e proprie, che a norma delle convenzioni internazionali non possono trasportare truppe e rifornimenti): dipinte di bianco ma senza le croci rosse e strisce verdi riservate alle navi ospedale propriamente dette, durante il conflitto italo-etiopico queste navi verranno impiegate per trasportare truppe nei viaggi di andata dall’Italia all’Africa Orientale (dove le strutture portuali sono molto rudimentali, ragion per cui il Comando italiano vuole sfruttare al massimo ogni viaggio verso il Corno d’Africa), e feriti e malati nei viaggi di ritorno. Non sono dunque riconosciute internazionalmente come navi ospedale e non godono delle tutele per esse previste dalle convenzioni internazionali, ma ciò non costituisce un problema, dato che l’Etiopia, Paese tecnologicamente arretrato e privo di sbocco sul mare, è sprovvista sia di una Marina che di un’aviazione, e non può dunque recar loro alcun danno. Nel caso la crisi internazionale scatenata dalla guerra d’Etiopia dovesse finire col porre l’Italia apertamente in conflitto con il Regno Unito, o con altre potenze navali, le navi trasporto infermi verrebbero riclassificate e registrate a Ginevra come navi ospedale, ed impiegate solamente come tali.
La Cesarea viene dotata di un totale di 381 posti letto per degenti, di cui 54 di isolamento e 216 di medicina, nonché di attrezzature sanitarie all’avanguardia per l’epoca, con gabinetto radiologico, gabinetto batteriologico, gabinetto odontoiatrico, laboratorio, due sale operatorie, locali per medicazioni, sala gessi, sala anatomica, sterilizzatrice e farmacia, il tutto dotato di impianti di condizionamento, indispensabili per operare nei torridi climi del Corno d’Africa. Il personale sanitario è composto da dodici ufficiali medici, otto crocerossine e 32 infermieri, il tutto sotto la direzione del tenente colonnello medico Francesco Maiorca; comandante della nave è invece il capitano di corvetta Giuseppe Moschini.
Sono otto i piroscafi noleggiati, e successivamente requisiti, per l’impiego come navi trasporto infermi in Africa Orientale: oltre al Cesarea, anche Tevere, Urania, Vienna, Helouan, Gradisca, Aquileia e California, tutti aventi stazza compresa tra le 7000 e le 13.000 tsl. La Cesarea è una delle più (relativamente) “piccole” tra le navi trasporto infermi; solo Urania, Vienna ed Helouan hanno un tonnellaggio inferiore, ma hanno una maggiore capienza, con oltre 550 posti letto ciascuna a fronte dei meno di 400 della Cesarea, che risulta così la meno capiente delle otto.

La Cesarea a Trieste all’inizio dei lavori di conversione in nave trasporto infermi (Stelio Zoratto, Museo del Mare di Trieste, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

…ed al termine dei lavori (Stelio Zoratto, Museo del Mare di Trieste, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

Il capitano di corvetta Giuseppe Moschini, primo comandante della Cesarea (da www.movm.it)

16 dicembre 1935
Terminati i lavori di conversione a Trieste, la Cesarea arriva a Taranto, dove imbarca letti operatori, strumentazioni e forniture sanitarie, fornite dalla Direzione della Sanità Marittima.
23 dicembre 1935
S’imbarca il primo gruppo di otto crocerossine, che completano l’organico di bordo.
24 dicembre 1935
Lascia Taranto alla volta di Bengasi, dove imbarca truppe della 5a Divisione Fanteria "Cosseria" prima di proseguire alla volta dell’Africa Orientale, facendo scalo a Port Said ed attraversando il Canale di Suez per poi entrare in Mar Rosso.
Al momento dell’imbarco, ai soldati vengono fatte consegnare le armi individuali, che verranno tenute sotto chiave fino all’arrivo: probabilmente per evitare incidenti in occasione dell’incontro con navi francesi e britanniche, dalle quali sovente partono insulti e persino lanci di frutta e verdura contro quelle che portano truppe italiane in Etiopia. In occasione di questi incontri, sempre per evitare incidenti, le truppe vengono tenute sottocoperta.
Durante il viaggio, i pasti forniti ai soldati sono molto vari, per gli standard dell’epoca: arrosto, lesso, spezzatino, pasta, risotto, minestrone, pesce, frutta, pane e vino.

La Cesarea in partenza da Taranto per la sua prima missione in Africa Orientale (Museo CRI di Campomorone, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

1° gennaio 1936
Arriva a Massaua, dove sbarca le truppe ed inizia ad operare come nave ospedale, a complemento delle limitate strutture sanitarie disponibili a terra. La maggioranza dei degenti è affetta da malattie tropicali: febbre tifoide, dengue, dissenteria amebica, dissenteria bacillare, ulcere tropicali. La maggior parte dei pazienti ricevuti a bordo possono essere dimessi in loco dopo la guarnigione; altri sono trasferiti su altre due navi trasporto infermi, Vienna e Tevere, ed oltre 500 vengono destinati al rimpatrio, in parte sulla Cesarea stessa ed in parte sulla nave trasporto infermi Aquileia, cui vengono trasferiti. Si verifica un unico decesso, per setticemia.
14 febbraio 1936
Lascia Massaua per fare ritorno in Italia con il suo carico di degenti. Durante la navigazione tra la regione dei laghi e Port Said la Cesarea passa vicino a degli accampamenti militari britannici, e viene fatta segno ad insulti dai soldati ivi stanziati.
21 febbraio 1936
Arriva a Napoli, dove sbarca i 319 pazienti. Il direttore sanitario Maiorca si esprime positivamente nel suo rapporto circa la nave e l’equipaggio, pur rilevando alcuni problemi nel funzionamento degli impianti di condizionamento (l’impianto di refrigerazione "Barbieri" ha richiesto frequenti riparazioni ed ha spesso dovuto essere spento per evitare un’eccessiva usura, oltre che per ridurre i consumi).
26 marzo 1936
Poche ore prima che la Cesarea salpi per il secondo viaggio verso l’Africa Orientale, vi prende imbarco come crocerossina la principessa di Piemonte Maria José, moglie dell’erede al trono Umberto di Savoia.
Figlia di re Alberto del Belgio, Maria José ha iniziato a prestare la sua opera in aiuto dei feriti di guerra fin dall’età di dodici anni, nei mesi finali della Grande Guerra, per volere del padre; dopo il matrimonio con Umberto, ha frequentato a Torino il corso da infermiera volontaria della Croce Rossa, per poi recarsi ad operare all’Ospedale degli Incurabili a Napoli, con il sostegno della duchessa d’Aosta Elena d’Orléans, moglie di Emanuele Filiberto di Savoia ed ispettrice nazionale del Corpo delle infermiere volontarie della Croce Rossa. Prima di partire per l’Africa, ha frequentato a Napoli un corso di specializzazione nella cura delle malattie tropicali, tenuto dal celebre patologo Aldo Castellani.
Maria José si presenta per l’imbarco al Molo Beverello di Napoli, accompagnata dal marito (che disapprova la sua decisione di partire per l’Africa, vedendola probabilmente come lesiva del suo prestigio e foriera di paragoni sfavorevoli, dal momento che Mussolini gli ha rifiutato un comando con il pretesto di non mettere in pericolo l’erede al trono che dunque dovrà restarsene in Italia), dalla regina Elena, da vari cortigiani (tra cui la contessa Maria Bossi Pucci, dama d’onore di Maria José ed essa stessa infermiera), dal capitano di vascello Enrico Accorretti (quale commissario e parte del suo seguito) e dal tenente di vascello Adalberto Giovannini (aiutante di bandiera dell’ammiraglio Giulio Valli, comandante del Dipartimento Militare Marittimo di Napoli, con funzione di ufficiale di collegamento). Assiste all’imbarco una nutrita folla; ad accogliere l’arrivo della principessa, schierate sotto la pioggia battente, ci sono le crocerossine volontarie di Napoli, sotto il comando diretto della duchessa d’Aosta.
La presenza a bordo della futura regina non manca di animare il viaggio della Cesarea: al largo di Gaudo, la principessa si porta sulla prua per essere acclamata dagli operai e dai soldati imbarcati sui piroscafi Umbria e Toscana, incrociati dalla Cesarea, che hanno chiesto di poterla vedere e salutare; all’arrivo a Port Said il 30 marzo, la nave viene accolta da una piccola flotta di imbarcazioni cariche di italiani residenti in Egitto, che accolgono Maria José con fiori, canti e bandiere. Durante l’attraversamento del Canale di Suez, Maria Uva – un’italiana residente in Egitto, divenuta famosa perché solita accogliere le navi italiane dirette in Africa Orientale con canti patriottici e per aver allestito un’organizzazione volta a fornire conforto economico e morale ai soldati italiani diretti in AOI: passerà per questo dei guai con le locali autorità britanniche, e sarà costretta a lasciare l’Egitto nel 1937 –, insieme ad un gruppo di italiani, percorre in automobile la strada parallela al canale per dodici ore, megafono alla mano, accompagnando la Cesarea con canti, frasi di saluto per la principessa e per i soldati italiani e sventolio di bandiere.
Durante la navigazione in Mar Rosso vengono incontrate la nave trasporto infermi Tevere ed altre navi italiane, ognuna delle quali chiede di poter vedere e salutare la principessa-crocerossina.
3 aprile 1936
La Cesarea arriva a Massaua alle otto del mattino, scortata nell’ultimo tratto della navigazione dai sommergibili Luigi Settembrini e Ruggiero Settimo, inviategli incontro. Ad attendere lo sbarco di Maria José ci sono tutte le autorità militari del luogo: l’ammiraglio Vittorio Tur, comandante della Divisione Navale in Africa Orientale; l’ammiraglio Aldo Ascoli, comandante superiore della Marina in A.O.I.; il generale Alfredo Guzzoni, comandante della Divisione "Granatieri di Sardegna"; nonché il principe Aimone di Savoia-Aosta, duca di Spoleto, che con il grado di capitano di vascello comanda l’esploratore Pantera ed il Gruppo Navale Leggero in AOI. L’ammiraglio Tur scriverà poi nelle sue memorie: “Il Cesarea passò tra le due linee sulle quali erano disposte all’ancora tutte le unità della Divisione. Gli equipaggi schierati sui ponti lanciarono il triplice grido di “Viva il Re” mentre la musica del Bari suonava la marcia reale. La principessa sulla controplancia del Cesarea rispondeva al saluto”.
Scesa a terra, la principessa visita l’Infermeria della Marina, quella dell’Aeronautica, l’Ospedale Civile, l’Ospedale Militare e l’infermeria di Abd-el-Kader; poi torna sulla Cesarea per la colazione, dopo di che si reca in visita su un’altra nave trasporto infermi, l’Aquileia. L’indomani si reca a Dogali, ove rende omaggio ai caduti della battaglia del 1887, e poi all’Asmara, dove visita l’Ospedale Coloniale "Regina Elena"; il 5 aprile visita il convalescenziario di Cheren, ed il 6 ritorna a Massaua dove partecipa al pranzo di gala organizzato sull’incrociatore Bari, nave ammiraglia dell’ammiraglio Tur. Il 7 aprile Maria José si reca in visita alle Isole Dahlak, a bordo del Pantera ed insieme agli ammiragli Ascoli e Tur; nei giorni successivi è invece interamente assorbita dal suo lavoro di crocerossina a bordo della Cesarea.

Maria José sbarca a Massaua dalla Cesarea (g.c. Giacomo Toccafondi)

8 aprile 1936
La Cesarea lascia Massaua diretta a Mogadiscio.
13 aprile 1936
Attraversa l’Equatore.
14 aprile 1936
Arriva a Chisimaio, dove ad accogliere la principessa Maria José c’è il professor Castellani, già suo insegnante a Napoli, adesso nominato direttore della sanità militare in Africa Orientale. Essendo Chisimaio sprovvista di strutture portuali adeguate a ricevere una nave delle dimensioni della Cesarea, Maria José e le altre crocerossine vengono portate a terra in motoscafo e poi su sedie, portate a spalla da indigeni. A terra la principessa visita l’Ospedale "Principessa Maria", il convalescenziario e due ospedali da campo; dispone che tutte le provviste in eccesso della Cesarea vengano donate a tali strutture, cui dona anche il suo grammofono personale per intrattenere i pazienti.
Dopo aver imbarcato numerosi malati, la Cesarea lascia Chisimaio alla volta di Mogadiscio.
16 aprile 1936
Arriva a Mogadiscio, dove Maria José inaugura l’Ospedale Coloniale "Maurizio Rava", appena ultimato. Il giorno seguente si reca in visita al Villaggio Duca degli Abruzzi, dove rende omaggio alla tomba di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, mentre il 17 visita l’Ospedale Militare "De Martino" di Mogadiscio, per poi tornare sulla Cesarea e riprendere il lavoro.
20 aprile 1936
La nave imbarca a Mogadiscio numerosi pazienti da portare in Italia.
23 aprile 1936
La Cesarea lascia Mogadiscio all’alba per tornare a Massaua, dopo aver imbarcato numerosi soldati feriti ed anche una crocerossina della nave trasporto infermi California, sorella Laura Pestellini, ammalatasi di malaria. Durante la navigazione fa scalo ad Obbia e Dante (Hafun), due piccoli porticcioli che vengono anch’essi visitati da Maria José.
29 aprile 1936
Arriva a Massaua, dove imbarca altri pazienti. La principessa di Piemonte annulla diversi impegni di rappresentanza per continuare il suo lavoro a bordo, pur recandosi a visitare l’Infermeria "De Cristoforis" a Moncullo insieme al professor Castellani.
3 maggio 1936
La Cesarea lascia Massaua alle 18, per tornare in Italia; all’uscita dal porto la nave riceve il saluto alla voce dagli equipaggi della Divisione dell’ammiraglio Tur, dopo di che viene scortata da quattro sommergibili fino a dieci miglia dal porto.
6 maggio 1936
La Cesarea viene raggiunta a Suez dalla notizia della vittoria in Etiopia, celebrate festosamente dalla locale comunità italiana.
10 maggio 1936
La nave arriva a Napoli, dove sbarca i 348 feriti e malati che ha a bordo. Sbarca anche Maria José, giunta al termine della missione, nel corso della quale ha eseguito oltre 500 medicazioni ed assistito come strumentista a 24 interventi chirurgici; ad attenderla ci sono Umberto ed una nutrita folla.
20 maggio 1936
Salpa da Napoli per una nuova missione a Mogadiscio. Fa scalo a Port Said prima di entrare in Mar Rosso.
27 maggio 1936
Riceve ordine dal Comando Superiore Navale in Africa Orientale (Marisupao) di entrare a Massaua per imbarcare un’infermiera che va rimpatriata perché intollerante al clima tropicale.
28 maggio 1936
Arriva a Massaua, imbarca l’infermiera e poi prosegue per Mogadiscio; strada facendo riceve però ordine di dirigere su Chisimaio.
4 giugno 1936
Entra a Chisimaio, dove imbarca 46 malati provenienti dall’ospedale da campo 309; riceve poi ordine di rimanere in porto per imbarcare un altro gruppo di malati. A causa della scarsità d’acqua (il dissalatore di bordo non è sufficiente a far fronte alle esigenze di un ospedale galleggiante, e Chisimaio è sprovvista di strutture portuali per fare rifornimento), viene razionata a bordo l’acqua di lavanda, ed il direttore sanitario Maiorca ordina anche di recuperare l’acqua piovana (che non manca, grazie ai frequenti acquazzoni).
15 giugno 1936
Imbarca a Chisimaio altri 108 convalescenti e poi riparte alla volta di Mogadiscio.
16 giugno 1936
Arriva a Mogadiscio, dove imbarca 199 tra malati e personale in transito.
21 giugno 1936
Lascia Mogadiscio per tornare in Italia.
26 giugno 1936
Fa tappa a Massaua, dove si rifornisce di acqua e di nafta prima di riprendere il viaggio.
5 luglio 1936
Dopo un altro scalo a Port Said, arriva a Napoli, dove sbarca i 354 pazienti.
16 luglio-6 agosto 1936
Quarta missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said (sosta per rifornimento di acqua, nafta e provviste fresche)-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 352 pazienti.
8-30 agosto 1936
Quinta missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 362 pazienti. Il 30 agosto si verifica un’avaria di macchina, che viene però risolta dall’equipaggio con i mezzi disponibili a bordo, raggiungendo Napoli senza ulteriori problemi.
12 settembre-2 ottobre 1936
Sesta missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Alessandria-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 356 pazienti.
10-28 ottobre 1936
Settima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 356 pazienti.
3-21 novembre 1936
Ottava missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 352 pazienti.
28 novembre-16 dicembre 1936
Nona missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 326 pazienti.

Una corsia d’ospedale sulla Cesarea nel 1936 (Ufficio Storico della Marina Militare, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

23 dicembre 1936-10 gennaio 1937
Decima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 349 pazienti.
2-19 febbraio 1937
Undicesima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 361 pazienti.
26 febbraio-17 marzo 1937
Dodicesima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 358 pazienti.
18 marzo-10 aprile 1937
Tredicesima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Gibuti-Assab-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 342 pazienti.
10 aprile-8 maggio 1937
Quattordicesima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Gibuti-Assab-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 358 pazienti.
16 maggio-8 giugno 1937
Quindicesima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Gibuti-Assab-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 333 pazienti.
21 giugno-14 luglio 1937
Sedicesima missione in Africa Orientale. Itinerario Napoli-Port Said-Massaua-Gibuti-Assab-Massaua-Port Said-Napoli; rimpatriati 340 pazienti.
2 novembre 1936
Il colonnello Maiorca lascia la Cesarea, venendo avvicendato nel ruolo di direttore sanitario dal colonnello medico Ettore Micheletti. Contestualmente, viene gradualmente ridotto il personale sanitario: non essendoci più molti feriti da curare, essendosi concluse le ostilità in Etiopia (anche se azioni di guerriglia nelle zone più sperdute continueranno a lungo), non è più necessario mantenere a bordo molto personale specializzato in chirurgia; ormai i pazienti sono in maggioranza malati convalescenti che rimpatriano.
10 gennaio 1937
Il colonnello medico Amedeo Chiappini sostituisce il parigrado Micheletti come direttore sanitario della Cesarea.
14 luglio 1937
Salpa da Napoli per la sua diciassettesima, ed ultima, missione verso l’Africa Orientale Italiana. Dopo uno scalo a Port Said raggiunge Massaua, per poi proseguire fino ad Assab, facendo tappa anche a Gibuti; rientra poi a Massaua e da lì a Napoli, via Port Said.
8 agosto 1937
Arriva a Napoli con 332 pazienti.
Agosto 1937
In seguito alla distruzione, avvenuta per incendio nel porto di Napoli, della Helouan, una delle navi ospedale impiegate nel trasporto dalla Spagna all’Italia dei militari feriti del Corpo Truppe Volontarie che combattono a fianco dei franchisti nella guerra civile spagnola, viene deciso di destinare a tale compito in sua sostituzione la Cesarea. Siccome la Spagna repubblicana possiede una Marina ed un’aviazione, la nave viene riclassificata da nave trasporto infermi a nave ospedale vera e propria, venendo registrata come tale a Ginevra e ridipinta con la livrea prescritta dalle norme internazionali (scafo, sovrastrutture e fumaiolo bianchi, croce rossa sul fumaiolo, striscia verde interrotta da croci rosse sullo scafo, adeguati impianti di illuminazione tali da rendere il riconoscimento agevole anche di notte). Non può più essere, di conseguenza, impiegata anche come trasporto truppe, ma solo per il trasporto e la cura di feriti e malati.
27 agosto 1937
Completati i lavori di manutenzione e conversione, la Cesarea lascia Napoli diretta a Cadice.
Giunta nel porto spagnolo, viene temporaneamente impiegata come ospedale galleggiante a beneficio del personale militare in loco e del naviglio militare italiano e tedesco ivi stanziato, mentre si attende l’arrivo dall’interno dei convogli che trasportano i feriti da rimpatriare.
7 settembre 1937
Inizia l’imbarco di 119 feriti provenienti dall’ospedale militare italiano n. 43 di Valladolid. Uno di essi, la camicia nera Giobatta Sassarini, ferito alla colonna vertebrale nella battaglia di Santander, muore poco dopo. Altri feriti vengono imbarcati nei giorni successivi.
17 settembre 1937
Lascia Cadice con a bordo 353 pazienti: a differenza che in Etiopia, dove i malati rappresentavano la maggioranza (data la diffusione delle malattie tropicali), qui sono solo 48, mentre i rimanenti 305 sono feriti, provenienti dalla battaglia di Santander. L’attività svolta dall’ospedale di bordo è dunque prevalentemente chirurgica ed ortopedica.
21 settembre 1937
Arriva a Napoli, dove sbarca i pazienti, che vengono trasferiti negli ospedali di terra.
2 ottobre 1937
Salpa da Gaeta per un’altra missione in Spagna.
1937
Compie una missione come nave ospedale a Lero, nel Dodecaneso.
Ottobre 1937
Radiata dai quadri del naviglio militare e restituita al Lloyd Triestino.
17 febbraio 1938
Entra nell’Arsenale del Lloyd Triestino per la riconversione in nave passeggeri: vengono realizzate 69 cabine di prima classe, 148 di seconda e 301 di terza, e la stazza lorda viene portata a 8024 tsl.
Giugno 1938
Ribattezzata Arno.
27 settembre 1938
Inizia il servizio di linea sulla tratta Napoli-Massaua-Gibuti.

L’Arno in servizio civile di linea alla fine degli anni Trenta (g.c. Giacomo Toccafondi)

Novembre 1939
La linea percorsa dall’Arno viene allungata, divenendo Genova-Napoli-Massaua-Gibuti.
2 giugno 1940
L’ammiraglio Odoardo Somigli, sottocapo di Stato Maggiore della Regia Marina, ordina la requisizione dell’Arno al suo rientro a Trieste il successivo 5 giugno, e la sua trasformazione in nave ospedale presso i cantieri San Marco: l’Italia si appresta ad entrare nella seconda guerra mondiale. L’ordine stabilisce che “dovranno ripristinare le stesse sistemazioni che furono realizzate nel precedente impiego di tale piroscafo quale nave ospedale in occasione dell’impresa etiopica”, salvo per l’impianto di condizionamento, che non si ritiene necessario ripristinare (a meno che non sia già presente funzionante) in quanto si ritiene bastante l’impianto di ventilazione.
5 giugno 1940
Requisita dalla Regia Marina a Trieste, l’Arno entra subito nei cantieri San Marco di Trieste per i lavori di trasformazione. Vengono ricavati a bordo 446 posti letto.
12 luglio 1940
Al termine dei lavori, l’Arno viene iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato come nave ospedale. Anche l’equipaggio viene militarizzato; il comandante, capitano Salvatore Porzio, viene militarizzato con il grado di capitano di corvetta, il primo, secondo e terzo ufficiale (Rocco Cardella, Gaetano Radice e Francesco Rossi) ricevono rispettivamente i gradi di tenente di vascello, sottotenente di vascello e guardiamarina, l’allievo ufficiale Raffaele Castellano diviene aspirante guardiamarina, il direttore di macchina Emilio Sciaccaluga ed il primo ufficiale di macchina Giovanni Zinicola ricevono il grado di capitano del Genio Navale Direzione Macchine, i due secondi ufficiali di macchina (Arnaldo Borda ed Adolfo Turacek) divengono tenenti del Genio Navale Direzione Macchine, i tre terzi ufficiali di macchina (Giuseppe Bertuccio, Orazio Lo Faro, Giovanni Jadeluca) divengono sottotenenti G. N. D. M., ed il marconista Giuseppe Chierichetti riceve il grado di sottotenente radiotelegrafista.
L’Italia è entrata in guerra il 10 giugno.
13 luglio 1940
L’Arno lascia Trieste diretta a Taranto, dove dovrà imbarcare il materiale e personale sanitario. Fa scalo a Brioni ed a Brindisi.

L’Arno durante il trasferimento da Trieste a Taranto nel luglio 1940. I contrassegni da nave ospedale sono appena abbozzati (Stelio Zoratto, Museo del Mare di Trieste, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

16 luglio 1940
Arriva a Taranto. Tra gli altri imbarca il colonnello medico Achille Talarico (già direttore del reparto chirurgia dell’Ospedale di Marina di La Spezia e docente di chirurgia d’urgenza), nominato direttore sanitario, che cura l’allestimento delle strutture ospedaliere di bordo; nel suo libro di memorie "Scoglio e marosi" Talarico ricorderà dell’Arno: “Se la sua linea non era moderna (essendo stata costruita a Glasgow nel 1912), i suoi solidi fianchi e la sua sagoma dimostravano quanto essa fosse adatta a tenere qualsiasi mare”. Gli altri ufficiali medici destinati sull’Arno sono il colonnello medico Giuseppe Vitetti, un pediatra romano richiamato, come vicedirettore sanitario e responsabile del reparto ufficiali e sottufficiali; i maggiori medici Giorgio Iacobelli (direttore del I reparto di medicina), Antonio Merlini (direttore della I Divisione di chirurgia, poco dopo sostituito dal parigrado Alfredo Sostegni) ed Antonio Murani (direttore del reparto misto e del gabinetto radiologico); i capitani medici Rodolfo Nardini (direttore della II Divisione di chirurgia), Giuseppe Margani (direttore del reparto isolamento e del gabinetto batteriologico) e Dante Enea (addetto ai reparti di degenza); il tenente medico Manlio Mulas (direttore del II reparto di medicina); il tenente farmacista Giovanni Lupo (responsabile della farmacia di bordo); ed il sottotenente medico Domenico Bertoni (addetto ai reparti di degenza). Cappellano di bordo è il tenente cappellano Giulio Bevilacqua, 59 anni, da Isola della Scala, già pluridecorato ufficiale degli Alpini nella prima guerra mondiale e futuro cardinale: pur contrario al fascismo, che ritiene inconciliabile con i principi cristiani, ha deciso di prestare servizio come cappellano militare per restare vicino ai giovani soldati e marinai; in seguito verrà avvicendato nel ruolo da don Giuseppe Tedeschi, da Iseo, di due anni più giovane ed anch’egli veterano decorato della Grande Guerra (nella quale si era arruolato come cappellano militare, pur essendo un convinto pacifista, per portare conforto spirituale ai soldati). Il primo gruppo di crocerossine assegnato alla nave è composto dalla capogruppo Maria Buonamici e dalle sorelle Cecilia Villasanta, Lucia Cantagalli, Rosanna Marini, Maria Pia Orzalesi, Maria Giaconia e Marinetta Nicastro (nel corso della sua vita operativa si alterneranno vari gruppi di crocerossine, in maggioranza provenienti dai Comitati CRI di Roma e di Napoli). Completano il personale medico di bordo una cinquantina tra sottufficiali e marinai infermieri.
I lavori di allestimento svolti a Taranto richiedono due settimane: vengono portati a bordo in tutto 501 tra casse e colli, con il cui materiale vengono allestite sale operatorie, reparti di degenza, autoclavi, gabinetti batteriologici e radiologici, farmacia, ambulatori e cabine imbottite per sette pazienti psichiatrici, nonché proiettori, luci di riconoscimento e sistemi antincendio; viene inoltre aumentata la dotazione di mezzi di salvataggio. Il colonnello Talarico s’incarica di inquadrare ed addestrare l’equipaggio, un’amalgama di civili militarizzati, richiamati e ben poco personale in servizio permanente effettivo, onde raggiungere un buon livello di affiatamento e disciplina. Particolare cura viene dedicata all’approntamento delle lance e relative dotazioni ed alle esercitazioni per la loro messa in mare e successivo alaggio, in vista di future missioni di soccorso in mare.

Il maggiore medico Alfredo Sostegni, il tenente medico Ercole La Torre (assistente nel II reparto chirurgia) ed i capitani medici Piero Malcovati e Dante Enea con le crocerossine Carla Valeri, Milly Bezzi e Luisa Beltrami (g.c. Giacomo Toccafondi)

Don Bevilacqua celebra messa a bordo dell’Arno (Ufficio Storico della Marina Militare, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

Crocerossine a bordo dell’Arno (g.c. Giacomo Toccafondi)

30 luglio 1940
L’Arno lascia Taranto diretta a Napoli, base operativa centrale delle navi ospedale.
8 agosto 1940
Riceve a Napoli una visita privata della principessa di Piemonte, Maria José.
22 agosto 1940
Lascia Napoli diretta a Bengasi, dove vengono portati i feriti dei primi scontri al confine libico-egiziano.
24 agosto 1940
Arriva a Bengasi. Nei giorni successivi imbarca un totale di 410 tra feriti e malati, in parte provenienti dall’Ospedale Coloniale di Bengasi ed in parte direttamente dal fronte a mezzo autocolonne (in gran parte si tratta di militari affetti da febbri tifoidi di origine idrica, nefriti e dissenteria amebica), e funge anche da ambulatorio per le navi presenti in porto e sprovviste di ufficiale medico. I degenti vengono imbarcati per mezzo delle lance della nave, e quelli più gravi sono issati a bordo utilizzando il telaio Rosselli, che consente di sollevare le barelle dalle imbarcazioni e depositarle a bordo senza scossoni. Una volta a bordo, i pazienti vengono visitati, medicati, lavati e rivestiti con pigiami puliti in luogo delle divise sporche.
4 settembre 1940
Giunta l’Aquileia a darle il cambio, l’Arno lascia Bengasi alla volta di Napoli.

La nave in manovra del porto di Bengasi, alla fine dell'estate del 1940 (g.c. STORIA Militare).
 
6 settembre 1940
Arriva a Napoli dopo una navigazione tranquilla. Il direttore di macchina Talarico elogerà, nel suo rapporto, l’ottimo funzionamento dell’organizzazione di bordo e la collaborazione del comandante Porzio e del comandante in seconda, tenente di vascello Rocco Cardella; Talarico a sua volta riceverà i complimenti del direttore della sanità militare di Napoli per il celere ed ordinato sbarco dei pazienti.
Poco dopo l’arrivo a Napoli, prende imbarco sull’Arno il capitano di vascello in ausiliaria Gino Sabatini, nominato comandante militare della nave. Poco tempo dopo Sabatini verrà sostituito da un altro comandante militare, il capitano di vascello Djalma Viotti, che instaurerà con Talarico un rapporto conflittuale sia per via del confine poco chiaro tra le rispettive prerogative, sia per la sua decisione di adibire alcune cabine del reparto ufficiali, destinate appunto ad ufficiali degenti, ad alloggio ed uffici.
14 settembre 1940
Parte per Tripoli, dove imbarca 60 tra feriti e malati. Dovrebbe poi proseguire alla volta di Bengasi, ma la partenza viene rinviata a causa del pericolo delle mine magnetiche.
28 settembre 1940
Viene infine autorizzata a partire per Bengasi.
30 settembre 1940
Arriva a Bengasi. Due settimane prima, il porto cirenaico è stato duramente colpito dall’aviazione britannica, che con lancio di bombe e mine magnetiche ha affondato o gravemente danneggiato numerose navi (cacciatorpediniere Aquilone e Borea, piroscafi Maria Eugenia e Gloriastella, motonave Francesco Barbaro, torpediniera Cigno); per questa ragione, Marilibia dispone che di giorno l’Arno si mantenga al di fuori del molo foraneo, e di notte si sposti a Ras Taiunes, onde evitare che sia coinvolta in eventuali nuovi attacchi aerei. Ciò obbliga ad usare dei motopescherecci per traghettare i pazienti tra la nave e la terraferma. Tra i 402 pazienti imbarcati dall’Arno vi sono 43 marinai del sommergibile Uarsciek, praticamente l’intero equipaggio, intossicati da vapori di mercurio rilasciati in seguito alla rottura di un tubo manometrico; uno di essi, il motorista Ermanno Tirone, morirà sull’Arno durante la navigazione verso l’Italia. Altri 74 sono feriti in combattimento, mentre la restante parte dei degenti sono affetti da malattie di vario genere.
6 ottobre 1940
Ritorna a Napoli, dove viene sottoposta ad un periodo di lavori di manutenzione.
6 novembre 1940
Salpa da Napoli per un altro viaggio in Libia.

(Ufficio Storico della Marina Militare, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

12 novembre 1940
Imbarca a Tripoli 107 tra feriti e malati, operazione svolta nel minor tempo possibile per il timore di attacchi aerei; quando già la nave è in procinto di partire, arrivano altri quindici pazienti da imbarcare, inviati da Tobruk per via aerea.
14 novembre 1940
Imbarca a Bengasi altri 324 pazienti.
Su 431 pazienti solo diciotto sono i feriti; gli altri sono affetti da malattie, in prevalenza febbri tifoidee, pleuriti, enteriti e reumatismi, conseguenza delle dure condizioni di vita al fronte.
17 novembre 1940
Rientra a Napoli, dopo aver incontrato mare mosso.
29 novembre 1940
Lascia Napoli diretta a Tripoli, incontrando mare agitato.
2 dicembre 1940
Arriva a Tripoli, dove imbarca 69 pazienti.
5 dicembre 1940
Giunge a Bengasi, dove imbarca altri 347 tra feriti e malati; l’operazione d’imbarco è portata a termine in appena tre ore, nonostante la stanchezza ed il mal di mare che affliggono l’equipaggio.
9 dicembre 1940
Arriva a Napoli dopo una traversata infernale per tutti, pazienti ed equipaggio, a causa del persistente maltempo.
14 dicembre 1940
L’Arno si trova a Napoli quando il porto partenopeo viene sottoposto ad un’incursione serale da parte di quattro bombardieri Vickers Wellington del 148th Squadron della Royal Air Force, decollati dalla base maltese di Luqa per attaccare la flotta italiana trasferitasi nel porto partenopeo dopo l’attacco di aerosiluranti contro la base di Taranto avvenuto un mese prima (sono presenti in porto le corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto, ormeggiate al molo Luigi Razza, e gli incrociatori pesanti Zara, Pola e Gorizia, i primi due alla calata Italo Balbo, il terzo al pontile Duchessa Elena d’Aosta).
La visibilità è ottima, grazie al cielo sereno con luna piena; sorvolata Capri, i bombardieri giungono su Napoli dalla direzione del mare, e sganciano il loro carico di bombe da 113 kg sulla zona portuale, vanamente contrastati dal violento ma poco accurato tiro delle batterie contraeree di terra e dell’armamento antiaereo delle navi in porto. Una bomba esplode sul molo Luigi Razza, affondando per effetto delle schegge e dello spostamento d’aria il motoveliero Immacolata Terza; altre due centrano l’incrociatore pesante Pola, uccidendo 22 uomini, ferendone gravemente altri (tra cui il comandante in seconda, capitano di fregata Oliviero Diana) ed aprendo sotto la linea di galleggiamento una falla attraverso la quale l’incrociatore imbarca centinaia di tonnellate d’acqua, assumendo un marcato sbandamento sul lato sinistro. Altre bombe ancora cadono sulla zona industriale di Bagnoli, altre distruggono due abitazioni in via Nuova Bagnoli, provocando nove vittime civili, tra cui due bambini di uno e quattro anni (altri abitanti dei due edifici, rimasti sepolti sotto le macerie, vengono salvati dall’intervento dei Vigili del Fuoco).
Alcuni spezzoni incendiari cadono anche a bordo dell’Arno, ma vengono prontamente spenti senza recare danni; una squadra di soccorso della nave ospedale, guidata dal direttore medico Talarico e dal cappellano don Bevilacqua, si reca a bordo del Pola, alcuni dei cui feriti vengono portati sull’Arno per le prime cure.
Nelle prime ore del 15 giunge su Napoli una seconda ondata di quattro Wellington del 148th Squadron (un quinto è dovuto rientrare prematuramente) bombarda Mergellina, Torre Annunziata e la base aerea di Capodichino, ma stavolta la copertura nuvolosa frattanto formatasi limita i danni.
15 dicembre 1940
Lascia Napoli per una nuova missione in Libia: stavolta punterà direttamente su Bengasi, senza fare scalo a Tripoli. Sei giorni prima ha avuto inizio la travolgente offensiva britannica "Compass", che nel giro di due mesi porterà alla perdita dei pochi territori conquistati in Egitto in settembre ed alla perdita dell’intera Cirenaica. Il mare è ancora tempestoso.
18 dicembre 1940
Arriva a Bengasi, imbarca 442 pazienti e riparte il giorno stesso.
21 dicembre 1940
Arriva a Napoli, dopo un’altra navigazione funestata dal tempo pessimo.
26 dicembre 1940
Riparte da Napoli per un’altra missione a Bengasi.
29 dicembre 1940
Arriva a Bengasi, imbarca con la massima celerità possibile 427 pazienti e riparte dopo poche ore alla volta di Napoli. Adesso la quota dei feriti sul totale dei degenti è salita sensibilmente rispetto alle missioni iniziali: sono circa un quinto, effetto dell’offensiva britannica.
1° gennaio 1941
Fa ritorno a Napoli.

L’Arno, sulla destra, sbarca feriti barellati provenienti dal fronte nordafricano nel porto di Napoli; sulla sinistra è ormeggiata la nave ospedale Gradisca (g.c. Giacomo Toccafondi)

8 gennaio 1941
In serata Napoli subisce una nuova incursione aerea britannica, avente di nuovo come obiettivo le navi in porto: le corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto (ancora ormeggiate al molo Razza come tre settimane prima), l’incrociatore pesante Pola in riparazione per i danni subiti qualche settimana prima, e vari cacciatorpediniere. Come la volta precedente, l’attacco è condotto dai bombardieri Vickers Wellington del 148th Squadron, decollati da Luqa nel tardo pomeriggio, ma stavolta questi non colgono impreparate le difese italiane: sono stati avvistati già a Messina, mezz’ora prima di arrivare a Napoli, così che la contraerea è stata messa in allerta con largo anticipo, è decollata una squadriglia di aerei da caccia e gli impianti a cloridrina per l’annebbiamento artificiale – appena installati proprio per evitare che si ripeta quanto accaduto il 14 dicembre – hanno provveduto ad occultare il porto e le navi in esso contenute con una cortina nebbiogena. Non riuscendo a vedere i loro obiettivi, i piloti britannici sganciano alla cieca sull’area portuale.
Una bomba cade sul molo Razza a pochi metri dalla Cesare, che per effetto delle schegge e dello spostamento d’aria subisce alcune vittime fra l’equipaggio ed una falla di modesta entità ma riparabile soltanto in bacino di carenaggio, il che obbligherà a trasferirla a Genova per le riparazioni, mancando a Napoli bacini abbastanza grandi da poterla ospitare. Altre bombe cadono sull’abitato, incendiando e distruggendo un gasometro da 50.000 metri cubi in via Stella Polare (l’incendio, che con le sue ripetute esplosioni semina il panico nel quartiere, viene faticosamente spento dopo ore di lavoro da parte dei pompieri), danneggiando gravemente la chiesa di Santa Maria del Monserrato e varie abitazioni a Borgo Loreto e nella zona attorno al porto, e provocando sette vittime tra la popolazione civile.
Di un’altra bomba fa le spese proprio l’Arno, ormeggiata in porto ed oscurata. Al momento dell’allarme aereo, che viene dato alle 19.35, parte dello stato maggiore e dell’equipaggio si trovano a terra, in franchigia; a bordo della nave sono il direttore sanitario, alcuni medici, il personale di guardia in coperta ed in sala macchine nonché il cappellano ed il commissario di bordo, che sono sorpresi dall’allarme mentre conversano in quadrato in attesa dell’ora di cena. Tutti corrono ai propri posti: vengono formate le squadre d’emergenza e di pronto soccorso, ed approntati i materiali per far fronte ad incendi e vie d’acqua.
A causa delle norme sull’oscuramento, l’Arno non è riconoscibile come nave ospedale: una assurdità, quella di imporre alle navi ospedale il rispetto del coprifuoco quando si trovano in porto, che produrrà funesti risultati nei mesi a venire, con la perdita della Po e della California. Proprio quanto accaduto all’Arno costituisce un primo segnale in tal senso: alle 20.40 la nave viene colpita sul lato sinistro, a poppavia del centro, da una bomba dirompente che trapassa tre ponti prima di esplodere appiccando un incendio che assume rapidamente proporzioni preoccupanti (una seconda bomba esplode in mare a pochi metri di distanza, sempre sulla sinistra, ma senza causare danni). Alimentano le fiamme le pellicole cinematografiche il cui deposito è uno dei locali colpiti, una trentina di sedie a sdraio che erano state accatastate in coperta ed una dozzina tra tende e cappe delle lance che dopo essere state lavate erano state stese ad asciugare sul ponte di passeggiata; i locali interni sono invasi da un fumo irrespirabile, generato dalla combustione delle vernici. Subito interviene la squadra d’emergenza, al comando del secondo ufficiale: vengono preparate e distese le manichette antincendio, ma al momento di aprire l’acqua si scopre che l’esplosione ha danneggiato anche le tubazioni che alimentano le manichette, rendendole inutilizzabili. Non per questo l’equipaggio si perde d’animo; viene formata una catena di secchi ed intervengono con gli estintori due squadre di marinai guidate dal commissario di bordo e dal comandante del distaccamento militare. Un secondo capo elettricista butta in mare le pellicole incendiate, ed appena l’incursione ha termine accorre a bordo ad aiutare il personale di altre navi ormeggiate nelle vicinanze, tra cui un’altra nave ospedale, la Tevere (un ufficiale medico di quest’ultima si è anzi precipitato sull’Arno mentre ancora il bombardamento era in corso, al pari di parecchio personale dell’Arno che si trovava in franchigia a terra). Non risulta invece possibile, durante l’allarme, mettersi in comando con il locale comando militare e con le organizzazioni portuali di soccorso.
Dopo poco più di mezz’ora, le fiamme possono essere domate. Non vi sono vittime, anche se alcuni marinai hanno riportato ferite od ustioni, nessuno in modo grave. Quando la Tevere si mette in contatto con l’Arno chiedendo se necessiti di assistenza, questa risponde chiedendo di informare il Comando del Dipartimento che è stata colpita ed ha domato l’incendio con i mezzi di bordo.
Nondimeno, l’Arno ha subito danni gravi, tali da rendere necessario il trasferimento della nave a Genova per i lavori di riparazione. La bomba ha penetrato il ponte A sulla sinistra, aprendo un foro circolare del diametro di 30 centimetri vicino ad una lancia di salvataggio (rimasta indenne), esplodendo sul ponte B creando uno squarcio di due metri e sfondando anche il sottostante ponte C, distruggendo una sezione di scafo sul lato sinistro. Tre cabine destinate agli ufficiali medici di bordo sono state completamente distrutte, altre sette gravemente danneggiate (per fortuna non c’era nessuno all’interno al momento dell’attacco); in corrispondenza della zona dell’impatto i tre ponti A, B e C sono stati visibilmente deformati, sotto il ponte A si è formata una vera voragine. L’incendio ha distrutto anche il deposito delle pellicole cinematografiche con i relativi proiettori e danneggiato gravemente i gabinetti dentistico e radiologico, demolito gli strumenti di trasmissione dei telegrafi tra la plancia e la sala macchine, distrutto gli impianti elettrici che alimentano la radio ed i segnali luminosi, la rete d’illuminazione dei locali interni, le condutture del telemotore del timone, gli apparati degli avvisatori automatici d’incendio e le condutture dell’acqua potabile sul lato sinistro. L’opera morta è stata danneggiata e sforacchiata da schegge e rottami lanciati dallo scoppio della bomba.
11 gennaio 1941
Dopo alcune riparazioni provvisorie volte a consentirle di riprendere il mare con i propri mezzi, l’Arno lascia Napoli alla volta di Genova.
12 gennaio 1941
Arriva a Genova ed entra nelle Officine Allestimento e Riparazione Navi (O.A.R.N.).
8 febbraio 1941
I lavori di riparazione vengono ultimati.
9 febbraio 1941
Appena un giorno dopo la fine dei lavori, Genova viene sottoposta a bombardamento navale da parte della Forza H britannica, salpata da Gibilterra nell’ambito dell’Operazione "Grog".
Tale operazione è stata decisa dagli alti comandi britannici per vari motivi: sul piano strettamente militare, i britannici ritengono che due corazzate italiane, Littorio e Giulio Cesare (la prima danneggiata da aerosiluranti nella “notte di Taranto” del 12 novembre 1940, la seconda dal bombardamento di Napoli dell’8 gennaio nel quale era stata danneggiata anche l’Arno), si trovino in riparazione nei cantieri del capoluogo ligure, e vogliono dunque colpirle (in realtà la Littorio non è a Genova e la Cesare si è trasferita da Genova a La Spezia da pochi giorni, mentre è in riparazione a Genova un’altra corazzata, la Duilio, anch’essa colpita durante la “notte di Taranto”); inoltre i cantieri navali di Genova, e le altre importanti industrie della città, costituiscono un obiettivo strategico di tutto rispetto, così come il suo porto, il più grande in Italia. In aggiunta a ciò, i britannici intendono conseguire risultati anche sul piano politico e psicologico, colpendo una grande città italiana relativamente lontana dalle zone “calde” della guerra in Mediterraneo e mostrando dunque l’incapacità della Marina e dell’Aeronautica italiane di difendere le proprie coste, oltre a far vedere al dittatore spagnolo Francisco Franco, che Hitler e Mussolini stanno tentando di convincere ad entrare in guerra a fianco dell’Asse (l’incontro tra Franco e Mussolini si terrà a Bordighera il 12 febbraio), cosa accadrebbe alle città costiere della Spagna nel caso decidesse di scendere in campo contro il Regno Unito. Genova è stata prescelta in considerazione della relativa pochezza delle sue difese costiere e della grande profondità del Mar Ligure, che permetterebbe alle navi della Forza H di avvicinarsi fino a poca distanza dalla costa senza rischiare d’incappare in campi minati.
La Forza H è partita da Gibilterra il 6 febbraio, al comando dell’ammiraglio James Somerville, con la corazzata Malaya, l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark Royal, l’incociatore leggero Sheffield ed i cacciatorpediniere Fury, Fearless, Firedrake, Foxhound, Foresight, Duncan, Encounter, Isis, Jersey e Jupiter; per ingannare eventuali osservatori dell’Asse presenti in territorio spagnolo, la partenza è avvenuta in due gruppi (sei cacciatorpediniere alle due del pomeriggio, il resto della forza navale tre ore dopo), dei quali il primo (quello formato da soli cacciatorpediniere) ha inscenato una ricerca antisommergibili nello stretto, ed il secondo, quello principale, è inizialmente diretto in Atlantico fingendo di scortare un convoglio diretto in Inghilterra. Calato il buio, le navi del secondo gruppo si sono separate ed hanno riattraversato isolatamente lo stretto, rientrando in Mediterraneo, per poi riunirsi 55 miglia ad est di Gibilterra nelle prime ore del 7 febbraio; il giorno seguente si sono uniti ad esse anche i cacciatorpediniere dell’altro gruppo, a nord di Maiorca. La Forza H ha quindi seguito una rotta che passava a nord delle Baleari e nel Golfo del Leone, difficilmente prevedibile da parte italiana, mandando due cacciatorpediniere, il Firedrake ed il Jupiter, ad est di Maiorca ad effettuare deliberatamente trasmissioni radio allo scopo di fuorviare i comandi italiani – nella speranza che le intercettino e radiogoniometrino – sulla posizione della forza navale britannica.
Verso le cinque mattino del 9 febbraio la Forza H si è divisa: l’Ark Royal, incaricata di condurre con i suoi aerei un’incursione contro la raffineria ANIC di Livorno ed un’azione di minamento delle rotte di accesso al Golfo di La Spezia, si è separata dal grosso insieme a tre cacciatorpediniere, portandosi nel punto prestabilito per il lancio dei suoi aerei, mentre le altre navi hanno raggiunto alle sei un punto situato a sudovest del punto medio della congiungente Genova-Capo Corso. Da qui hanno accostato verso nord, giungendo alle 7.52 una dozzina di miglia a sud del promontorio di Portofino; indi hanno ridotto la velocità a 18 nodi ed assunto rotta 290°, ed alle 8.14 hanno aperto il fuoco su Genova, proseguendo il bombardamento fino alle 8.45. Il fuoco viene aperto dalle navi britanniche da 19.000 metri di distanza, che vanno a calare fino ad un minimo di 16.200 per poi riprendere ad aumentare fino a divenire 21.200 metri al termine dell’operazione. In tutto il Renown (nave ammiraglia di Somerville) spara 125 colpi da 381 mm e 400 da 114 mm, la Malaya 148 colpi da 381 e lo Sheffield 782 colpi da 152 mm: per un totale di circa duecento tonnellate di esplosivo.
L’accuratezza del tiro britannico, come spesso avviene nei bombardamenti navali, è piuttosto scarsa: quasi metà dei colpi sparati finisce in mare, circa un terzo colpisce la città, specialmente l’area portuale (i ponti Eritrea e Somalia, la darsena ad est di Ponte Parodi, i magazzini del cotone e l’area bacini del Molo Giano) e quella della Val Polcevera, presa particolarmente di mira per via della concentrazione di fabbriche e depositi petroliferi che vi si trova. Su 55 navi mercantili presenti in porto solo due sono affondate, il piroscafo Ezilda Croce e la nave scuola Garaventa, e due subiscono danni seri, i piroscafi Salpi e Garibaldi; altre 29, tra cui l’Arno, subiscono danni da schegge. Le uniche due navi da guerra presenti, la corazzata Duilio ed il cacciatorpediniere Bersagliere, rimangono del tutto indenni.
Gravi invece i danni all’abitato, specie nella zona compresa tra la stazione Principe, la foce del Bisagno e la congiungente Brignole-Corvetto, nonché a Sampierdarena, nella zona attorno all’odierno Lungomare Canepa. 250 abitazioni vanno distrutte, lasciando 2500 senzatetto; le vittime civili sono 144, i feriti 272. Sono colpiti tra gli altri la cattedrale di San Lorenzo (dove è ancora oggi esposto un proiettile da 381 mm rimasto inesploso), l’ospedale Galliera, la biblioteca Berio, Via Galata e Piazza Manin.
Scarsa ed inefficace la reazione delle difese costiere: aprono il fuoco la batteria "Mameli" (ubicata sulle alture di Pegli ed armata con pezzi da 152 mm), il treno armato 23 (anch’esso armato con cannoni da 152) ed i pontoni armati G.M. 194 (armato con due cannoni da 381 mm, può sparare solo tre colpi a causa di avarie ad entrambi i pezzi) e G.M. 269 (armato con cannoni da 190 mm), ma nessun colpo va a segno. Le navi britanniche rientreranno indisturbate a Gibilterra nel tardo pomeriggio dell’11 febbraio, vanamente inseguite dalla flotta italiana uscita da La Spezia, che non riuscirà a rintracciarle a causa della pessima collaborazione con i ricognitori dell’Aeronautica, che inviano segnali di scoperta errati, contrastanti e/o in forte ritardo.
L’Arno subisce solo lievi danni da schegge.
12 febbraio 1941
Riparati i lievi danni causati dal bombardamento navale, l’Arno lascia Genova per fare ritorno a Napoli.
13 febbraio 1941
Arriva a Napoli.
16 febbraio 1941
Per scongiurare altri danni, vista la frequenza raggiunta dalle incursioni aeree britanniche su Napoli, l’Arno viene trasferita a Gaeta (per lo stesso motivo, il direttore sanitario Talarico disporrà che durante le soste a Napoli le crocerossine alloggino in albergo, ritenuto più sicuro, invece che sulla nave, decisione da esse accolta sfavorevolmente).

L’Arno in una foto scattata probabilmente a Gaeta durante la guerra (g.c. collezione privata Carlo di Nitto, Gaeta).

23 febbraio 1941
Salpa da Gaeta diretta in Libia, incontrando mare grosso con forte vento teso di libeccio. Unica destinazione Tripoli: Bengasi è caduta in mano britannica qualche settimana prima.
Giunta a Tripoli dopo una navigazione travagliata dal maltempo, l’Arno imbarca 385 tra feriti e malati nonché cento naufraghi della nave ospedale Tevere, affondata qualche giorno prima per urto contro mina proprio davanti all’imboccatura del porto di Tripoli; tra di essi il suo direttore sanitario, tenente colonnello medico Domenico Penazzo.
25 febbraio 1941
Lascia Tripoli per fare ritorno in Italia; ancora una volta il tempo è pessimo e gran parte dei pazienti subisce gli effetti del mal di mare.
27 febbraio 1941
Arriva a Napoli, dove sbarca degenti e naufraghi. Dopo questa missione sbarca il comandante militare Viotti, che non sarà più sostituito.
1° marzo 1941
Ritorna a Gaeta.
10 marzo 1941
Torna a Napoli.


Sopra, ufficiali dell’Arno a Gaeta nel marzo 1941; sotto, le crocerossine Carla Valeri e Milly Bezzi (g.c. Giacomo Toccafondi)


16 marzo 1941
Parte da Napoli diretta in Libia per la sua ottava missione dall’inizio del conflitto.
18 marzo 1941
Arriva a Tripoli contemporaneamente ad un convoglio carico di truppe e rifornimenti; ormeggiatasi al Molo Cagni, imbarca 421 tra feriti e malati, poi riparte in serata.
Durante la navigazione vengono avvistate due mine alla deriva, di cui viene comunicata la posizione a beneficio delle altre navi in navigazione in zona.
20 marzo 1941
Arriva a Napoli, dove sbarca i pazienti e viene poi sottoposta a disinfezione.
24 marzo 1941
Parte alla volta di Tripoli, scontrandosi ancora una volta con il mare in tempesta.
26 marzo 1941
Arriva a Tripoli, imbarca 431 pazienti e riparte dopo poche ore, incontrando ancora forte vento e mare molto agitato. Durante la navigazione di rientro incontra un convoglio formato da tre navi mercantili, scortate da un incrociatore ausiliario.
28 marzo 1941
Arriva a Napoli.
29 marzo 1941
Riceve l’ordine, inviato a mezzo di un fonogramma del Comando Marina di Napoli, di trasferirsi il prima possibile a Messina.
30 marzo 1941
Arriva a Messina alle 6.30 e vi rimane pronta a muovere, in attesa di ordini, con personale e materiale pronto per un’operazione di ricerca e soccorso naufraghi.
Si è appena consumata la tragica battaglia di Capo Matapan, la più grave sconfitta subita dalla Marina italiana nella sua storia: nelle acque dell’Egeo sono stati affondati gli incrociatori pesanti Zara, Pola e Fiume ed i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri e Giosuè Carducci, sui quali si trovavano più di 3500 uomini. I britannici hanno recuperato un migliaio di naufraghi (un altro centinaio sono stati recuperati successivamente da alcuni cacciatorpediniere greci) prima di lasciare la zona a causa degli attacchi aerei tedeschi; hanno però trasmesso in chiaro le coordinate dei naufraghi rimasti in mare, insieme al suggerimento di inviare una nave ospedale. A questo scopo Supermarina ha fatto partire da Taranto la nave ospedale Gradisca, la più (relativamente) veloce tra quelle disponibili; all’Arno è stato ordinato di dislocarsi a Messina per fornire supporto, ma non sarà necessario. Giunta sul luogo della battaglia, la Gradisca perlustrerà il mare per giorni, ma riuscirà a trovare solo 161 superstiti: i morti saranno oltre 2300.
8 aprile 1941
Lascia Messina diretta a Tripoli, incontrando per l’ennesima volta mare tempestoso.
9 aprile 1941
Raggiunge Tripoli, imbarca celermente 431 pazienti e poi riparte per l’Italia, sempre incontrando mare burrascoso.
10 aprile 1941
In serata, al traverso di Capo Peloro, l’Arno incontra un convoglio formato dall’avviso francese Élan e da tre sommergibili anch’essi francesi, scortati dalla torpediniera italiana Simone Schiaffino.
11 aprile 1941
Arriva a Napoli.


Due immagini scattate sull’Arno nell’aprile 1941: sopra, le crocerossine Milly Bezzi, Luisa Beltrami e Piera Romeo; sotto, il capitano medico Piero Malcovati in un momento di relax con Luisa Beltrami e Milly Bezzi (g.c. Giacomo Toccafondi)


Il capitano medico Carlo Benedetti con Luisa Beltrami, Milly Bezzi e Piera Romeo (g.c. Giacomo Toccafondi)

16 aprile 1941
Mentre l’Arno si trova a Messina, giunge a bordo un telegramma del locale Comando Marina, che le ordina di partire appena pronta per portarsi nella zona compresa tra le boe 4 e 5 delle secche di Kerkennah, al largo della costa tunisina, per partecipare ai soccorsi dei naufraghi del convoglio "Tarigo", annientato in quelle acque, la notte precedente, dai cacciatorpediniere britannici Jervis, Janus, Nubian e Mohawk (quest’ultimo affondato a sua volta dal già agonizzante caposcorta Tarigo).
Il convoglio "Tarigo", dal nome dell’unità caposcorta, era composto dai piroscafi tedeschi Arta, Adana, Aegina ed Iserlohn carichi di truppe (in tutto un migliaio tra ufficiali e soldati della 15a Divisione Panzer), rifornimenti ed automezzi dell’Afrika Korps, e dall’italiano Sabaudia carico di munizioni, scortati dai cacciatorpediniere Luca Tarigo, Lampo e Baleno. Partito da Napoli per Tripoli la sera del 13 aprile 1941, ha accumulato un considerevole ritardo a causa del maltempo e nella notte tra il 15 ed il 16 è caduto nell’imboscata tesagli dai quattro cacciatorpediniere britannici – inviati sul posto in seguito all’avvistamento del convoglio da parte di un ricognitore – presso le secche di Kerkennah. Non una delle otto navi dell’Asse è scampata alla distruzione: Tarigo, Aegina, Iserlohn e Sabaudia sono stati affondati, mentre Lampo, Baleno, Arta e Adana, ridotti a relitti, si sono incagliati sulle secche (Adana e Baleno affonderanno nei giorni successivi, l’Arta sarà definitivamente distrutta dal sommergibile britannico Upholder, mentre il solo Lampo potrà essere recuperato e riparato parecchi mesi più tardi). In tutto circa 700 uomini perdono la vita (altre fonti parlano di 1800 morti, ma sembrano basarsi su stime errate del totale del personale imbarcato sulle navi del convoglio), mentre 1248 o 1271 verranno tratti in salvo dalle numerose unità inviate a condurre i soccorsi.
Sul luogo del disastro, oltre all’Arno, sono inviati per i soccorsi i cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (capitano di vascello Giovanni Galati, cui viene affidata la direzione dei soccorsi), Antonio Da Noli, Dardo e Lanzerotto Malocello, le torpediniere Perseo, Partenope, Clio, Centauro e Giuseppe Missori, la nave soccorso Giuseppe Orlando, i piroscafi Capacitas ed Antonietta Lauro ed i rimorchiatori Pronta, Ciclope, Trieste, Montecristo e Salvatore Primo.
Lasciata Messina alle 17.30 e messe subito le macchine a tutta forza, l’Arno fa rotta verso le Kerkennah alla massima velocità, incontrando mare grosso e forte vento di prua che tuttavia non le impediscono di raggiungere i 15 nodi.
17 aprile 1941
Dopo aver fatto il punto a mezzogiorno, l’Arno comunica a Supermarina che prima delle 19 raggiungerà la zona delle ricerche. Alle 15.30 viene contattata dalla Giuseppe Orlando, che riferisce di essere già in zona, chiedendole la sua posizione; l’Arno fornisce la posizione e comunica che nonostante il maltempo riesce a procedere a 15 nodi. Alle 17.15 l’Orlando annuncia che farà rotta per Tripoli; alle 17.35 l’Arno le chiede informazioni su come e dove condurre le ricerche, e la nave soccorso suggerisce di ancorarsi presso la boa numero 5 delle Kerkennah e condurre ricerche radiali con le motolance (il pescaggio dell’Arno, essendo la zona disseminata di secche e campi minati, rende poco consigliabile di far condurre le ricerche direttamente alla nave stessa).
Alle 18 l’Arno incontra i primi relitti, ed alle 18.35 avvista un naufrago su un’imbarcazione semisommersa: fermate le macchine, mette a mare due motolance e la lancia numero 12, munita di stazione radio. La prima motolancia viene inviata in soccorso del naufrago, mentre la seconda viene inviata verso sudest, con la lancia 12 a rimorchio. A circa tre miglia dalla nave ospedale, un aereo tedesco getta sulla motolancia un messaggio con la richiesta di seguirlo: li guiderà verso altri naufraghi. La motolancia si dirige verso il punto indicato, seguita a lento moto dall’Arno.
Alle 18.50 Marilibia ordina all’Arno di restare in zona fino al giorno seguente, quando verranno inviati degli aerei per cooperare nelle ricerche. Nel frattempo, la nave mette a mare altre tre imbarcazioni a remi, che continuano le ricerche insieme alle motolance; con l’assistenza del proiettore, vengono localizzati e tratti in salvo 25 soldati tedeschi, da varie zattere distanti fra loro. I superstiti raccontano del capovolgimento delle zattere e della scomparsa in mare di molti naufraghi; nel caos dello scontro notturno, non hanno neanche visto le navi nemiche. Non sono in grado di dare informazioni sulla posizione di altre zattere o imbarcazioni.
Verso le 21, a causa dell’avverso stato del mare, le imbarcazioni a remi vengono issate a bordo, mentre le ricerche vengono proseguite dalle sole motolance. Intorno alle 21.15 sopraggiungono i dragamine D 1 e D 2, che comunicano di avere a bordo un’ottantina di cadaveri di soldati tedeschi, che hanno raccolto nel corso del pomeriggio e che vorrebbero trasbordare sull’Arno: la nave ospedale contatta Marilibia per chiedere cosa fare, e riceve la risposta di seppellirle in mare. Ai dragamine viene ordinato di restare sul posto per assistere l’Arno nelle ricerche ("Affondare le salme dopo averle nei limiti del possibile riconosciute, dragamine rimangono a coadiuvare nelle ricerche di naufraghi ").
Verso le 22 viene avvistato un razzo bianco su rilevamento 150°, e subito una motolancia si dirige verso di esso, seguita da un dragamine. Ad otto miglia dall’Arno, le due unità trovano due zattere Carley con dieci naufraghi, nove marinai del cacciatorpediniere Baleno ed un soldato tedesco; la motolancia li prende a bordo e li porta sull’Arno, dove giunge verso mezzanotte. Durante la notte, la nave ospedale si ancora su fondali di venti metri e continua a setacciare le acque circostanti con le motolance ed il proiettore.


Sopra, avvistamento di naufraghi; sotto, messa in mare di una motolancia (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)






18 aprile 1941
All’alba vengono riprese le ricerche con le motolance, che recuperano un’altra ventina di naufraghi. Sempre all’alba, due ufficiali medici (tra cui il tenente Manlio Mulas) ed il cappellano dell’Arno trasbordano sui dragamine D 1 e D 2 per provvedere alla sepoltura in mare delle salme, insieme a due squadre di infermieri e marinai: per ogni corpo si procede all’identificazione, si rimuovono documenti, piastrine di riconoscimento, orologi, gioielli, valori ed ogni oggetto che potrebbe costituire un ricordo per le famiglie (lettere, foto di parenti: tutto viene annotato in un registro), dopo di che i corpi vengono allineati sul ponte ed appesantiti con una pietra prelevata dalla zavorra dell’Arno. Alle otto le salme vengono sepolte in mare, dopo una breve cerimonia religiosa.
Alle 8.30 vengono avvistati due galleggianti su rilevamento 180°; viene inviato un sottufficiale dell’Arno a bordo del dragamine ausiliario Anna, che trova e soccorre 18 naufraghi la cui presenza era stata segnalata da Marilibia la sera precedente.
Le motolance continuano le ricerche; essendo quasi esaurita la dotazione di benzina per i loro motori, alle 9 l’Arno contatta Marilibia per chiedere l’invio di un idrovolante che ne porti dell’altra, comunicando anche di aver recuperato fino a quel momento 60 naufraghi. Alle 9.15 Marilibia ordina alla nave di spostarsi presso la boa 4 delle Kerkennah e di ispezionare la zona compresa tra quella boa e le boe 3 e 5; l’Arno esegue, sempre assistita dai dragamine. Alle 12.35 il D 1 annuncia di aver recuperato altri naufraghi, mentre verso le 14 un idrovolante CANT Z. 506 della Croce Rossa ammara vicino all’Arno e consegna la benzina per le motolance. Alle 16 Supermarina ordina alla nave ospedale di portarsi a 75 miglia per 355° (o per 333°, secondi altra fonte) da Tripoli, dove si trovano altri naufraghi; la nave ordina ai dragamine di avvicinarsi e trasbordare i naufraghi da essi recuperati (uno di essi ha comunicato di aver recuperato dei naufraghi che erano da 50 ore su una zattera, due dei quali in condizioni disperate). Un aereo tedesco comunica all’Arno la posizione di alcune zattere, ma quando la nave ospedale le raggiunge constata che contengono solo cadaveri, ed ordina ai dragamine di provvedere alla loro identificazione e sepoltura in mare. Una stazione radio sconosciuta, che si identifica come “W.T.B.N.”, trasmette all’Arno un cifrato di 22 gruppi, che non può essere decifrato perché la nave, come tutte le navi ospedale, non è munita di cifrari.
Alle 18.25 Marilibia informa l’Arno che un piroscafo l’aspetta presso la boa numero 4 per trasbordare i molti naufraghi che ha recuperato; poco dopo il piroscafo in questione, l’Antonietta Lauro, raggiunge l’Arno, che invia tre motolance per traghettare sulla nave ospedale i 240 superstiti da esso recuperati, in maggioranza soldati tedeschi (ma vi è anche uno sparuto gruppetto di superstiti del cacciatorpediniere italiano Luca Tarigo). L’Arno rimane sul posto in attesa del D 1, anche perché Supermarina ha ordinato di rimanere in zona fino all’indomani mattina. Successivamente, Marilibia le ordina di portarsi nel punto 34°02’ N e 12°05’ E per soccorrere un’imbarcazione con nove naufraghi; l’Arno ordina allora al D 1 di raggiungere tale posizione e cercare l’imbarcazione fino al mattino, mentre la nave ospedale continuerà a girare nella zona indicata da Supermarina.

Trasbordo di feriti da un idrovolante della Croce Rossa ad una motobarca dell’Arno (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)

19 aprile 1941
All’1.30 della notte l’Arno raggiunge il punto indicato da Supermarina (75 miglia per 333° da Tripoli), e fino a mezzogiorno continua le ricerche nella zona; nelle ore notturne procede a lentissimo moto setacciando il mare con il proiettore, ma non vengono trovati altri superstiti. A mezzogiorno Supermarina ordina di raggiungere Tripoli, sbarcarvi i naufraghi e proseguire per Bengasi (frattanto riconquistata dalle forze dell’Asse), ma Marilibia, per evitarle di entrare in porto a Tripoli nelle ore notturne (in questo periodo Tripoli è sottoposta nottetempo a pesanti incursioni aeree notturne), le ordina invece di rimandare la partenza in modo da giungere a Tripoli alle sette del mattino del 20.
20 aprile 1941
Concluse le ricerche, l’Arno dirige su Tripoli a tutta forza, per poi rallentare in modo da entrare in porto alle sette, come ordinato da Marilibia. Nonostante le premure di Marilibia, la nave giunge in porto proprio durante un bombardamento aereo, ma non subisce danni.
Complessivamente l’Arno ha recuperato 74 naufraghi, e preso a bordo altri 216 recuperati da altre navi; dei 290 naufraghi a bordo, 38 sono italiani e 252 tedeschi. Poco prima dell’arrivo a Tripoli due naufraghi in gravi condizioni, tratti in salvo dopo 50 ore su una zattera, muoiono. A Tripoli l’Arno sbarca i naufraghi in buone condizioni – rimangono a bordo quelli che necessitano di cure ed i corpi dei due deceduti – ed imbarca numerosi feriti, malati e naufraghi recuperati da altre navi e bisognosi di cure. Poi, prima di sera, lascia la città dirigendo per Bengasi, dove dovrebbe fare scalo, ma Marilibia annulla tale ordine e la nave punta direttamente su Napoli.
22 aprile 1941
Arriva a Napoli, dove sbarca un totale di 438 tra feriti, malati e naufraghi.




Alcune immagini dell’Arno in porto (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)



25 aprile 1941
Salpa da Napoli alla volta di Bengasi.
29 aprile 1941
Rientra a Napoli con 387 tra feriti e malati imbarcati a Bengasi.
5 maggio 1941
Parte di nuovo da Napoli per Bengasi.
9 maggio 1941
Rientra a Napoli con 429 pazienti imbarcati a Bengasi.
12 maggio 1941
Altra partenza da Napoli per Bengasi.
16 maggio 1941
Fa ritorno a Napoli con 418 degenti da Bengasi. Successivamente riparte per Tripoli.
21 maggio 1941
Salpa da Tripoli alla volta di Bengasi.
23 maggio 1941
Arriva a Bengasi, imbarca 386 pazienti e riparte per l’Italia in giornata. La navigazione è resa difficile dal forte vento e dal mare grosso di prua.


In manovra in porto (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)



24 maggio 1941
Il vento gira da nord e cresce in intensità.
Alle 22.10, quando l’Arno è sulla rotta per lo stretto di Messina, giunge da Marina Messina via Coltano Radio l’ordine di portarsi subito a dieci miglia per 85° da Capo Murro di Porco ("Da Marina Messina per nave ospedale Arno. Dirigete subito punto a miglia 10 per rilevamento 85° da Capo Murro di Porco"): in quelle acque, poche ore prima, il trasporto truppe Conte Rosso è stato silurato ed affondato dal sommergibile britannico Upholder, con la morte di 1297 dei 2729 uomini a bordo. Le siluranti della scorta (cacciatorpediniere Lanciere e Corazziere, torpediniere Procione e Pegaso) e vari motovelieri inviati da Augusta e Siracusa hanno già recuperato quasi 1400 naufraghi, ma si teme possano esservene in mare ancora altri, dispersi dalle onde e sfuggiti alle ricerche nell’oscurità.
L’Arno, che ha già superato il parallelo 37° N e deve invertire la rotta, esegue l’ordine e mette le macchine a tutta forza, pur facendo presente nella sua risposta, trasmessa alle 23.10, di avere a bordo numerosi feriti gravi già sofferenti per le condizioni del mare ("Da N. O. Arno a Marina Messina h 23.10. Dirigo immediatamente punto indicato per ricerche naufraghi. Ho a bordo numerosi feriti gravi già sofferenti per condizioni mare. Arno").
25 maggio 1941
Giunta nel punto indicato alle tre di notte, l’Arno lo comunica a Supermarina ("Sono su punto indicato iniziate ricerche naufraghi resterò fino a giorno se necessario") e dà inizio alle ricerche, procedendo a lento moto ed ispezionando con il proiettore la superficie del mare. Sottocoperta, nel mentre, il personale sanitario fa del suo meglio per lenire le sofferenze dei feriti, specie quelli con fratture: il lento moto accentua il rollio ed il beccheggio della nave, ed i loro effetti sui pazienti, mentre la nave è investita con violenza dal mare ad ogni accostata. Nonostante queste condizioni, nelle sale operatorie di bordo vengono effettuate alcune operazioni chirurgiche non prorogabili (un ferito al torace con problemi di pressione sul cuore per un versamento emorragico nella pleura, un altro cui è stato amputato il piede destro e che rischia per la cancrena che va estendendosi a tutta la gamba); il direttore sanitario Talarico elogerà poi, nel suo rapporto, il tenente colonnello medico Guido Cendali (caporeparto del I reparto chirurgia), il capitano medico Pietro Malcovati (caporeparto del II reparto chirurgia) ed il sottotenente medico Domenico Bertone (assistente nel I reparto chirurgia), per l’abilità e la competenza mostrate nell’eseguire gli interventi in quelle difficili condizioni.
All’alba, calmatisi almeno un po’ vento e mare, vengono avvistati i primi rottami, chiazze di nafta, zattere vuote, imbarcazioni allagate o capovolte; l’Arno vi si avvicina a tutta forza ed una vedetta in coffa avvista quelle che crede essere due zattere con naufraghi. Subito la nave si porta sopravvento e mette in mare tre motolance che si precipitano sul posto, solo per scoprire che in realtà sono anch’esse vuote (vi sono segni del loro abbandono, evidentemente gli occupanti sono già stati soccorsi in precedenza). Più utile la segnalazione di un aereo, giunto per coadiuvare nelle ricerche, che permette all’Arno di trovare quattro zattere ed una lancia quasi completamente sommersa, aventi a bordo in tutto sessanta naufraghi, che vengono tratti in salvo tra le mille difficoltà causate dal mare mosso, che allontana i galleggianti gli uni dagli altri. I superstiti, tra cui vi sono cinque ufficiali, versano in pessime condizioni, semiassiderati e con occhi, bocca, orecchie e vie respiratorie infiammate per il contatto con la nafta; vengono ripuliti come meglio possibile e vengono loro somministrati spicchi di arancia e limone. Alcuni dei pazienti meno gravi cedono i loro letti ai naufraghi in condizioni peggiori.
Oltre agli uomini, viene tratta in salvo anche una cagnetta: il direttore sanitario Talarico ricorderà che “tutta tremante su uno zatterino, alzava una zampetta, quasi implorante soccorso, all’avvicinarsi di una lancia di salvataggio”.
Nelle ore successive giungono a collaborare ai soccorsi alcuni motopescherecci e la nave ospedale Sicilia. Per tutta la mattinata l’Arno continua a girare a lento moto nella zona dell’affondamento, ma non trova più nessuno; anche altre navi in ricerca in zona, a domanda fatta mediante bandierine di segnalazione, rispondono che non sono stati avvistati altri superstiti. La torpediniera Perseo trasborda sull’Arno due cadaveri; uno può essere identificato grazie alla piastrina, l’altro risulta irriconoscibile. Le motolance dell’Arno recuperano numerosi cadaveri, che portano sui motovelieri per l’identificazione.
Alle 11.30 Supermarina ordina all’Arno di rientrare a Napoli.
26 maggio 1941
L’Arno arriva a Napoli, dove sbarca feriti, malati e naufraghi.

Intervento chirurgico a bordo dell’Arno (da “Il Popolo” del 26 giugno 1940, via “Storia di una nave bianca” di Giacomo Toccafondi)

5 giugno 1941
Riparte da Napoli diretta a Bengasi. Durante la navigazione avvista numerosi rottami, ritenuti essere del Conte Rosso.
7 giugno 1941
Arriva a Bengasi, dove imbarca 422 pazienti (120 feriti e 302 malati) e riparte il giorno stesso.
9 giugno 1941
Arriva a Napoli.
19 giugno 1941
Lascia Napoli diretta a Bengasi.
21 giugno 1941
Arriva a Bengasi, dove imbarca 107 feriti e 320 malati, ripartendo in giornata.
23 giugno 1941
Arriva a Napoli in mattinata; poco dopo viene visitata dalla principessa di Piemonte Maria José, sua vecchia conoscenza (adesso ricopre la carica di ispettrice nazionale delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa), che fa visita ai pazienti. Tra di essi vi sono anche dei prigionieri britannici, dei quali uno, un maggiore che dall’arrivo a bordo ha sempre mantenuto un atteggiamento scontroso (in netto contrasto con gli altri suoi connazionali, che hanno sempre espresso all’equipaggio ed al personale sanitario il loro apprezzamento per il trattamento ricevuto a bordo), al passaggio della principessa le volge la schiena in segno di disprezzo. Gli altri ufficiali britannici ricoverati sull’Arno si recheranno poi dal direttore sanitario Talarico porgendo le loro scuse per la maleducazione del collega.

Maria José in visita alle crocerossine imbarcate (g.c. Giacomo Toccafondi)

27 giugno 1941
Salpa da Napoli per la diciottesima missione in Libia.
29 giugno 1941
Arriva a Bengasi ed imbarca celermente 387 pazienti.
1° luglio 1941
Fa ritorno a Napoli.
Siccome gran parte dei pazienti trasportati dall’Arno durante le sue missioni in Nordafrica sono tedeschi, in aggiunta al capitano medico Carlo Benedetti, che parla il tedesco, il direttore sanitario Talarico concorda con il colonnello medico tedesco Stamm – sovente ospite sull’Arno per le riunioni di coordinamento sull’assistenza ai feriti tedeschi – di far imbarcare sulla nave un distaccamento di medici ed infermieri tedeschi per poter meglio gestire questi pazienti. Successivamente il capitano Benedetti lascerà l’Arno su disposizione del Ministero per imbarcare sulla nave ospedale tedesca Graz, avendo le autorità tedesche apprezzato la buona organizzazione delle navi ospedale italiane e richiesto l’invio di un ufficiale italiano sulla Graz a supervisionarne la conversione (Benedetti troverà in seguito la morte nell’affondamento della Graz, saltata su una mina nel dicembre 1942).

Il capitano medico Carlo Benedetti con due crocerossine a bordo dell’Arno (g.c. Giacomo Toccafondi)

10 luglio 1941
Lascia Napoli diretta a Siracusa, dopo aver imbarcato una troupe cinematografica: in questa missione, oltre a svolgere la sua normale attività di nave ospedale, l’Arno fungerà da set per il film "La nave bianca" di Roberto Rossellini (regista) e Francesco De Robertis (sceneggiatore), voluto dal Centro Cinematografico del Ministero della Marina e realizzato dalla Scalera Film. Il film, visto da molti come un precursore del neorealismo di cui lo stesso Rossellini sarà uno dei maggiori esponenti, è ambientato infatti su una nave ospedale, ruotando attorno alla relazione tra un fuochista ferito in battaglia e su di essa ricoverato, ed una delle crocerossine, che – senza che lui lo sappia – è anche la sua “madrina di guerra”. Come i film neorealisti di qualche anno dopo, "La nave bianca" è caratterizzato dall’impiego di attori non professionisti: l’equipaggio della Arno recita sé stesso, e così pure i pazienti; le scene sono girate a bordo durante una normale missione, e costituiscono così un vero e proprio “documentario” sullo svolgimento di una missione delle “navi bianche” ed una testimonianza inestimabile su una nave che, di lì a poco più di un anno, finirà in fondo al mare.
13 luglio 1941
Lascia Siracusa diretta a Bengasi, sempre con la troupe a bordo.
14 luglio 1941
Raggiunge Bengasi, dove imbarca 435 pazienti. Tra di essi anche 17 “dementi”, accompagnati da un tenente psichiatra.
16 luglio 1941
Rientra a Napoli, dove sbarca i degenti, si rifornisce e poi riparte già a mezzanotte alla volta di Siracusa.
17 luglio 1941
Arriva a Siracusa.



In navigazione (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)



18-19 luglio 1941
Allarme aereo mentre si trova a Siracusa, nella notte tra il 18 e il 19.
21 o 23 luglio 1941
Lascia Siracusa diretta a Porto Empedocle.
24 luglio 1941
Arriva a Porto Empedocle, dove riceve dal locale Comando Marina l’ordine di tenere le macchine in pressione, pronta ad uscire in mare.
26 luglio 1941
Alle 11.10 l’Arno viene fatta salpare da Siracusa con l’ordine di cercare naufraghi in una zona distante 25 miglia da Malta; alle 12.30 Marina Messina aggiunge che l’area delle ricerche è situata tra le 20 e le 25 miglia a sud di Pozzallo.
Ciò che l’Arno sta cercando sono eventuali superstiti dell’Operazione "Malta Due", la sfortunata azione di assalto contro la base britannica della Valletta condotta nella notte precedente dalla X Flottiglia MAS. Tale operazione, più complessa di quelle solitamente intraprese dalla X MAS, era articolata come un’azione combinata, con l’impiego simultaneo di mezzi d’assalto di superficie (nove “barchini esplosivi” tipo MTM) e subacquei (due siluri a lenta corsa); due MAS e due motoscafi modificati come unità di appoggio (un MTL ed un MTSM) hanno portato i mezzi fin in prossimità del porto di La Valletta, mentre l’avviso veloce Diana, già panfilo di rappresentanza di Mussolini, è rimasto più al largo come nave appoggio. Disgraziatamente i britannici, insospettiti dall’insolita intensità degli attacchi aerei che hanno preceduto l’azione, erano sul chi vive, ed hanno localizzato sui radar la forza italiana in avvicinamento: lasciati avvicinare i mezzi a loro piacimento, hanno aperto su di essi un tiro incrociato, facendo una vera carneficina e poi mandando l’aviazione a dare la caccia ai pochi scampati ed ai MAS e motoscafi di appoggio. L’azione è così finita in disastro, con la perdita di tutti i mezzi d’assalto coinvolti, dei MAS e dell’MTL e la cattura o la morte di tutto il personale imbarcato, tranne pochi superstiti dei MAS, recuperati dal MTSM e dal Diana. Tra i morti vi sono il maggiore del Genio Navale Teseo Tesei, inventore del siluro a lenta corsa, il comandante della X Flottiglia MAS, capitano di fregata Vittorio Moccagatta, il suo vice, capitano di corvetta Giorgio Giobbe, ed il medico della flottiglia, capitano medico Bruno Falcomatà. L’Arno era stata dislocata a Siracusa pronta a muovere proprio per essere inviata in soccorso dei superstiti in caso di fallimento dell’operazione: eventualità che è divenuta una tragica realtà.
Problemi nel tiraggio delle caldaie, causati dal continuo stato di approntamento che ha determinato l’accumulo di fuliggine ed impedito la manutenzione ordinaria, riducono la velocità dell’Arno a tredici nodi; alle 18 la nave raggiunge la zona indicata per le ricerche, avvistando poco dopo i primi rottami ed un oggetto che sulle prime viene scambiato per una zattera, ma che un esame più approfondito mostra essere la prua di un natante simile ad un MAS. Successivamente viene avvistata un’ampia chiazza oleosa, disseminata di piccoli pezzi di legno. Alle 21.10 Marina Messina ordina di continuare le ricerche nella zona, cosa che l’Arno fa a lento moto, con i proiettori accesi, per tutta la notte, senza trovare naufraghi.


Messa a bordo dell’Arno (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)



27 luglio 1941
Alle sei del mattino riceve ordine di abbandonare le ricerche e rientrare a Siracusa, dove arriva in giornata.
28 luglio 1941
Riparte da Siracusa diretta a Bengasi.
29 luglio 1941
Arriva a Bengasi, dove imbarca 429 pazienti (tra cui 121 casi chirurgici) e riparte in giornata.
31 luglio 1941
Arriva a Napoli.
4 agosto 1941
Lascia Napoli diretta a Siracusa.
5 agosto 1941
Arriva a Siracusa e si ormeggia ad una boa in rada, rimanendo con le macchine pronte a muovere in sei ore, su ordine di Marina Napoli.
8 agosto 1941
Lascia Siracusa alle tre di notte, diretta a Bengasi. Poco dopo si ormeggia al suo posto, in un sito che il direttore sanitario Talarico ha già denunciato perché insicuro, la nave ospedale California: oscurata per disposizione del Comando Marina (e quindi non riconoscibile di notte come nave ospedale), verrà affondata da un attacco notturno di aerosiluranti l’11 agosto.

La nave fotografata nel 1941 da Aldo Fraccaroli da bordo di un trasporto truppe (g.c. STORIA Militare).

9 agosto 1941
Arriva a Bengasi, imbarca 427 tra feriti e malati e riparte per Napoli.
11 agosto 1941
Arriva a Napoli. Durante la traversata uno dei feriti, il soldato Carmine Lucchino, è morto a bordo.
15 agosto 1941
Salpa da Napoli diretta a Bengasi: è alla ventiduesima missione.
17 agosto 1941
Imbarca a Bengasi 417 pazienti, tra cui 130 casi chirurgici.
19 agosto 1941
Arriva a Napoli. Anche questa volta un ferito è morto durante il viaggio: il caporale tedesco Herbert Rother, per setticemia.
20 agosto 1941
Secondo alcune fonti (tra cui il libro "Le navi ospedale italiane 1935-1945" di Enrico Cernuschi, Erminio Bagnasco e Maurizio Brescia) l’Arno avrebbe in questa data partecipato alle ricerche dei naufraghi del trasporto truppe Esperia, silurato e affondati davanti a Tripoli dal sommergibile britannico Unique, senza trovarne (1139 dei 1182 uomini a bordo dell’Esperia vennero salvati subito dopo l’affondamento dalle unità di scorta, i rimanenti 43 risultarono dispersi); deve però trattarsi di un errore, dal momento che in realtà il 20 agosto l’Arno si trovava in porto a Napoli.
22 agosto 1941
Riparte da Napoli diretta a Tripoli. Nel Canale di Sicilia, al largo di Capo dell’Armi, incontra due corazzate italiane scortate da sei cacciatorpediniere; si tratta della Littorio e della Vittorio Veneto della IX Divisione e dei cacciatorpediniere Aviere e Camicia Nera della XI Squadriglia e GranatiereBersagliereFuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia, uscite da Taranto a contrasto dell’operazione britannica "Mincemeat".


Pazienti prendono aria sul ponte di passeggiata dell’Arno e, sotto, vengono visitati da due ufficiali medici (g.c. Nazzareno Tamborini, via www.naviearmatori.net)


24 agosto 1941
Arriva a Tripoli ove imbarca 427 degenti, tra cui 130 casi chirurgici, per poi ripartire il giorno stesso. Durante la navigazione riceve un radiogramma che ordina di sbarcare rapidamente i pazienti e rifornirsi per ripartire subito per un altro viaggio verso la Libia.
26 agosto 1941
Arriva a Napoli, sbarca i feriti, si rifornisce e subito riparte.
28 agosto 1941
In avvicinamento al porto di Tripoli, l’Arno viene fermata dalla torpediniera Calliope, che la fa dirottare verso nord per un non meglio precisato pericolo imminente; seguendo l’unità addetta al pilotaggio, la nave ospedale viene colpita da schegge durante un intenso cannoneggiamento contraereo. Giunta a Tripoli, imbarca 435 tra feriti e malati e riparte in giornata.
30 agosto 1941
Arriva a Napoli.
Estate 1941
Durante una sosta a Tripoli, l’Arno cede alla città, “per necessità”, alcune decine di tonnellate di acqua e di nafta prelevate dai suoi serbatoi. Alcune fonti parlano anche di cessioni di nafta ad altre navi, il che invero avrebbe costituito una violazione delle norme che regolavano l’attività delle navi ospedale.
Sempre nel 1941, in data imprecisata, l’Arno avrebbe trasportato in Libia anche due milioni di lire in contanti, trasporto anche questo non esattamente compatibile con il suo ruolo di nave ospedale.
3 settembre 1941
Salpa da Napoli diretta a Bengasi. La navigazione viene condotta impiegando cinque caldaie su sei: dato che non si sosta mai abbastanza da poter eseguire la pulizia delle caldaie, si è deciso di tenerne una spenta in navigazione in modo da poterla pulire.
4 settembre 1941
La nave viene ripetutamente sorvolata da un trimotore – ritenuto a bordo essere britannico, ma i britannici non impiegavano trimotori – che poi se ne va.
5 settembre 1941
Arriva a Bengasi, imbarca 438 pazienti e riparte subito.
Durante la navigazione di rientro l’Arno avvista nafta, rottami di legno e tre cadaveri in posizione 37°30’ N e 15°54’ E.
7 settembre 1941
Arriva a Napoli.


La plancia, sul cui cielo è stata dipinta una grande croce rossa per rendere la nave riconoscibile anche dall’alto (g.c. Nazzareno Tamborini via www.naviearmatori.net)


16 settembre 1941
Lascia Napoli diretta ad Augusta.
17 settembre 1941
Arriva ad Augusta, dove il locale Comando Marina le ordina di ormeggiarsi al recinto numero 4 e rimanere pronta a muovere in 6 ore. Viene poi comunicato di tenersi pronti a partire nel minor tempo possibile; l’Arno risponde che la velocità sarà ridotta per via della manutenzione di una caldaia, ma si sente rispondere di rimetterla in funzione e riaccenderla il prima possibile per aumentare la velocità.
18 settembre 1941
Alle sette del mattino riceve ordine di partire il prima possibile verso le acque della Tripolitania. Quel mattino il sommergibile britannico Upholder ha affondato in posizione 33°02’ N e 14°42’ E (ad una sessantina di miglia da Tripoli) i grandi trasporti truppe Neptunia ed Oceania, diretti a Tripoli con a bordo più di cinquemila soldati oltre agli equipaggi: le unità della scorta ed altre siluranti inviate da Tripoli hanno recuperato la stragrande maggioranza del personale imbarcato (oltre 5400 uomini), le navi ospedale, come nel caso del Conte Rosso, sono incaricate di cercare eventuali naufraghi sfuggiti alle ricerche iniziali.
All’ordine del Comando Marina di Augusta l’Arno risponde di poter partire alle 11.30, ma di avere una caldaia spenta per lavori di pulizia, il che impedisce di superare i 13,5 nodi; si cerca anche di accendere la caldaia numero 6. Alle 12.30 l’Arno lascia Augusta ed entro le 16 ha raggiunto una velocità di 16 nodi, il massimo sviluppabile.
19 settembre 1941
Poco dopo mezzanotte Marilibia ordina all’Arno di portarsi a 58 (o 59) miglia per 75° dal faro di Ras Allab, dove la nave ospedale giunge alle cinque del mattino: sul posto incontra la nave soccorso Laurana; inizia quindi a setacciare il mare con il proiettore, ed alle 8.15 raggiunge una vasta chiazza di nafta costellata di relitti. Seguita dalla Laurana, l’Arno continua le ricerche, trovando dopo pochi minuti dapprima un motoscafo vuoto, contrassegnato dal numero 2, e poi il relitto semisommerso di un idrovolante italiano (sull’ala destra è visibile il fascio littorio). Alle 8.40 l’Arno chiede alla Laurana quale zona abbia perlustrato e cosa abbia avvistato; la nave più piccola risponde di aver avvistato due cadaveri e chiede la posizione dell’Arno, che comunica alle 8.45 di trovarsi in 32°46’ N e 14°46’ E ed ordina alla Laurana di continuare le ricerche e regolarsi secondo gli ordini ricevuti per il rientro alla base.
Tra le nove e le dieci l’Arno avvista due motoscafi e cinque scialuppe vuote, ed alle 10.28, entrata in una seconda chiazza di nafta, trova due scialuppe capovolte; alle 10.50 un aereo lancia quattro razzi e la nave si dirige sul posto, dove trova altre quattro lance, anch’esse vuote. Nelle ore successive, l’Arno avvista numerosi zatterini modello De Bonis alla deriva, rottami e chiazze di nafta, ma nessun naufrago. Alle 18.15 Marilibia ordina di abbandonare le ricerche durante la notte ed accostare al mattino su Ras Allab, ma l’Arno si trattiene ancora in zona, proseguendo le ricerche con l’ausilio del proiettore ma continuando a non trovare altro che rottami, zatterini vuoti e nafta.
20 settembre 1941
Alle due di notte l’Arno abbandona le ricerche e dirige per il faro di Ras Allab, ed in mattinata, pilotata da una torpediniera sulla rotta di sicurezza, entra a Tripoli. Imbarcati 416 tra feriti e malati, riparte subito alla volta di Napoli; una volta in mare aperto, il comandante Porzio dà ordine di spegnere la caldaia numero 6 per completare la manutenzione in navigazione.
22 settembre 1941
Giunge a Napoli dopo una traversata a velocità ridotta per via della caldaia in meno.
24 settembre 1941
Riparte da Napoli diretta in Libia, sempre a velocità ridotta per manutenzione ad una caldaia.
26 settembre 1941
Arriva a Bengasi, dove imbarca 433 tra feriti e malati (tra questi ultimi le patologie prevalenti sono gastroenterite, epatite e difterite, quest’ultima molto diffusa tra i soldati dell’Afrika Korps).
28 settembre 1941
Arriva a Napoli. Durante il viaggio è deceduto a bordo l’aviere Francesco De Vecchi.
Al termine di questa missione viene sbarcato, per motivi di salute, il colonnello medico Talarico; al suo posto è nominato direttore sanitario il colonnello medico Ernesto Trombetti, 50 anni, da Monteleone di Puglia.
6 ottobre 1941
Riparte da Napoli diretta a Bengasi, ancora a velocità ridotta per pulizia delle caldaie.




Altri scorci della vita di bordo (g.c. Nazzareno Tamborini, via www.naviearmatori.net)




8 ottobre 1941
Arriva a Bengasi, dove imbarca 440 pazienti e riparte il giorno stesso, preceduta, fino in alto mare, da due dragamine con l’incarico di aprire un corridoio sicuro.
10 ottobre 1941
Arriva a Napoli.
17 ottobre 1941
Lascia Napoli diretta ad Augusta.
19 ottobre 1941
Lascia Augusta diretta a Bengasi.
21 ottobre 1941
Arriva a Bengasi. Mentre si trova ormeggiata in banchina in attesa dei pazienti da imbarcare, alle 9.15 viene attaccata da aerei che sganciano diverse bombe, che fortunatamente cadono tutte sul molo, senza recare danno alla nave ed all’equipaggio. Imbarcati rapidamente 438 pazienti, l’Arno riparte subito per l’Italia, ma alle 12.30 subisce un nuovo attacco aereo, nel corso del quale alcune bombe cadono in mare nelle sue vicinanze; a bordo della nave arrivano solo le schegge, che non causano danni (per altra fonte avrebbero causato solo danni lievi). Entrambi questi attacchi aerei, verificatisi in pieno giorno, verranno ritenuti intenzionali e dunque in violazione delle convenzioni internazionali.
23 ottobre 1941
Arriva a Napoli.
26 ottobre 1941
Lascia Napoli per Bengasi, dove imbarca 434 tra feriti e malati.
30 ottobre 1941
Rientra a Napoli.
6 novembre 1941
Riparte per Bengasi.
8 novembre 1941
Imbarca 437 pazienti. Tra le undici e mezzogiorno si verificano pesanti attacchi aerei, e diverse bombe esplodono vicino all’Arno, ma senza causare danni; terminata l’incursione, la nave riparte verso l’Italia.
9 novembre 1941
Alle 6.20, mentre è in navigazione verso lo stretto di Messina e Napoli, riceve un radiogramma di Supermarina che le ordina di portarsi in posizione 37°10’ N e 18°10’ E (circa 120 miglia a sudest di Punta Stilo) per ricerca e salvataggio naufraghi («Ordine dirigere per 37°10’ N – 18°10’ E raccogliere naufraghi»). La nuova tragedia cui deve recare il suo aiuto è quella del convoglio "Duisburg": diretto in Libia con un considerevole quantitativo di rifornimenti, questo convoglio è stato annientato la notte precedente dalla Forza K britannica, con l’affondamento di tutti e sette i mercantili che lo componevano (piroscafi italiani Sagitta e Rina Corrado, piroscafi tedeschi Duisburg e San Marco, motonave Maria, navi cisterna Conte di Misurata e Minatitlan) e di due dei cacciatorpediniere della scorta, Fulmine e Libeccio (quest’ultimo silurato dal sommergibile britannico Upholder durante le operazioni di salvataggio dei naufraghi). Le superstiti unità della scorta hanno recuperato la stragrande maggioranza dei naufraghi, oltre settecento; ancora una volta, l’Arno è chiamata a cercare eventuali altri superstiti non trovati durante i primi soccorsi.
Diretto verso il punto indicato da Supermarina, alle undici del mattino l’Arno avvista un’altissima colonna di fumo, verso la quale si dirige: alle 13.10 questa viene riconosciuta come la nave cisterna Minatitlan, che brucia dalla notte precedente (affonderà poco più tardi). Al contempo vengono anche avvistate delle zattere con naufraghi; subito l’Arno mette in mare due motolance, che provvedono a recuperarli. Alle 13.30 si avvicina alla nave ospedale una silurante impegnata anch’essa nel salvataggio; coopera inoltre alle ricerche un aereo (probabilmente l’idrovolante CANT Z. 506 del guardiamarina osservatore Alfonso Di Nitto, della 186a Squadriglia Ricognizione Marittima di base ad Augusta), che indica la posizione dei naufraghi con lancio di razzi, fino a quando non deve andarsene per raggiungimento dei limiti d’autonomia. Insieme alle motolance, l’Arno continua a setacciare il mare e riesce a recuperare 83 naufraghi, tutto sommato in buone condizioni; alcuni su zatterini od in acqua aggrappati a rottami, molti altri, soldati tedeschi, su una zattera del piroscafo Duisburg.
Al tramonto viene avvistata la nave ospedale Virgilio, anch’essa inviata a partecipare ai soccorsi; l’Arno avvista rottami, chiazze di nafta e zatterini vuoti, i cui occupanti sono stati probabilmente già salvati da altre navi. Calato il buio, le ricerche proseguono con l’ausilio del proiettore; alle otto di sera vengono avvistati su una zattera altri due naufraghi che sono subito soccorsi dalla motolancia, ma uno dei due muore prima di arrivare a bordo: l’altro racconta ai soccorritori che il compagno l’ha sorretto fino all’arrivo dell’imbarcazione dell’Arno. Alle 23.30 vengono recuperati da un’altra zattera un altro naufrago vivo ed un cadavere; il superstite è un marinaio tedesco che racconta di essere l’ultimo rimasto di un gruppo di dieci, i suoi compagni sono morti tutti per assideramento.
10 novembre 1941
Poco dopo mezzanotte viene trovata un’imbarcazione capovolta con due naufraghi abbracciati, uno dei quali è morto.
All’1.10 Supermarina ordina all’Arno di rientrare, ma il comando di bordo decide di proseguire le ricerche fino alle quattro del mattino, poi dirige su Napoli.
11 novembre 1941
Arriva a Napoli con i pazienti imbarcati a Bengasi e 87 naufraghi, 20 italiani e 67 tedeschi, oltre a due cadaveri, un italiano ed un tedesco.
13 novembre 1941
Parte da Napoli diretta a Bengasi, procedendo a velocità ridotta (13,5 nodi) per via dello stato delle macchine, perennemente a corto di manutenzione a causa dell’incessante attività.
15 novembre 1941
Giunge a Bengasi durante un pesante attacco aereo, imbarca 438 tra feriti e malati e riparte il giorno stesso per Napoli, incontrando vento forte e mare grosso.
17 novembre 1941
Arriva a Napoli.
23 novembre 1941
Lascia Napoli per Bengasi, sempre a velocità ridotta per le condizioni delle macchine.
Giunta a Bengasi, imbarca 499 pazienti; durante l’imbarco si verificano due allarmi aerei, entrambi causati da ricognitori.
27 novembre 1941
Arriva a Napoli, dopo una navigazione travagliata dal vento e dalle violente mareggiate.
30 novembre 1941
Salpa da Napoli per la trentaquattresima missione. In mattinata, il direttore di macchina riferisce di dover ridurre la velocità a meno di tredici nodi per via del cattivo stato delle macchine, non sottoposte ad adeguata manutenzione da oltre cinque mesi.
1° dicembre 1941
Secondo alcune fonti l’Arno avrebbe partecipato in questa data, senza successo, alle ricerche dei naufraghi del cacciatorpediniere Alvise Da Mosto e della nave cisterna Iridio Mantovani, affondati da forze aeronavali britanniche 75 miglia a nordovest di Tripoli. Ciò non risulta però dalla documentazione di bordo.
2 dicembre 1941
Arriva in mattinata a Bengasi, dove l’ingresso in porto è ostacolato dai piovaschi e dal mare mosso; grazie ad una momentanea calma di vento, l’Arno riesce ad accostare al Molo Sottoflutto, ove imbarca 575 pazienti, tra cui 70 casi chirurgici e 64 naufraghi (otto militari dell’Esercito e 56 della Marina), per poi ripartire alle 16.48.
5 dicembre 1941
Arriva a Napoli alle sette, dopo una navigazione a velocità ridotta a causa sia dello stato delle macchine, sia delle avverse condizioni del mare, con conseguenze deleterie soprattutto per i feriti, a causa dell’accentuato rollio.
Al termine di questa missione sbarca il comandante Porzio, sostituito dal suo secondo, tenente di vascello militarizzato Rocco Cardella (già primo ufficiale dell’Arno).
7 dicembre 1941
Salpa da Napoli diretta a Bengasi.
9 dicembre 1941
Imbarca 510 tra feriti e malati a Bengasi, dopo di che riparte immediatamente.
Alle 22.25, durante la navigazione verso lo stretto di Messina, l’Arno riceve da Supermarina un radiogramma che dice: "Dirigete per Navarino per eventuale recupero naufraghi".
I naufraghi, stavolta, sono quelli della motonave Sebastiano Venier, silurata alle 14.30 dal sommergibile britannico Porpoise mentre dalla Libia rientrava in Italia carica di duemila prigionieri del Commonwealth: la motonave danneggiata è riuscita ad evitare l’affondamento incagliandosi presso Capo Methoni, ma più di trecento uomini hanno perso la vita, uccisi dalle esplosioni dei siluri o scomparsi in mare dopo essersi gettati fuori bordo in preda al panico.
Assunta rotta a tutta forza su Navarino, l’Arno comunica che vi arriverà entro le 19 del 10, e domanda istruzioni per l’atterraggio; le viene risposto che fuori dalla rada troverà un rimorchiatore con degli ordini.
10 dicembre 1941
In serata l’Arno arriva davanti a Navarino, dove però non trova il rimorchiatore; successivamente le viene segnalato dal semaforo di portarsi a Capo Methoni, dove l’aspetta il rimorchiatore per guidarla in porto. Così avviene; una volta in porto, l’Arno riceve ordine di mandare a terra due medici con medicinali e generi di conforto per il gran numero di superstiti che si trova a terra, mentre 107 naufraghi vengono trasferiti sulla nave ospedale per mezzo delle imbarcazioni di bordo. Molti sono prigionieri del Commonwealth: britannici, neozelandesi, sudafricani; molti con ferite causate dal siluramento, molti affetti da dissenteria. Siccome i letti sono già tutti occupati dai pazienti imbarcati a Bengasi, i naufraghi devono essere sistemati in parte nella sala mensa ed in parte nella seconda sala operatoria; qualche ferito viene ricoverato nei reparti chirurgici dove già si trovano prigionieri feriti britannici imbarcati a Bengasi. Per fare spazio per i naufraghi in condizioni peggiori, i malati italiani di minor gravità vengono trasferiti negli alloggi del Distaccamento infermieri, e gli infermieri cedono loro i letti e dormono a terra. Alle 15.15 l’Arno lascia Navarino per Napoli.
(Secondo "La flotta bianca" di Dobrillo Dupuis e "Le avventurose missioni d’una squadra di navi bianche" di Mario Peruzzi, l’Arno avrebbe imbarcato a Navarino anche 166 feriti provenienti dal fronte greco, ma ciò non risulta dai documenti di bordo. Alcune fonti, tra cui "Il vero traditore" di Alberto Santoni, affermano che l’Arno avrebbe partecipato al salvataggio di 1862 superstiti della Venier, ma si tratta di un errore; i superstiti vennero soccorsi direttamente da riva e l’Arno si limitò ad imbarcarne un gruppetto da portare a Napoli).
Alle 20.02 l’Arno riceve un nuovo ordine da Supermarina: "Dirigete per 36°30’ N long. e 20°36’ Est lat. per recuperare naufraghi"; subito cambiata rotta, l’Arno dirige verso il punto indicato a dodici nodi, il massimo consentito dallo stato delle macchine. Alle 22.15 giunge in zona ed inizia la ricerca notturna a lento moto con l’ausilio dei proiettori. Il mare è agitato, con vento fresco e teso da nordovest. I naufraghi che l’Arno sta cercando sono quelli della motonave Calitea, affondata poche ore prima dal sommergibile britannico Talisman: il cacciatorpediniere di scorta, il Freccia, è riuscito a salvare circa 230 naufraghi, ma altri sono rimasti alla deriva quando, calata l’oscurità, il cacciatorpediniere ha dovuto interrompere le ricerche per il rischio di essere silurato a sua volta.
12 dicembre 1941
Verso le sette del mattino viene avvistata una chiazza di nafta, e poco dopo dei rottami e zattere vuote. Verso le undici viene avvistato e salvato un naufrago, solo su uno zatterino semiallagato, immerso quasi fino alle spalle: è un soldato tedesco. Racconta di essere l’ultimo superstite di un gruppo di naufraghi che si trovavano sullo zatterino, e che gli occupanti della maggior parte delle altre zattere sono stati recuperati dal Freccia, che però non aveva visto la loro zattera.
Contemporaneamente giunge da Supermarina l’ordine di abbandonare le ricerche a mezzogiorno e rientrare; il comando di bordo, stimando che alla velocità massima consentita dallo stato delle macchine la nave arriverebbe a Napoli nella notte sul 13 dicembre, decide di continuare le ricerche fino alle 14.30 e poi iniziare la navigazione verso Napoli, in modo da arrivarci nelle prime ore del 14. Non vengono trovati altri naufraghi, solo rottami, zattere ed imbarcazioni vuote, tali da far ritenere che gli occupanti siano già stati soccorsi. Alle 14.30 l’Arno lascia la zona delle ricerche e dirige su Napoli.
14 dicembre 1941
Arriva a Napoli alle dieci, durante un pesante attacco aereo che però non gli arreca danni, sbarcando pazienti e naufraghi; il comando chiede l’immediata disinfezione della nave ed anche un periodo di lavori di grande manutenzione, di cui l’Arno ha un disperato bisogno.
I lavori si protrarranno fino alla prima decade di gennaio 1942.

Corsia dell’Arno nel 1942 (CRI di Roma, via Nazzareno Tamborini e www.naviearmatori.net)

2-3 gennaio 1942
Nella notte tra il 2 ed il 3 l’Arno, ormeggiata al Molo Razza di Napoli, subisce bombardamenti in più ondate, che però non causano danni.
12 gennaio 1942
Salpa da Napoli diretta a Tripoli.
16 gennaio 1942
Rientra a Napoli con 450 tra feriti e malati.
Gennaio-Febbraio 1942
Altri lavori di manutenzione delle macchine e pulizia e sanificazione delle strutture di bordo, protrattisi dalla seconda metà di gennaio a tutto febbraio.
22 gennaio 1942
Il tenente di vascello Rocco Cardella cede il comando dell’Arno al comandante Tommaso Filippini.
3 marzo 1942
Il comandante Filippini viene a sua volta sostituito dal capitano di corvetta Giovanni Luisi, 55 anni, da Palermo (un capitano civile del Lloyd Triestino militarizzato, come i suoi predecessori), già comandante della nave ospedale Aquileia.
7 marzo 1942
Riceve da Supermarina l’ordine di trasferirsi ad Augusta, dove va poi ad ormeggiarsi nel recinto di sbarramento.
22 marzo 1942
Riceve ordine di tenersi pronta a partire in tre ore: nel Mediterraneo centrale si sta combattendo la seconda battaglia della Sirte, una nave ospedale deve tenersi pronta ad intervenire in soccorso di eventuali unità affondate o danneggiate nello scontro.
23 marzo 1942
A mezzogiorno giunge l’ordine di Supermarina di portarsi il prima possibile nel punto 33°35’ N e 17°15’ E: la battaglia si è conclusa senza perdite da parte italiana, ma la flotta di ritorno è stata investita da una tempesta di eccezionale violenza, che ha causato il naufragio dei cacciatorpediniere Lanciere e Scirocco, rispettivamente alle 10.07 ed alle 5.45 di quel giorno, in posizione 35°35' N e 17°15' E e 35°50' e 17°35' E. Gli altri cacciatorpediniere e persino gli incrociatori, messi in difficoltà dalla tempesta, non hanno potuto prestare alcun soccorso.
Il maltempo ostacola la stessa partenza dell’Arno: si è levata un’improvvisa bufera e tra cavi spezzati, eliche impigliate nelle reti parasiluri e vento tanto forte da ostacolare i movimenti della nave ospedale e dei rimorchiatori, ci vogliono ben sei ore solo per uscire dalla rada di Augusta, che la nave riesce a lasciare solo alle 18.45. In mare aperto la situazione non è migliore, l’Arno incontra vento e mare violenti che ostacolano il suo progresso – la velocità non riesce a superare i quattro nodi – e causano tale rollio e beccheggio da arrecare danni al laboratorio di analisi ed alle sale operatorie, dove qualsiasi oggetto non ben fissato viene lanciato in giro, mentre le onde torreggianti spazzano la coperta.
24 marzo 1942
Arriva alle 5.30 nel punto indicato da Supermarina, e per tutto il giorno perlustra il mare, intralciata dalla scarsissima visibilità, dal mare tempestoso e dal fortissimo vento. Al crepuscolo vengono accesi i proiettori, ed alle 21.50, finalmente, uno di essi – indirizzato dalle vedette che hanno sentito gridare – inquadra una zattera con dei superstiti, a qualche centinaio di metri dalla prua: siccome le motolance di cui è dotata l’Arno non sono munite, a differenza delle lance a remi, di casse d’aria che le rendano pressoché inaffondabili, e si troverebbero nei guai se perdessero forza propulsiva qualora l’elica venisse sollevata fuor d’acqua dal mare in tempesta o si verificasse una qualche avaria, il comandante Luisi decide di mandare in soccorso una lancia a remi. Nell’imbarcazione prendono posto un ufficiale, un nostromo ed i più forti rematori dell’Arno: raggiunta faticosamente la zattera, traggono a bordo i quattro occupanti, che tra mille difficoltà vengono quindi portati sull’Arno. I naufraghi appartengono all’equipaggio del Lanciere: dicono che nelle vicinanze devono esserci degli altri superstiti: l’Arno del resto ha già ripreso le ricerche, ed alle 23 le vedette a prua sentono delle grida; poco dopo, i proiettori illuminano un’altra zattera. Il buio ed il mare tempestoso rendono adesso troppo pericolosa la messa in mare di una lancia: si rischierebbe di perdere gli stessi soccorritori; pertanto l’Arno manovra in modo da portarsi sopravvento rispetto alla zattera (ed a poche decine di metri di distanza), che viene poi sospinta dal vento e dalle onde fin sottobordo alla nave ospedale. A questo punto il secondo nocchiere Nunzio Barbera dell’Arno si fila sulla zattera con una biscaglina ed imbraga sia essa che i quattro naufraghi, che vengono così issati a bordo della nave. Anche questi sono uomini del Lanciere: ai soccorritori raccontano i terribili momenti del naufragio.
Gli otto uomini salvati dall’Arno nella giornata del 23 marzo sono il tenente di vascello Giuseppe Pollastri, il guardiamarina Nicolò Gazzolo, il capo radiotelegrafista Giuseppe Sazio, il sottocapo silurista Dino Monari, il fuochista Stefano Laghezza ed i cannonieri Pasquale Marzulla, Amerigo Scotto e Pietro Dell’Isola. Sono in pessime condizioni, esausti, assetati e semiassiderati, ma gradualmente si riprendono.
25 marzo 1942
Alle 7.23 viene avvistata alla luce del proiettore un’altra zattera, con a bordo un solo naufrago semisommerso, che non dà segni di vita; di nuovo l’Arno si porta sopravvento finché il galleggiante non giunge da solo sottobordo, al che il primo nocchiere Francesco Recupero (nomen omen…) si cala su di esso ed issa a bordo dell’Arno sia la zattera che il suo occupante, il silurista Gino Mondin del Lanciere. Nonostante i tentativi di rianimazione – si tentano massaggi, frizioni, respirazione artificiale, applicazioni calde, eccitanti, iniezioni di adrenalina nel miocardio – Mondin muore a bordo dell’Arno pochi minuti dopo il salvataggio, per paralisi cardiaca.
L’Arno continua le ricerche anche nei giorni successivi, anche sulla base delle indicazioni dei naufraghi, ma non trova altro che nafta, imbarcazioni vuote, numerosi frammenti di sughero e pochi rottami.
28 marzo 1942
Dopo il tramonto l’Arno abbandona le ricerche. In tutto, su 478 uomini imbarcati su Lanciere e Scirocco, solo 17 sono stati salvati: otto dall’Arno, tutti del Lanciere, e nove dagli idrovolanti di soccorso, di cui sette del Lanciere e due dello Scirocco.
Aprile 1942
Rimane disponibile ad Augusta, senza mai uscire in mare.
16 maggio 1942
Salpa da Augusta diretta in Nordafrica.
17 maggio 1942
Arriva a Tripoli, dove imbarca 441 pazienti.
19 maggio 1942
Giunge a Napoli, dove rimane fino a fine mese.
31 maggio 1942
Lascia Napoli alla volta di Augusta.
2 giugno 1942
Lascia Augusta diretta a Derna.
Mancando vere e proprie strutture portuali, l’Arno vi si ancora in rada, dove 477 feriti e malati (oltre metà sono tedeschi) vengono portati a bordo da un pontone tedesco.
6 giugno 1942
Arriva a Napoli dopo una navigazione tranquilla, con tempo buono.
10 giugno 1942
Lascia Napoli diretta a Derna. Qui giunta, imbarca 147 pazienti per poi ricevere l’ordine di portarsi al largo ed incrociare a lento moto.
14 giugno 1942
Viene fatta nuovamente entrare in rada a Derna, dove imbarca altri 151 feriti per mezzo di pontoni, dopo di che fa rotta per Bengasi.
15 giugno 1942
Arriva a Bengasi, ormeggiandosi al relitto del piroscafo Gloriastella – che, affondato accanto al molo, è diventato esso stesso un molo – ed imbarcandovi altri 164 degenti, per poi rientrare in Italia.
Tra i pazienti trasportati in questo viaggio vi sono 95 prigionieri del Commonwealth, il gruppo più numeroso portato dall’Arno in un singolo viaggio.
18 giugno 1942
Arriva a Napoli, dove sbarca i 462 pazienti.
26 giugno 1942
Completata la disinfezione, l’Arno lascia Napoli alle 23.30 diretta a Bengasi. Alle 23.50 è fuori dal porto ed imbocca la rotta assegnata.
27 giugno 1942
Alle 13.14 imbocca lo stretto di Messina, dal quale esce alle 13.25.
29 giugno 1942
Arriva a Bengasi alle otto, andando di nuovo ad ormeggiarsi al relitto del Gloriastella. Imbarca 460 pazienti, tra cui anche dei prigionieri, poi riparte subito alla volta di Napoli alle 20.50. Alle 21.18 è fuori dal porto ed imbocca le rotte indicate.
Alle 21.50, mentre è in rotta verso lo stretto di Messina, viene raggiunta da un radiogramma di Marina Bengasi (capitano di vascello Giuseppe Manfredi), che prescrive di portarsi in posizione 33°30’ N e 23°25’ E, quaranta miglia a nord di Bengasi e 75 miglia a nord del Golfo di Bomba, per soccorrere i naufraghi dell’avviso veloce Diana, silurato e affondato dal sommergibile britannico Thrasher undici ore prima mentre era in navigazione verso Tobruk in missione di trasporto del personale destinato al ricostituito Comando Marina di quella città, da poco riconquistata ("Percorrete 40 miglia per nord da Bengasi quindi dirigete per punto 33°30’ N e 23°24’ E ricerca naufraghi nella zona"). L’Arno dirige a tutta forza verso il punto indicato, affrontando il vento da nordest, che durante la notte rinforza, ed il mare in peggioramento (forza 5), che la investe al mascone di sinistra facendola rollare e beccheggiare violentemente.
30 giugno 1942
Entro il mattino, l’Arno si trova alle prese con una vera e propria burrasca. Alle 12.10 viene avvistata una vasta chiazza di nafta nei pressi del punto indicato (sopraggiungono poco dopo alcuni aerei incaricati di cooperare nelle ricerche), ed alle 13.15, mentre le condizioni meteomarine continuano a peggiorare (vento molto forte da nordovest, mare grosso), viene avvistata una prima zattera con naufraghi: subito la nave mette in mare due lance a remi (ritenute, per le ragioni accennate in precedenza, più sicure delle motolance in condizioni di mare burrascoso) con armamento di voga. Anche il cappellano di bordo si offre come rematore; per offrire la massima protezione alle due imbarcazioni, l’Arno si mantiene al traverso delle onde e cala le due lance dal lato sottovento. Mentre le imbarcazioni remano verso i naufraghi lottando contro la furia del mare, che minaccia di travolgerle ed allontana la zattera, vengono avvistate delle altre zattere più lontane.
Le due lance riescono a recuperare una trentina di naufraghi che portano sull’Arno, dopo di che il comandante Luisi, dato il continuo deterioramento dello stato del mare, decide di riprenderle a bordo (una delle due lance è quasi completamente allagata quando torna sottobordo alla nave); per soccorrere gli occupanti delle altre zattere frattanto avvistate l’Arno si avvicina ad esse e si pone sopravvento, accostandovisi e calando in mare braghe “giapponesi” di corda cui i naufraghi devono aggrapparsi per poi essere issati a bordo. Diversi marinai dell’Arno non esitano a tuffarsi in mare per aiutare i naufraghi stremati ad aggrapparsi alle reti, mentre le vedette tengono d’occhio le zattere più lontane per non perderle di vista; in tutto vengono salvati nel corso della giornata 159 naufraghi (tra cui il comandante del Diana, capitano di corvetta Mario Di Muro), uno dei quali muore poco dopo il salvataggio per iposistolia, essendo giunto a bordo già morente per annegamento, nonostante i tentativi dei medici di rianimarlo. Il personale medico si fa in quattro per prestar loro le prime cure: molti sono affetti da ingestione di nafta od acqua di mare con conseguenti gastriti, altri presentano ustioni da insolazione, shock, congiuntiviti da irradiazione, fratture; un caso tra i più gravi è quello di un naufrago con frattura esposta alla gamba destra complicata da cancrena, cui si cerca inutilmente di salvare la gamba, che dovrà però essere amputata il giorno seguente.
Calato il buio si proseguono le ricerche con i proiettori ed i binocoli notturni, ma non si riesce a trovare nessun altro. Alle 20.52 Supermarina ordina di perlustrare la zona avente come centro il punto 33°30’ N e 23°30’ E: è quella dove l’Arno già si trova.
1° luglio 1942
L’Arno prosegue le ricerche seguendo la rotta, sottovento, lungo la quale si presume il vento abbia spinto le zattere. Alle 15.05 giunge da Supermarina un messaggio che comunica “Stasera, dopo tramonto se ritenete aver ultimato ricerche, iniziate navigazione ritorno”, ma viene deciso di continuare fino alle dieci del mattino seguente, nel timore che qualche zattera non sia stata raggiunta. Durante la notte, l’Arno continua la ricerca con i proiettori; segue la direzione del vento, descrive triangoli e spirali, periodicamente si ferma e rimane in ascolto nella speranza di sentire qualche richiamo, mentre il forte vento ed il mare grosso continuano a peggiorare. Non viene però più trovato alcun naufrago.
2 luglio 1942
Alle dieci il comandante Luisi ed il direttore sanitario Trombetti, di comune accordo, decidono di abbandonare le ricerche. Il mare ha inghiottito più di trecento uomini tra quanti erano imbarcati sul Diana.
Durante la navigazione verso lo stretto di Messina, il tempo va gradualmente migliorando.
3 luglio 1942
Alle 15.30 l’Arno imbocca lo stretto di Messina, dal quale esce alle 18.
4 luglio 1942
L’Arno arriva a Napoli, dove sbarca pazienti e naufraghi, alle 8.30.


La relazione sulla missione di salvataggio dei naufraghi del Diana (Ufficio Storico della Marina Militare, via g.c. Giacomo Toccafondi)


10 luglio 1942
Lascia Napoli per un’altra missione in Libia.
12 luglio 1942
Arriva a Bengasi, dove imbarca 279 tra feriti e malati dopo di che, su ordine di Marina Bengasi, viene fatta proseguire per Derna.
13 luglio 1942
Arriva a Derna, dove varie imbarcazioni traghettano a bordo altri 263 pazienti, dopo di che riparte diretta a Napoli.
14 luglio 1942
Alle 22.27, mentre l’Arno si trova all’altezza di Capo dell’Armi, Marina Messina comunica che è in corso un forte attacco aereo, il che induce la nave ad invertire temporaneamente la rotta.
15 luglio 1942
Alle 00.30, giunta notizia della fine dell’incursione, viene ripresa la navigazione verso Napoli. Poco dopo, Marina Messina segnala un nuovo attacco aereo, inducendo una nuova inversione della rotta; alle 3.25 la nave può finalmente attraversare lo stretto di Messina, giungendo il giorno stesso a Napoli, dove sbarca i 542 pazienti.
Viene poi trasferita dal Molo Pisacane al Molo Razza per alcuni lavori, e poi entra in bacino di carenaggio fino al 26.
26 luglio 1942
Lascia il bacino e parte subito per l’Africa, facendo scalo intermedio ad Augusta.
27 luglio 1942
Lascia Augusta per Bengasi.
31 luglio 1942
Arriva a Bengasi, dove si ormeggia al relitto del piroscafo Maria Eugenia, come il Gloriastella adibito a molo dall’epoca del suo affondamento all’ormeggio nel settembre 1940. Imbarcati i feriti, riceve da Marina Bengasi l’ordine di andare a Derna.
1° agosto 1942
Arriva nella rada di Derna, dove dovrebbe prendere a bordo dei feriti trasbordati dalla piccola nave soccorso Capri; il mare, però, è agitato, tanto da impedire l’affiancamento delle due navi. Viene allora deciso di ancorarsi a poca distanza ed effettuare il trasbordo per mezzo delle motolance. Completato l’imbarco dei feriti, riparte per tornare in Italia.
3 agosto 1942
Arriva a Napoli, dove sbarca 520 tra feriti e malati, tra cui una sessantina di prigionieri.
14 agosto 1942
Inviata ad Augusta.
20 agosto 1942
Lascia Augusta diretta a Bengasi.
22 agosto 1942
Arriva a Bengasi, dove riceve ordine di proseguire per Marsa Matruh, porticciolo egiziano più vicino alla linea del fronte.
24 agosto 1942
Arriva a Marsa Matruh, dove una pilotina la guida fino ad un ancoraggio dove imbarca, mediante pontoni e le imbarcazioni di bordo, 473 tra feriti e malati, 125 italiani e 348 tedeschi; questi ultimi in maggioranza affetti da dissenteria. Il sottotenente del Genio Vittorio Brambilla muore a bordo dell’Arno poco dopo l’imbarco, per le gravissime ferite riportate, apparentemente, nel disinnescare un ordigno esplosivo.
27 agosto 1942
Arriva a Napoli dopo una navigazione tranquilla, e viene sottoposta ad approfondita disinfezione.
30 agosto 1942
Lascia Napoli per l’ennesima missione in Africa.
1° settembre 1942
Arriva a Bengasi dopo una navigazione tranquilla, ed imbarca celermente 146 tra feriti e malati. Alle 16.30 riparte diretta a Marsa Matruh.
2 settembre 1942
In mattinata l’Arno s’imbatte in una vasta chiazza di carburante galleggiante, con forte odore di idrocarburi, e rottami; incrocia in zona per un paio d’ore, senza trovare altro che relitti, dopo di che riprende la navigazione verso Marsa Matruh.
La chiazza incontrata segnava probabilmente la tomba della nave cisterna Picci Fassio, affondata in questa zona la notte precedente.
3 settembre 1942
Arriva a Marsa Matruh, dove imbarca 294 tra feriti e malati, in maggioranza tedeschi, mediante lance e pontoni. Riparte non appena ha completato l’imbarco.
4 settembre 1942
Alle 9.33 Supermarina le ordina di dirigersi in un punto da essa segnalato per cercarvi naufraghi.
Giunta nel punto indicato alle 13, inizia le ricerche. In queste acque, nelle ore precedenti, una serie di attacchi aerei e subacquei sul convoglio "Sportivo" ha provocato la perdita di due piroscafi, Padenna e Davide Bianchi, e della torpediniera Polluce. Alle 17.28 l’Arno riceve ordine da Supermarina di abbandonare le ricerche e dirigere su Napoli.
6 novembre 1942
Arriva a Napoli in serata, sbarca i pazienti e viene sottoposta a sanificazione e rifornimento.
 
L’affondamento
 
Alle 22.30 del 7 settembre 1942 l’Arno, al comando del capitano Giovanni Luisi, lasciò Napoli alla volta di Tobruk, per la sua quarantaseiesima missione di guerra. A bordo della nave, oltre all’equipaggio, si trovavano il direttore della Sanità militare marittima, tenente generale medico Gregorio Gelonesi, in visita d’ispezione accompagnato dal suo aiutante, tenente colonnello medico Piero Alonzo. (Alcune fonti affermano che si sarebbero trovati a bordo anche alcuni ufficiali e soldati tedeschi diretti in Cirenaica con del materiale sanitario, tra i quali vi sarebbero però stati anche alcuni militari tedeschi non appartenenti al corpo sanitario – sovente viaggiavano sulle navi ospedale anche ufficiali diretti in Nordafrica, che si voleva far giungere a destinazione rapidamente e senza rischi – il che avrebbe costituito contravvenzione delle norme internazionali, non essendo consentito alle navi ospedale l’imbarco di passeggeri che non fossero infermi o sanitari. La presenza di militari tedeschi, sanitari o meno, nell’ultimo viaggio dell’Arno non risulta però né dalla relazione del generale Gelonesi, né da quella del direttore sanitario Trombetti o da altri documenti esistenti, sebbene il generale Peruzzi menzioni nel suo libro alcuni ufficiali e soldati di sanità tedeschi di passaggio in quel viaggio).
In totale, sull’Arno si trovavano circa 180 persone: una ventina di ufficiali, 104 tra sottufficiali e marinai, una quindicina di medici e sette crocerossine: la capogruppo Maria Buonamici e le sorelle Rosanna Formichini, Maria Teresa Caccia, Franca Antinori, Vera Marinelli, Tosca Mannelli e Margherita Paoli, del comitato CRI di Firenze.
Alcune fonti affermano che la partenza dell’Arno sarebbe avvenuta il 9 settembre, ma nel suo rapporto il generale Gelonesi scrisse che s’imbarcò sulla nave il 7 e questa partì la sera stessa, e ciò sembra suffragato dalla posizione dell’Arno al momento dell’attacco aereo, posizione che non avrebbe potuto raggiungere se fosse partita soltanto il 9.
Per due giorni, la navigazione procedette come sempre, senza eventi di rilievo; unica differenza rispetto al solito era costituita dalla presenza a bordo del generale Gelonesi, impegnato nell’ispezione di servizi e locali della nave. Gelonesi, impegnato in un programma di ispezione delle navi ospedali adibite alle missioni oltremare, si sarebbe dovuto in origine imbarcare su un’altra unità, la Città di Trapani, ma siccome la partenza di quest’ultima era stata rimandata all’ultimo momento, aveva deciso di imbarcarsi sull’Arno, in partenza per l’Africa, per cominciare da essa il suo lavoro di ispezione. Il generale verificò la preparazione ed il funzionamento dei servizi di bordo, la disposizione del materiale, le condizioni igieniche, lo stato delle imbarcazioni ed il funzionamento degli apparati antincendio, constatando "un’ottima preparazione del personale ed un elevato spirito di disciplina e di collaborazione tra ufficiali ed equipaggio, un’efficienza di tale grado di tutti i servizi da consentire di far fronte con la migliore efficacia a qualsiasi emergenza".
Alle 23 del 9 settembre l’ufficiale di guardia compì l’abituale giro d’ispezione, senza trovare niente fuori posto. Il mare era calmo, la visibilità ottima e tutte le luci erano accese, rendendo la nave agevolmente riconoscibile, come prescritto dalla convenzione dell’Aia. Non mancavano più d cinque o sei ore all’arrivo a Tobruk. A mezzanotte l’ufficiale di guardia si ritirò per dormire; non molto tempo dopo, il collega che gli aveva dato il cambio avvertì il ronzio di un aereo, che però sparì quasi subito, lasciando il posto al silenzio della notte. In plancia si credette che si fosse trattato di un ricognitore di passaggio, ma poco dopo l’Arno venne scossa da un’esplosione, mentre al suo fianco si levava un’enorme colonna d’acqua: un siluro l’aveva colpita sul lato sinistro. Erano le 00.45 del 10 settembre, l’Arno si trovava in posizione 33°14’ N e 23°23’ E, a 62 miglia da Tobruk.
 
L’attaccante era un aerosilurante Vickers Wellington del 38th Squadron della Royal Air Force, l’aereo "L" (numero di matricola HF912) pilotato dal sergente Dalley, decollato da un aeroporto egiziano alle 21.02 del 9 settembre insieme ad altri tre per attaccare naviglio dell’Asse a nord di Derna. Un Wellington, il "P" del sottotenente Ogilvie, era dovuto rientrare anticipatamente alle 21.55 per problemi ai motori, mentre gli altri tre avevano setacciato le acque di Derna finché avevano avvistato l’Arno in posizione 33°04’ N e 23°26’ E. Il bastimento era ben illuminato e perfettamente riconoscibile come nave ospedale, pertanto due degli aerei, pilotati dal sottotenente Gillingham e dal sergente Taylor, si erano astenuti dall’attaccare ed avevano diretto per il rientro alla base; ma Dalley, sospettoso, aveva deciso di avvicinarsi. Nel suo rapporto Dalley scrisse di aver avvistato una motonave di circa 2000 tsl che navigava a soli 45 metri dalla nave ospedale, contro cui condusse due attacchi: il suo primo siluro colpì il bersaglio a centro nave, provocando una violenta esplosione seguita da scintille, una fiammata rossastra e fumo nero. Contro il suo aereo venne sparata una singola raffica di proiettili traccianti.
Nei documenti britannici la descrizione dell’attacco è (volutamente?) ambigua, dalla formulazione della frase non è chiaro se il siluro sia stato lanciato contro l’Arno o contro la fantomatica “motonave”. Naturalmente non vi era nessuna motonave che navigava a pochi metri dall’Arno, e certamente nessuno aprì il fuoco contro l’aereo di Dalley, visto che la nave ospedale era del tutto sprovvista di armamento. Rimane il dubbio se Dalley avesse preso un abbaglio credendo di vedere un’altra nave nell’oscurità – è una possibilità concreta – o se abbia inventato tutto a posteriori per giustificare il siluramento di una nave ospedale. L’aereo di Dalley atterrò alla sua base alle 4.33 del 10 settembre.

L’asciutta descrizione dell’affondamento dell’Arno nei registri del 38th Squadron della RAF

Il siluro colpì l’Arno a prua, nella stiva numero 1, nella quale era stata allestita una camerata per l’equipaggio, nella quale dormivano in quel momento 28 tra marinai ed infermieri. Solo uno di essi sopravvisse all’esplosione ed al successivo repentino allagamento del locale: l’acqua che irrompeva nella stiva lo trascinò fino al livello del ponte di coperta, dove il portellone che chiudeva la stiva era stato scoperchiato dall’esplosione. Completamente nudo, il superstite si arrampicò fino al ponte lance, dove s’imbatté nell’ufficiale di guardia smontante, precipitatosi fuori dalla cabina dopo essere stato svegliato dall’esplosione del siluro. L’ufficiale, tornato in cabina, gli diede una giacca, una coperta ed un paio di pantaloni.
L’aereo era intanto scomparso nel buio della notte, inseguito dagli improperi dell’equipaggio dell’Arno.
Lo scossone causato dall’esplosione aveva lanciato contro una scala il direttore sanitario Trombetti ed il tenente colonnello medico Piero Alonzo, aiutante del generale Gelonesi, che si trovavano in quel momento in coperta, vicino alla plancia; la colonna d’acqua e fumo sollevata dallo scoppio del siluro investì i due ufficiali e li gettò sul sottostante ponte lance, dove Alonzo, sotto una pioggia di schegge e rottami, si precipitò in soccorso di Trombetti, rimasto contuso e stordito. Nessuno dei due aveva riportato ferite di rilievo. Quanto al generale, che si era coricato alle 23.30 (il suo alloggio era ubicato sul ponte C a sinistra) e si era appena addormentato, fu svegliato di soprassalto dalla detonazione, come tutti a bordo dell’Arno: scrisse poi nel suo rapporto di “un improvviso, violento colpo, con rumore di scroscio d’acqua”, che lo fece cadere dal letto. Sentendo la nave fermarsi, appruandosi ed assumendo un leggero sbandamento sulla sinistra, non tardò a comprendere “che qualcosa di grave doveva essere accaduto”; vestitosi alla meglio, uscì dalla cabina e vide correre verso di lui Trombetti ed Alonzo, che gli dissero che la nave era stata colpita a prua da un aerosilurante. Gelonesi ordinò allora a Trombetti di verificare insieme al comandante Luisi le condizioni della nave, lanciare l’SOS, preparare le scialuppe e gettare in mare il sacco zavorrato con gli ordini d’operazione e gli altri documenti segreti. Allontanatosi verso prua per accertare la situazione, Trombetti tornò poco dopo riferendo che la stiva numero 2 era allagata e che il suo boccaporto era stato scoperchiato, con asportazione e danneggiamento delle motolance sistemate su di esso; i locali dei ponti D ed E situati a prua sotto il castello erano inaccessibili, perché interamente invasi dall’acqua.
Il direttore sanitario aveva appena concluso il suo conciso rapporto, quando la sirena dell’Arno suonò i segnali di abbandono nave. Subito Gelonesi, Alonzo e Trombetti si precipitarono in coperta, verso prua, per chiedere al comandante Luisi per quale motivo ritenesse già necessario abbandonare la nave; strada facendo incontrarono l’ufficiale radiotelegrafista, sottotenente Bertolazzi, che li informò che la stazione radio era fuori uso. Quanto i tre ufficiali gli suggerirono di utilizzare l’aereo di fortuna per lanciare l’SOS, Bertolazzi spiegò che il relativo alberetto si era spezzato, pertanto Gelonesi gli ordinò d’imbarcare sulla lancia munita di radio portatile, dalla quale avrebbe potuto trasmettere una richiesta di soccorso (la radio portatile, però, aveva una portata massima di dodici miglia).
Mentre tutt’intorno l’equipaggio iniziava ad ammainare le lance di salvataggio e tutto il personale si preparava a prendervi posto, Gelonesi ed i due sottoposti trovarono nei pressi della stazione radio il comandante Luisi, che si dirigeva verso poppa gridando con gesti concitati di fare presto. Il generale ed i due tenenti colonnelli lo fermarono e gli chiesero se non fosse possibile aspettare prima di abbandonare la nave, ma Luisi si mostrò estremamente pessimista sulle prospettive di sopravvivenza dell’Arno: rispose soltanto “Impossibile, perché la nave andrà sotto tutto di un colpo e ci si perde tutti”, poi si allontanò a rapidi passi verso poppa, per non essere più rivisto da loro fino a dopo l’arrivo a terra. (Secondo il generale medico Mario Peruzzi, autore del libro "Le missioni avventurose di una squadra di navi bianche" edito dall’Ufficio Storico della Marina Militare, le strutture dell’Arno erano state indebolite durante i lavori di trasformazione in nave ospedale, nel corso dei quali si era giunti a tagliare le paratie che dividevano i compartimenti stagni per ricavare i reparti ospedalieri, e che non essendo state eseguite delle prove di allagamento non era possibile sapere quanto la nave sarebbe rimasta a galla in caso di sinistro. Di modifiche del genere, però, non si fa parola nella relazione di allestimento della nave e nel rapporto sui lavori di riparazione effettuati a Genova, mentre dai piani di trasformazione della nave del 1940, conservati dall’Associazione Marinara Aldebaran di Trieste e consultati da Giacomo Toccafondi, autore di una monografia sulla storia dell’Arno, le paratie stagne risultano ancora esistenti).
 
La nave appariva appruata e moderatamente sbandata, con macchine e dinamo ancora perfettamente funzionanti – le luci erano ancora tutte in funzione, le macchine erano state fermate su ordine della plancia, dopo di che la nave aveva continuato ad avanzare ancora per qualche minuto per effetto dell’inerzia –, tanto che a posteriori la decisione di abbandonare l’Arno sarebbe stata ritenuta prematura da alcuni autori, tra cui Giacomo Toccafondi e lo stesso generale Peruzzi (che nel suo libro avrebbe commentato, piuttosto duramente: “…l’Arno galleggiava e con le sue dinamo in moto e le sue luci denunciava la fallacia di queste previsioni. Una diagnosi sbagliata? C’era qualche speranza di salvarlo? Quel bastimento fermato con un ordine dalla plancia, ancora tutto illuminato ed apparentemente stabilizzato, con 27 morti a bordo, attraeva gli sguardi ed i pensieri dell’equipaggio (…) Come avevano potuto lasciare la loro nave così? L’Arno li aspettava. (…) L’Arno aveva offerto al suo equipaggio l’occasione di un gesto degno del suo passato e delle sue prestigiose avventure, ma era mancata la fede nella sua resistenza per via della sua vetustà per le manomissioni che nell’allestimento affrettato sembrava avessero turbato l’armonica e salda compagine interna; e lo avevano lasciato perdersi lentamente, in una lunga, imbarazzante agonia per un errato apprezzamento che la nave, ostinatamente galleggiante, coi suoi fanali accesi, smentiva di ora in ora, ricordando all’equipaggio smarrito gli eroismi e le fatiche per un puro ideale e le gloriose tradizioni del mare”).
Ad ogni modo, data la risposta lapidaria del comandante Luisi, il generale Gelonesi con Alonzo e Trombetti scese sul ponte B, dove nei pressi della segreteria direzione si erano radunate le crocerossine; ordinò a queste ultime di salire subito sulla lancia numero 8, già ammainata fino all’altezza del ponte B, mentre il direttore Trombetti ordinava al suo segretario di gettare in mare l’archivio segreto ed al sottotenente commissario di recuperare i documenti più importanti dalle diverse segreterie ed il denaro custodito nella cassa di bordo. Assicuratosi dell’esecuzione di questi ordini, Gelonesi salì a sua volta sulla lancia numero 8, “per meglio provvedere alla protezione delle sette Sorelle della C.R.I.”. Il generale elogiò poi nel suo rapporto il “senso di disciplina” e “la calma e la relativa serenità che regnava in tutto l’equipaggio, la imminenza del pericolo non aveva inciso sensibilmente sul contegno e sulla disciplina di bordo, perché tutti si accingevano a compiere il proprio dovere con tranquilla sollecitudine, senza grida, senza voci inconsulte, senza confusione e senza disordine”, e definì “esemplare” la condotta delle crocerossine, che vennero poi decorate dietro sua proposta. Parimenti Gelonesi lodò il direttore sanitario Trombetti, alla cui opera attribuì il fatto che si fossero evitate altre vittime oltre a quelle causate dall’impatto del siluro (lo propose per una Medaglia d’Argento al Valor Militare; Trombetti era già stato decorato di medaglia di bronzo per la sua attività come direttore sanitario dell’Arno), il tenente colonnello Alonzo ed il cappellano di bordo, don Giuseppe Tedeschi, che insistette a restare nella stiva allagata per benedire gli uomini morti nel siluramento, fino a quando non dovette essere portato via quasi di peso: “…instancabile consolatore di corpi infermi e mirabile animatore della gente con la quale era sempre vissuto in stretta e feconda comunione di animi e di fede, anche nel momento tragico del siluramento seppe portare il valido e prezioso contributo della sua calma serena e del suo magnifico sprezzo del pericolo (…) Nel momento critico dell’abbandono della nave, quando già le imbarcazioni stavano ammainandosi, sordo al richiamo dei compagni, si tratteneva nel punto più alto per impartire la benedizione cristiana all’equipaggio che lasciava per sempre la nave”.
I capi reparto provvidero a far ispezionare tutti i locali accessibili per sincerarsi che nessuno fosse rimasto intrappolato, poi tutto l’equipaggio ed il personale sanitario abbandonarono ordinatamente la nave su nove lance a remi e due motobarche, pur sorvolando sull’assegnazione dei posti prevista nelle esercitazioni collettive in modo da non perdere troppo tempo. All’1.20 sull’Arno non c’era più nessuno, a parte i morti.
 
Mario Peruzzi descrive così l’abbandono dell’Arno nel suo libro: «L’Arno fu abbandonato e le sue imbarcazioni si allargarono in una giostra confusa sotto le luci di bordo che continuavano a brillare come se il bastimento fosse pronto a riprendere la sua rotta. Mentre la nave abbandonata si traversava al mare un po’ mosso, le imbarcazioni si allontanavano. Si erano armati i remi; qualcuna aveva tentato di alzare una vela di fortuna, qualche altra rimaneva indietro cercando ancora di comporre un armamento di voga; qualcuna aveva perduto il timone, altre facevano acqua; molti soffrivano il mal di mare ed il freddo, essendo sprovvisto di indumenti. Lampadine, elettriche, fanali e fuochi Very si accendevano di tanto in tanto».
Il generale Gelonesi, il tenente colonnello Alonzo ed il direttore sanitario Trombetti s’imbarcarono tutti sulla lancia 8; il comandante Luisi, il direttore di macchina, altri nove ufficiali e due fuochisti abbandonarono la nave per ultimi prendendo posto su una motolancia, con a rimorchio una lancia a remi. Prima di scostare dall’Arno, gli occupanti della lancia del comandante segnarono il livello di massima immersione a prua, sotto l’occhio di cubia di sinistra.
Le altre nove imbarcazioni, sotto il comando di Gelonesi, si allontanarono dalla nave per evitare gli effetti di un eventuale risucchio, senza però perderla di vista; Gelonesi ordinò di restare uniti, e per tutta la notte i naufraghi osservarono le luci dell’Arno che, data per perduta tanto in fretta, rimaneva invece ostinatamente a galla.
Alle due di notte il direttore di macchina propose al comandante Luisi di tornare a bordo per verificare se fosse possibile salvare la nave; Luisi diede il suo assenso, ed alla testa di un gruppo di volontari – quattro ufficiali e due fuochisti – risalì sull’Arno, ancora illuminata. Una volta a bordo, chiamarono ad alta voce per assicurarsi una volta di più che a bordo non ci fosse più nessuno: e nessuno rispose, il silenzio della nave deserta era rotto solo dal rumore delle dinamo che nel loro locale continuavano infaticabili il loro lavoro. Un’ispezione dei locali di macchina diede risultati scoraggianti: l’acqua stava iniziando ad entrare in sala macchine, e senza personale e mezzi quello sparuto gruppetto non poteva fare niente per arrestarla. Si decise di aspettare il mattino per un eventuale nuovo tentativo; dopo un breve giro nei rispettivi alloggi per prelevare qualche oggetto che non volevano perdere, comandante ed ufficiali tornarono sulla motolancia, rimanendo nei pressi della nave. Questo primo tentativo di salvare l’Arno era durato solo un quarto d’ora.
Verso le quattro del mattino, le luci dell’Arno andarono gradualmente scomparendo. Il generale Gelonesi, al comando del gruppo principale delle imbarcazioni, decise di aspettare il mattino per avvicinarsi alla nave e valutare il da farsi. Il mare era agitato, con vento fresco di maestrale, tanto da costringere gli occupanti delle lance a sgottare di continuo; le imbarcazioni misero la prua al mare e misero in mare le ancore galleggianti, e per mantenersi in contatto tra di loro usarono segnalazioni luminose con lampade elettriche e razzi Very. La lancia numero 8 aveva perso il timone durante la manovra di messa in mare, pertanto fu necessario allestirne uno di fortuna; le crocerossine furono radunate a poppa e protette come meglio possibile dai colpi del mare, che andava ingrossando mentre il vento rinfrescava.
All’alba l’occhio di cubia di sinistra distava appena un metro dalla superficie del mare, e l’elica di dritta era uscita quasi completamente dall’acqua. Con le prime luci gli occupanti della motolancia del comandante Luisi scrutarono il mare tutt’attorno in cerca delle altre imbarcazioni, ma non ne videro: il vento le aveva allontanate di diversi chilometri, e la foschia le nascondeva alla vista. Luisi decise allora di assumere rotta sud, verso la costa, per raggiungere la terra il prima possibile ed allertare i soccorsi.
 
Alle otto del mattino si verificò il secondo tentativo di salvataggio dell’Arno, da parte degli occupanti delle lance del gruppo del generale Gelonesi, ignari del tentativo compiuto dal gruppo del comandante ore prima. Alle prime luci dell’alba, la distanza tra l’Arno e le imbarcazioni era divenuta di 5-6 miglia; consultatosi con i suoi sottoposti, Gelonesi decise di provare a tornare sottobordo per verificarne le condizioni e tentarne se possibile il salvataggio. A questo scopo tutte le lance alzarono le vele – quelle che non ne avevano in dotazione, usarono vele di fortuna – ed alle otto giunsero sottobordo alla nave abbandonata, che appariva appruata e sbandata con la sinistra, con l’acqua quasi al livello degli oblò del ponte C. Via via che le altre imbarcazioni giungevano a portata di voce, Gelonesi chiese loro del comandante Luisi, ma si sentì rispondere che non c’era; qualche ora dopo seppe che si era diretto verso la costa con le altre due imbarcazioni.
Gelonesi inviò a bordo dell’Arno alcuni ufficiali e specialisti con l’incarico di verificare l’entità dei danni e tentare di tamponare la falla, chiudere le portellerie, riaccendere le macchine in modo da poter utilizzare le pompe e rimettere in funzione l’apparato radio per lanciare un segnale: in particolare, al tenente Gesualdo Ventura ed ai sottotenenti Giuseppe Bertuccio ed Orazio Lo Faro – tutti e tre ufficiali di macchina militarizzati – ordinò di tentare di accendere le caldaie per mettere in funzione le pompe e possibilmente la dinamo, necessaria per attivare la radio; al primo nostromo Nunzio Barbera, con alcuni marinai, diede ordine di verificare la galleggiabilità della nave – che, vista da fuori, non sembrava molto peggiorata dal momento dell’abbandono diverse ore prima – e chiudere la portelleria laddove possibile; al radiotelegrafista Pagano ed al sottocapo segnalatore Baiocchi ordinò di tentare di rimettere in funzione la radio, riparandone alla meglio l’antenna, e lanciare l’SOS con il punto nave approssimativo, che Baiocchi conosceva perché era stato di guardia in plancia al momento del siluramento. Inoltre, vennero caricate sulle lance alcune coperte per le crocerossine e viveri di conforto destinati ad incrementare la dotazione delle imbarcazioni, per il caso che la permanenza in mare si fosse protratta a lungo.
Nella successiva ora e mezza, gli occupanti delle imbarcazioni videro del fumo uscire dal fumaiolo dell’Arno, ma girando intorno allo scafo, si resero anche conto che lo sbandamento e l’appruamento andavano rapidamente crescendo. Ritenendo che la nave corresse ormai immediato rischio di affondamento, Gelonesi richiamò sulle lance gli uomini che aveva rimandato a bordo: per la terza ed ultima volta nell’arco di meno di dieci ore, l’Arno venne così abbandonata. Alle 9.50 a bordo non c’era più nessuno, e come sollevata da questo pensiero, la vecchia nave ospedale si decise infine a porre fine alla sua agonia. Aumentato rapidamente lo sbandamento mentre le lance si allontanavano a forza di remi, l’Arno affondò di prua alle 10.20, sotto gli occhi del suo equipaggio, ad un’ottantina di miglia da Tobruk e ad una quarantina di miglia da Ras el Tin. Scrisse Gelonesi: “Nella tragicità del momento il nostro pensiero, accompagnato da un grido di evviva che erompe dai nostri petti, si eleva alla maestà del re, al duce, alla patria lontana”.
 
Già alle 8.30, mentre ancora era in corso l’ultimo tentativo di salvare la nave, due aerei tedeschi avevano sorvolato l’Arno e le lance, effettuando due giri su di esse per poi allontanarsi verso sud, dando agli occupanti la netta impressione di essere stati avvistati. Circa due ore dopo arrivarono da sud altri due velivoli, uno dei quali recante i contrassegni della Croce Rossa; scesi a bassa quota, lanciarono un messaggio in tedesco, con cui si informava che i soccorsi erano in arrivo. Il gruppo di imbarcazioni del generale Gelonesi, assunta rotta 180°, si mantenne in contatto fino all’avvistamento di fumo all’orizzonte, poche ore dopo. Dopo una decina di minuti divenne visibile la sagoma di una torpediniera tipo “tre pipe”: era la Generale Antonino Cascino, diretta a tutta forza verso i naufraghi. Portatesi sottovento rispetto alla torpediniera, le imbarcazioni le giunsero sottobordo verso le 14; in pochi minuti tutti i naufraghi furono presi a bordo, e la Cascino diresse verso Tobruk, abbandonando alla deriva le imbarcazioni vuote. Circa venti minuti dopo, una numerosa formazione di aerei Alleati comparve e puntò sulla Cascino, ma l’immediata reazione contraerea della torpediniera li indusse a desistere ed andarsene. La navigazione verso Tobruk proseguì senza ulteriori turbamenti, mentre il comandante della torpediniera faceva distribuire ai naufraghi dei generi di conforto.
Verso le 19 la Cascino incrociò la motolancia del comandante Luisi e l’altra lancia che era rimasta con lui, dirette verso terra; essendo questa distante solo due miglia, non si fermò a raccoglierne gli occupanti – che raggiunsero la costa con i propri mezzi poco più tardi – e proseguì per Tobruk, dove si ormeggiò alle otto alla banchina Impero. Ad attenderli i naufraghi trovarono l’ammiraglio Giuseppe Lombardi, comandante di Marilibia, ed il capitano di vascello Temistocle D’Aloya, comandante di Marina Tobruk.
 
L’ammiraglio Lombardi disse al generale Gelonesi di aver disposto l’immediato trasferimento di tutti i naufraghi a Derna, per allontanarli dalla martoriata Tobruk e trovar loro un alloggio adeguato: il trasferimento, mediante automezzi, venne effettuato in poco più di quattro ore. Marilibia dispose anche che ai naufraghi venissero forniti indumenti prelevati dai locali magazzini dell’Esercito; a Derna si poté procedere l’11 settembre alla conta ed identificazione dei superstiti, dalla quale risultò che mancavano all’appello 23 infermieri e quattro marinai, tutti appartenenti al Distaccamento Regia Marina dell’Arno e tutti tra coloro che dormivano nel compartimento colpito dal siluro.
 
Morirono nel siluramento dell’Arno:
 
Vittorio Alessio, marinaio infermiere, 21 anni, da Maretto
Guglielmo Belli, marinaio infermiere, 22 anni, da Capriolo
Giovanni Bonomo, marinaio infermiere, 26 anni, da Taranto
Dino Burroni, sottocapo infermiere, 22 anni, da Portoferraio
Luigi Casaluce, marinaio infermiere, 22 anni, da Nardò
Concetto Contarella, sottocapo infermiere, 21 anni, da Lentini
Umberto De Martino, marinaio infermiere, 26 anni, da Napoli
Vincenzo Denaro, marinaio infermiere, 21 anni, da Bagnara Calabra
Antonio D'Incecco, marinaio, 20 anni, da Genova
Salvatore Gambino, marinaio, 25 anni, da Palermo
Bruno Gregori, sottocapo infermiere, 24 anni, da Vezzano Ligure
Giovanni Lentini, marinaio infermiere, 22 anni, da Messina
Mario Leone, marinaio infermiere, 25 anni, da Comeglians
Giulio Migliorati, marinaio infermiere, 21 anni, da Pavone del Mella
Giuseppe Napolitano, marinaio infermiere, 21 anni, da Grisolia
Erminio Orrù, marinaio, 25 anni, da Terralba
Bruno Palazzo, marinaio infermiere, 21 anni, da Torino
Giovanni Palmisano, marinaio infermiere, 25 anni, da Torre del Greco
Francesco Pisano, marinaio infermiere, 21 anni, da Cagliari
Mario Previsani, marinaio infermiere, 20 anni, da Udine
Francesco Rieco, marinaio infermiere, 27 anni, da Napoli
Francesco Romano, marinaio, 22 anni, da Napoli
Sigfrido Sangiorgi, marinaio infermiere, 24 anni, da Ravenna
Romeo Troiano, marinaio infermiere, 21 anni, da Pescara
Marcello Valenta, sottocapo infermiere, 26 anni, da Visinada
Edgardo Wanderlingh, sottocapo infermiere, 28 anni, da Napoli
Beniamino Zurlini, marinaio infermiere, 21 anni, da Bassano del Grappa
 
L’elenco dei caduti dell’Arno (archivio USMM, via Giacomo Toccafondi)
 
Dopo un periodo di riposo presso l’ospedale dell’Esercito di Derna, l’equipaggio tornò in Italia il 18 settembre sulla nave ospedale Gradisca, insieme al generale Gelonesi; le crocerossine vennero invece rimpatriate per via aerea il 12 settembre, atterrando all’aeroporto di Lecce e proseguendo poi in treno fino a Firenze, loro città di origine.
L’ammiraglio Lombardi aveva proposto al generale Gelonesi di rimpatriare anch’egli per via aerea, con Alonzo e Trombetti, sullo stesso aereo delle crocerossine, avviando invece il resto dell’equipaggio a Bengasi dove si sarebbero potuti imbarcare su navi in partenza per l’Italia, ma Gelonesi aveva ritenuto fosse più opportuno, per tenere alto il morale e per rinsaldare la fiducia nella sicurezza delle navi ospedale dopo il proditorio affondamento dell’Arno, che l’equipaggio della perduta unità rimpatriasse in un gruppo unico, a bordo di una nave ospedale, e che anch’egli viaggiasse con loro. Aveva dunque deciso di imbarcare, con tutto l’equipaggio, sulla Gradisca, che avrebbe fatto scalo a Tobruk il 12 settembre; dopo aver fatto visita l’11 al governatore della Libia, maresciallo d’Italia Ettore Bastico, riferendogli quanto accaduto, alle 17 del 12 imbarcò a Tobruk sulla Gradisca insieme al resto dell’equipaggio dell’Arno, trasferito nuovamente da Derna mediante automezzi. Un’ora dopo, la Gradisca lasciò Tobruk diretta a Marsa Matruh, salutata dall’ammiraglio Lombardi e dal comandante D’Aloja; una volta in mare aperto, il generale Gelonesi radunò i naufraghi dell’Arno e tenne loro un breve discorso, invitando “a raccogliersi nella memoria dei compagni gloriosamente caduti nell’adempimento del dovere ed elevare il loro pensiero alla maestà del sovrano, al duce e ad inneggiare alla patria lontana e all’immancabile vittoria”.
 

Naufraghi dell’Arno a Derna (Archivio Istituto Luce)


Ufficiali dell’Arno a Derna dopo l’affondamento (Archivio Istituto Luce)


Sopra, la fiduciaria dei fasci femminili di Derna parla con dei superstiti dell’Arno, e sotto, consegna loro della posta (Archivio Istituto Luce)


Ufficiali naufraghi dell’Arno parlano con i dirigenti del PNF di Derna (Archivio Istituto Luce)

Dopo una messa celebrata a bordo il mattino del 13, la Gradisca giunse a Marsa Matruh dove imbarcò oltre seicento pazienti, poi ripartì quella sera diretta in Italia. Alle dieci del 16 settembre, giunta la Gradisca in vista delle coste italiane, il cappellano don Tedeschi celebrò una messa per gli uomini morti nel siluramento dell’Arno. Due giorni dopo, i superstiti sbarcarono finalmente a Napoli. 
 
Alcune fonti sostennero successivamente che l’affondamento dell’Arno fosse stato legittimato da un messaggio tedesco – inviato alle 13.42 del 31 agosto 1942 – intercettato e decifrato il 3 settembre 1942 dal servizio di decrittazione ULTRA, che avrebbe provato che la nave veniva impiegata per trasportare rifornimenti, in violazione alla convenzione dell’Aia. In realtà, come provava il testo stesso del messaggio "Importante. La nave ospedale Arno con 50 sanitari e 6 tonnellate di rifornimenti per Bengasi" (un normale mercantile, come quelli che raggiungevano regolarmente la Libia in quel periodo, poteva trasportare migliaia di tonnellate di rifornimenti), si trattava di personale medico e di alcune tonnellate di materiale sanitario per l’Afrika Korps, che le convenzioni internazionali ammettevano fossero trasportate da navi ospedale.

Di seguito, il rapporto del generale Gelonesi sull’affondamento dell’Arno (Ufficio Storico della Marina Militare, via g.c. Giacomo Toccafondi)


















La stampa italiana non tardò a denunciare l’accaduto: il 19 settembre, ad esempio, la rivista illustrata "Cronache della guerra" tuonava: “A soli sette giorni di distanza dal proditorio attacco alla nave ospedale Aquileia (…) l’atto inumano è stato ripetuto alle ore una del 19 settembre contro la nave ospedale Arno. Questa volta il gesto barbarico, che non può non destare un profondo senso di disgusto e di rivolta di ogni essere civile, ha avuto il suo triste epilogo: la nave ospedale Arno, navigante con illuminazione completa e con le luci regolamentari che ne indicano le caratteristiche e la missione, è stata silurata e affondata. Oltre a 4 marinai 23 infermieri sono periti nell’adempimento del loro nobile dovere. (…) Tali brutali attentati, compiuti in violazione delle norme internazionali liberamente sottoscritte e verificatisi in questi ultimi tempi con crescente frequenza – 3 in 42 giorni – non possono essere attribuiti ad errori o ad iniziative individuali ma sembrano invece corrispondere ad un voluto e preciso indirizzo operativo: in ogni caso qualificano e definiscono i metodi di guerra dei sedicenti paladini della umana civiltà”.
L’affondamento di una nave ospedale perfettamente riconoscibile, palese crimine di guerra, venne denunciato dalle autorità italiane anche internazionalmente, e la notizia fu riportata anche dalla stampa oltreoceano. Non risulta, ad ogni modo, che i colpevoli dell’affondamento dell’Arno siano mai stati perseguiti.
 
Notizia dell’affondamento dell’Arno sul “Barrier Miner” del 15 settembre 1942 (da www.trove.nla.gov.au)

 
L’affondamento dell’Arno nel ricordo della crocerossina Vera Marinelli (dal libro “Storia di una nave bianca” di Vincenzo Giacomo Toccafondi):
 
"È notte, l’una passata. Si sente un gran tonfo, mi dicono, io sento solo un gran vociare e qualcuno che mi chiama ripetutamente. Scendo dal letto su di un pavimento perpendicolare. Ho l’impressione di finire in mare, istintivamente mi infilo il costume da bagno sotto la divisa, prendo l’orologio e il bracciale della Croce Rossa, scordo il salvagente. Raggiungo di corsa le mie compagne in coperta. La nave è stata colpita da un siluro a prua e si è inclinata, le luci sono però ancora tutte accese. Ci calano in mare in una scialuppa con il direttore medico, il generale Gelonesi e il suo aiutante che si trovavano a bordo della nave Arno per ispezione. Dopo poco – a me sembra – tutte le scialuppe sono in mare con l’equipaggio, tranne quella che stava a prora e che aveva la radio a bordo. Quindi niente SOS. Si cerca con pile e razzi di tenere le scialuppe unite e non è facile con il mare grosso. Il comandante si allontana con una scialuppa sperando di arrivare a terra e dare l’allarme. Il tempo passa presto occupate come siamo a vuotare l’acqua dalla scialuppa. Le luci della nostra nave si spengono, ma all’alba la nave è ancora a galla. Alcuni ufficiali salgono a bordo per vedere se c’è ancora qualche possibilità di mettere in moto le macchine e rispostare la nave e a noi sorelle pare un miracolo possibile, invece, di lì a poco gli ufficiali scendono, appena in tempo per non affondare anche loro. È difficile descrivere cosa si prova a vedere la propria nave chinarsi di fianco e poi giù a picco scomparire per sempre. Ho detto la “propria” nave perché averci vissuto sopra sia pochi mesi o anni è uguale fa sì che sia diventata parte di te: un po’ come una casa e una persona cara insieme. La nave è qualcosa di vivo! Seppi in seguito che con la nave erano affondati 27 dei nostri marinai che si trovavano a prua al momento dello scoppio. Ripenso ancora oggi con tanta angoscia a questi “dispersi”, alle loro famiglie che per anni hanno sperato di rivederli. Ci sorvolano degli aerei, sembrano tedeschi, e dopo qualche ora arriva una torpediniera, il Cascino. Caricati tutti noi naufraghi riprende la corsa. Raccontano poi i marinai che la torpediniera era di scorta ad un convoglio diretto in Africa ed era carica di esplosivo e di munizioni. Non appena a bordo 24 apparecchi inglesi cominciano a bombardarci, così fra contraerea e bombe c’era un rumore infernale. A parte qualche sorella rimasta sorda per qualche giorno, tutto finisce bene grazie ad un acquazzone che ci nasconde. Passato il nuvolone di aerei non c’era più traccia. Siamo oggetto delle premure dei marinai della torpediniera, anche sollevate dalla vista della tanto desiderata terra. Si finisce su un relitto di naufragio. Altre ore di ritardo. È buio quando si sbarca notevolmente ammaccate fisicamente e moralmente. L’ammiraglio Lombardi dopo averci gentilmente offerto un tè ci fa salire tutti su automobili e camion diretti a Derna scortati dal suo aiutante di bandiera. L’idea di proseguire, sia pure per terra, nel nostro interminabile viaggio non mi sembra affatto buona. Si seppe in seguito che era previsto un bombardamento inglese e sbarco a Tobruk poi attuato. Sulla via di Derna ci fermammo per una breve sosta ad Ain el Gazala. Finalmente a letto in un ospedale di Derna. Dopo pochi giorni si riparte per l’Italia. Avendo tutte una notevole ripugnanza per l’acqua e non potendo ovviamente andare via terra, grazie anche all’interessamento del prof. Aldo Castellani ci fanno andare per mezzo di aereo. È un aereo postale che passa sopra le isole greche. Del paesaggio non ricordo nulla, profondamente addormentata con la certezza di essere sul mezzo più sicuro del mondo, mi risveglio a Lecce. Il giorno seguente partiamo per Roma su di un grosso aereo traballante a causa dei vuoti d’aria, dicono gli esperti. Proseguiamo per Firenze col treno (bei vecchi mezzi sicuri). Eccoci alla stazione di Firenze. Accolte affettuosamente dalla nostra ispettrice De Bellegarde e altre varie personalità. Accolte come eroine senza nulla di eroico né nell’aspetto “spiegazzato” né nell’animo ferito e pieno di pietà per le sofferenze condivise con i nostri soldati".
  
L’Arno in tempi più felici, in navigazione come nave passeggeri per il Lloyd Triestino (g.c. Mauro Millefiorini)

La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al tenente colonnello medico Ernesto Trombetti, nato a Monteleone di Puglia il 13 febbraio 1891:
 
"Direttore di nave ospedale, ne organizzava e disciplinava i servizi, portandoli con la sua costante e competente attività ad altissimo grado di efficienza. Silurata nottetempo la nave da un aereo nemico, benché investito da una colonna d'acqua, provocata dallo scoppio, e fortemente contuso, fronteggiava rapidamente con il suo abituale coraggio la difficile situazione, dimostrando serena fermezza ed elevato senso di responsabilità. Nonostante le avverse condizioni del mare e del tempo, si prodigava con intrepido valore nei tentativi di ricupero dell'unità e nelle operazioni di salvataggio del personale che, durante la lunga permanenza sulle imbarcazioni, trascinava con l'esempio animatore all'adempimento dei propri compiti, assicurandone con efficace iniziativa e abilità marinaresca la salvezza. (Mediterraneo centrale, 10 settembre 1942)."
 
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente colonnello medico Piero Alonzo, nato a Firenze il 22 novembre 1902:
 
"Imbarcato su nave ospedale, silurata da aereo nemico, benché investito da una colonna d'acqua e da gas tossici per effetto dell'esplosione, accorreva prontamente, incurante della propria incolumità, in soccorso del suo Direttore, rimasto contuso e lo coadiuvava quindi validamente nelle operazioni di salvataggio del personale. Durante le lunghe ore trascorse su una lancia in difficili condizioni di mare e di tempo, contribuiva efficacemente col suo contegno coraggioso e sereno, con sagace iniziativa e con esperienza marinaresca al salvataggio dei naufraghi. (Mediterraneo centrale, 10 settembre 1942)."
 
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla capogruppo infermiere volontarie C.R.I. Maria Buonamici, nata a Firenze il 22 novembre 1893:
 
"Capo gruppo delle Infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana, imbarcata su nave ospedale, colpita nottetempo con siluro da aereo nemico, dimostrava nella grande emergenza un contegno forte e sereno, offrendo elevato esempio di fermezza d'animo e di noncuranza del pericolo alle sorelle, a lei affidate, a cui infondeva, durante le lunghe ore trascorse in una lancia di salvataggio, in avverse condizioni di mare, conforto e spirito di abnegazione. (Mediterraneo centrale, 10 settembre 1942)."
 
La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alle infermiere volontarie C.R.I. Franca Antinori (nata a Firenze il 6 aprile 1903), Vera Marinelli (nata a Povo il 18 agosto 1913), Tosca Mannelli (nata a Firenze il 28 dicembre 1899), Margherita Paoli (nata a Firenze il 19 novembre 1906), Rosanna Formichini (nata a Firenze il 18 febbraio 1906) e Maria Teresa Caccia (nata a Firenze il 20 luglio 1907):
 
 
La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al tenente cappellano don Giuseppe Tedeschi, nato ad Iseo il 30 maggio 1883:
 
"Imbarcato su nave ospedale, colpita nottetempo con siluro da aereo nemico, dava nella grave emergenza il suo prezioso contributo alle operazioni di salvataggio, infondendo con la sua alta parola la serenità e la fede. Mentre il personale abbandonava l’unità, egli, non curando le esortazioni dei camerati, si tratteneva fra gli ultimi sul ponte più alto della nave nell’assolvimento della sua missione cristiana e, incurante del pericolo incombente, impartiva ai naufraghi la sua benedizione."
 
La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al tenente del Genio Navale Direzione Macchine Gesualdo Ventura (nato a Catania il 9 gennaio 1905) ed ai sottotenenti del Genio Navale Direzione Macchine Giuseppe Bertuccio (nato a Messina l’8 ottobre 1913) ed Orazio Lo Faro (nato a Vittoria il 20 maggio 1912):
 
"Imbarcato su nave ospedale, silurata da aereo nemico, ritornava audacemente a bordo dell’unità abbandonata dall’equipaggio, per tentare di riaccendere le caldaie ed effettuarne il recupero, assolvendo con serenità, elevato attaccamento al dovere e noncuranza del grave pericolo, l’incarico affidatogli finché per le peggiorate condizioni di stabilità della nave non gli veniva ordinato di allontanarsi da bordo".
 
Una foto a colori dell’Arno (g.c. STORIA Militare)

Si ringrazia Vincenzo Giacomo Toccafondi. 

7 commenti:

  1. Hi.
    Please tell me which aircraft of the RAF squadron hit the ship "Arno" with a torpedo.

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    1. Sorry, not specified in any of the books I have. Only "British torpedo bomber"...

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    2. Hi
      Wellington 38Sq RAF
      https://imgur.com/a/mhABv3Z

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    3. Thank you, I will add it when I will remake this page someday.

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  2. Si può avere i nominativi delle infermiere volontarie della Croce rossa salvate dal siluramento? O una indicazione del personale in attività?

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Buongiorno,
      si trattava di: Maria Buonamici (capogruppo), Franca Antinori, Maria Teresa Caccia, Rosanna Formichini, Tosca Mannelli, Vera Marinelli e Margherita Paoli. Tutte furono decorate al Valor Militare per il contegno tenuto dopo il siluramento, la capogruppo Buonamici con la Medaglia di Bronzo, le altre con la Croce di Guerra al V.M. Sulla storia dell'Arno segnalo una recente ottima monografia di Vincenzo Giacomo Toccafondi ("Storia di una nave bianca") da cui ho tratto queste informazioni.

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