sabato 28 marzo 2015

Fiume


Il Fiume nel 1931 (Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)

Incrociatore pesante della classe Zara (dislocamento standard 11.508 tonnellate, in carico normale 13.260 tonnellate, a pieno carico 14.168 tonnellate). Le unità della classe, indubbiamente i migliori incrociatori pesanti della Regia Marina e probabilmente tra i migliori del tipo al mondo, avevano l’armamento principale tipico della maggior parte degli incrociatori pesanti (otto cannoni da 203 mm), un’accettabile velocità di 31-32 nodi in condizioni operative (33-34 nodi alle prove) ed una corazzatura particolarmente poderosa (cintura 150 mm, ponte 20-70 mm, torri 120-140 mm, barbette 140-150 mm, paratie 90-120 mm, torrione 70-150 mm), a differenza dei loro poco protetti predecessori della classe Trento (il peso della corazzatura degli Zara, 2700 tonnellate, era quasi triplo di quello dei Trento). La protezione prevedeva due fasce di corazzatura anziché una, uno schema comune più alle corazzate che alla maggior parte degli incrociatori pesanti. La contropartita consistette nel maggiore dislocamento, che superò di quasi 2000 tonnellate i limiti consentiti dal trattato di Washington.
Rispetto ai gemelli, che avevano caldaie tipo Thornycroft, il Fiume aveva le meno efficienti caldaie tipo Yarrow, causa della sua minore autonomia (4.480 miglia a 16 nodi contro le oltre 5200 delle altre unità, 2.675 a 25 nodi contro le oltre 3300 delle altre unità, 1.155 miglia a 32 nodi contro le oltre 1900 delle altre unità).
Durante il secondo conflitto mondiale il Fiume svolse 6 missioni di ricerca del nemico e 3 di protezione del traffico (scorta), percorrendo 10.939 miglia, sino alla sua perdita.

Breve e parziale cronologia.

29 aprile 1929
Impostazione nello Stabilimento Tecnico Triestino di Monfalcone.


Lo scafo del Fiume sullo scalo, alla vigilia del varo.

27 aprile 1930
Varo nello Stabilimento Tecnico Triestino di Monfalcone. Madrina è Giovanna di Savoia. Durante le prove la nave raggiungerà una velocità di 35,2 nodi, mentre l’effettiva velocità operativa risulterà essere di 31-32 nodi.


Il Fiume prima del varo…


…durante…


…e dopo (per l’intera sequenza: Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)
 

Il Fiume in allestimento a Trieste nel 1930 (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)



Prime prove in mare (Alto Adriatico, 1931): senza artiglierie, direzione del tiro e cappe ai fumaioli (da www.naviearmatori.net, utente Claudio Carletta)


La nave ancora incompleta nell’estate 1931 (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)

Fase più avanzata dell’allestimento: le torri prodiere da 203 mm sono già state sistemate, mentre mancano ancora quelle poppiere (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)

23 novembre 1931
Entrata in servizio. Nel frattempo allo Stabilimento Tecnico Triestino sono subentrati i Cantieri Riuniti dell’Adriatico: il completamento del Fiume è la prima grande realizzazione della nuova società.
 
A tutta velocità nell’estate 1931 (da www.dennilfloss.blogspot.it)



Prove in mare nel Golfo di Trieste, novembre 1931 (da www.dennilfloss.blogspot.com)


Virata alla massima velocità durante le prove di evoluzione ad allestimento ultimato in Alto Adriatico, 1931 (da www.naviearmatori.net, utente Claudio Carletta)

Marzo 1932
Viene visitato da una delegazione della Marina sovietica in visita in Italia. In questo periodo è comandante in seconda del Fiume il capitano di fregata Enrico Baroni, futura MOVM.


Nel Golfo della Spezia nel marzo 1932 (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)


Il Fiume a Taranto nel 1933 (foto A. Bernini, via E. Bernini e it.wikipedia.org)


La nave a Tolone il 5 agosto 1933 (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)

1934
Ormeggiato alla banchina Ammiraglio Cagni di Fiume insieme all’incrociatore leggero Alberico Da Barbiano, il Fiume riceve la bandiera di combattimento (ricamata da un gruppo di donne fiumane), alla presenza, tra gli altri, del sindaco della città e del senatore fiumano Riccardo Gigante (che nel 1945 sarebbe stato fucilato dai partigiani jugoslavi dopo la presa di Fiume).
Nello stesso anno, il Fiume risulta comporre, insieme al gemello Gorizia ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IV (Ostro, Espero, Zeffiro, Borea) e VIII (Nembo, Turbine, Euro, Aquilone) la II Divisione della 1a Squadra Navale.

Foto aerea dei primi anni Trenta (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)

23 giugno 1934
Durante una crisi politica tra Italia ed Albania, dopo che militari albanesi hanno sequestrato quattro MAS, una stazione ricetrasmittente e le batterie costiere impiantante dalla Regia Marina a Durazzo, il Fiume ed il resto della 1a Squadra Navale (ventidue navi in tutto) lasciano Taranto nelle prime ore e giungono nel pomeriggio, senza preavviso, a Durazzo: una dimostrazione di forza volta ad intimidire il governo albanese (anche se da parte italiana si afferma trattarsi di una “visita amichevole” e che il mancato preavviso sia dovuto ad un disguido nelle comunicazioni). L’arrivo delle navi italiane provoca notevole scompiglio sia a Durazzo (dove la popolazione civile si dà alla fuga ed i militari si concentrano nelle caserme preparandosi a contrastare un eventuale sbarco) sia tra le autorità albanesi, che temono un’iniziativa militare italiana.
Nel pomeriggio del 25 giugno, dopo che le autorità albanesi si sono dichiarate desiderose di «prendere in esame tutte le questioni in sospeso» purché venga richiamata la squadra navale, ritenuta elemento di minaccia, le navi italiane ripartono quasi tutte, lasciando a Durazzo solo il Fiume con una squadriglia di cacciatorpediniere. L’incrociatore ed i caccia, dopo varie discussioni tra l’ammiraglio Domenico Cavagnari, capo di Stato Maggiore della Marina (che, interpretando i sentimenti dei vertici della Marina – toccata direttamente dall’affronto albanese – vuole tenere le autorità albanesi sotto pressione per tempi più lunghi, fino al 2 luglio) ed il diplomatico Ottavio Armando Koch (che invece preme per distendere l’atmosfera, vista la
disponibilità albanese a restituire quanto sequestrato ed a prendere in considerazione altre questioni in sospeso), lasceranno Durazzo il 2 luglio.
In questo periodo (dal 1934 al 1936) presta servizio sul Fiume il marinaio, poi sottocapo, Emilio Bianchi, futura MOVM; qualche anno più tardi vi avrebbe prestato servizio anche un’altra futura MOVM, il tenente di vascello Adolfo Gregoretti.


L’incrociatore a Venezia nel 1935 (da www.naviearmatori.net, utente Claudio Carletta)

4-6 gennaio 1935
Si svolgono sul Fiume, dotato per l’occasione di un “ponte di volo” in legno (di forma trapezoidale, lungo 40 metri, largo 15 a prua e 10 a poppa) realizzato sulla poppa, le prime prove di decollo ed appontaggio di un «autogiro» La Cierva C.30A, precursore dell’elicottero, pilotato da Reginald Brie. I risultati – le prove sono effettuate dapprima (il 4 gennaio) con la nave alla fonda a La Spezia e poi (il 6 gennaio) in navigazione a varie velocità, fino a 24 nodi – sono ritenuti promettenti (anche se autonomia ed affidabilità dell’autogiro lo rendono per il momento inadatto all’uso militare) e portano la Marina ad ordinare altri due esemplari del velivolo; l’intervento della Regia Aeronautica, che rivendica il monopolio su ogni tipo di velivolo, porteranno ad interrompere il programma.


L’autogiro apponta sul “ponte di volo” del Fiume durante le prove a 16 nodi, il 6 gennaio 1935 (Claudio Carletta e www.naviearmatori.net)


Il Fiume attraversa il canale navigabile di Taranto il 7 novembre 1935 (da “Incrociatori pesanti classe Zara”, serie “Orizzonte Mare”, Edizioni Dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1977, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)

1935-1936
Viene inviato in Africa Orientale durante la Guerra d’Etiopia.
Agosto 1936
Agli albori della guerra civile spagnola, mentre le truppe fedeli al governo repubblicano stanno progressivamente riconquistando le Baleari, di cui avevano assunto il controllo le forze nazionaliste, il Fiume (capitano di vascello Carlo Margottini) viene inviato a Palma di Maiorca (sull’isola sono in corso combattimenti tra le truppe nazionaliste che ne controllano la maggior parte e quelle repubblicane che vi hanno costituito una testa di ponte) dopo la richiesta d’aiuto lanciata dai nazionalisti a Mussolini. Il comandante Margottini del Fiume appoggerà l’azione del gerarca e console generale della MVSN Arconovaldo Bonacorsi, inviato a Maiorca quale consigliere militare per riorganizzare le forze falangiste: il 24 agosto è proprio Margottini a sostenere la richiesta dell’invio del consigliere, con un messaggio al Ministero della Marina («Confermo opinione situazione, pure presentando possibilità crollo, può ancora essere facilmente dominata da energico pronto intervento consiglieri et aviazione. Trattandosi soprattutto timidezza morale Capi»).
Bonaccorsi, insieme al quale sono stati inviati dall’Italia due caccia e tre bombardieri, riesce ad arruolare in poche settimane 2500 volontari, al comando dei quali, a fine agosto, infligge ripetute sconfitte alle forze repubblicane, che devono abbandonare gran parte del territorio maiorchino; il 1° settembre Galeazzo Ciano ordina per telegramma al comandante Margottini di sospendere le operazioni belliche ed occuparsi solo di riorganizzare la Falange, ma Margottini ne ottiene il rinvio, sostenendo la convenienza di lasciare che Bonacorsi concluda le operazioni. Pochi giorni dopo, infatti, i repubblicani si ritirano completamente da Maiorca.
In settembre il Fiume parteciperà anche alla riconquista di Ibiza, guidata sempre da Bonacorsi.

Il Fiume a fine anni Trenta (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it

26 novembre 1936
Partecipa ad una rivista navale svolta nel Golfo di Napoli in onore del reggente d’Ungheria.
1936-1937
Partecipa alle operazioni connesse alla guerra civile spagnola.
In questo periodo presta servizio sul Fiume, quale tenente di vascello, la futura MOVM Curzio Castagnacci.
17 maggio 1937
Il Fiume diviene nave ammiraglia della I Divisione (facente parte della 1a Squadra Navale), in questo sostituendo il gemello Gorizia. Solitamente compongono la Divisione Fiume, Zara e Gorizia, mentre il Pola funge da nave di bandiera del comandante della Squadra Navale.
1937
I due impianti binati da 100/47 mm poppieri vengono rimossi e sostituiti con otto mitragliere pesanti Breda da 37/54 mm in impianti binati.



Due immagini a colori del Fiume – forse le uniche mai realizzate di questa nave – scattate durante la rivista “H” da Hugo Jaeger, fotografo personale di Hitler (archivio “Life”; sopra: da www.navieamatori.net – sotto: da Stefano Sappino/www.betasom.it) 


5 maggio 1938
Partecipa alla rivista navale «H» tenuta nel Golfo di Napoli per la visita in Italia di Adolf Hitler. Il Fiume è qui nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Angelo Iachino, il futuro comandante della formazione italiana a Capo Matapan; effettua esercitazioni di tiro insieme allo Zara, mentre Hitler e Mussolini osservano dalla corazzata Conte di Cavour.
1938-1939
Vengono rimossi quattro cannoncini contraerei singoli da 40/39 mm Vickers Terni mod. 1915.
Ai lati del torrione vengono montati due obici illuminanti da 100/15 mm; successivamente verranno installate otto mitragliere contraeree da 13,2 mm in impianti binati. 


La nave a Genova il 30 maggio 1938 (g.c. Carlo Di Nitto)

6-7 aprile 1939
Partecipa alle operazioni di occupazione dell’Albania, assegnato al II Gruppo Navale, quello principale, incaricato dello sbarco a Durazzo: oltre al Fiume, lo compongono i gemelli Zara, Pola e Gorizia, i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti e Giosuè Carducci, le torpediniere Lupo, Lince, Libra e Lira, la nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia – carica di carri armati –, la nave officina Quarnaro, le cisterne militari Tirso ed Adige ed i mercantili requisiti Adriatico, Argentario, Barletta, Palatino, Toscana e Valsavoia.
Il II Gruppo (ammiraglio di divisione Sportello; truppe da sbarco al comando del generale Alfredo Guzzoni, comandante del corpo di spedizione in Albania ed imbarcato proprio sul Fiume con tutto il suo Stato Maggiore) deve sbarcare il grosso delle forze, incaricate di conquistare Tirana. Le navi da guerra giungono a Durazzo già nel pomeriggio del 6 aprile (e la torpediniera Lupo, prima di ricongiungersi alle altre unità, raggiunge il molo per recuperare il personale militare e diplomatico italiano), mentre quelle mercantili ed ausiliarie (ossia le navi con le truppe ed i materiali da sbarcare) solo alle 4.50 del 7, con mezz’ora di ritardo a causa della nebbia incontrata. Alle 5.25, dopo che il generale Guzzoni ha constatato che non vi sono delegati albanesi che intendano parlamentare, ha inizio lo sbarco, che procede pur con qualche inconveniente (ordini di precedenza non rispettati per il ritardo di alcuni trasporti, impossibilità per alcuni di essi di entrare in porto a causa dell’eccessivo pescaggio).
Le prime truppe a prendere terra sono i distaccamenti da spiaggia e le compagnie da sbarco delle navi da guerra, tra cui quella del Fiume: a dispetto della calma apparente (la città è illuminata), non appena i militari italiani scendono sui moli divengono il bersaglio di violento tiro di fucili e mitragliatrici appostate tra i vicini edifici portuali; sarà l’intervento delle artiglierie delle navi a risolvere la situazione in favore delle truppe italiane, che occuperanno la città entro le nove del mattino. Quella vista a Durazzo è stata la più intensa resistenza opposta dalle truppe albanesi allo sbarco italiano.
Partecipano allo sbarco anche reparti di uomini del Fiume: uno di essi, un plotone di mitraglieri che sbarca per primo, è guidato dal sergente cannoniere armaiolo Osvaldo Conti, ventiquattrenne capuano. Durante il combattimento Conti, localizzata una mitragliatrice, si lancia contro di essa sparando con la propria ma quasi subito viene colpito ad una coscia, cade, si rialza rifiutando l’aiuto di un commilitone, continua a sparare ordinando ai suoi uomini di non fermarsi; colpito di nuovo, cade a terra, viene colpito un’altra volta e muore dedicando le sue ultime parole all’Italia. Verrà decorato alla memoria con la Medaglia d’Oro al Valor Militare, con la motivazione: «Appartenente all'equipaggio del R. Incrociatore "Fiume", prendeva parte alle operazioni di sbarco a Durazzo come caposquadra di un plotone di mitraglieri. Durante l'azione, individuata di fronte a lui, fra l'imperversare del fuoco avversario, una mitragliatrice nemica, si lanciava senza esitazione in avanti con la propria arma trascinando con l'esempio i propri uomini. Colpito quasi subito da una pallottola che gli forava una coscia, non interrompeva il fuoco e lo continuava con grande coraggio e fermezza anche dopo essere stato colpito una seconda volta. Non potendo più per le gravi ferite riportate unirsi ai compagni che avanzavano verso l'avversario, continuava a sparare e ad incitare i suoi, finché non si abbatteva sulla mitragliatrice mortalmente colpito alla testa. Esempio fulgidissimo di sereno e freddo coraggio e di nobile attaccamento al dovere».
Si distingue nello sbarco a Durazzo anche un altro uomo del Fiume, il cannoniere Caraviello Tresco, di Pompei, che viene decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare.


Il Fiume nel bacino di San Marco a Venezia, in una foto scattata tra il 1937 e il 1939 (g.c. Piergiorgio Farisato, via www.naviearmatori.net)

Luglio 1939
Visita Lisbona insieme ad altre navi, tra cui la corazzata Conte di Cavour.
10 giugno 1940
All’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Fiume forma insieme ai gemelli Zara e Gorizia la I Divisione Navale, inquadrata nella 1a Squadra Navale di base a Taranto; comandante della Divisione è l’ammiraglio di divisione Ettore Sportiello, con insegna proprio sul Fiume (ma sarà presto rimpiazzato dal parigrado Pellegrino Matteucci, che trasferirà la sua insegna sullo Zara). Alla I Divisione è assegnata la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci).
Nei primi mesi del conflitto sarà imbarcato sul Fiume, quale corrispondente di guerra, il giornalista e scrittore Dino Buzzati.
12 giugno 1940
Il Fiume, insieme al resto della I Divisione Navale (Zara e Gorizia), alla VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci) ed alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno ed Antoniotto Usodimare), salpa da Taranto alle 00.20 in appoggio alla formazione navale (incrociatore pesante Pola, III Divisione Navale, XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita da Messina per intercettare due incrociatori britannici (il Caledon ed il Calypso) avvistati da dei ricognitori a sud di Creta, diretti verso ovest (gran parte della Mediterranean Fleet, al pari di una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a caccia, infruttuosa, di naviglio italiano). Alle 9, dato che nuovi voli di ricognizione non sono più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le unità italiane ricevono ordine di tornare in porto. Durante la navigazione di ritorno nel Mar Ionio, il 13 giugno, si verificano ben cinque infruttuosi attacchi subacquei contro gli incrociatori della I e della VIII Divisione: i cacciatorpediniere della scorta contrattaccano, ed il 14 il sommergibile britannico Odin (capitano di corvetta Kenneth Maciver Woods), che aveva infruttuosamente tentato di attaccare Fiume e Gorizia nel Golfo di Taranto, viene affondato con tutto l’equipaggio dai cacciatorpediniere Baleno e Strale nel punto 39º30' N e 17º30' E (17 miglia ad est-nord-est di Punta Alice).
22-24 giugno 1940
La I Divisione (Zara, Fiume, Gorizia), insieme alle Divisioni incrociatori II (Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) e III (Trento e Bolzano), al Pola (nave ammiraglia del comandante superiore in mare) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, X e XII (cioè tutta la II Squadra Navale, più la I Divisione), prende il mare per fornire copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo occidentale. Le forze della II Squadra, partite da Messina (Pola e III Divisione), Augusta (I Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21 ed il 22) e Palermo (II Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto dello stesso giorno a nord di Palermo. L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.
2 luglio 1940
La I Divisione (Zara, Fiume e Gorizia), gli incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni e la IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci) e X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) forniscono scorta indiretta ai trasporti truppe Esperia e Victoria, di ritorno vuoti da Tripoli a Napoli con la scorta diretta delle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso.


Il Fiume quando era da poco in servizio: sulla catapulta di prua un idrovolante Macchi M. 40, in seguito sostituito dagli IMAM Ro. 43 (da Claudio Carletta/www.naviearmatori.net)

7-11 luglio 1940
Il Fiume (capitano di vascello Giorgio Giorgis) prende il mare insieme al resto della I Divisione (Zara, nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Pellegrino Matteucci comandante la I Divisione, e Gorizia) e della II Squadra Navale (incrociatore pesante Pola con a bordo l’ammiraglio di squadra Riccardo Paladini, I, III e VII Divisione incrociatori con nove unità in tutto e IX, XI, XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, da Augusta, Messina e Palermo; la I Divisione è stata trasferita dalla I Squadra alla II Squadra appositamente per l’operazione) per scortare a distanza un convoglio diretto a Bengasi (motonavi da carico Marco Foscarini, Francesco Barbaro e Vettor Pisani, motonavi passeggeri Esperia e Calitea, con la scorta diretta dei due incrociatori leggeri della II Divisione, dei quattro cacciatorpediniere della X Squadriglia, delle quattro torpediniere della IV Squadriglia e delle vecchie torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Missori) con un carico di 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari e 5720 tonnellate di carburante, oltre a 2190 uomini. La I Squadra Navale (V Divisione con le corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, IV e VIII Divisione con sei incrociatori leggeri, VII, VIII, XV e XVI Squadriglia Cacciatorpediniere con 13 unità) esce anch’essa in mare a sostegno dell’operazione. Le unità della I e della II Squadra (ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in mare) salpano tra le 12.30 e le 18 del 7 luglio da Augusta (Pola, I e II Divisione), Messina (III Divisione), Palermo (VII Divisione) e Taranto (IV, V e VIII Divisione).
La II Squadra si pone 35 miglia ad est del convoglio, tranne la VII Divisione con la XIII Squadriglia, che viene invece posizionata 45 miglia ad ovest.
L’operazione va a buon fine, ma alle 14.30 ed alle 15.20 dell’8 luglio, a seguito dell’avvistamento di una formazione britannica – anche la Mediterranean Fleet, infatti, è in mare (con le corazzate Warspite, Malaya e Royal Sovereign, la portaerei Eagle, cinque incrociatori leggeri e 17 cacciatorpediniere) a protezione di due convogli da Malta ad Alessandria (operazione «MA 5») – prima la II e poi la I Squadra Navale dirigono verso nord-nordovest per intercettare le navi nemiche (che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in combattimento almeno un’ora prima del tramonto.
Alle 19.20, però, in seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a differenza dell’ammiraglio Campioni – comandante superiore in mare – ha avuto modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità dei movimenti britannici) la flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle basi, con l’ordine di non impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. La navigazione notturna di rientro si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione; la II Squadra (eccetto la VII Divisione, che è ancora separata da essa) accosta verso nord all’1.23.
Già dalle 22 dell’8, però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio. Alle 6.40 del 9 luglio la III Divisione si ricongiunge con Pola e I Divisione, alle 8 viene avvistato un idroricognitore Short Sunderland che pedina il gruppo di Campioni (la caccia italiana, chiamata ad intervenire, non verrà però inviata ad attaccarlo); alle 9.30 anche l’ammiraglio Paladini riferisce che le sue navi sono seguite a distanza da un Sunderland (che a sua volta le ha già avvistate e segnalate all’ammiraglio Cunningham da due ore).
Alle 13.15, 45 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento, nove aerosiluranti Fairey Swordfish attaccano le navi della II Squadra: durante l’attacco, che dura undici minuti, tre aerei vengono danneggiati dal tiro contraereo delle navi italiane, che evitano tutti i siluri (diretti contro gli incrociatori pesanti Zara, Trento e Bolzano). La I e la II Squadra si uniscono e si dispongono su quattro colonne, distanziate di cinque miglia l’una dall’altra: la I Divisione, insieme alla III ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere XI e XII, va a formare la seconda colonna da ovest (la prima è costituita dalla VII Divisione, la terza dalla V Divisione – rispetto alla quale la colonna con la I Divisione si trova 3 miglia ad ovest – e la quarta dalle Divisioni IV e VIII).
Tra le 13.15 e le 13.26 il gruppo «Pola», di cui la I Divisione fa parte, mentre si trova a poppa dritta della Cesare e con rotta 183° (mentre manovra per assumere la propria posizione nella formazione ordinata da Campioni), viene attaccata da nove aerosiluranti Fairey Swordfish che, provenendo da ovest (sinistra; sono decollati dalla Eagle alle 11.45), si avvicinano a poppavia agli incrociatori (i cacciatorpediniere, infatti, sono a proravia degli stessi), scendono in picchiata fino a 20-30 metri e sganciano i loro siluri da circa mille metri. Gli incrociatori si diradano, compiono manovre evasive ed aprono subito un violento fuoco contraereo; il Fiume è una delle navi più prese di mira, insieme a Zara, Pola e Trento, ma nessuna unità viene colpita. Gli aerei si allontanano, qualcuno con danni leggeri.
Alle 14.05 ha inizio l’avvicinamento alla flotta britannica: alle 14.47 quest’ultima avvisa i fumi delle navi italiane, che a loro volta avvistano il nemico alle 15.05. Alle 15.15-15.20 gli incrociatori aprono il fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate (che al contempo accostano a un tempo di 60° a dritta e così si spostano ad est/nordest insieme agli incrociatori pesanti per supportare gli incrociatori leggeri, i primi ad essere impegnati in combattimento; entro le 15.40 i sei incrociatori pesanti della II Squadra si sono portati 6860 metri a proravia della corazzata Cesare, nave ammiraglia di Campioni).
Incrociatori e corazzate cessano poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per poi riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15 (incrociatori). Nella seconda fase, la II Squadra manovra per avvicinarsi alle unità avversarie (su ordine dell’ammiraglio Campioni, che alle 15.53 ha ordinato al gruppo «Pola» di portarsi su rilevamento 40° per avvicinare gli incrociatori alle corazzate nemiche abbastanza da poter usare i cannoni da 203), e tra le 15.50 e le 16 i suoi incrociatori pesanti, su ordine dell’ammiraglio Paladini, aprono il fuoco da 20.000-25.000 metri contro gli incrociatori leggeri britannici del viceammiraglio John Tovey (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool e Gloucester), che rispondono al fuoco con granata perforante e tiro raccolto ma poco efficace. Il Fiume è il secondo degli incrociatori italiani ad aprire il fuoco, alle 15.58, preceduto di tre minuti dal Trento e seguito di due minuti da Bolzano, Zara e Pola e di tre dal Gorizia.
Alle 15.59, però, la Cesare, la nave ammiraglia, viene danneggiata da un proiettile da 381 mm, dovendo ridurre la velocità. A seguito di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in mare delle forze italiane, decide di rompere il contatto per rientrare alle basi, ed alle 16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie di cacciatorpediniere di attaccare con il siluro le navi della Mediterranean Fleet, in modo da facilitare lo sganciamento delle navi maggiori (nel farlo, la XI Squadriglia attraversa alle 16.07 la formazione della I Divisione passando tra il Fiume ed il Gorizia).
Alle 16.03 (o 16.06) anche la II Squadra di Paladini, che sta riducendo le distanze con gli incrociatori di Tovey (che da parte loro stanno pericolosamente consumando le proprie già esigue riserve di munizioni) riceve da Campioni l’ordine di ritirarsi, ma Paladini fa proseguire il tiro alle sue navi (il Bolzano viene colpito due volte ma senza riportare danni gravi) finché i bersagli sono visibili. Via via che il fumo s’infittisce e nasconde le navi di Tovey, gli incrociatori pesanti della II Squadra cessano il fuoco: il Fiume smette di sparare per secondo, alle 16.05 (il Trento ha smesso già alle 16), mentre ultimo a cessare il tiro è il Bolzano, un quarto d’ora dopo. Alle 16.06 la XI Squadriglia Cacciatorpediniere, una di quelle inviate all’attacco silurante, passa tra Fiume e Gorizia per attaccare. Intanto, dalle 16.03 e cioè da quando la danneggiata Cesare ha comunicato «la mia rotta è 270° – la mia velocità 20 nodi», Paladini ha ordinato ai suoi incrociatori di accostare di 140° sulla sinistra, mentre viene stesa una cortina nebbiogena. Gli incrociatori di Tovey, la cui azione è ostacolata negli ultimi minuti dai cacciatorpediniere mandati all’attacco silurante, cessano il fuoco alle 16.15, quando le distanze con quelli italiani sono scese a 18.000-21.000 metri. Si registra anche il breve intervento della Warspite, che alle 16.09 tira sei salve contro le navi di Paladini.
Terminata la battaglia, la flotta italiana si avvia alle proprie basi con direttrice di marcia 230°, passando a sud della Calabria; ma durante il rientro, tra le 16.20 e le 19.30, diviene oggetto anche dell'attacco da parte degli stessi bombardieri della Regia Aeronautica (una cinquantina, su circa 126 inviati in totale ad attaccare le forze britanniche), che le attaccano e bombardano pesantemente per errore di identificazione e malintesi (tra il comando delle due Squadre Navali e quello della II Squadra Aerea, cui appartengono i bombardieri) circa la posizione della flotta italiana e di quella britannica. Le insensate disposizioni vigenti in materia di comunicazioni tra Marina ed Aeronautica, che non contemplano la possibilità di comunicazioni dirette tra navi e aerei, impediranno alle prime di segnalare ai secondi l'errore; le stesse navi, non potendo distinguere la nazionalità degli aerei attaccanti, apriranno un intenso fuoco con proprie armi contraeree, rafforzando nei piloti l'impressione di stare attaccando navi nemiche. Alcune delle navi ed alcuni degli aerei, rispettivamente, cesseranno il fuoco e rinunceranno all'attacco riconoscendo all'ultimo momento la vera nazionalità del "nemico", ma alla fine gli attacchi ai danni delle navi italiane eguaglieranno, in intensità, quelli condotti contemporaneamente contro la vera Mediterranean Fleet. Nessuna nave italiana sarà, fortunatamente, colpita, mentre un bombardiere Savoia Marchetti S. 79 della 257a Squadriglia (XXXVI Stormo da Bombardamento Terrestre) finirà abbattuto dal "fuoco amico" delle navi. L'incidente sarà poi fonte di aspre polemiche tra Marina e Aeronautica, ma per lo meno servirà a dare l'impulso ad un migliore sviluppo della collaborazione aeronavale, che però raggiungerà risultati soddisfacenti solo nel 1942.
L’aliquota più consistente delle unità italiane, compreso il Fiume, dirige su Augusta: nel pomeriggio del 9 luglio, oltre ad esso, la corazzata Conte di Cavour, gli incrociatori pesanti Pola, Zara e Gorizia, gli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi ed i 36 cacciatorpediniere delle Squadriglie VII, VIII, IX, XI, XIV, XV e XVI fanno il loro ingresso nella base siciliana. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che fanno presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di assegnazione (Napoli e Taranto). Fiume, Zara, Pola e Gorizia, insieme alla Cavour ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII e IX, partono per primi, alle 00.55 del 10 luglio, alla volta di Napoli.


Il Fiume durante la fase finale della battaglia di Punta Stilo, visto dal Gorizia (foto Danilo Boldoni, via www.icsm.it)

30 luglio-1° agosto 1940
Il Fiume fornisce scorta a distanza, assieme alle unità gemelle, all’incrociatore pesante Trento, agli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo ed alla IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XII (Lanciere, Corazziere, Ascari, Carabiniere), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino) e XV (Antonio Pigafetta, Lanzerotto Malocello, Nicolò Zeno) Squadriglia Cacciatorpediniere, a due convogli diretti in Libia (partiti da Napoli e diretti l’uno a Tripoli e l’altro a Bengasi) e comprensivi in tutto di dieci trasporti (Maria Eugenia, Gloria Stella, Mauly, Bainsizza, Col di Lana, Francesco Barbaro, Città di Bari, Marco Polo, Città di Napoli e Città di Palermo), quattro cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) e dodici torpediniere (Orsa, Procione, Orione, Pegaso, Circe, Climene, Clio, Centauro, Airone, Alcione, Aretusa ed Ariel). L’operazione è denominata «Trasporto Veloce Lento». Entrambi i convogli raggiungono senza danni le loro destinazioni tra il 31 luglio ed il 1° agosto.
31 agosto-2 settembre 1940
La I Divisione (con Fiume, Pola, Zara e Gorizia) parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione (corazzate Littorio, nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione (corazzate Duilio, Conte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia), all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed ad alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), XV (Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno, Antoniotto Usodimare). Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III (Trento, Trieste e Bolzano, da Messina), VII (Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli, Muzio Attendolo, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, da Brindisi) e VIII Divisione e 39 cacciatorpediniere (oltre a quelli già menzionati, anche Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci della IX Squadriglia, Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera della XI Squariglia, Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere della XII Squadriglia). Obiettivo, contrastare l’operazione britannica «Hats» (consistente in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad Alessandria, per rinforzare la Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant, della portaerei Illustrious e degli incrociatori Calcutta e Coventry; invio di un convoglio da Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said; bombardamenti su basi italiane in Sardegna e nell’Egeo): Supermarina ha infatti saputo che sia la Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e sommergibili.
Le due Squadre Navali italiane (la I Squadra è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la II Squadra dal Pola, dalle Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII), riunite, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono però uscite in mare troppo tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro notturno ed hanno una velocità troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di cambiare rotta e raggiungere il centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in contatto con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16 Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla II Squadra, che si trova in posizione più avanzata della I, di proseguire verso le forze nemiche (l’ammiraglio Iachino, comandante la II Squadra, ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120 miglia di distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene annullata;  comunque la II Squadra non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie). Alle 17.27 la II Squadra riceve l’ordine d’invertire la rotta ed assumere rotta 335° e velocità 20 nodi, come la I Squadra.
Alle 22.30 del 31 la formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante, dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da nordovest forza 9; le forze italiane si allontanano nuovamente dal Golfo di Taranto per cercare di nuovo quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con l’ordine di non oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la burrasca costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in formazione né usare l’armamento). Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare. Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova occasione.


Il Fiume al traverso (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)

29 settembre-2 ottobre 1940
Alle 18.05 del 29 settembre escono in mare da Taranto il Pola, la I Divisione con Zara, Fiume e Gorizia e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci) più l’Ascari della XII Squadriglia, seguiti alle 19.30 dalle Divisioni V (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour), VI (corazzata Duilio), VII (incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, da Brindisi), VIII (incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi e Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi) e IX (corazzate Littorio e Vittorio Veneto) e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino), XV (Da Mosto, Da Verrazzano) e XVI (Pessagno, Usodimare), per contrastare un’operazione britannica in corso, la «MB. 5» (invio a Malta degli incrociatori Liverpool e Gloucester con 1200 uomini e rifornimenti, invio da Porto Said al Pireo del convoglio «AN. 4», il tutto con l’uscita in mare delle corazzate Valiant e Warspite, della portaerei Illustrious, degli incrociatori York, Orion e Sydney e di undici cacciatorpediniere a copertura dell’operazione). Al contempo da Messina prende il mare la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) assieme ai quattro cacciatorpediniere della XI Squadriglia (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera). La formazione uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18 nodi, riunendosi con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre, mentre si accorge di essere tallonata da ricognitori britannici. In mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da Scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.
6 ottobre 1940
Il Fiume salpa da Taranto in mattinata insieme al resto della I Divisione (Zara e Gorizia), al Pola (nave di bandiera della II Squadra Navale) ed alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci), in appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero delle due veloci e moderne motonavi Calitea e Sebastiano Venier, cariche di rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e scortate dalla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari, Lanciere, Corazziere e Carabiniere). L’operazione (il convoglio è partito la sera del 5, mentre il 6 mattino, oltre al gruppo cui appartiene il Fiume, sono salpate da Messina anche la III Divisione con Trento, Trieste e Bolzano e la XI Squadriglia Cacciatorpediniere con Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera) viene però interrotta il mattino stesso del 6 ottobre, dopo che la ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate, due incrociatori e sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta Alessandria-Caso, ossia dove dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso. Tutte le unità italiane vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà più.


Un’altra immagine del Fiume (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
11-12 novembre 1940
Fiume, Zara e Gorizia (quest’ultimo è quello ormeggiato più a sud, mentre lo Zara è a nordest del Gorizia ed il Fiume più a nord dello Zara) sono presenti a Taranto (ormeggiati a nordest del centro del Mar Grande, a sud del porto commerciale, protetti su tre lati – sudest, nordovest e sudovest – da un recinto di reti parasiluri) durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (“notte di Taranto”). Le unità della I Divisione non subiscono danni (il Gorizia anzi abbatte un aerosilurante).
Tra le 14.30 e le 16.45 del 12 novembre la I Divisione, insieme al Pola ed alla IX e XI Squadriglia, lascia Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere Napoli, dove Fiume, Pola e Gorizia arriveranno il pomeriggio successivo; lo Zara proseguirà invece per La Spezia.
16-18 novembre 1940
Alle 10.30 del 16 prendono il mare le corazzate Vittorio Veneto e Cesare, il Pola come nave comando della II Squadra, la I Divisione con Fiume e Gorizia (tutti da Napoli; lo Zara è invece ai lavori), la III Divisione con Trento, Trieste e Bolzano (da Messina) e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XII (Lanciere, Carabiniere, Ascari, Corazziere), XIII (Bersagliere, Granatiere, Fuciliere, Alpino) e XIV (Vivaldi, Da Noli, Tarigo, Malocello; questi ultimi da Palermo) per intercettare una formazione britannica diretta verso est. Si tratta della Forza H dell’ammiraglio James Somerville (incrociatore da battaglia Renown, portaerei Argus e Ark Royal, incrociatori leggeri Sheffield, Despatch e Newcastle, otto cacciatorpediniere) uscita da Gibilterra per l’operazione «White», che prevede l’invio a Malta di aerei decollati dall’Argus per rinforzarne le difese, un’azione di bombardamento di Alghero (velivoli dell’Ark Royal) ed il trasporto a Malta di uomini e materiali della RAF sul Newcastle. Le navi uscite da Napoli, prive di dati precisi sul nemico, dirigono verso sud nel Basso Tirreno; nel pomeriggio del 16 si uniscono la III Divisione e la XII e XIV Squadriglia da Messina e Palermo. La forza così riunita sotto il comando dell’ammiraglio Campioni assume quindi rotta verso est verso l’8° meridiano, a sudovest della Sardegna, procedendo a 18 nodi, ridotti a 14 nella notte del 17 per agevolare la navigazione dei cacciatorpediniere, resa difficoltosa da un vento da sudovest.
Per tutta la giornata del 16 non si ricevono informazioni sulle forze nemiche; solo alle 10.15 del 17 queste vengono avvistate da ricognitori, che però non precisano né la rotta né la velocità. Campioni dirige verso sud, in direzione di Bona, sperando di riuscire ad intercettare le unità britanniche nel pomeriggio, se esse proseguono verso est.
Raggiunto alle 16.30 un punto prestabilito 45 miglia a nord-nord-est di Ustica, la formazione italiana dirige poi verso ovest ed alle 17.30 arriva 35 miglia a sudovest di Sant’Antioco. Dopo aver navigato per un po’ in direzione dell’Algeria, nella totale mancanza su dove sia il nemico e dove esso sia diretto, la squadra italiana riceve l’ordine rientrare. Campioni rileverà che le condizioni del mare – onde molto lunghe da sudovest – hanno causato forte rollio e beccheggio in tutte le sue navi, corazzate comprese, tanto da impedire l’uso dei cannoni se dirette verso sud. Durante il ritorno le navi italiane eseguono esercitazioni di tiro contro la scogliera La Botte, a sud di Ponza.
Ancorché infruttuosa, l’uscita in mare delle forze italiane ha contribuito al parziale fallimento dell’operazione «White»: a seguito dell’avvistamento della squadra italiana da parte dei ricognitori di Malta, infatti, Somerville ha fatto lanciare gli aerei dall’Argus tenendo la portaerei quanto più ad ovest possibile, cioè più lontana da Malta di quanto inizialmente pianificato, prolungando di molto la distanza sulla quale gli aerei dovranno volare. Il risultato sarà che su quattordici aerei decollati dall’Argus (dodici Hawker Hurricane e due Blackburn Skua) solo cinque (quattro Hurricane ed uno Skua) giungeranno a Malta: gli altri esauriranno il carburante e precipiteranno in mare a seguito di errori di navigazione e stime sbagliate sugli effetti del vento.
 

In transito nel canale navigabile di Taranto (g.c. Giuseppe Garufi via www.naviearmatori.net)

26-28 novembre 1940
Tra le 11.50 e le 12.30 del 26 la I Divisione, sempre ridotta ai soli Fiume e Gorizia (e proprio sul Fiume, al comando del capitano di vascello Giorgio Giorgis, è imbarcato l’ammiraglio Pellegrino Matteucci, comandante della Divisione), lascia Napoli unitamente alla IX Squadriglia (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci) ed al Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio Angelo Iachino, comandante della II Squadra). Prendono il mare al contempo anche le corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII e XIII con rispettivamente tre e quattro unità. La formazione italiana (vi sono anche la III Divisione e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere partite da Messina) si riunisce 70 miglia a sud di Capri alle 18.00 del 26 novembre, assumendo poi rotta 260° e velocità 16 nodi, per intercettare un convoglio britannico (quattro mercantili scortati da due incrociatori leggeri, tre cacciatorpediniere e quattro corvette e con l’appoggio delle Forze D e H, che vedono in mare complessivamente la corazzata Ramillies, l’incrociatore da battaglia Renown e la portaerei Ark Royal della Forza H, l’incrociatore pesante Berwick, gli incrociatori leggeri Manchester, Newcastle, Sheffield e Southampton della Forza D ed undici cacciatorpediniere della Forza H) diretto a Malta (l’operazione britannica «Collar»).
Alle otto del 27 novembre la I Divisione, il Pola e la IX Squadriglia si trovano a 19 miglia per 117° da Capo Spartivento Sardo, con rotta 250° e velocità 16 nodi. Poco dopo il Fiume, in base ad ordini impartiti durante la notte, catapulta un idrovolante da ricognizione che zigzaga a prua della formazione italiana lungo la direttrice 250°, entro una fascia di 30 miglia e fino ad una distanza di 150 miglia, finché non ammarerà a Cagliari alle 10.35 senza aver avvistato alcunché. Tra le 8.30 e le 9.10 la I Squadra, rimanendo indietro rispetto agli incrociatori (che formano la II Squadra al comando dell’ammiraglio Angelo Iachino), a poppavia dei quali sta procedendo, accelera a 17 e poi a 18 nodi per ridurre la distanza. Alle 9.50 le corazzate avvistano un ricognitore britannico Bristol Blenheim, contro cui aprono il fuoco alle 10.05 (il velivolo si allontana). Alle 11 la formazione inverte la rotta ed aumenta la velocità da 16 a 18 nodi, ed alle 11.28 assume rotta 135°, per intercettare la formazione britannica che (dalle segnalazioni dei ricognitori) risulta avere posizione differente da quella prevista (alle 11.40 il gruppo «Pola», di cui fa parte la I Divisione, si trova a 30 miglia per 206° da Capo Teulada, su rotta 135° e con velocità di 18 nodi). Alle 12.07, in seguito alla constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana (i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità) l’ammiraglio Inigo Campioni, al comando della flotta italiana, ordina di assumere rotta 90° (verso est) per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e di aumentare la velocità; alla II Squadra ordina di non ingaggiare il nemico ma di portare la velocità a 30 nodi per riunirsi alle corazzate, distanti circa 24 km (la II Squadra accelera a 25 nodi). Alle 12.15, tuttavia, vengono avvistate dalla II Squadra le sopraggiungenti navi britanniche al comando dell’ammiraglio James Somerville (che alle 12.07 hanno a loro volta avvistato quelle italiane, per primi Pola, Zara e Fiume e la loro squadriglia di cacciatorpediniere), pertanto viene ordinato di incrementare ancora la velocità (che è di 25 nodi per la I Squadra e diventa di 28 per la II Squadra, che deve riunirsi alla I essendo più indietro). Alle 12.16 l’Alfieri (IX Squadriglia) segnala alla Vittorio Veneto (dove il messaggio viene ricevuto alle 12.27) di aver avvistato una corazzata e tre incrociatori britannici su rilevamento 180° (verso sud).
Alle 12.20 gli incrociatori della II Squadra, che procedono in linea di fila a 28 nodi su rotta 90°, aprono il fuoco da 21.500-22.000 metri: l’ammiraglio Matteucci della I Divisione (che in quel momento sta procedendo a 28 nodi verso est, in linea di fila, seguita a 8 km dalla III Divisione e 13 miglia a sud-sud-ovest delle corazzate), ha ordinato di aprire il fuoco già alle 12.15, proprio mentre Campioni sta per ordinare di non farlo («Non, ripeto non, ingaggiate battaglia»), perché Matteucci ritiene che Campioni, da dove si trova, non possa avere la sua visione della situazione, che ritiene invece tale da permettere di ingaggiare combattimento con buone probabilità di successo. Alle 12.20 il Fiume (al cui comandante Giorgis l’ammiraglio Matteucci ha ordinato di aprire il fuoco) spara per primo una prima salva da 22.000 metri contro l’incrociatore britannico Berwick per verificare la distanza ed aggiustare il tiro (la salva, tirata alla giusta distanza, manca di una novantina di metri un altro incrociatore britannico, il Manchester), poi aprono il fuoco anche Pola e Gorizia e quindi, alle 12.22, anche la III Divisione. Le navi italiane, al contempo, accostano a sinistra per mantenere le distanze, non ritenendo conveniente un avvicinamento; continuano a dirigere verso est ed ad aumentare la velocità, come da precedenti ordini di Campioni. Subito (sempre alle 12.20) gli incrociatori britannici (Berwick, Newcastle, Manchester, Sheffield e Southampton), al comando del viceammiraglio Lancelot Holland, dopo aver ridotto le distanze, aprono a loro volta il fuoco contro le navi italiane (al loro tiro si uniscono alle 12.24 il Renown, da 23.800 metri, e due minuti dopo la Ramillies, che però cessa il fuoco dopo due sole salve per l’eccessiva distanza).
Alle 12.22 il Berwick viene colpito da un proiettile da 203 mm sulla barbetta della torretta Y, che uccide 7 uomini, ne ferisce 9 e scatena un incendio che sarà domato in un’ora. Il Fiume ingaggia poi l’incrociatore britannico Southampton, che gli spara contro cinque salve prima di spostare il tiro sul cacciatorpediniere Lanciere, che immobilizza con tre colpi.
Alle 12.35 il Berwick viene colpito da un secondo proiettile da 203, che distrugge il locale centralino elettrico di poppa, privando così la zona poppiera della nave dell’energia elettrica. (Sulla provenienza dei proiettili che colpirono il Berwick non vi è chiarezza: il Fiume per una versione, il Pola per un’altra; proprio questi due incrociatori avevano infatti concentrato il loro tiro sul Berwick).
L’ammiraglio Iachino, notando che il tiro delle unità britanniche (Renown compreso) è concentrato sulla III Divisione, ad esse più vicina, ordina di disimpegnarsi verso nord a forte velocità, dando la poppa al nemico, mentre lui con la I Divisione vira verso nordest per riunirsi alle corazzate e mantenere le navi britanniche nel settore di massimo rischio. Dato che la III Divisione si allontana coprendosi con cortine fumogene, le unità di Holland spostano il loro tiro sulla I Divisione, che non può allontanarsi, anche perché il Fiume non può sviluppare più di 28 nodi per problemi alle caldaie: ciò lo fa scadere e lo rende anche l’unità italiana giunta più vicina allo schieramento nemico, 17.000 metri. Per questo e per i precedenti ordini di Campioni, le unità britanniche inseguono quelle italiane: quasi tutte le salve tirate dalle navi italiane sono sparate dalle torri poppiere, mentre le unità britanniche usano soprattutto quelle prodiere.
Gli incrociatori britannici del viceammiraglio Holland cercano di separare la I e la III Divisione: l’incrociatore britannico Manchester dirige il suo tiro contro il Fiume, l’unità più a sinistra della I Divisione, a 19.200 metri di distanza; poi anche le altre navi di Holland, Berwick compreso, concentrano il tiro sulla I Divisione, ma alle 12.45 accostano verso dritta per allontanarsi, temendo che, continuando ad avvicinarsi, gli incrociatori italiani possano manovrare per “tagliare loro la T”; la I Divisione prosegue verso nordest e le distanze si allungano.
Nel complesso, il tiro degli incrociatori italiani è intenso dalle 12.20 alle 12.42, intermittente dalle 12.42 alle 12.49 a causa delle continue accostate eseguite per disturbare degli aerosiluranti britannici frattanto sopraggiunti (tali aerosiluranti sono diretti contro la Vittorio Veneto, ma l’ammiraglio Iachino, vedendoli arrivare, teme invece che vogliano attaccare le sue navi ed ordina un’accostata a un tempo a sinistra prima di 30° e poi di 60°, per dare la poppa agli aerei, salvo tornare sulla precedente rotta quando appare chiaro che gli aerei sono diretti contro le corazzate; anche l’intenso tiro contraereo aperto dagli incrociatori disturba quello dei pezzi da 203), che poi attaccheranno le corazzate, di nuovo intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi più sporadico dalle 12.53 alle 13.05, a causa delle distanze crescenti e del molto fumo emesso a causa della combustione forzata delle caldaie. Alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da poco meno di 29.000 metri, e le unità britanniche subito accostano a dritta, ritirandosi; la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare il fuoco già alle 13.10. Alle 13.05, il Fiume richiede alle unità della IX Squadriglia di stendere cortina nebbiogena, ordine che viene eseguito e che va a disturbare il tiro degli incrociatori britannici contro quelli italiani. Alle 13.11 il Renown, dopo aver sparato infruttuosamente contro la III Divisione, tira le sue ultime due salve contro la I Divisione, mancando anch’essa per la grande distanza, prima di cessare definitivamente il fuoco. Alle 13.15, essendo la distanza (della II Squadra dalle forze britanniche) salita a 26.000 metri, il tiro viene cessato anche dagli incrociatori della I Divisione, e viene rotto il contatto; le navi di Somerville tornano verso il loro convoglio, per riprendere il proprio compito di scorta. Ha così fine l’inconclusiva battaglia di Capo Teulada. Il Fiume è, tra le navi italiane, quella che ha sparato il maggior numero di colpi da 203 mm: 210.
Tra le 15.20 e le 15.30 le unità della II Squadra vengono attaccate da nove aerosiluranti decollati dalla portaerei Ark Royal: l’attacco si protrae per dieci minuti, ed il Fiume, assieme a Pola e Gorizia, diviene il bersaglio di numerosi siluri (ben cinque sono diretti contro di esso; dal Fiume vengono viste quattro o cinque scie passare vicine alla nave, ed alcuni siluri scoppiare a fine corsa), nessuno dei quali, però, va a segno. Due aerei vengono danneggiati dal tiro contraereo degli incrociatori. Alle 21 del 27 novembre le navi italiane assumono rotta nord a 15 nodi e procedono sino alle 00.30, poi dirigono verso est fino alle 7.30 del 28, dopo di che seguono le rotte costiere, arrivando a Napoli tra le 13.25 e le 14.40 del 28.
Il Fiume sarà poi al centro di una singolare “contesa” tra britannici ed italiani. Due delle navi britanniche, infatti, il cacciatorpediniere Faulknor (alle 12.27) e l’incrociatore Newcastle (alle 12.33), hanno riferito di aver visto un colpo a segno su un incrociatore italiano: a detta del Newcastle, quello più a sinistra del gruppo di navi italiane che si trovavano ad ovest. Ma in realtà la I Divisione, cui apparteneva il Fiume, si era trovata ad est durante il combattimento; all’ora riferita da Faulknor e Newcastle è stato invece colpito il cacciatorpediniere Lanciere (immobilizzato con seri danni ma poi rimorchiato in salvo), unica nave italiana ad essere colpita dal tiro avversario durante la battaglia. Ad aggravare l’equivoco, però, ci si mette lo stesso ammiraglio Campioni, che alle 16.32 del 27 novembre, in un primo sommario rapporto trasmesso alla base mentre le sue forze sono ancora in navigazione, afferma che il Fiume avrebbe «ricevuto un colpo a poppa senza danni né feriti». Il mattino seguente verrà chiarita tale discrepanza, dovuta ad errori di trasmissione. Da parte britannica, gli osservatori appaiono concordi nell’affermare che il Fiume sia stato danneggiato, perché hanno visto alte fiamme levarsi dalla sua poppa nel colmo della battaglia: le fiamme – ma ben più contenute – c’erano davvero, ma non erano dovute ad un colpo a bordo bensì ad un piccolo principio d’incendio scoppiato nelle casse a fumo (piccoli spazi di collegamento tra le caldaie ed i fumaioli, nei quali si accumula il fumo prima di uscire dal fumaiolo; vi si accumula anche la fuliggine, che, se in grande quantità, può prendere fuoco e causare fiammate che escono dalla bocca superiore dei fumaioli) e di alcune fiammate uscite dal fumaiolo poppiero a causa della forzatura delle caldaie per aumentare rapidamente la velocità.
L’errore viene però ripetuto dallo stesso bollettino di guerra italiano n. 174 del 28 novembre, nel quale si afferma che «Un proiettile nemico ha colpito un nostro incrociatore, il Fiume, ma non è esploso»: notizia che viene ovviamente ripresa dal bollettino britannico emesso alle 18 di quello stesso giorno, citando proprio quello italiano a sostegno della veridicità della propria rivendicazione. Alla fine la vicenda del Fiume, e più in generale dei danni subiti dalle navi italiane a Capo Teulada (sia il bollettino italiano che quello britannico, come d’uso, hanno infatti esagerato i danni inflitti alle navi nemiche), diviene oggetto di dibattito nella stampa internazionale, tra paesi Alleati, dell’Asse o neutrali favorevoli all’una od all’altra fazione. La stampa britannica e quella ad essa simpatizzante sostengono che le navi italiane siano rientrate a Napoli con vistosi danni: in realtà gli incrociatori pesanti sono tornati in porto “disordinati” e con piccoli “danni” di nessuna importanza – causati non dal tiro nemico ma dagli effetti del proprio tiro, a causa della propria costruzione piuttosto leggera – che tuttavia appaiono piuttosto vistosi e possono dare ai profani l’impressione che le navi siano state danneggiate. Proprio il Fiume è una delle navi che appaiono più in disordine: qua e là le murate sono annerite dal fumo prodotto dalle caldaie e dalle vampe delle proprie artiglierie, ed alcuni aerei radiotelegrafici sulle alberature e sulle plance prodiere sono caduti a causa delle concussioni prodotte dal proprio tiro, ed hanno dovuto essere sommariamente riparati durante la navigazione.
Per dirimere la questione, gli equipaggi ricevono l’ordine di rassettare le navi e riverniciare le zone più sporcate con una mano di pittura; l’ordine è prontamente eseguito, e pochi giorni dopo il Ministero della Cultura Popolare invita a Napoli una comitiva di 18 giornalisti tedeschi (Scheffer del “D.N.B.”, Von Langen del “Zeitungs Dienst Graf Reichschach”, Alvens dell’“Angriff”, Bohemer del “Deutsches Verlag”, Hexr Heymann della “Badische Presse”, Von Hohehbach del “Transocean”) e neutrali (gli spagnoli Masoliver dell’“Arriba” e Gonzales del “E.F.E”, lo svedese Kumlien del “Stockholm Tidningen”, i giapponesi Maeda dell’“Asahi”, Sasaki della “Domei” e Ono del “Tokyo Nici Nici”, l’ungherese Aradi del “Pester Lloyd”, lo svizzero Scanziani dell’“Agenzia Telegrafica Svizzera”, gli statunitensi Pachard della “United Press”, Chinigo dell’“International News Service” e Massock dell’“Associated Press” e lo jugoslavo Popovic del “Vreme”) insieme al presidente dell’Associazione Stampa Estera, Hodel, per visitare le navi italiane e constatare di persona l’inesistenza dei danni asseriti dalla propaganda britannica. I giornalisti visitano a fondo gli incrociatori e soprattutto, naturalmente, il Fiume oggetto del contendere, e constatano che nessuno di essi presenta danni causati dall’artiglieria britannica; ne scriveranno poi sui rispettivi giornali, ma con risultato solo parziale, in quanto in molti Paesi neutrali si dà più affidamento alla propaganda britannica che a quella italiana.


Un’altra immagine del Fiume (g.c. Yevgeniy Tselikov via www.naviearmatori.net)

10 dicembre 1940
A seguito di mutamenti nell’organizzazione delle forze navali, conseguenti alla messa fuori uso, nella notte di Taranto, di tre corazzate, le due Squadre Navali vengono sciolte e riunite in un’unica Squadra; così anche il Pola, lasciato il ruolo di nave comando Squadra, entra a far parte della I Divisione assieme a Zara, Fiume e Gorizia. La Squadriglia Cacciatorpediniere assegnata alla I Divisione resta sempre la IX (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) cui si unisce temporaneamente anche la XI (Aviere, Geniere e Camicia Nera). La I Divisione è posta al comando dell’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, con insegna sullo Zara.
Inizio 1941
Durante un periodo di lavori nell'Arsenale di La Spezia, conclusisi a fine febbraio (dopo i quali l'incrociatore si trasferirà a Taranto, giungendovi il 2 marzo), il Fiume diviene il primo incrociatore italiano, ed una delle tre primissime unità della Regia Marina, ad essere dotato – a titolo sperimentale – di colorazione mimetica, uno schema tipo «Petrillo» (ideato cioè da un gruppo diretto dal maggiore del Genio Navale Luigi Petrillo) con grosse macchie irregolari grigio scuro su sfondo azzurro.


Una delle ultime immagini del Fiume, scattata a metà marzo 1941: la nave, alla fonda in Mar Grande a Taranto, si rifornisce da una cisterna classe Metauro. Si tratta dell’unica foto nota che mostri l’incrociatore con la colorazione mimetica appena ricevuta (g.c. STORIA militare)


Capo Matapan

Alle 23 del 26 marzo 1941 il Fiume, al comando del capitano di vascello Giorgio Giorgis, lasciò Taranto insieme al resto della I Divisione (Zara, nave ammiraglia dell’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, e Pola) ed alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci; caposquadriglia il capitano di vascello Salvatore Toscano dell’Alfieri) diretto in un punto di riunione indicato come circa 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro. Al contempo uscirono in mare anche la corazzata Vittorio Veneto, scortata dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco, poi sostituiti da Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia), da Napoli, la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) con la XII Squadriglia (Ascari, Corazziere, Carabiniere) da Messina e la VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) con la XVI Squadriglia (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno) da Brindisi. La forza navale era sotto il comando dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino, imbarcato sulla Vittorio Veneto.
Era cominciata così l’operazione «Gaudo», una puntata offensiva contro il traffico britannico nel Mediterraneo orientale, a settentrione di Creta. Dopo la riunione 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro, la formazione sarebbe dovuta proseguire verso la Libia per ingannare eventuali ricognitori britannici, fino ad arrivare in un punto prestabilito, al largo di Capo Passero, dove si sarebbe dovuta nuovamente scindere nei due gruppi che avrebbero diretto verso i rispettivi obiettivi.
La I e la VIII Divisione, riunite sotto il comando dell’ammiraglio Cattaneo, dovevano portarsi a nord di Creta, passando tra Cerigotto e Capo Spada, poi proseguire sino a giungere a 30 miglia a sud di Stampalia per la loro puntata offensiva; la Vittorio Veneto e la III Divisione avrebbero invece dovuto raggiungere le acque di Gaudo, a sud di Creta per compiervi un’incursione. Ambedue i gruppi avevano il compito di attaccare i convogli britannici in navigazione tra la Grecia e l’Egitto, se in condizioni di superiorità, indi tornare rapidamente alle basi dopo aver inflitto il maggior danno possibile. Se avvistate da superiori forze avversarie prima di giungere al largo di Creta, le navi italiane avrebbero dovuto rinunciare all’azione per la mancanza della sorpresa. L’Aeronautica della Sicilia, il X. Fliegerkorps della Luftwaffe (X Corpo Aereo Tedesco, forte di circa 200 bombardieri e 70 caccia) pure stanziato in Sicilia e la caccia italiana di Rodi (munita di biplani Fiat CR. 42 di base nell’aeroporto di Maritza) avrebbero garantito copertura aerea alle navi di Iachino. O almeno così si pensava.

L’origine di questa missione era da ricercarsi negli esiti del convegno di Merano, tenutosi il 13-14 febbraio 1941 tra i vertici delle Marine tedesca ed italiana. Il capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine, ammiraglio Erich Raeder, nel rilevare la condotta piuttosto difensiva fino ad allora tenuta dalla Marina italiana – che aveva portato ad uscite in mare infruttuose o scontri conclusisi per lo più con un nulla di fatto, aggravati da azioni minori sfavorevoli alle forze italiane, dalle perdite della “notte di Taranto” e dalla beffa del bombardamento navale di Genova – aveva sollecitato il suo capo di Stato Maggiore, ammiraglio Arturo Riccardi, ad assumere un atteggiamento più aggressivo, sia a sostegno del trasferimento in Libia dell’Afrika Korps (in corso in quel momento) che a danno dei convogli che trasportavano truppe e rifornimenti britannici dall’Egitto alla Grecia. Riccardi aveva respinto le richieste tedesche, ma nei vertici della Marina italiana si era andata diffondendo la convinzione che occorresse mostrare alla Germania che anche la Marina italiana era in grado di lanciare decise operazioni offensive: nello specifico, un attacco contro i convogli britannici in navigazione dall’Egitto alla Grecia. Fu l’ammiraglio Iachino, che pure non era stato messo al corrente di quanto detto al convegno di Merano, a proporre a Riccardi, a fine febbraio, una puntata in Egeo con una corazzata e tre incrociatori; tra il 10 ed il 14 marzo l’ammiraglio Eberhard Weichold, ufficiale di collegamento della Kriegsmarine in Italia, aveva a sua volta ravvivato le insistenze per un’incursione del genere. Riccardi si convise, ed il 16 marzo prese la decisione di dare il via all’operazione.
Probabilmente, in considerazione sia della modesta composizione dei convogli da attaccare (quattro o cinque mercantili, un incrociatore, qualche cacciatorpediniere) che delle caratteristiche fondamentali per la riuscita di tali incursioni – rapidità e sorpresa – sarebbero state appropriate delle veloci puntate offensive degli ottimi incrociatori leggeri della VII e/o VIII Divisione, analoghe a quelle poi compiute dalle Forza K e Q britanniche ai danni dei convogli italiani più avanti nel corso della guerra, ma l’operazione in corso di pianificazione aveva motivazioni soprattutto politiche: mostrare ai tedeschi che gli italiani non erano da meno, sul mare, né di loro né degli inglesi per spirito aggressivo. Dunque si era decisa una vera e propria dimostrazione muscolare di forza, con l’uscita in mare delle navi più moderne e potenti che l’Italia era in grado di schierare: il meglio del meglio.
In preparazione di questa mossa, le difese della base di Taranto erano state potenziate per permettervi il ritorno in sicurezza di almeno parte della Squadra (ed infatti vi era tornata, tra le altre, la I Divisione).
La complessità della preparazione di una missione di tale portata, però, andò a nocumento della sua segretezza. Le ricognizioni della Regia Aeronautica in Mar Egeo vennero infatti incrementate, e la cosa non sfuggì all’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet; né sfuggì, ai ricognitori maltesi, il ritorno della I Divisione a Taranto, base che fino a quel momento, sin da dopo la notte di Taranto, era stata abbandonata da ogni nave maggiore. Cunningham subodorò che, nella Marina italiana, qualcosa bollisse in pentola a danno del traffico diretto in Grecia, che sino ad allora non aveva subito attacchi; di conseguenza, ordinò di portare al massimo possibile il numero delle ricognizioni sulle principali basi navali italiane e sulle probabili rotte che questa avrebbe potuto seguire, ed inviò in quelle acque tutti i sommergibili disponibili.
Quando i decrittatori di “ULTRA”, da Londra, lo informarono di aver intercettato e decifrato comunicazioni della Luftwaffe che si preparava a fornire copertura aerea ad una consistente formazione navale italiana che avrebbe a breve compiuto una puntata nell’Egeo, Cunningham vide le sue supposizioni confermate. Restava da sapere il giorno preciso dell’operazione italiana; a questo provvide di nuovo “ULTRA”, che il 25 marzo intercettò una comunicazione di Supermarina in cui si indicava quella data come «giorno X meno 3».
Cunningham dispose quindi di sospendere ogni traffico da e per la Grecia – tranne l’«AG 8», già partito il 26 marzo da Alessandria per la Grecia con la scorta di due incrociatori antiaerei e tre cacciatorpediniere, ed il «GA 8» (un mercantile, l’incrociatore leggero Bonaventure e due cacciatorpediniere), che sarebbe partito il 29 seguendo la rotta opposta ed arrivando ad Alessandria due giorni dopo (senza il Bonaventure, affondato dal sommergibile italiano Ambra) –, porre l’intera Mediterranean Fleet in allerta e che il 27 marzo, il giorno prima di quello fissato per l’operazione italiana, la 7th Cruiser Division (Forza B) dell’ammiraglio Henry Pridham-Wippell lasciasse il Pireo per pattugliare le acque attorno a Gaudo, isolotto a sud di Creta (queste navi presero il mare la sera del 27).
Prima ancora di cominciare, l’incursione italiana in Egeo aveva perso senso e segretezza. Ma questo, da parte italiana, non lo si sapeva.
Il 19 marzo i comandi tedeschi avevano riferito a quelli italiani che, dopo il grave danneggiamento delle corazzate britanniche Warspite e Barham e della portaerei Illustrious, la Mediterranean Fleet era rimasta con una sola corazzata (la Valiant) e nessuna portaerei; in realtà Warspite e Barham non erano state danneggiate in modo grave ed erano già tornate in servizio, come mostrato da nuove foto della ricognizione tedesca scattate il 24 marzo ma inoltrate a Supermarina solo due giorni dopo, in quanto classificate come «bassa priorità». L’Illustrious era stata veramente messa fuori uso, ma per rimpiazzarla era già giunta in Mediterraneo la gemella Formidable. Di questo l’ammiraglio Iachino sarebbe divenuto al corrente solo a missione in corso, il 27 marzo, quando la sua nave avrebbe intercettato alle 15.19 e 16.43 due messaggi trasmessi da Rodi coi quali si riferiva che la ricognizione strategica aveva avvistato ad Alessandria tre navi da battaglia e due portaerei. Il giorno stesso fu trasmesso a Supermarina un messaggio del X Fliegerkorps che annunciava che un loro Ju 88 in ricognitore su Alessandria vi aveva individuato «due navi da battaglia classe QUEEN ELIZABETH – una nave battaglia classe BARHAM – portaerei FORMIDABLE et EAGLE – un incr. classe AURORA – un incr. classe SOUTHAMPTON…»


Ore 11 del 27 marzo 1941: la VIII Divisione manovra per accodarsi alla I Divisione. Da sinistra verso destra Zara, Pola, Fiume e Duca degli Abruzzi; la foto è scattata dalla plancia del Garibaldi ed è forse l’ultima immagine che mostri la I Divisione (g.c. STORIA militare)

La I Divisione fece inizialmente rotta su Augusta, poi, mentre era in navigazione, ricevette l’ordine di portarsi presso lo stretto di Cerigo entro l’alba del 28 marzo. Tra gli equipaggi si sparse la voce che l’obiettivo della missione fosse l’intercettazione di un convoglio in navigazione a Sud di Creta, oppure attraverso lo stretto di Cerigo.
Alle 10.30 del 27 la I e la VIII Divisione si congiunsero a sudest di Capo Passero, poi si posizionarono 16 miglia a poppavia della Vittorio Veneto, che era a sua volta preceduta di 7 miglia dalla III Divisione. La foschia ed il vento di Scirocco rendevano più difficoltoso il mantenimento della formazione, mentre non vi erano difficoltà nel mantenere la velocità prefissata.
La navigazione proseguì senza incidenti – ma nella inquietante assenza della poderosa scorta aerea tedesca prevista: si videro solo due idrovolanti CANT Z. 506 che fornirono per qualche ora scorta antisommergibile, e più tardi qualche aereo tedesco in lontananza che passò senza dar segno d’aver visto le navi – sino alle 12.25 del 27 marzo, quando il Trieste comunicò che la III Divisione era stata avvistata da un ricognitore britannico Short Sunderland: ora anche Iachino poté rendersi conto che la sorpresa richiesta per la missione era venuta a mancare. Chiese pertanto a Supermarina se dovesse annullare la missione e tornare alla base, ma dopo una concitata riunione, considerato che la sorpresa non c’era più ma che il ricognitore aveva avvistato solo una frazione delle forze italiane, fu deciso di proseguire, onde non andare incontro alle ire dei tedeschi e di Mussolini per quella che sarebbe sembrata un’altra dimostrazione di scarsa combattività da parte della Marina.
In seguito a questo, la squadra italiana, poco dopo le 14, accostò per 150° (prima la rotta era 134°) per trarre in inganno il velivolo, e seguì questa rotta sino alle 16, per poi riaccostare per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23 nodi, in modo da arrivare nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba del 28. Alle 22 del 27 Supermarina annullò l’attacco a nord di Creta, dato che dalla ricognizione era risultato che non vi erano convogli da attaccare (oltre che per il rischio che fossero attaccate da forze britanniche, di cui si aveva contezza dopo l’avvistamento del Sunderland), pertanto la I e VIII Divisione ricevettero l’ordine di riunirsi con la Vittorio Veneto e la III Divisione all’alba del giorno seguente, al largo di Gaudo.
Alle 14.35 del 27 la ricognizione aerea italiana su Alessandria trovò le corazzate britanniche ancora in porto, il che fu comunicato a Iachino, ma la successiva ricognizione prevista sulla sera fu cancellata a causa delle condizioni meteorologiche. Se avesse avuto luogo, avrebbe permesso di scoprire che il grosso della Mediterranean Fleet – le corazzate Barham, Valiant e Warspite, la portaerei Formidable e nove cacciatorpediniere – non c’era più: dopo la segnalazione del Sunderland che aveva avvistato le navi italiane alle 12.25, infatti, l’ammiraglio Cunningham era uscito in mare con le sue navi (alle 19 del 27, dopo che Cunningham, recatosi a giocare a golf per ingannare eventuali informatori nemici ad Alessandria, si era furtivamente imbarcato sulla Warspite) per intercettare la formazione di Iachino. Il quale ne rimase all’oscuro; Supermarina ricevette notizia di messaggi non confermati che accennavano alla presenza in mare di una/tre corazzate ed una portaerei al largo di Alessandria, ma non ritenne di doverne mettere al corrente il comandante superiore in mare.
Alle 6.35 del mattino del 28 un idroricognitore catapultato dalla Vittorio Veneto avvistò la Forza B britannica (composta dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex, il tutto al comando dell’ammiraglio Henry Pridham-Wippell), in navigazione con rotta stimata 135° e velocità 18 nodi una quarantina di miglia ad est-sud-est dall’ammiraglia italiana. Alle 6.57, mentre la III Divisione riceveva l’ordine di assumere rotta 135° e velocità 30 nodi per raggiungere gli incrociatori britannici, poi ripiegare verso la Vittorio Veneto ed attirarli così verso la corazzata, il resto della formazione italiana (e così pure le navi di Cattaneo, per convergere verso sudest con le altre navi) aumentò la velocità a 28 nodi (in quel momento il gruppo «Zara» – che avrebbe dovuto congiungersi con la Vittorio Veneto all’alba – si trovava in leggero ritardo; alle 6.30 era circa 16 miglia a nordovest delle altre unità, ed alle 6.57 ricevette ordine dalla nave ammiraglia di accelerare).
Alle 7.55 la III Divisione avvistò la Forza B, ma dato che anche la Forza B intendeva cercare di attirare le navi italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet (che era una novantina di miglia più ad est), e pertanto si ritirò verso est, la manovra pianificata dall’ammiraglio Iachino non si concretizzò, e furono invece le navi italiane ad inseguire quelle britanniche. Ebbe così inizio lo scontro di Gaudo: tra le 8.12 e le 8.55 la III Divisione inseguì la Forza B cannoneggiandola con i propri pezzi da 203, ma non riuscì a colpire alcuna nave nemica e alla fine, dato che le distanze non si stavano riducendo, interruppe l’inseguimento su ordine di Iachino. Terminato l’infruttuoso inseguimento e scambio di cannonate – al quale la I e VIII Divisione, non ancora ricongiuntesi al resto della formazione, non poterono prendere parte, anche perché alle 8.38 avevano dovuto ridurre la velocità a 20 nodi (su ordine di Iachino, che aveva al contempo ordinato loro di assumere rotta 300°) a causa di un’avaria del Pessagno –, le navi italiane alle 8.55 accostarono per 270° ed assunsero rotta 300° e velocità di 28 nodi, ora seguite a distanza dalla Forza B, che tenne informato il resto della Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Essendosene reso conto, alle 10.02 l’ammiraglio Iachino ordinò alla III Divisione di proseguire sulla sua rotta, mentre la Vittorio Veneto e le altre navi invertirono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione italiana) ed impedirne la ritirata. Le unità della Forza B erano però più a nord di quanto ritenuto (e segnalato) e pertanto l’incontro avvenne alle 10.50: alle 10.56 la Vittorio Veneto aprì il fuoco da 23.000 metri e la Forza B, attaccata sul lato opposto dalla III Divisione, subito accostò verso sud e si ritirò inseguita dalle navi italiane, ma le distanze andarono aumentando ed il tiro della Vittorio Veneto risultò inefficace. Solo l’Orion ed il Gloucester (per altre fonti anche il Perth) subirono leggeri danni a causa di colpi caduti vicini. Alle 10.57 vennero avvistati sei aerei che si rivelarono poi essere aerosiluranti britannici Fairey Albacore (decollati dalla Formidable), che alle 11.18 attaccarono: la corazzata italiana accostò sulla dritta, e la XIII Squadriglia si portò in posizione adatta ad impedire l’attacco, aprendo intenso fuoco contraereo; alle 11.25 gli aerosiluranti lanciarono, ma furono costretti a farlo da una distanza eccessiva, ed i siluri non andarono a segno. L’attacco aerosilurante aveva avuto l’effetto di costringere le navi italiane a cessare il fuoco, permettendo alla Forza B di sfuggire ad una situazione per essa molto pericolosa. In questa zona le navi di Iachino avrebbero dovuto avere copertura aerea dei caccia di Rodi, ma di questi non si vide mai l’ombra. Fu invece durante questa prima incursione che si videro i primi e ultimi aerei tedeschi che intervennero nella battaglia a difesa delle navi italiane: due Junkers Ju 88 che tentarono d’ingaggiare i tre caccia Fairey Fulmar che scortavano gli aerosiluranti. Le sorti dell’acceso combattimento aereo volsero infine a sfavore degli aerei della Luftwaffe: uno di essi fu abbattuto, così aprendo l’elenco delle perdite dell’Asse nell’operazione «Gaudo», mentre l’altro fu costretto alla ritirata. Le navi italiane non si accorsero minimamente dell’intervento degli Ju 88, che passò così inosservato.
Nel frattempo, alle 11.07, la I Divisione avvistò un sommergibile a 3000 metri per 280°, segnalandolo alla nave ammiraglia (probabilmente un falso allarme).
Successivi messaggi e segnalazioni, che confermavano l’assenza di traffico convogliato britannico da attaccare (nonché la mancanza della copertura aerea ed il fatto che le scorte di carburante dei cacciatorpediniere si fossero già notevolmente ridotte), fecero decidere all’ammiraglio Iachino, alle 11.40, di ordinare il rientro verso le basi italiane (rotta verso nordovest). Qualche ora prima, alle nove del mattino, un ricognitore aveva segnalato alla Vittorio Veneto la presenza di una portaerei, due corazzate e naviglio minore in una posizione vicina a quella delle navi italiane: sia Iachino che Supermarina avevano attribuito l’avvistamento ad un errore del ricognitore, che doveva aver avvistato la squadra italiana scambiandola per nemica. Era invece la Mediterranean Fleet di Cunningham.
Anche una successiva comunicazione delle 14.25, secondo cui alle 12.15 un aereo aveva avvistato una corazzata, una portaerei, sei incrociatori e cinque cacciatorpediniere 79 miglia ad est della Vittorio Veneto, fu ignorata da Supermarina e da Iachino perché ritenuta erronea, visto anche che un precedente rilevamento radiogoniometrico aveva individuato la squadra britannica come a 170 miglia da quella italiana.

Cunningham aveva compreso che la squadra italiana, più veloce della sua, sarebbe facilmente sfuggita all’inseguimento del quale non sapeva nemmeno di essere oggetto – a meno che non fosse stata rallentata. Il mezzo per produrre questo rallentamento era il danneggiamento di qualche nave, ottenibile con gli attacchi di bombardieri ed aerosiluranti britannici decollati dalle basi di Creta e dalla Formidable. L’ammiraglio britannico ordinò quindi ripetuti attacchi aerei contro le navi di Iachino.
Alle 13.23 la I Divisione si trovava a 56 miglia per 266° da Gaudo. Alle 15.17 il gruppo «Zara» venne attaccato da bombardieri britannici Bristol Blenheim, poi ancora alle 15.26, alle 16.30 ed infine alle 16.44. Nello stesso lasso di tempo anche la Vittorio Veneto e la III Divisione subirono ripetuti attacchi aerei: uno solo causò danni, ma bastò a pregiudicare le sorti della battaglia.
Alle 15.19, infatti, tre aerosiluranti britannici attaccarono la Vittorio Veneto, mentre dei caccia attaccavano le unità della XIII Squadriglia mitragliandone la coperta; anche dei bombardieri in quota parteciparono all’attacco. L’intenso tiro contraereo dei cacciatorpediniere della XIII Squadriglia colpì uno degli aerosiluranti (pilotato dal capitano di corvetta John Dalyell-Stead), che però, prima di precipitare in mare con la morte dei tre uomini di equipaggio – così divenendo l’unica perdita britannica nella battaglia –, riuscì a ridurre le distanze con la Vittorio Veneto a meno di 1000 metri ed a lanciare un siluro, che colpì la nave da battaglia a poppa, in posizione 35°00’ N e 22°01’ E. Alle 15.30 la Vittorio Veneto, che aveva imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si immobilizzò, ma dopo sei minuti rimise in moto, sebbene a fatica: solo alle 17.13 riuscì a sviluppare una velocità di 19 nodi.
La flotta italiana diresse su Taranto, ed alle 16.38 l’ammiraglio Iachino, in previsione di altri attacchi aerei in arrivo al tramonto (il cui prossimo scatenarsi fu preannunciato da un messaggio britannico all’aeroporto cretese di Maleme, intercettato alle 17.45 dall’ammiraglia italiana), ordinò che le altre unità si disponessero intorno alla danneggiata Vittorio Veneto per proteggerla da altri attacchi. Proprio a quell’ora la I Divisione (ormai in vista della corazzata, provenendo da nordovest) ricevette l’ordine di riunirsi al resto della formazione e portarsi presso la Vittorio Veneto; alle 18.18 la I Divisione ricevette dalla nave ammiraglia l’ultimo messaggio contenente le istruzioni sulla formazione da assumere, ed alle 18.40 il gruppo «Zara» (del quale non faceva più parte la VIII Divisione, distaccata per rientrare direttamente a Brindisi) raggiunse il posto assegnato, completando così lo schieramento. La formazione era su cinque colonne di unità disposte in linea di fila: da destra a sinistra, la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Gioberti, Carducci, Oriani), la I Divisione (nell’ordine, Zara, Pola e Fiume), la Vittorio Veneto preceduta da Granatiere e Fuciliere e seguita da Bersagliere ed Alpino, la III Divisione (Trieste, Trento, Bolzano) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Corazziere, Carabiniere, Ascari). Una vera e propria “cintura di navi” che dovevano far quadrato attorno alla danneggiata corazzata di Iachino, proteggendola da ogni ulteriore danneggiamento.
Già alle 18.10, da bordo della Vittorio Veneto, fu comunicato a tutte le altre navi che a breve, dopo il tramonto, la squadra italiana sarebbe stata attaccata da aerosiluranti: il reparto di crittografi imbarcati sulla corazzata aveva infatti intercettato un messaggio britannico che ordinava attacchi di aerosilurati da Maleme per il tramonto.
La previsione si avverò appena tredici minuti più tardi: alle 18.23 (nel frattempo la velocità della Vittorio Veneto era scesa a 15 nodi) vennero avvistati nove aerosiluranti britannici, che si tennero a distanza ad est delle navi italiane, fuori tiro e bassi sul mare (tranne uno che, restando in quota dalla parte del sole, comunicò agli altri la posizione e gli elementi del moto delle unità italiane). Alle 18.51 tramontò il sole: per cinque di quelle navi non sarebbe mai pù sorto. Alle 18.58 Iachino ordinò a tutte le navi di tenersi pronte ad accendere i proiettori e stendere cortine nebbiogene, alle 19.15 la formazione italiana accostò per conversione ed assunse rotta 270° (in modo che le navi fossero meno illuminate possibile dal sole che tramonta) e nove minuti più tardi i cacciatorpediniere in coda iniziarono a stendere cortine nebbiogene. Alle 19.28 gli aerosiluranti si avvicinarono – le navi più esterne accesero perciò i proiettori su ordine di Iachino – ed alle 19.30, su ordine dell’ammiraglio Iachino, vi fu una nuova accostata per conversione (rotta assunta 300°). Sei minuti dopo tutti i cacciatorpediniere emisero cortine fumogene ed aprirono il fuoco, mentre gli aerei passavano all’attacco: molti, non riuscendo ad oltrepassare la barriera costituita dal tiro dei cacciatorpediniere, dai fasci dei proiettori e dalle cortine nebbiogene, sganciarono in maniera imprecisa, ma intorno alle 19.50 il Pola venne colpito ed immobilizzato da un siluro (secondo una fonte, ciò accadde perché, durante le manovre evasive compiute ad alta velocità per sventare l’attacco aereo, il Pola dovette quasi fermarsi per non entrare in collisione con il Fiume, diventando così un buon bersaglio). Il Fiume, che lo seguiva in linea di fila, superò il gemello immobilizzato passandogli sulla dritta; durante il “sorpasso”, il tenente di vascello Pasanisi del Pola, su ordine del suo comandante, segnalò al Fiume, con segnalazioni a mezzo lampada Donath, di essere stato danneggiato. Il Fiume divenne così la prima unità della formazione italiana a sapere del danneggiamento del Pola, non notato da nessun’altra. Alle 19.54 il Fiume comunicò quindi allo Zara, nave di bandiera dell’ammiraglio Cattaneo, «Informo che Nave POLA è fermo 195028»; sei minuti dopo fu il Pola stesso a far sentire la sua voce via radio, annunciando di essere stato silurato.
Cessato l’attacco, e calato il buio, alle 19.50 si spensero i proiettori e fu cessato il fuoco contraereo, ed alle 20.11 cessò anche l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05 l’ammiraglio Iachino, inconsapevole di quanto accaduto al Pola (alle 20.07 l’ammiraglio aveva chiesto alle Divisioni se vi fosse niente di nuovo), ordinò alla I Divisione di posizionarsi 5000 metri a prua della corazzata, in linea di fila (poco prima, alle 19.55, aveva ordinato a tutte le navi di assumere rotta 300° e velocità 19 nodi, confermando un ordine dato alle 19.44, subito dopo la fine dell’attacco aereo). Proprio in quel momento, però (anche se il messaggio giunse nelle mani dell’ammiraglio Iachino solo alle 20.16), lo Zara comunicò alla Vittorio Veneto la ferale notizia: il Pola era stato silurato, ed ora era fermo. Era l’inizio della fine.
Alle 20.15 l’ammiraglio Cattaneo comunicò che salvo contrordini avrebbe distaccato due cacciatorpediniere (della IX Squadriglia) per scortare il danneggiato Pola. Era probabilmente la decisione più sensata: inviare al soccorso del Pola l’intera I Divisione sarebbe stato di scarsa utilità e sproporzionato ai rischi, dato che era in mare, a sole 55 miglia di distanza (Iachino pensava 75, a causa di errori nelle rilevazioni radiogoniometriche usate per localizzare le navi nemiche), una formazione britannica di dimensioni sconosciute, chiaramente all’inseguimento delle navi italiane. Era il gruppo che comprendeva Barham, Valiant, Warspite e Formidable, ma Iachino pensava che l’entità della formazione britannica fosse molto minore, e che nessuna corazzata ne facesse parte. Tale valutazione di Iachino in proposito è stata oggetto di pesanti, e probabilmente meritate, critiche: alle 20.05 Supermarina lo aveva infatti informato che alle 17.45 una nave nemica «sede Comando Complesso», dunque non certo unità minore, alle 17.45 aveva comunicato con Alessandria da un punto a 40 miglia per 240° da Capo Krio, cioè da un punto a 75 miglia per 110° dalla Vittorio Veneto (in realtà 55 miglia per 110°, perché un errore radiogoniometrico aveva collocato le navi di Cunningham 20 miglia più ad est di quanto in realtà non fossero).
Per giunta, alle 20.15 i crittografi imbarcati per l’occasione sulla Vittorio Veneto avvistarono un messaggio trasmesso da un ammiraglio britannico a collettivo, cui risposero ben tre unità sedi di Comando Complesso («Velocità 15 nodi – 2013»); ma visto che alle 19.50 lo stesso ammiraglio aveva ordinato «Velocità 20 nodi – 1945», Iachino pensò che le unità britanniche inseguitrici avessero rallentato, forse anche abbandonato l’inseguimento. Più tardi, durante il botta e risposta tra Cattaneo e Iachino gli stessi crittografi intercettarono pure "un lungo segnale di formazione – Forse le disposizioni per la notte", trasmesse alle 20.37 dalla Warspite (nominativo 1JP) alle unità  D2M e DV5, ritenute sedi di probabili comandi complessi: erano probabilmente la Forza B di Pridham-Wippell e la 14th Destroyer Flotilla del capitano di vascello Philip Mack, inviate alla ricerca notturna delle navi italiane.
Già dal pomeriggio del 28 marzo il capitano di fregata Eliseo Porta, capo dei crittografi imbarcati sulla Vittorio Veneto, aveva detto a Iachino che interpretando le intercettazioni delle comunicazioni nemiche – cioè proprio lo scopo al quale era stato imbarcato – aveva ricavato l’impressione che il grosso nemico fosse in mare. Iachino l’aveva ascoltato, poi lo aveva congedato senza dire niente: il parere di Porta probabilmente contrastava con il quadro della situazione che Iachino s’era fatto, dunque l’ammiraglio doveva aver concluso che ad essere in errore fosse Porta. Purtroppo – uno dei tanti “purtroppo” della tragica notte di Matapan – non era così.
Un paio di cacciatorpediniere sarebbero probabilmente bastati, l’uno per prendere il Pola a rimorchio e l’altro per scortarlo, e, nel caso fossero stati raggiunti dalle navi britanniche, per evacuarlo ed affondarlo con i siluri; al più si sarebbe potuta inviare al suo soccorso tutta la IX Squadriglia. Iachino, però, era di diversa opinione (affermò in seguito che due cacciatorpediniere avrebbero potuto solo affondare il Pola, non sarebbero nemmeno bastati a salvarne l’equipaggio e non avrebbero avuto l’autorità necessaria a decidere se affondare o meno l’incrociatore), ed alle 20.18 ordinò che tutta la I Divisione (Zara, Fiume e IX Squadriglia) si recasse a soccorrere la nave danneggiata («Prima Divisione vada soccorso Pola»), reiterando l’ordine alle 20.38 (giunto alle 20.45: «ZARA FIUME et 9a squadriglia vada soccorrere POLA»), dal momento che Cattaneo, essendosi reso conto – dalle segnalazioni dei ricognitori tedeschi e dalle intercettazioni delle comunicazioni radio britanniche – che una squadra britannica stava seguendo quella italiana, tardava ad eseguire l’ordine. Le prime due comunicazioni, quella di Cattaneo delle 20.16 (trasmessa solo alle 20.25) e quella di Iachino delle 20.18 (trasmessa alle 20.21) si erano infatti incrociate, e Cattaneo, che l’aveva compreso, volle lasciare al suo superiore il tempo di valutare la sua proposta e, sperava, ricredersi. Ciò purtroppo non avvenne.
Intanto, alle 20.19, il Fiume aveva ricevuto dallo Zara l’ordine «Velocità nodi 22 linea di fila ordine diretto all'ordine»: la I Divisione stava accelerando per portarsi 5000 metri a proravia della Vittorio Veneto, come da ordini delle 20.05. Sempre a questo scopo, alle 20.32 lo Zara ordinò al Fiume «Velocità 25 nodi all'ordine» e poi alla IX Squadriglia di accodarsi al Fiume: la formazione italiana si stava disponendo in linea di fila, con, nell’ordine, la I Divisione, la IX Squadriglia, la Vittorio Veneto circondata dai caccia della XIII Squadriglia, la III Divisione (che aveva ricevuto ordine di posizionarsi 5000 metri a poppavia della corazzata) e la XII Squadriglia. Alle 20.45, a seguito di un ordine di Iachino a tutte le unità di assumere rotta 323°, lo Zara trasmise al Fiume «Gradi 323 esecutivo».
Alle 20.47 la Vittorio Veneto chiese allo Zara di dare notizie del Pola, forse per sollecitare i precedenti ordini.
Alle 20.56 (con messaggio compilato alle 20.24) Cattaneo, che fino ad allora era stato riluttante a tornare indietro con tutte le sue navi, chiese «Chiedo se posso invertire la rotta per andare a portare assistenza nave POLA – 202428», ed alle 21 (messaggio trasmesso alle 21.03) Iachino rispose affermativamente («Sì. Invertite la rotta. 210028»). Già prima di questa conferma finale, probabilmente in seguito alla ricezione dell’ordine delle 20.38, la I Divisione accostò ad un tempo di 180° sulla dritta ed invertì la rotta alle 21.06, dirigendosi verso il Pola.


La Divisione perduta di Matapan: Zara, Pola e Fiume, sopra (assieme al Gorizia, più a sinistra) ormeggiati alla testata del molo della Stazione Marittima di Napoli prima della rivista “H”, il 5 maggio 1938 (g.c. Maurizio Brescia via www.betasom.it); sotto, ormeggiati al Molo Beverello di Napoli in data imprecisata (da www.difesa.it



Da bordo delle altre navi le videro allontanarsi in linea di fila: lo Zara, nave ammiraglia, in testa, seguito dal Fiume, poi l’Alfieri come caposquadriglia della IX Squadriglia, quindi il Gioberti, dietro il Carducci, e l’Oriani in coda. Non le avrebbero mai più riviste.
Al momento dell’inversione di rotta, la distanza tra il Pola fermo ed il resto della squadra che era proseguito era divenuta di 24 miglia.
La I Divisione assunse rotta 135°, ed alle 21.07 Cattaneo ordinò a Fiume e IX Squadriglia di portare la velocità a 16 nodi («Velocità 16 nodi all'ordine»), che aumentò a 22 nodi alle 21.25 per poi ridurla nuovamente a 16 alle 22.03. Questa velocità, non particolarmente elevata, era dovuta al fatto che i cacciatorpediniere della IX Squadriglia erano ormai a corto di carburante (fatto che fu segnalato allo Zara, che a sua volta comunicò a Iachino alle 21.50, nel suo ultimo messaggio: «L’autonomia rimasta alla Squadriglia Alfieri è molto limitata e non permette un ingaggio d’emergenza, che pensiamo essere quasi certo»), rimasto in quantità appena sufficiente a tornare alla base. La ridotta riserva di combustibile rimasta ai cacciatorpediniere fu anche uno dei motivi per i quali Cattaneo, essendosi trovato con la IX Squadriglia a poppavia dei suoi incrociatori a seguito dell’inversione di rotta, non ordinò loro di portarsi a proravia di questi ultimi, dato che per portarsi nuovamente in testa allo schieramento i cacciatorpediniere del capitano di vascello Toscano avrebbero dovuto incrementare considerevolmente la velocità, consumando così più carburante.
La formazione assunta da Cattaneo, con la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori, invece che a proravia degli stessi, avrebbe in seguito destato molte perplessità e polemiche, dal momento che, se i cacciatorpediniere fossero stati posizionati in posizione di scorta avanzata notturna (4 km a proravia degli incrociatori, con un intervallo di 2 km tra ogni cacciatorpediniere), gli eventi successivi avrebbero potuto prendere una piega differente. Da molte parti, ancor oggi, si sostiene che ponendo la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori Cattaneo contravvenne alle regole vigenti sulla navigazione notturna in tempo di guerra, che prevedevano invece che i cacciatorpediniere venissero posizionati a proravia delle navi maggiori, formando uno schermo difensivo. In realtà, tuttavia, le norme di Squadra (come evidenziato dallo storico Francesco Mattesini, autore di una monumentale opera su Capo Matapan), prevedevano un’eccezione alla summenzionata regola: quella di condizioni pessime di visibilità notturna. In tal caso, le norme stabilivano che i cacciatorpediniere dovessero navigare – in singola o doppia linea di fila – a poppavia delle navi maggiori, anziché a proravia, perché in caso di incontro improvviso con unità nemiche avrebbero dovuto essere le navi maggiori ad aprire il fuoco per prime (un controsenso, in effetti, se si pensa che gli equipaggi di tali navi, a differenza di quelli dei cacciatorpediniere, non erano addestrati al combattimento notturno, e gli incrociatori di notte viaggiavano con i cannoni per chiglia, del tutto impreparati ad un’azione di fuoco, oltre ad essere sprovvisti di cariche di lancio senza vampa per il tiro notturno): l’articolo 68 della direttiva SM-11-S del gennaio 1936 disponeva che «All’approssimarsi della notte le Unità del naviglio sottile che il C.C. [Comandante in Capo] intende far navigare in unione con le unità maggiori, vengono inviate di poppa alla formazione di queste, in unica e doppia linea di fila». Tanto che Supermarina, nelle relazioni sul disastro, non diede alcuna importanza al fatto che la IX Squadriglia si fosse trovata dietro e non davanti agli incrociatori (il primo a sollevare tale questione fu invece, nel dopoguerra, l’ammiraglio Iachino, che cercava di alleggerire la propria responsabilità dell’accaduto imputandolo anche ad errori commessi da Cattaneo). E “pessime condizioni di visibilità notturna” definiva esattamente la fatidica notte del 28 marzo, una notte senza luna, estremamente buia, con alcune nuvole che riducevano molto la visibilità, specie verso est. Dunque Cattaneo non contravvenne alle regole, ma vi si attenne alla lettera, anche in considerazione del fatto che la carente visibilità avrebbe potuto causare errori di riconoscimento con i cacciatorpediniere, qualora fossero stati posti a proravia, e specialmente sarebbe stata d’intralcio al tiro degli incrociatori in caso d’incontro con le unità britanniche. Peraltro, Cattaneo stesso (come Iachino) si aspettava di incontrare le unità britanniche – che anche lui pensava essere solo incrociatori e cacciatorpediniere, non corazzate – molto più tardi, quando il Pola fosse già stato preso a rimorchio, ed i cacciatorpediniere sarebbero stati disposti tutt’attorno agli incrociatori per proteggerli su tutti i lati.
Quanto ai proiettili a vampa ridotta per il tiro notturno, essi esistevano solo fino al calibro di 105 mm nella Marina tedesca e di 152 mm in quella britannica; la Marina italiana aveva voluto sperimentare per la prima volta proiettili a vampa ridotta da 203 mm proprio sul Fiume: per amara coincidenza, la prima esercitazione in cui l’incrociatore aveva sperimentato tali proiettili si era svolta appena il 25 marzo 1941, il giorno prima di partire per la sua ultima missione. Le relazioni circa quelle prove, rimaste sul Fiume, sarebbero affondate con la nave a Matapan, impedendo così di conoscerne i risultati.
Alle 21.24 Iachino autorizzò Cattaneo ad abbandonare il Pola qualora attaccato da forze nemiche di entità superiore, e dieci minuti più tardi iniziò lo scambio di informazioni tra Zara e Pola per preparare le operazioni di rimorchio, una volta le navi di Cattaneo fossero giunte sul posto. Alle 21.57 Cattaneo, che alle 21.06 aveva già comunicato a tutta la Divisione che «Si inverte la rotta per andare ad assistere il POLA», comunicò al Fiume «Tenetevi pronto a prendere a rimorchio Nave POLA» (il messaggio, compilato alle 21.57, fu trasmesso alle 22.06).
All’insaputa di Cattaneo e di Iachino, però, già dalle 20.15 il radar dell’incrociatore britannico Orion, inviato con il resto della Forza B alla ricerca della formazione italiana, aveva individuato il relitto galleggiante del Pola. Dopo aver effettuato vari rilevamenti radar senza essere riuscito ad identificare il contatto (il Pola non era infatti stato visivamente avvistato), l’ammiraglio Pridham-Wippell, comandante della Forza B, avendo comunicato al suo comandante in capo (l’ammiraglio Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet ed imbarcato sulla Warspite) la posizione della nave sconosciuta perché decidesse sul da farsi, decise di proseguire senza curarsene ulteriormente.
Alle 21.55 (od alle 21.15, o poco dopo le 22) un altro degli incrociatori di Pridham-Wippell, l’Ajax, rilevò un nuovo contatto radar: stavolta erano tre navi, che si trovavano cinque miglia a sud della Forza B (che era in quel momento nel punto 35°19’ N e 21°15’ E), su rilevamento compreso tra 190° e 252°. Erano probabilmente Gioberti, Carducci ed Oriani, che assieme al resto della I Divisione stavano procedendo su rotta opposta a quella della Forza B, rispetto alla quale erano effettivamente poco più di cinque miglia a sud: Pridham-Wippell, però, pensò trattarsi di tre degli otto cacciatorpediniere della 14th Destroyer Flotilla del capitano di vascello Mack, inviati anch’essi alla ricerca delle navi italiane: lo stesso pensò il comandante Mack, che aveva ricevuto la comunicazione radio dell’avvistamento, e rispose all’Ajax che le navi da loro rilevate dovevano essere le sue. La Forza B, pertanto, alle 22.02 accostò verso nord per allontanarsi, onde evitare incidenti con le navi di Mack. Le navi di Cattaneo superarono quindi indenni ed ignare sia la Forza B (passando a sud di essa) sia le navi di Mack (ad una decina di miglia di distanza), procedendo su rotta opposta.
Ricevuta la segnalazione di Pridham-Wippell sul relitto del Pola (che ancora non si sapeva essere tale), Cunningham assunse con le sue navi (Barham, Valiant, Warspite, Formidable ed i cacciatorpediniere Stuart, Havock, Griffin e Greyhound) rotta 280° per scoprire la sua identità, e distruggerlo. Dopo un’ora la Valiant, unica corazzata munita di radar, che subito dopo il mutamento di rotta aveva iniziato a scandagliare la zona con il suo radar per cercare la nave immobilizzata, localizzò il Pola 6 miglia a prua sinistra, e tutte le navi di Cunningham accostarono di 40° a sinistra, assumendo rotta 240°. L’ammiraglio britannico pensò di trovarsi di fronte alla Vittorio Veneto: di conseguenza, ordinò ai suoi cacciatorpediniere di scorta (Stuart ed Havock erano a dritta delle corazzate, Greyhound e Griffin a sinistra) di spostarsi tutti a dritta per liberare il campo di tiro verso sinistra, mentre 24 cannoni da 381 mm – l’armamento principale delle tre corazzate – venivano puntati verso il punto in cui il radar della Valiant aveva localizzato la nave ignota, pronti ad aprire il fuoco non appena fosse stata avvistata con i binocoli.
Alle 22.23, prima di completare la manovra di spostamento per liberare il campo di tiro delle corazzate, lo Stuart (capitano di vascello Hector Macdonald Laws Waller) segnalò urgentissimamente a Cunningham «Unità sconosciuta per 250° a 4 miglia di distanza» (in direzione cioè oppost rispetto al Pola), seguito alle 22.25 da un’altra nave che comunicò «J – 300 – 6», cioè «rilevo unità di superficie nemica per rombo 300° a distanza 6»: erano le navi del gruppo «Zara», che venivano a soccorrere il Pola.
Prima ancora che il messaggio dello Stuart fosse ricevuto sulla Warspite, comunque, fu il commodoro John Hereward Edelsten, capo di Stato Maggiore di Cunningham, ad avvistare le navi italiane. Mentre tutte le vedette, i puntatori e gli ufficiali britannici cercavano nel buio a sinistra, dove il radar della Valiant aveva localizzato il relitto del Pola, Edelsten stava tranquillamente controllando l’orizzonte sulla destra, con un binocolo, dalla plancia ammiraglio della Warspite. Alle 22.25 Edelsten disse con calma a Cunningham di aver avvistato due grandi incrociatori, preceduti da uno di dimensioni minori, che stavano attraversando la rotta della formazione britannica a proravia della stessa, ad una distanza di un paio di miglia, sulla dritta. Il comandante della Mediterranean Fleet si accertò egli stesso dell’esattezza dell’avvistamento, ed il capitano di fregata Power, esperto nel riconoscimento delle navi italiane, confermò che fossero due incrociatori classe Zara e (erroneamente) uno da 5000-6000 tonnellate, probabilmente tipo Colleoni. Erano le navi di Cattaneo, in navigazione in linea di fila su rotta 130°.
Le navi britanniche erano tutte munite di colorazione mimetica, che ne diminuiva di molto la probabilità di avvistamento, mentre quelle italiane, a parte il Fiume, avevano ancora la loro colorazione grigio chiaro, senza mimetizzazione, che le rendeva molto più visibili di notte (la mimetizzazione del Fiume era del tutto vanificata dalle navi grigio chiaro che lo precedevano e  seguivano).
Proprio in quei minuti, alle 22.29, le navi di Cattaneo avevano avvistato un razzo Very rosso levarsi nel cielo a poca distanza, a 40° di prora sinistra: l’aveva lanciato il Pola, per farsi vedere, temendo che le sagome scure che aveva visto transitare nei suoi pressi poco prima fossero le navi di Cattaneo, e che non l’avessero visto (in realtà erano le corazzate di Cunningham). Di conseguenza la I Divisione, ridotta la velocità a 16 nodi, iniziò ad accostare a sinistra, verso il punto da cui era partito il razzo. Frattanto il Pola aveva effettuato segnalazioni anche con la lampada Donath: sia queste che il razzo erano stati visti non solo dalla I Divisione, ma anche dalle corazzate nemiche.
Cunningham ordinò che la formazione accostasse ad un tempo di 40° sulla dritta, ricostituendo la linea di fila sul rombo 280°; poi le torri dei cannoni delle tre corazzate – nell’ordine Warspite, Valiant e Barham, distanziate tra di loro di circa 600 metri – vennero puntate nella direzione da cui provenivano le navi della I Divisione. Alle 20.27 la Formidable ricevette l’ordine di uscire dalla formazione ed allontanarsi verso destra, essendo al momento inutile ed anzi a rischio di essere coinvolta in un combattimento notturno nel quale non avrebbe avuto modo di difendersi adeguatamente se attaccata; al Griffin, che si trovava ancora sulla linea di tiro delle corazzate in procinto d’aprire il fuoco, fu ordinato in malo modo di togliersi dai piedi.
Nessuno, sulle navi di Cattaneo, sospettava della presenza della poderosa formazione nemica a pochi chilometri: sul Fiume, in attesa di poter preparare il rimorchio del Pola, l’equipaggio aveva abbassato la guardia, anche se tutti erano rimasti a riposo presso i rispettivi posti di combattimento (non aspettandosi un incontro con il nemico, l’equipaggio non era al primo grado di approntamento, bensì a riposo ai posti di combattimento). Il comandante in seconda, capitano di fregata Luigi Guida, ricordò in seguito che sulla nave regnava da ore “un certo senso di distensione”, da quando, conclusisi gli attacchi aerei serali, il comandante Giorgis aveva ordinato la cessazione del posto di combattimento.
Solo due delle quattro torri da 203 mm, una a prua ed una a poppa, erano state tenute pronte al combattimento; in plancia, tutti gli ufficiali avevano concentrato la loro attenzione nell’individuazione del Pola, che il Fiume avrebbe  dovuto prendere a rimorchio. A questo scopo, i marinai del 2° Reparto erano stati concentrati a poppa e stavano preparando le attrezzature per il rimorchio.

Poco prima delle 22.30 dal Fiume, che aveva da poco ricevuto l’ordine di diminuire la velocità, essendo giunti vicino al Pola, venne avvistato a 45° da prua sinistra un razzo Very rosso, lanciato da Pola. Subito l’ufficiale di rotta del Fiume, tenente di vascello Raffaele Buracchia, trovandosi in plancia mentre il comandante Giorgis era nel casotto di rotta, ordinò di mettere tutta la barra a dritta, ma non ci fu il tempo di eseguire l’ordine.
Gli uomini del Fiume non erano riusciti ad avvistare la nave che aveva lanciato il razzo, ma effettuarono egualmente una segnalazione con la lampada Donath azzurra: proprio mentre la segnalazione era in corso, alle 22.28, il Fiume fu investito in pieno dal fascio di luce di un proiettore del cacciatorpediniere Greyhound (capitano di fregata Walter Roger Marshall A’Deane), che lo aveva acceso per illuminare meglio i bersagli per le corazzate. La luce del proiettore rivelò ai marinai britannici che gli incrociatori italiani avevano i cannoni per chiglia, in posizione di riposo. La Warspite aprì il fuoco per prima, da 3500 metri di distanza, e subito dopo anche la Valiant e la Barham: ventiquattro cannoni da 381 mm riversarono una valanga di fuoco sui due incrociatori della I Divisione.
L’ammiraglio Cunningham descrisse in seguito quei momenti: «Non dimenticherò mai quei pochi minuti che seguirono. In un silenzio di morte, un silenzio che poteva venir udito, si potevano sentire le voci del personale addetto alla direzione del tiro che andava in punteria con i pezzi sul nuovo bersaglio. Si sentivano ripetere gli ordini nella stazione di direzione del tiro, dietro e sopra la plancia. Guardando verso prora si vedevano le torri brandeggiare per andare in punteria finché i cannoni da 381 furono rivolti sugli incrociatori nemici. In tutta la mia vita non avevo mai provato un’emozione simile : un brivido mi pervase quando udii una calma voce della stazione di direzione del tiro ”Bersaglio inquadrato dall’A.P.G.” (apparecchio di punteria generale), segno sicuro che i pezzi erano pronti e che il dito era impaziente di premere il pulsante. Il nemico si trovava a una distanza di non più di 3500 metri : proprio a bruciapelo. Dev’essere stato il capo servizio artiglieria della flotta, capitano di fregata Geoffrey Barnard, che diede l’ordine decisivo di aprire il fuoco. Si sentì il ronzio dei fonici. Poi uscì la grande vampa arancione e un tremendo scotimento quando tutti i grossi cannoni tuonarono simultaneamente. Nel medesimo istante il cacciatorpediniere Greyhound, che era di scorta, accese il suo proiettore puntato su uno degli incrociatori nemici [era il Fiume] e apparve per un momento la sagoma turchino-argento sullo sfondo delle tenebre. I nostri proiettori s’accesero con la prima salva e illuminarono in pieno uno spettacolo fantastico. Nel raggio di luce vidi i nostri sei grossi proietti che percorrevano la traiettoria. Cinque su sei colpirono a qualche palmo sotto il ponte di coperta e detonarono scoppiando con bagliori fiammeggianti. Gli italiani erano stati colti di sorpresa: i loro cannoni erano per chiglia. Furono colpiti a morte prima di aver potuto tentare qualsiasi difesa. (…) Indescrivibile era lo stato degli incrociatori italiani. Si vedevano intere torri d’artiglieria e masse di altri pesanti frammenti turbinare e piombare in mare, e in pochi minuti le navi stesse furono ridotte a torce fiammeggianti, con incendi che le divoravano di prora a poppa. Tutta l’azione era durata qualche minuto».
Tra tutte le navi della I Divisione, il Fiume ebbe la peggio. L’incrociatore stava procedendo verso il Pola immobilizzato con rotta 130° e velocità 16 nodi, a poppavia dello Zara ed a proravia dell’Alfieri (a sua volta in testa alla IX Squadriglia), quando fu illuminato dal proiettore del Greyhound (e poi anche da quelli della Warspite e della Valiant, questi ultimi diretti dal futuro principe Filippo di Edimburgo, all’epoca giovane guardiamarina): subito il Fiume fu centrato dalla prima salva da 381 della Warspite, seguita da altre due, una della Warspite (preceduta da un proiettile illuminante, per meglio vedere il bersaglio) ed una della Valiant. Ognuna delle salve consisteva in sei-otto proiettili da 381 mm, ognuno dei quali pesava da solo quasi una tonnellata.
Un cannoniere ventunenne del Fiume raccontò in seguito che, quando furono illuminati all’improvviso dai proiettori, per qualche secondo pensarono che potessero essere le luci di un altro incrociatore italiano, ma subito dopo iniziarono a piovere le cannonate (il cannoniere avrebbe poi avuto soltanto il tempo di saltare su una zattera che si trovava sottobordo mentre il mare invadeva il ponte dell’incrociatore). Il sottotenente CREM Alfredo Coppola stava chiedendo del nastro isolante ad un nostromo, quando all'improvviso giunsero a bordo i primi colpi; una scheggia lo colpì al ventre. A bordo fu una carneficina: il comandante in seconda Guida aveva alcuni marinai accanto a sé al momento dell'apertura del fuoco, ma con l'arrivo dei primi colpi essi «sparirono, si volatilizzarono». Più tardi, Guida notò «molti frammenti umani» lungo le scalette che portavano in plancia. Il capo cannoniere Aurelio Roccon, all'arrivo a bordo delle prime salve, salì subito lungo il tubo corazzato e sentì il comandante Giorgis ordinare la massima forza; gli fu risposto subito che la nave non poteva fare più di dieci nodi.
Della prima salva della Warspite, tirata su rilevamento 232° con alzo 30° da soli 2650 metri di distanza, cinque dei sei colpi sparati andarono a segno: il capitano di vascello Douglas Fisher, comandante della corazzata nonché specialista d’artiglieria, nel vedere una tale mortale precisione non poté trattenersi dall’esclamare “Santo cielo! L’abbiamo colpito!”, ed un altro ufficiale definì in seguito quella salva come “probabilmente, una delle più spettacolari di tutta la guerra”. La salva colpì l’incrociatore sul lato sinistro, a intervalli, per tutta la lunghezza della nave, sotto il livello della coperta, centrando il ponte di comando (riducendo le trasmissioni degli ordini al timone della plancia – la distruzione delle trasmissioni ritardò l’esecuzione dell’ordine di mettere tutta la barra a dritta impartito poco prima dall’ufficiale di rotta Buracchia – e della torre comando nonché degli strumenti per la direzione del tiro notturno), le riservette dei cannoni contraerei da 100 mm, le caldaie 3, 5 e 8 (le prime due al centro a sinistra, la terza a poppa dritta), la motrice di poppa sinistra e la torre numero 4 da 203 mm, la più poppiera. Tale torre, una delle due sole pronte al tiro, stava brandeggiando a sinistra per rispondere al fuoco, quando fu colpita dal proiettile più di dritta della salva della Warspite, che sollevò la maggior parte della torre, se non anche la torre intera, e la fece cadere fuori bordo.
I proiettili da 381 mm (soprattutto uno che colpì a poppa dritta) devastarono subito il Fiume, facendo saltare la corrente e lasciando in funzione – e solo per qualche minuto – le sole luci di emergenza, dopo di che gli interni della nave precipitarono nel buio. Il Fiume si fermò immediatamente e cominciò subito a sbandare a dritta: lo sbandamento era causato dall’acqua che si riversava nella nave attraverso una grossa falla aperta a dritta, sotto la linea di galleggiamento, da un proiettile da 381 che aveva impattato in coperta sopra il locale macchine poppiero e trapassato i ponti della nave per poi scoppiare nei «cofferdams» tra la sala macchine di dritta ed il locale numero 8 ad essa contiguo. L’esplosione del proiettile, il conseguente squarcio ed il travolgente allagamento furono tali da far pensare erroneamente al tenente di vascello Buracchia che la nave fosse stata colpita da un siluro.
L’aspirante T. Ruck Keene, della Warspite, descrisse poi così l’arrivo delle prime salve sulla nave italiana: «Tre secondi dopo, quella sagoma nera cessò di essere una potenziale minaccia e divenne uno scafo ardente mentre un deposito munizioni esplodeva; dalla plancia alla poppa era un mare di fiamme, fiamme che si levavano 50 piedi nell’aria sormontate da scintille che si alzavano di un centinaio di piedi».
Le salve successive devastarono di nuovo la plancia, nonché la torre del secondo direttore del tiro, la torre numero 2 del calibro principale ed uno dei due cannoni della torre numero 3.
Sette secondi dopo che la Warspite aveva aperto il fuoco, la Valiant sparò contro il Fiume una salva di quattro proiettili da 381 con le due torri prodiere, da 3650 metri, su rilevamento 230°: anche questa andò a segno. Non riuscendo ad usare contro di esso anche le torri poppiere, la Valiant trasferì le sue attenzioni allo Zara, ma non prima di aver sparato contro il Fiume anche una settantina di colpi da 101 mm.
Il comandante della Valiant, capitano di vascello Charles Eric Morgan, avrebbe poi dichiarato che «I proiettili della Valiant e quelli della Warspite trasformarono il Fiume in una colossale eruzione di fiamme. Esso sembrò semplicemente scoppiare da centro nave. Furono i cinque minuti più gloriosi ed al contempo più raccapriccianti della mia vita. Grandi bagliori dal Fiume illuminavano l’oscurità come se qualcuno avesse gettato un registro in un fuoco. L’intera nave sembrò disintegrarsi. Molti dei nostri proiettili esplosero al suo interno, trasformandolo in un inferno ruggente».
La seconda salva della Warspite, tirata mezzo minuto dopo la prima, era composta da otto proiettili da 381, sempre sparati su rilevamento 232°; non paga, la corazzata britannica sparò contro il Fiume anche quattro salve a tiro rapido con i pezzi secondari da 152 mm, prima di spostare anch’essa il proprio tiro sullo Zara. Alle 22.31, mentre il Fiume usciva di formazione, lo Stuart accostò a sinistra per avvicinarsi ed aprì a sua volta il fuoco contro di esso.
La motrice di dritta e le caldaie 1 e 2 del Fiume, non essendo state colpite, funzionavano ancora, e poterono così fornire l’energia necessaria a permettere alla sala macchine di restare in contatto con la plancia; il comandante Giorgis ordinò così di mettere alla massima velocità ottenibile. In condizioni tanto disperate, ciò significava 120 giri, per la modesta velocità di dieci nodi.
Il primo direttore del tiro, capitano di corvetta Ferruccio Cableri, aveva tentato di ordinare di aprire il fuoco, ma era impossibile: non si riusciva ad avvistare le navi britanniche, tutte le comunicazioni con le torri da 203 – già messe fuori uso, peraltro, dal tiro nemico – erano interrotte, e senza corrente elettrica non fu possibile brandeggiare i cannoni (onde portarli in punteria). Tanto meno sarebbe stato possibile effettuare tiro illuminante: i serventi dell’apposito obice erano stati falciati dal tiro nemico, le colonnine per il tiro illuminante erano andate distrutte.
Le tre corazzate di Cunnigham spensero i proiettori alle 22.32 (oppure cessarono il fuoco alle 22.35) ed accostarono ad un tempo di 90° sulla dritta per evitare inesistenti siluri lanciati dai cacciatorpediniere italiani, dei quali credevano di aver visto le scie, dopo di che si allontanarono rapidamente dal luogo di ciò che non sarebbe inappropriato definire “macello”. L’unilaterale azione delle navi da battaglia era durata appena tre minuti: tanto era bastato a ridurre il Fiume e lo Zara, oltre all’Alfieri ed al Carducci, a due rottami crivellati di colpi. Solo l’Oriani ed il Gioberti riuscirono a fuggire, il primo danneggiato.
La Vittorio Veneto e le altre navi italiane, a decine di miglia di distanza, avevano sentito le cannonate e le esplosioni e visto i bagliori degli incendi, presto intuendo di stare assistendo alla fine della I Divisione. Dino Buzzati, ora imbarcato sull’incrociatore Trieste, fu spettatore a grande distanza della fine della nave che mesi prima lo aveva ospitato.
Mentre le altre navi, pur ridotte a relitti, rimasero a galla e necessitarono di essere autoaffondate dagli equipaggi o finite con siluri dai cacciatorpediniere britannici (uno di essi, lo Stuart, sparò anche qualche colpo verso il Fiume prima di rivolgere la sua attenzione allo Zara), il Fiume, in preda a furiosi incendi, andò progressivamente sbandando ed appoppandosi ed alla fine sarebbe affondato per contro proprio, primo delle quattro navi che ne avrebbero seguito la sorte.
Nei pochi minuti del combattimento, l’incrociatore aveva incassato diciotto colpi da 381 mm (quattordici perforanti della Warspite e quattro della Valiant) e decine di colpi da 152 e 101 mm, che lo avevano ridotto ad un relitto fiammeggiante. Le torri numero 3 e 4 da 203 mm erano state divelte dalle bordate giunte a segno: la 3, secondo alcuni superstiti, fu addirittura “strappata via”.
A centro nave, sulla torre numero 4 di poppa ed a proravia della torre numero 2 scoppiarono violenti incendi (l’enorme incendio sviluppatosi a poppa fu visto anche da bordo dell’Alfieri, che seguiva il Fiume: un superstite di quella nave, il sottotenente di vascello Vito Sansonetti, vide schegge infuocate di tutte le dimensioni levarsi dalle fiamme sulla poppa dell’incrociatore). Il comandante Giorgis, ferito al volto, lasciò la plancia per esortare i suoi uomini a mantenere la calma e per andare a constatare di persona l’entità dei danni; insieme al comandante in seconda Guida, tentò di organizzare i tentativi per estinguere gli incendi ed arrestare gli allagamenti, ma lo sbandamento dell’incrociatore vanificò ogni sforzo. Era ormai evidente che la nave era perduta, così il comandante Giorgis, per permettere ai suoi uomini di abbandonare la nave, ordinò di fermare anche la motrice di dritta; l’abbrivio fece sì però che il Fiume avanzasse ancora per circa dieci minuti, in una lenta accostata a sinistra, passando vicino allo Zara ormai ridotto in condizioni analoghe. Giorgis dispose inoltre che cifrari e documenti segreti venissero zavorrati e gettati in mare, come previsto; l’aspirante guardiamarina Ferdinando Po, aiutato dal comandante in seconda Guida, gettò in acqua i documenti segreti dell’archivio, mentre il tenente di vascello Buracchia fece lanciare in mare quelli dell’ufficio cifra (situati nella camera d’ordini). Falliti tutti i tentativi di domare le fiamme nella torre numero 4 – a questo punto fu gettato in mare il munizionamento pronto all’uso delle riservette dei pezzi da 100 mm, presente in coperta, che aveva iniziato a prendere fuoco e rischiava di scoppiare –, e dato che la nave stava sbandando sempre più sulla dritta (nei ponti inferiori erano già state predisposte le cariche esplosive per l’autoaffondamento, ma non ci fu bisogno di usarle), il comandante Giorgis radunò i superstiti a poppa, fece mettere a mare tutti i galleggianti ancora intatti, fece lanciare un ultimo saluto al re – tutto l’equipaggio gridò «Viva il re!» e «Viva l’Italia!» – ed ordinò di abbandonare la nave. Poi si accese un’ultima sigaretta e si diresse a prua tra il bagliore delle fiamme che divampavano sulla sua nave sconvolta. Il marinaio Francesco “Ciccio” Conca raccontò in seguito di aver esortato il comandante Giorgis, che guardava immobile la rovina della sua nave, a mettersi in salvo (“Comandante, buttiamoci in acqua! La nave è persa!”), ma senza ricevere risposta; secondo Conca Giorgis, indebolito dalle ferite, si accasciò sul ponte, e Conca si buttò in mare (venne recuperato dopo diverse ore da una nave britannica).
Il comandante in seconda Guida liberò l'ultima zattera Carley insieme al sottotenente commissario Mario Galimberti, ed in quel momento vide il comandante Giorgis che si stava allontanando verso poppa. Guida raggiunse allora Giorgis e lo invitò a salire con lui sull'ultima zattera, ma Giorgis inizialmente rifiutò; era gravemente ferito al viso. Alla fine Guida riuscì a farlo salire sul galleggiante. Il capo cannoniere Giovanni Lucchetti avrebbe in seguito ricordato che all'ordine di abbandonare la nave non aveva avuto bisogno di gettarsi in mare: l'acqua era già arrivata al filo del ponte.
L’equipaggio, per primi i feriti come ordinato da Giorgis, scese sulle zattere e sugli zatterini Carley (la maggior parte di questi galleggianti aveva potuto essere messa in mare, nonostante tutto), poi, dopo pochi minuti, il Fiume iniziò ad immergersi di poppa, si capovolse sul lato di dritta ed affondò rapidamente. Erano le 23.15 del 28 marzo 1941, la posizione era 35°21' N e 20°57' E.

Il capitano di vascello Giorgio Giorgis (g.c. Giovanni Pinna, restauro a cura di Matteo Fornoli)

Secondo alcuni superstiti, prima dell’affondamento la nave fu scossa da una violenta esplosione interna, che fu attribuita allo scoppio di uno dei depositi di munizioni. Mentre la nave si capovolgeva, alcuni uomini si arrampicarono sulla carena fino alla chiglia e vi si trattennero finché, mentre la poppa s’immergeva e la prua si alzava, scivolarono in mare.
Uno dei marinai addetti ai depositi munizioni poppieri, in seguito recuperato da una nave britannica, avrebbe raccontato nel proprio interrogatorio di essere stato rinchiuso nel deposito munizioni; riuscito in un modo nell’altro ad uscirne, era giunto in coperta per trovare la nave già fortemente inclinata sulla dritta e la torre numero 4 divelta. Pensando “Mamma mia non so nuotare”, il marinaio afferrò due giubbotti salvagente, si gettò in mare e raggiunse uno zatterone Carley.
Antonio Miccoli, maresciallo capo cannoniere telemetrista, era in servizio in coffa e, quando la nave fu devastata dal tiro delle corazzate britanniche, cadde in mare. Riemerse per vedere la sua nave in fiamme e scossa dalle esplosioni, il mare cosparso di naufraghi bruciati o mutilati, carburante in fiamme che galleggiava sull’acqua, richieste di aiuto. Molti naufraghi morirono annegati od assiderati, alcuni persero ogni speranza, impazzirono e si lasciarono andare, altri vennero persino attaccati e uccisi dagli squali. Sulle zattere non c'era abbastanza posto per tutti: chi era in mare doveva fare a turno per restare aggrappato fuori bordo. Così Miccoli passò il suo trentunesimo compleanno, che ricorreva proprio quel giorno. Solo molte ore più tardi, dopo che il freddo aveva decimato i suoi compagni di sventura, sarebbe stato recuperato da un cacciatorpediniere britannico.
Un altro superstite che sarebbe stato recuperato dalle navi britanniche il mattino successivo, in mezzo ai corpi dei compagni che aveva visto soccombere durante la notte, era il cannoniere Vittorio Cerami. Anni dopo, tornato finalmente nel suo paese – Petralia Soprana – avrebbe iniziato a dipingere per sfogare le emozioni – paura, dolore – lasciategli da Matapan; avrebbe dipinto decine di quadri, uno dei quali ritraente proprio l’affondamento del Fiume.
Un altro membro dell’equipaggio, che si trovava nella centrale di controllo del tiro, raccontò poi che le fiamme divamparono subito ed il fumo iniziò a soffocare gli occupanti del locale; tutti afferrarono delle maschere antigas e si fecero faticosamente strada tra le lamiere contorte nell’oscurità più totale, tra le grida dei feriti e dei moribondi tutt’intorno. Un altro marinaio venticinquenne asserì che, cercando di raggiungere il ponte di coperta, si ritrovò bloccato in un corridoio invaso dalle fiamme: corse attraverso di esse e raggiunse una torretta dove trovò tutto il personale morto o ferito; tutti erano coperti da gravissime ustioni.
Giuseppe Labate, sottocapo S.D.T. volontario in Marina dal 1938, fu sollecitato da un compagno  gettarsi in mare per salvarsi, ma gli rispose che non l’avrebbe fatto; rimase a bordo e continuò a soccorrere i compagni finché non gli mancarono le forze. Scomparve tra i flutti assieme alla sua nave.
Un ufficiale del Fiume raccontò più tardi che, mentre la nave affondava, riuscì ad arrampicarsi su una zattera con 35 naufraghi, parecchi dei quali feriti, alcuni gravemente ustionati. Il mare era agitato; i feriti gridavano, gli occupanti della zattera si ritrovarono presto con l’acqua alla cintola. Uno dopo l’altro i feriti morirono o scivolarono in mare.
Gran parte dell’equipaggio del Fiume affondò con la nave o scomparve in mare nelle lunghe ore della notte. Ebbe questa sorte anche il comandante Giorgis, che era salito sull'ultima zattera assieme a parecchi altri uomini tra cui il comandante in seconda Guida ed il sottotenente commissario Galimberti (ambedue salvati e fatti prigionieri): Giorgis stava molto male per via della grave ferita al viso, e nonostante gli sforzi di Galimberti e Guida per aiutarlo, alla fine un'onda più forte lo fece cadere in mare, ed il comandante del Fiume scomparve. (Per altra versione la zattera si capovolse più volte durante la notte, e Giorgis, esaurite le forze, scomparve a seguito di uno di tali ribaltamenti). Alla sua memoria fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Giunto il mattino, i superstiti videro un ricognitore volare nel cielo, e poi anche un idrovolante che ammarò e segnalò loro qualcosa.
Le unità della Mediterranean Fleet tornarono sul luogo della distruzione della I Divisione alle otto del mattino del 29, ed alcuni cacciatorpediniere iniziarono a recuperare i naufraghi delle navi affondate: i superstiti del Fiume, parecchi dei quali in uno stato pietoso, furono recuperati da tre cacciatorpediniere britannici, tra cui il Defender.
Durante il salvataggio, però, fu visto nel cielo un aereo tedesco: i naufraghi del Fiume non pensavano che avesse intenzioni ostili, ma di diverso avviso erano i comandanti britannici. Temendo che un attacco aereo tedesco fosse imminente, le navi della Mediterranean Fleet lasciarono le tragiche acque della “battaglia”, ancora colme di naufraghi, e diressero per rientrare ad Alessandria. Soltanto 7 ufficiali e 53 sottufficiali e marinai del Fiume erano stati recuperati; il Defender abbandonò in mare altri 600 naufraghi, dei quali non è possibile sapere se fossero tutti del Fiume od anche dello Zara.


Naufraghi italiani fotografati da un idrovolante britannico (Australian War Memorial)

L’indomani, alle 17.30 del 29 marzo, un idrovolante britannico in ricognizione segnalò delle imbarcazioni cariche di superstiti 90 miglia a sudovest di Capo Matapan, per cui fu inviato sul posto un cacciatorpediniere greco, l’Hydra, che, nonostante le avverse condizioni meteorologiche, recuperò altri 139 superstiti italiani (dando la precedenza ai feriti), ossia 2 ufficiali e 137 tra sottufficiali, sottocapi e marinai, dei quali 104 del Fiume, 23 dell’Alfieri e 12 dello Zara. L’Hydra soccorse anche la zattera del Fiume che aveva contenuto in origine 36 naufraghi tra cui un ufficiale: dopo circa ventiquattr’ore trascorse in mare, soltanto otto erano ancora vivi. Molti erano morti dopo essere impazziti per la sete o per le ferite.
I naufraghi raccolti dall’Hydra furono sbarcati all’arsenale di Atene ed avviati alla prigionia nei pressi della capitale greca (prigionia che sarebbe però stata di breve durata, in quanto la Grecia si arrese all’Asse due mesi dopo, ed i prigionieri furono liberati e tornarono in Italia). Gli altri avrebbero passato ancora diversi giorni in balia degli elementi, che ne avrebbero ulteriormente assottigliato il già sparuto numero.
La sete ed il sole battente causarono sovente allucinazioni tra i naufraghi sfiniti. Una singolare allucinazione collettiva, all’alba del 30 marzo, colpì gli occupanti di un’intera zattera: credettero infatti di vedere il Fiume riemergere lentamente dal mare. A 4-5 miglia di distanza, chiaramente “visibili” nel mare calmo, “videro” tutti affiorare dalle acque prima le torri dei cannoni ed il torrione con la plancia, poi alberi e fumaioli, con una lentezza esasperante. Uno di quegli uomini, un anno dopo, raccontò ad Aldo Cocchia, che lo narrò poi in un suo libro: “Era il Fiume. Chi di noi non l'avrebbe riconosciuto? Era la nostra nave, la nostra nave che tornava.” Quella illusoria visione, dopo aver fatto sperare per poco ai naufraghi che si sarebbe avvicinata per riprenderli, rimase invece ferma, “senza riuscire a emergere tutta; poi, a poco a poco, quasi insensibilmente ritornò giù di nuovo. Scomparve”. (Cocchia avrebbe così concluso la sua narrazione di quanto raccontatogli dal naufrago: “E io, da parte mia, avrei forse dovuto parlargli d'allucinazioni collettive, di suggestione. Ma dovevo forse togliere l'illusione che la nave avesse realmente compiuto ogni sforzo pur di soccorrere gli uomini che l'avevano equipaggiata?... Oggi, poi, sono convinto che in quell'alba il Fiume ritornò realmente sul mare per trasmettere ancora una parola di fede a chi voleva intenderla; la parola di fede che lo stesso Fiume ci ha inviata di recente col messaggio del marò Francesco Chirico da Futani [a questo proposito si veda più sotto, nda.]”).
Poco prima dell’alba del 1° aprile 1941 la nave ospedale Gradisca, inviata dall’Italia alla ricerca dei naufraghi e giunta già da qualche giorno nelle acque teatro della “battaglia”, avvistò, illuminandole col proiettore, due zattere cariche di naufraghi che agitavano le braccia per farsi vedere: erano del Fiume. La Gradisca mise rapidamente a mare il proprio motoscafo, che solcò il mare agitato, raggiunse i fragili galleggianti e ne imbarcò gli occupanti. Subito dopo si sentirono altre grida di aiuto molto vicine, più a destra; la Gradisca spostò il fascio di luce del proiettore ed avvistò parecchie altre zattere, tutte del Fiume. La nave ospedale provvide a calare subito altre motobarche, e nelle quattro ore successive recuperò decine di superstiti. Se a chi si trovava sulla Gradisca il salvataggio di tanti uomini in così poco tempo dovette apparire come “un vera pesca miracolosa” – dal momento che si trattò, purtroppo, di gran lunga del maggior gruppo di uomini salvati in una missione che complessivamente non permise che di recuperare 161 superstiti –, visto che fino ad allora non si era trovata che una singola zattera con quattro sopravvissuti (dell’Alfieri, il 31 marzo), d’altra parte non erano nemmeno un decimo dell’equipaggio dell’incrociatore. Pochi di più erano stati recuperati in precedenza dalle navi britanniche e greche. Sulla Gradisca tutti – medici, infermieri, crocerossine volontarie, membri dell’equipaggio civile – fecero del proprio meglio per soccorrere celermente quanti più uomini possibile.
Le prime parole che i naufraghi gridarono, prima ancora di salire sulla Gradisca, furono “Viva l’Italia!”; le seconde, non appena furono tratti a bordo, “Acqua! Acqua! Acqua, Sorella!”. Alcuni gridavano, altri ringraziavano, altri ancora ridevano e molti tremavano intirizziti dal freddo, ma tutti chiedevano incessantemente acqua. Non bevevano da quattro giorni.
I feriti ed i più malconci dovettero essere caricati sulle barelle e portati nei reparti; molti necessitarono di essere frizionati, massaggiati o medicati per le ferite o per gli effetti della lunga esposizione agli elementi. Occorreva anche somministrare a tutti un corroborante, ogni mezz’ora. Alcuni superstiti erano sprofondati in un sonno pesante, senza che si riuscisse a svegliarli, altri continuavano a chiedere altra acqua, e dopo qualche ora gli arti di parecchi naufraghi divennero arrossati e gonfi, anche dolorosi.


Uno dei primi zatterini con naufraghi avvistati dalla Gradisca (da “Matapan” di Franco G. Mascilongo – BCC Gradara)

Più tardi nella giornata, la Gradisca avvistò altre zattere verso sud, le raggiunse, si fermò e mise a mare i motoscafi. Anche queste erano del Fiume. Di nuovo i motoscafi raggiunsero le zattere, recuperarono i superstiti stremati e tornarono la nave. Anche questi uomini chiesero subito ed insistentemente dell’acqua; i più erano in condizioni peggiori di quelli recuperati solo poche ore prima. Erano gli ultimi sopravvissuti del Fiume. Più di uno degli uomini sulla Gradisca trovò tra i superstiti amici o parenti; altri furono dai naufraghi informati che uomini che conoscevano a bordo delle navi perdute non ce l’avevano fatta.
Tra i superstiti recuperati dalla Gradisca vi fu anche il tenente CREM Renato Mazzolani, capo deposito munizioni del Fiume, ferito. Mazzolani avrebbe ripreso il servizio in Marina e, dopo l’armistizio, si sarebbe unito alle formazioni partigiane sino alla sua morte, a seguito della quale avrebbe ricevuto la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Nella giornata del 1° aprile, in tutto, la Gradisca trasse in salvo 106 superstiti del Fiume, da un totale di sedici zattere, oltre ad otto uomini dell’Alfieri da una diciassettesima zattera. Non ne avrebbe trovati altri, né dell’una né dell’altra nave. Uno dei 106 uomini del Fiume recuperati dalla nave ospedale morì a bordo il giorno seguente, 2 aprile, per gli effetti dell’assideramento, lo shock e le ferite. Centinaia di salme furono avvistate in mare durante le ricerche; solo sette furono recuperate, per le altre il cappellano della Gradisca impartì da bordo l’Assoluzione.
La Gradisca riprese a setacciare le acque del disastro ancora per alcuni giorni, fino al 5 aprile; conclusa la missione dopo aver salvato pochi altri uomini dello Zara (solo otto) e del Carducci (35, tutto ciò che restava di quell’equipaggio), la nave giunse a Messina alle 8.30 del 7 aprile, dove i superstiti furono sbarcati alle 15. Cinquantacinque di essi necessitarono di ricovero ospedaliero.

Dei 1083 uomini che componevano l’equipaggio del Fiume, soltanto 269 sopravvissero all’affondamento ed alle ore o giorni trascorsi in mare sugli zatterini: di questi, 164 furono fatti prigionieri. La travagliata sorte di questi ultimi è per larga parte riassunta dalla vicenda del maresciallo capo cannoniere Antonio Miccoli.
Già subito dopo il salvataggio, a bordo dei cacciatorpediniere, i superstiti furono sottoposti ad una prima superficiale perquisizione. Le navi britanniche di ritorno dall’operazione giunsero ad Alessandria d’Egitto il 30 marzo, e qui sbarcarono i naufraghi italiani recuperati, che furono trasferiti in un campo di prigionia presso la città egiziana, il POW Camp n. 308, e successivamente nel campo 306 di Geneifa, sempre in Egitto. Gli ufficiali (i più alti in grado tra gli ufficiali catturati, nonché tra i sopravvissuti, erano il comandante in seconda Guida ed il maggiore commissario Vincenzo Pugliese) vennero divisi dai sottufficiali e marinai, riuniti invece in un unico gruppo; poi tutti furono messi in riga e – dopo aver confermato le proprie generalità – perquisiti, uno per volta, dalle guardie. Una di queste trovò nella tasca di un sottufficiale del Fiume, probabilmente il capo cannoniere Vittorio D’Elia, una moneta con l’effigie di Vittorio Emanuele III, e sputò sulla moneta dopo aver espresso parole di spregio nei confronti sia del re che dell’Italia. Il sottufficiale, offeso da quelle parole, si gettò sul “secondino” e lo colpì con due pugni, gettandolo a terra; una seconda guardia, però, intervenne e lo colpì con due baionettate al ventre. Antonio Miccoli, grande amico del sottufficiale, nel vederlo ferito a colpi di baionetta si lanciò a sua volta contro la seconda guardia e la stordì con una ginocchiata, impedendole di colpire ancora; poi fu a sua volta tramortito da una terza guardia frattanto accorsa. Il tentativo di salvare l’amico costò a Miccoli tre giorni di reclusione in isolamento.
Dopo alcuni mesi, nell'agosto 1941, Miccoli – che aveva ricevuto il numero di matricola 123415 – e molti altri prigionieri di Matapan furono trasferiti (via nave nel Mar Rosso e poi nell’Oceano Indiano fino a Durban, poi in treno con un viaggio della durata di due giorni) nel grande campo di prigionia di Zonderwater, in Sudafrica, che nel corso del conflitto avrebbe alloggiato fino a 100.000 prigionieri ed internati italiani. I superstiti di Matapan furono tra i primi ad arrivarci; furono sistemati in tende coniche della capienza di otto uomini ciascuna, dove si doveva dormire per terra con i piedi rivolti al palo di sostegno e la testa verso l’esterno. Solo dalla fine del 1943, con la nuova direzione del campo da parte del colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo, le tende sarebbero state rimpiazzate da delle baracche. Al di là della precarietà della sistemazione, che ben poco poteva offrire al fortissimo vento della zona (tanto intenso da togliere il fiato; frequenti erano le trombe d’aria e le tempeste di sabbia, che spazzavano via tende, lamiere e recinzioni), le tende rappresentavano un vero e proprio pericolo per l’incolumità di chi le occupava: gli appuntiti pali di ferro che le reggevano, infatti, divennero prevedibilmente la prima esca per i fulmini che cadevano durante i numerosi temporali che si scatenavano nella regione. Il terreno, forse composto da minerali particolarmente ferrosi, amplificava questo pericolo; furono decine i prigionieri che morirono fulminati a Zonderwater, perché appoggiati od anche solo vicini ai pali colpiti dai fulmini.
I prigionieri del campo si divisero in tre gruppi, a seconda dell’atteggiamento e delle convinzioni sulla condotta da tenersi. Alcuni, per evitare le dure condizioni di vita del campo, accettarono di lavorare per conto di datori di lavoro locali, nelle fattorie del Transvaal nonché nell’edilizia e nella costruzione di strade. Detti “cooperatori”, erano considerati traditori dai fascisti “irriducibili”, che formavano il secondo “gruppo”; questi ultimi, al ritorno al campo dei cooperatori al termine di un periodo di lavoro all’esterno, sovente li aggredivano, maltrattandoli, schiaffeggiandoli o sottoponendoli a punizioni di gruppo a sorpresa, come quella della “coperta” (nella quale il malcapitato era aggredito da un gruppo di prigionieri che, dopo averlo seguito sino in un punto isolato del campo, gli gettavano addosso una coperta, per poi tempestarlo di calci e pugni). Il terzo gruppo era composto dai “non cooperatori”: non erano fascisti né violenti nei confronti degli altri prigionieri, ma consideravano la cooperazione con il nemico come slealtà verso l’Italia, e pertanto si rifiutavano di lavorare.
Ai maltrattamenti inflitti dagli “irriducibili” a chi cooperava, si aggiungevano dalla parte opposta quelli impartiti dalle guardie contro chi si rifiutava di cooperare: Miccoli fu più volte maltrattato perché rifiutò di spiegare il funzionamento dei telemetri italiani, di cui, per via della sua qualifica, era esperto conoscitore.
Scarso il vitto: “Un cucchiaio di lenticchie in poca brodaglia” come ricordò Miccoli, il quale sarebbe deperito fino a pesare 46 kg ed avrebbe sviluppato l’istinto di catturare le mosche con la mano per mangiarle, un’abitudine che gli sarebbe passata solo qualche tempo dopo il rimpatrio.
Coloro che morirono durante la lunga prigionia a Zonderwater furono sepolti nel cimitero del campo, alla cui realizzazione prese parte lo stesso Miccoli (anche Vittorio D’Elia, deceduto il 12 febbraio 1944, vi fu sepolto).
In Italia, intanto, Miccoli era stato inizialmente dichiarato disperso. Sua madre, Santa, ne fu informata pochi giorni dopo la battaglia; credendo che il figlio fosse morto in mare, smise di mangiare sardine, e a chi glie ne chiedeva il perché, rispondeva piangendo: "Perché hanno mangiato mio figlio!". Le sardine sono, infatti, tra i primi pesci ad attaccare i corpi degli annegati per mangiarli, come ricordò poi lo stesso Miccoli: durante la notte in cui era affondato il Fiume, aveva visto le sardine aggredire i cadaveri partendo dalle estremità, dopo di che a volte arrivavano gli squali che li afferravano e li trascinavano sott'acqua con un gorgo. Santa Miccoli si recò anche a pregare la Madonna nella chiesa del suo paese, Spongano (Lecce), e fece voto di non tagliarsi più i capelli fino a quando non avesse riabbracciato il figlio. Soltanto il 10 maggio 1941, oltre quaranta giorni dopo Matapan, le arrivò finalmente dalla Croce Rossa Internazionale la notifica che Antonio era vivo, anche se prigioniero.
La prigionia a Zonderwater degli uomini del Fiume non si concluse con l’armistizio tra Italia e Alleati del settembre 1943: anzi, non era neppure giunta a metà di quanto sarebbe alla fine durata. Ad Antonio Miccoli fu fatta firmare il 18 gennaio 1945 una “Dichiarazione di fedeltà” con la quale s’impegnava a collaborare con gli Alleati nel combattere contro il comune nemico tedesco, tuttavia gli “ex nemici” lo avrebbero liberato solo nel maggio 1946, a quasi un anno dalla fine delle ostilità in Europa. Giunto a Napoli il 20 maggio, Miccoli dovette anche subire il sequestro del diario nel quale aveva annotato le sue vicende, che nemmeno i carcerieri britannici e sudafricani, pur conoscendone l’esistenza, gli avevano tolto. Tornato in Marina, ora non più Regia, Antonio Miccoli (nominato nel 1959 Cavaliere al Merito dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi) vi avrebbe prestato servizio sino al 28 marzo 1962, ventunesimo anniversario di Matapan, quando si congedò dopo aver raggiunto il grado di sottotenente del Corpo Equipaggi Militari Marittimi.
Più breve, ma non meno dura, fu la prigionia degli uomini recuperati recuperati dall’Hydra e portati in Grecia, come ricordò il marinaio Giovanni Conti, ventunenne: fame, sete, freddo, soprusi; dall’altra parte del reticolato c’erano piante d’arancio i cui frutti maturi cadevano in terra, ma i passanti, piuttosto che permettere ai prigionieri affamati di raggiungerli allungando la mano, li allontanavano con un calcio.

Dell’equipaggio del Fiume, scomparvero in mare 37 ufficiali, 85 sottufficiali, 681 tra sottufficiali e marinai, quattro civili, un giornalista (Francesco Alioto) ed i sei militari della Regia Aeronautica (un ufficiale, un sottufficiale e quattro avieri) addetti agli idrovolanti da ricognizione imbarcati, per un totale di 814 tra caduti e dispersi, un bilancio superato, tra le navi della Regia Marina perse in guerra, solo dall’affondamento della corazzata Roma. Per la massima parte di quegli uomini non ci sarebbe mai stata una tomba.
Il capo furiere Egidio Bonnes, salutando la moglie quando era partito per l’ultima missione, aveva detto che sarebbe tornato con delle medaglie; invece, non avrebbe mai fatto ritorno. La moglie dovette rivolgersi alla Croce Rossa per avere notizie del marito; Egidio Bonnes fu tra le centinaia di dispersi del Fiume.
Un altro dei tantissimi dispersi fu il capo cannoniere Nazareno Bramante, siracusano. Sua figlia Lucia, dopo lunghi sforzi, l’8 ottobre 2007 sarebbe infine riuscita ad ottenere l’intitolazione ai caduti di Matapan di una piazza della sua città natale. Ogni anno Lucia Bramante depone una corona d’alloro sotto la targa realizzata nella piazza, in ricordo di suo padre e degli altri 2300 uomini che riposano per sempre nelle acque a sud di Creta; e con l’alloro della pianta che si trova nel suo giardino realizza un’altra corona che viene lanciata in mare da una motovedetta della Guardia Costiera, per commemorare tutti i morti di Matapan.
Dell’equipaggio del Fiume facevano parte anche uomini provenienti dalla città che aveva dato il nome alla nave: tra di essi Libero Decleva, Francesco “Tino” Penco ed Olivo Rachella, tutti fuochisti, e Gerardo Persich, marinaio. Decleva ebbe salva la vita perché sbarcato dall’incrociatore una settimana prima del previsto, e pochi giorni prima dell’ultima fatale missione. Tino Penco, suo grande amico, sarebbe dovuto sbarcare anch’egli prima della partenza, ma era alla fine rimasto a bordo per il mancato arrivo del suo rimpiazzo. Quando Decleva si recò all’ormeggio del Fiume per salutare l’amico un’ultima volta, scoprì che l’incrociatore era salpato la notte precedente. Seppe poi che mentre il Fiume stava affondando, Penco, che si trovava in coperta insieme ad un amico istriano, tornò in sala macchine per tentare di salvare Rachella, che era rimasto intrappolato. Di loro non si seppe più nulla. Nemmeno Gerardo Persich fu tra i sopravvissuti. Negli anni successivi Decleva avrebbe sognato più di una volta di incontrare Penco sul Fiume agonizzante e cercare di portarlo in salvo, ma sempre senza successo.
Le lettere spedite nei giorni precedenti al disastro da parenti di membri dell’equipaggio, come quella inviata il 22 marzo da Monza all’aspirante guardiamarina Enrico Carabelli, furono rimandate indietro con l’asettica annotazione «MINISTERO DELLA MARINA si ritorna al mittente perché non recapitabile».
L’ultimo messaggio inviato da un marinaio del Fiume, invece, ci avrebbe messo undici anni per raggiungere il suo destinatario, ma ci sarebbe infine riuscito.
Era il mattino del 10 agosto 1952 quando un passante su una spiaggia di Villasimius, vicino a Cagliari, notò una bottiglia portata a riva dalle onde e per curiosità la volle aprire. Una volta aperta, la bottiglia mostrò di contenere un messaggio scritto frettolosamente su quello che in seguito si sarebbe scoperto essere un brandello di una tela di copertura per le mitragliere. Poche semplici parole di estremo commiato: «Regia Nave Fiume – Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma, mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani Via Eremiti 1 Salerno. Grazie signori – Italia!». Il messaggio fu recapitato alla madre Anella Sacco, ancora vivente a Futani, mentre il padre Domenico Chirico, che non si era mai illuso che il figlio potesse fare ritorno, era morto nel 1948. Alla memoria del marinaio Francesco Chirico fu conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare: «Imbarcato su incrociatore irrimediabilmente colpito nel corso di improvviso e violento scontro da preponderanti forze navali avversarie, prima di scomparire in mare con l’unità confermava il suo alto spirito militare affidando ai flutti un messaggio di fede e di amor patrio che, dopo undici anni, veniva rinvenuto in costa italiana».
La lunga notte di Matapan era finita.


L’ultimo messaggio di Francesco Chirico.

Caduti o dispersi con il Fiume:

Ferrino Abba, cannoniere
Dely Abbate, guardiamarina
Sebastiano Accardi, fuochista
Domenico Accusato, cannoniere
Francesco Acquaro, cannoniere
Natale Adragna, cannoniere
Gerardo Agnese, marinaio
Giuseppe Agostino, secondo capo cannoniere
Mario Aiello, marinaio
Giuseppe Albanese, cannoniere
Luigi Albano, marinaio
Ferruccio Albertelli, radiotelegrafista
Santo Albertini, marinaio
Giuseppe Alessi, marinaio
Francesco Alioto, giornalista
Luigi Allegra, capo meccanico
Giuseppe Altavilla, furiere
Vincenzo Amato, cannoniere
Mario Amato, secondo capo segnalatore
Carlo Amato, tenente del Corpo Reali Equipaggi Marittimi
Giuseppe Ambrosanio, marinaio
Luigi Ambrosini, cannoniere
Michele Ambrosio, maggiore del Genio Navale (direttore di macchina)
Giuseppe Ambrosio, fuochista
Guido Angelozzi, specialista direzione del tiro
Michele Angileri, fuochista
Mario Anselmo, nocchiere
Antonio Antonetti, secondo capo elettricista
Matteo Aprile, marinaio
Oronzo Ardito, capo cannoniere
Vincenzo Armenante, cannoniere
Roberto Arzano, marinaio
Leonardo Asta, cannoniere
Francesco Astalfone, sottocapo cannoniere
Giuseppe Astigiano, cannoniere
Domenico Auriello, marinaio
Vincenzo Aversa, maestrino ufficiali
Girolamo Bacarella, segnalatore
Giuseppe Badaloni, sottocapo meccanico
Grazioso Baggio, marinaio
Carlo Bagnale, cannoniere
Lamberto Baldini, cannoniere
Ciro Baldino, marinaio
Vittorio Emanuele Balestrieri, capo nocchiere
Mario Ballaim, marinaio
Raimondo Ballarin, nocchiere
Ildo Ballarin, marinaio
Luciano Bambini, cannoniere
Iginio Barbana, cannoniere
Francesco Barbato, secondo capo specialista direzione del tiro
Generoso Barbera, fuochista
Francesco Barisciano, cannoniere
Giuseppe Barone, marinaio
Dario Bartalini, secondo capo cannoniere
Italo Basile, sottotenente di vascello
Silvio Basilico, fuochista
Avelino Battistuta, secondo capo cannoniere
Angelo Beccarelli, sottocapo elettricista
Aldo Beccaria, elettricista
Luigi Belardo, primo aviere (Regia Aeronautica)
Fiorino Bellani, fuochista
Sereno Bellini, marinaio
Sisto Bellolio, cannoniere
Bruno Benassi, carpentiere
Angelo Benda, elettricista
Angelo Benvenuto, sottotenente di vascello
Attilio Berengo, capo meccanico
Roberto Bergero, cannoniere
Pietro Bernardi, capitano del Genio Navale
Febo Bernardis, fuochista
Francesco Bernascon, guardiamarina
Luigi Bertelli, cannoniere
Armando Biada, furiere
Mariano Biagi, cannoniere
Alberto Biagioni, fuochista
Giuseppe Bianchi, fuochista
Arturo Bianchi, cannoniere
Carlo Bianco, fuochista
Luciano Bignami, fuochista
Francesco Binetti, fuochista
Nicolino Bini, cannoniere
Salvatore Biondi, marinaio
Andrea Blasi, marinaio
Gaetano Boccia, tenente Corpo Reali Equipaggi Marittimi
Amilcare Bolcini, capo cannoniere
Giuseppe Bolconi, fuochista
Enrico Bolzoni, motorista navale
Giuseppe Bombaci, cannoniere
Asalone Bonaccin, cannoniere
Alfonso Bonamici, capo meccanico
Giovanni Bonamigo, capo cannoniere
Giovanni Bonanno, cannoniere
Giuseppe Bonanno, marinaio
Giovanni Bonassin, marinaio
Aurino Bonazzi, sottocapo elettricista
Egidio Bonnes, capo furiere
Salvatore Bonnò, sottocapo nocchiere
Luigi Bonsignori, cannoniere
Giuseppe Borgia, marinaio
Orlando Boscolo, marinaio
Francesco Bossi, tenente Corpo Reali Equipaggi Marittimi
Salvatore Bottino, marinaio
Gino Braccini, secondo capo meccanico, 30 anni, da Pescia
Walter Bracelli, fuochista
Nazzareno Bramante, capo cannoniere, 38 anni, da Siracusa
Vincenzo Brancaccio, marinaio
Giacomo Braschi, cannoniere
Renato Bravi, elettricista
Pompeo Brocca, elettricista
Lorenzo Bruno, marinaio
Michele Bruno, marinaio, 22 anni, da Menfi
Giovanni Battista Bruzzone, fuochista
Enrico Bucci, marinaio
Guglielmo Bufaino, marinaio
Raffaele Bufis, trombettiere
Giovanni Bulgaron, operaio
Biagio Buonatesta, cannoniere
Giovanni Buongiorno, marinaio
Gennaro Buono, capo cannoniere
Guglielmo Buonviso, furiere
Mario Burrini, cannoniere
Giuseppe Busatto, secondo capo specialista direzione del tiro
Giovanni Buttaro, marinaio
Efisio Cabras, cannoniere, 23 anni, da Serramanna
Vittorio Caccia, cannoniere
Antonio Caccioppoli, cannoniere
Luigi Cadamuro, specialista direzione del tiro
Carlo Caffagni, secondo capo specialista direzione del tiro
Luigi Cagliari, sottocapo cannoniere
Luigi Cagnoli, marinaio
Alberto Calabrese, marinaio
Emanuele Calabrese, radiotelegrafista
Giuseppe Calabrò, cannoniere
Leonardo Caldarulo, sottocapo cannoniere
Giulio Calì, fuochista
Vito Calisi, cannoniere
Alfredo Calò, cannoniere
Aldo Campo, fuochista
Alberto Campo, meccanico
Nicola Camporeale, fuochista
Antonio Candela, cannoniere
Egidio Caneva, furiere
Lido Cantini, elettricista
Carlo Cantoni, cannoniere
Aristide Capobianco, cannoniere
Sansone Capogrosso, cannoniere
Angelo Capone, cannoniere
Manfredo Capozza, sottotenente di vascello
Sergio Cappanera, fuochista
Mario Capuana, guardiamarina
Ciro Caputo, cannoniere
Enrico Carabelli, aspirante guardiamarina
Umberto Carabini, tenente pilota della Regia Aeronautica
Giuseppe Caramonte, cannoniere
Casimiro Carciola, marinaio
Domenico Cardinale, sottocapo cannoniere
Pietro Caretto, cannoniere
Carlo Carli, aspirante guardiamarina
Calogero Carollo, sottocapo torpediniere
Salvatore Caruso, sergente cannoniere
Giuseppe Caruso, secondo capo nocchiere
Michele Casario, fuochista
Carlo Casazza, sottocapo furiere
Francesco Casoli, sottocapo meccanico
Francesco Cassadonte, sottocapo cannoniere
Antonino Cassano, marinaio, 22 anni, da Licata
Antonio Castore, cannoniere
Aurelio Catalano, specialista direzione del tiro
Domenico Catalfamo, cannoniere
Melchiorre Catalfamo, fuochista
Giovanni Catanzaro, elettricista
Giuseppe Cau, fuochista
Giovanni Cavallaro, fuochista
Gentile Cazzadore, marinaio
Salvatore Celio, marinaio
Mattia Cellari, marinaio
Salvatore Cerrato, marinaio
Giuseppe Cesarano, cannoniere
Giuseppe Cesario, marinaio
Canzio Cezzoli, marinaio
Antonio Cherchi, specialista direzione del tiro
Odille Chiaregatti, marinaio
Vincenzo Chiavicchi, carpentiere
Aldo Chichisiola, marinaio
Vincenzo Chirco, furiere
Francesco Chirico, marinaio, da Futani (MBVM)
Oris Ciampelli, cannoniere
Vito Ciardo, sottocapo carpentiere
Luigi Cimino, sottocapo elettricista
Pietro Cioffredo, fuochista
Angelo Cirillo, fuochista
Oberdan Ciroldi, sottocapo meccanico
Romolo Clerici, elettricista
Vittorio Colaiori, infermiere
Vetullio Colandrea, cannoniere
Angelo Colombatto, fuochista
Gaspare Como, fuochista, 22 anni, da Castellammare di Stabia
Andrea Concas, capo elettricista
Francesco Conte, marinaio
Natale Conti, marinaio
Gennaro Contiello, specialista direzione del tiro
Carlo Cordaro, carpentiere
Giovanni Cordina, marinaio
Cosimo Corigliano, cannoniere
Attilio Corò, cannoniere
Carmelo Corradini, cannoniere
Domenico Correale, secondo capo cannoniere
Carlo Cortese, cannoniere
Giuseppe Cosmini, cannoniere
Nicolò Costa, marinaio
Antonio Costa, cannoniere
Armando Costantini, marinaio
Ciro Costantino, cannoniere
Raffaele Cozzolino, marinaio
Andrea Cozzolino, marinaio
Giovanni Cristaudo, cannoniere
Michele Cropano, fuochista
Antonio Crupi, capo radiotelegrafista
Antonio Cucinotta, sottocapo segnalatore
Benedetto Cuda, fuochista
Antonio Cufaro, cannoniere
Pietro Cuffaro, sottocapo cannoniere, 24 anni, da Siculiana
Nicola Curion, capo meccanico
Giuseppe Dal Piolugo, specialista direzione del tiro
Giuseppe Dalla Savina, cannoniere
Elio Danieli, trombettiere
Amedeo Danovaro, cannoniere
Gastone Danto, secondo capo cannoniere
Matteo Dapinguente, marinaio
Bruno Darlante, fuochista
Angelo D’Arrigo, sottocapo segnalatore
Bernardo De Alessandri, operaio
Amalio De Biasio, secondo capo cannoniere
Luca De Gennaro, marinaio, 21 anni, da Molfetta
Natalino De Gregorio, marinaio
Costantino De Luca, trombettiere
Pietro De Luca, sottocapo specialista direzione del tiro
Oscar De Mela, fuochista
Giuseppe De Meocroce, capo cannoniere
Domenico De Mola, fuochista
Gaetano De Pasquale, marinaio
Salvatore De Priamo, marinaio
Aldo De Prosperis, motorista navale
Antonio De Santanna, marinaio
Emilio De Scalzi, marinaio
Luigi De Vivo, furiere
Gianfranco Del Guerra, tenente di vascello
Vincenzo Del Mastro, cannoniere
Ernesto Delfino, fuochista
Giuseppe Della Gassa, sottocapo cannoniere
Strano Della Ragione, sottocapo cannoniere
Tommaso Dell’Arso, carpentiere
Mario Demicheroux, aspirante guardiamarina
Mario D’Esposito, marinaio
Giuseppe Devito, marinaio
Pietro Dezza, fuochista
Giuseppe Dezzani, cannoniere
Giuseppe Di Bella, marinaio
Giovanni Di Giovanni, marinaio
Nicola Di Leo, marinaio
Gerardo Di Lillo, sottocapo meccanico
Filippo Di Mauro, specialista direzione del tiro
Angelo Di Pietro, cannoniere
Aldo Di Prima, radiotelegrafista
Gennaro Di Prisco, specialista direzione del tiro
Salvatore Di Roberto, marinaio
Luigi Di Salvatore, nocchiere
Andrea Di Savino, sergente meccanico
Simone Di Trapani, sottocapo cannoniere
Elio Diamanti, elettricista
Luciano Doffini, fuochista
Vincenzo D’Onofrio, meccanico, 20 anni, da Paola
Giuseppe D’Orazio, marinaio
Giovanni D’Oriano, marinaio
Giovanni Dosi, fuochista
Armando Drusiani, sergente cannoniere
Salvatore D’Urso, marinaio
Mario Esposito, cannoniere
Sansone Filippo Esposito, capo cannoniere
Dino Fabiani, secondo capo meccanico
Antonio Fabris, fuochista
Giuseppe Faia, cannoniere
Rinaldo Faltani, fuochista
Tullio Fani, cannoniere
Gabriele Farace, fuochista
Nicolò Faraci, cannoniere
Mario Faraone, specialista direzione del tiro
Luigi Farinelli, marinaio
Enzo Fazioni, marinaio
Domenico Fede, marinaio
Felice Federighi, cannoniere
Osvaldo Ferrara, elettricista
Giuseppe Ferrara, cannoniere
Alberto Ferrari, sottocapo furiere
Fortunato Ferraro, secondo capo radiotelegrafista
Giuseppe Ferraro, fuochista
Vincenzo Ferrato, sottocapo cannoniere
Paolo Ferrati, sottocapo meccanico
Silvio Ferrero, elettricista
Gaspare Ferrerò, fuochista
Pietro Ferrigno, marinaio
Giovanni Ferro, fuochista
Onofrio Ferro, sottocapo cannoniere
Umberto Ferro, infermiere
Carmine Festa, marinaio
Antonino Filocamo, furiere
Sebastiano Finocchiaro, fuochista
Luigi Fiorani, motorista navale
Fioravante Fiorenza, sottocapo radiotelegrafista
Carlo Fiori, marinaio
Gaetano Fiusco, sergente infermiere
Marino Flamini, furiere
Arnaldo Foccoli, cannoniere
Marco Formiglio, segnalatore
Pietro Fornesi (o Fornesi), fuochista, 21 anni, da Fornaci di Barga
Luigi Forno, marinaio
Alessandro Forte, cannoniere
Giovanni Forzutti, marinaio
Giuseppe Framino, sottocapo meccanico
Fortunato Franceschi, nocchiere
Beniamino Franchini, marinaio
Giuseppe Franzetti, elettricista
Antonio Franzini, fuochista
Giuseppe Frattari, fuochista
Antonio Freni, sottocapo meccanico
Salvatore Frigerio, elettricista
Francesco Fuda, sergente cannoniere
Vincenzo Gagliano, sottocapo cannoniere
Giovanni Gagliardi, specialista direzione del tiro
Giuseppe Galanti, marinaio
Trio Galazzo, fuochista
Pietro Galbiati, elettricista
Galileo Galindo, cannoniere
Rocco Gallione, sottocapo carpentiere
Giuseppe Gallo, marinaio
Gioacchino Gallo, fuochista
Armando Galvano, marinaio
Ezio Gambini, fuochista
Renzo Gambogi, fuochista
Vincenzo Garganese, capo cannoniere
Bruno Garro, marinaio
Remo Gatto, fuochista
Giuseppe Gelao, fuochista
Remo Gennari, secondo capo
Armando Gherardi, marinaio
Andrea Giacalone, allievo
Isidoro Giacalone, sottocapo cannoniere
Ettore Giaccari, capo meccanico
Attilio Giacobbe, sottocapo specialista direzione del tiro
Salvatore Giaimo, specialista direzione del tiro
Angelo Giannatempo, marinaio
Emilio Gianni, fuochista
Francesco Giannoni, cannoniere
Sebastiano Giordano, marinaio
Vincenzo Giordano, fuochista
Giorgio Giorgini, sottocapo meccanico
Giorgio Giorgis, capitano di vascello (comandante), 43 anni, da Roma (MOVM)
Giovanni Girlando, fuochista
Francesco Giudetti, fuochista
Enrico Gorsici, elettricista
Giovanni Gramolini, fuochista
Pietro Gravinese, marinaio
Angelo Graziano, marinaio
Giovanni Greborio, cannoniere
Francesco Grechi, cannoniere
Alfredo Grechi, cannoniere
Alessandro Griffa, sottotenente commissario
Luigi Grimaldi, fuochista
Angelo Grondona, fuochista
Ernesto Groppo, secondo capo elettricista
Vitale Grottola, cannoniere
Vincenzo Guarrera, capo meccanico
Lionello Gubbioni, sottocapo cannoniere
Battista Guerrini, sottocapo meccanico
Giorgio Guglielmi, marinaio
Giuseppe Gulì, cannoniere
Giuseppe Gusmini, furiere
Francesco Iacone, specialista direzione del tiro
Gaetano Iacono, trombettiere
Giuseppe Ignona, marinaio
Biagio Illiano, cannoniere
Michele Impagliazzo, marinaio, 20 anni, da Forio
Domenico Improdo, cannoniere
Angelo Indelicato, marinaio
Francesco Infante, capo furiere di terza classe, da Rose
Giovanni Ingrassia, cannoniere
Giovanni Battista Inselvini, cannoniere
Gennaro Intermoia, fuochista
Carmelo Intressalvi, cannoniere
Agostino Iozzi, fuochista
Pietro Isernia, motorista navale
Giuseppe Izzo, cannoniere
Mario Krecic, radiotelegrafista
Rosario La Bella, fuochista
Gennaro La Forgia, motorista navale, da Molfetta
Natale La Fortezza, marinaio
Federico La Sala, marinaio
Antonio La Spada, marinaio
Carlo La Torre, fuochista, da Tropea
Giuseppe Labate, sottocapo specialista direzione del tiro, 23 anni, da Reggio Calabria
Sergio Lagrasta, cannoniere
Mario Lampis, cannoniere
Emilio Lancini, cannoniere
Enrico Landi, capo cannoniere
Michele Langella, cannoniere
Giovanni Lapi, sottocapo meccanico
Matteo Lapiana, fuochista
Leopoldo Larizza, marinaio
Gaetano Latilla, fuochista
Andrea Lattanzi, motorista navale
Spartaco Lazzari, cannoniere
Raffaele Lella, sergente
Salvatore Leone, fuochista
Giovanni Leoni, elettricista
Luigi Leonzio, cannoniere
Nicola Lia, marinaio
Francesco Liardo, secondo capo furiere
Salvatore Liberti, cannoniere
Nicola Liberti, elettricista
Vincenzo Licari, fuochista
Giuseppe Liguori, sottotenente del Genio Navale Direzione Macchine
Giovanni Lippolis, cannoniere
Antonio Lo Bue, marinaio, 22 anni, da Castrofilippo
Pietro Lo Forte, elettricista
Silvio Loda, fuochista
Carlo Lodante, furiere
Leonardo Loffredo, cannoniere
Ferdinando Lofrano, cannoniere
Salvatore Longo, fuochista
Antonio Losito, secondo capo meccanico
Roberto Lulli, specialista direzione del tiro
Giuseppe Lumini, sottocapo
Giuseppe Maccarini, specialista direzione del tiro
Giuseppe Macrì, maggiore medico
Leonardo Maggi, primo aviere (Regia Aeronautica)
Romano Maggi, sottocapo
Alvise Maggiani, cannoniere
Oreste Maggiulli, carpentiere
Mario Luigi Magni, cannoniere
Egidio Magurno, marinaio
Bruno Mahorcich, marinaio
Salvatore Maiorana, marinaio
Antonio Malesi, marinaio
Mario Malgari, sergente specialista direzione del tiro
Italo Mameli, cannoniere
Paolo Manca, cannoniere
Michele Mandoj, sottocapo
Giovanni Manfreda, capo meccanico
Duilio Manganelli, fuochista
Lorenzo Mangoni, capitano del Genio Navale
Antonio Manna, fuochista
Pietro Manzella, marinaio, 22 anni, da Trappeto
Narciso Manzon, cannoniere
Alessandro Maranzano, furiere
Cipriano Marcenaro, marinaio
Gaetano Marchese, marinaio
Ottavio Marchesini, cannoniere
Amedeo Marchi, operaio
Calogero Marchica, marinaio, 21 anni, da Porto Empedocle
Emidio Marchigiani, marinaio
Bruno Marconato, sottocapo cannoniere
Nicola Marcone, secondo capo
Pietro Marello, marinaio
Giovanni Battista Maria, cannoniere
Pasquale Marini, fuochista, 21 anni, da Palazzolo sull’Oglio
Silvio Marino, marinaio
Antonio Marone, secondo capo specialista direzione del tiro
Fiore Marra, cannoniere
Amerigo Marsari, fuochista
Cosimo Marsilio, fuochista
Marino Martinelli, marinaio
Urbano Martinelli, sottocapo meccanico
Alberto Martini, specialista direzione del tiro
Gioacchino Martorana, sottocapo segnalatore
Vito Marzigliano, marinaio
Emilio Marzocchi, sottocapo elettricista
Luigi Masala, cannoniere
Domenico Masciana, sottocapo cannoniere
Virgilio Massa, marinaio
Raffaele Massaro, cannoniere
Leonardo Mastropiero, marinaio, 21 anni, da Molfetta
Carlo Mattioli, elettricista
Luigi Maurizi, cannoniere
Giulio Mazza, secondo capo meccanico
Gaetano Mazzagatti, cannoniere
Giovanni Mazzarella, capo cannoniere
Giovanni Mazzella, specialista direzione del tiro
Antonio Mazzeo, fuochista
Trento Mazzocchi, marinaio
Domenico Mazzotti, fuochista
Angelo Mecca, primo aviere (Regia Aeronautica)
Pietro Megli, furiere
Antonio Mela, cannoniere
Luigi Mendolia, marinaio
Mario Menegon, cannoniere
Bruno Menon, sottocapo meccanico
Adelmo Merli, cannoniere
Giobatta Merloni, fuochista
Felice Mezzoli, marinaio
Augusto Migliacca, cannoniere
Ulisse Mignani, meccanico
Giovanni Milia, fuochista
Paolo Mineo, nocchiere
Nicola Minervini, nocchiere, 22 anni, da Molfetta
Andrea Miniussi, fuochista
Antonio Minto, fuochista
Emilio Miraglia, marinaio
Giuseppe Missan, fuochista
Vittorio Mollettieri, nocchiere
Pasquale Mondo, palombaro
Mario Monfrini, fuochista
Armando Burei Mont, marinaio
Emilio Montanini, secondo capo cannoniere
Carlo Montavoci, specialista direzione del tiro
Nicola Montecucco, fuochista
Esperio Monti, cannoniere
Pasquale Montuori, meccanico
Bruno Monu, carpentiere
Antonio Morbidini, elettricista
Biagio Morciano, marinaio
Elio Moretti, sottocapo meccanico
Mauro Mori, secondo capo cannoniere
Francesco Mosca, specialista direzione del tiro
Guido Moscazunca, sergente cannoniere
Eraldo Monafò, segnalatore
Mario Mundo, cannoniere
Augusto Munzi, elettricista
Ubaldo Muoio, sottotenente di vascello
Vito Muolo, capo nocchiere
Giovanni Umberto Musap, fuochista
Edoardo Musicò, marinaio
Lorenzo Muzio, marinaio
Nicolò Naddi, marinaio
Francesco Naracchi, segnalatore
Romolo Natale, capo cannoniere
Vitaliano Negrini, secondo capo cannoniere
Renato Niccolai, marinaio
Aldo Odenino, fuochista
Samuele Olgiati, marinaio
Felice Oliva, tenente del Genio Navale Direzione Macchine
Franco Orlandi, elettricista
Francesco Ormoso, marinaio
Giuseppe Orpello, cannoniere
Mario Orsolini, fuochista
Pietro Pacciani, fuochista
Ignazio Pace, elettricista
Antonio Pagano, cannoniere
Enrico Pagliani, marinaio
Giorgio Pagniello, aspirante guardiamarina
Angelo Pagnoncelli, fuochista
Francesco Pala, sottocapo cannoniere
Vito Palazzolo, marinaio
Giuseppe Palazzolo, cannoniere
Orazio Palmitessa, marinaio
Anatolle Pampaloni, sottotenente di vascello
Giovanni Panico, elettricista
Antonio Pantani, secondo capo carpentiere
Amadio Paoli, cannoniere
Francesco Paparella, sottocapo meccanico
Averardo Papini, specialista direzione del tiro
Pietro Papucci, marinaio
Antonio Paradiso, marinaio
Bruno Pardini, marinaio
Fausto Parisotto, tenente del Corpo Reali Equipaggi Marittimi
Giulio Parolio, cannoniere
Pietro Parrinello, cannoniere
Gastone Pasqui, sergente cannoniere
Dante Pasquinucci, fuochista
Raimondo Passaglia, cannoniere
Simone Pastorino, cannoniere
Vittorio Patone, marinaio
Mario Patronelli, cannoniere
Aramis Pavoletti, marinaio
Giuseppe Pavone, cannoniere
Aldo Pavoni, cannoniere
Giovanni Pecoraro, marinaio
Giuseppe Pedemonte, marinaio
Ottavio Pellegrini, guardiamarina
Salvatore Pellegrino, cannoniere
Dino Pelucca, secondo capo meccanico
Armando Peluso, sergente cannoniere
Francesco Penco, fuochista, 21 anni, da Fiume
Primo Penzo, marinaio
Enrico Perolfi, fuochista
Virgilio Perotti, cannoniere
Gerardo Persich, marinaio, 20 anni, da Fiume
Pierluigi Perticari, sottocapo nocchiere
Renato Pesce, cannoniere
Domenico Petrera, secondo capo meccanico
Alfredo Petrone, marinaio
Raffaele Petruni, radiotelegrafista
Gennaro Petta, capo meccanico
Antonio Picarella, sottocapo cannoniere
Domenico Piccardo, cannoniere
Cesare Pieragnoli, torpediniere
Carlo Pietra, fuochista
Carmelo Pinto, secondo capo meccanico
Giulio Pisano (o Pisani), cannoniere, 22 anni, da Serramanna
Aventino Pisci, cannoniere
Giuseppe Piscini, guardiamarina
Guido Pisicchio, fuochista
Alfredo Pittaluga, cannoniere
Cesare Platano, fuochista
Ferdinando Po, aspirante guardiamarina
Azeglio Polezzi, nocchiere
Battista Poli, cannoniere
Lorenzo Pollarolo, sottocapo elettricista
Enrico Pommella, capo elettricista
Domenico Pone, cannoniere
Achille Ponte, cannoniere
Agostino Pontoriero, cannoniere, 23 anni, da Ricadi
Luigi Ponzone, secondo capo cannoniere
Gesuino Porru, specialista direzione del tiro
Vincenzo Porta, sottocapo meccanico
Carlo Praselli, marinaio
Sergio Preci, sottocapo meccanico
Sergio Prezioso, cannoniere, 21 anni, da Molfetta
Diego Principe, meccanico
Pietro Privato, marinaio
Antonio Privitera, fuochista
Giuseppe Privitera, elettricista
Attilio Proietti, sottocapo carpentiere
Domenico Proietti, elettricista
Carlo Prosperi, sottocapo segnalatore
Dino Prosperini, marinaio
Eliseo Provenzali, fuochista
Luigi Pugliese, marinaio
Vincenzo Puglisi, cannoniere
Carlo Pulli, capo elettricista
Loris Putti, secondo capo nocchiere
Amilcare Quarello, elettricista
Lodovico Quinz, sergente cannoniere
Fiore Rabacchino, cannoniere
Amedeo Rabuffetti, cannoniere
Olivo Rachella (o Racchiella), fuochista, 22 anni, da Fiume
Antonino Raguni, cannoniere
Clemente Raimondi, marinaio
Guido Raimondo, fuochista
Luigi Ramacciani, cannoniere
Ettore Razzetta, fuochista
Francesco Reccagno, fuochista
Francesco Refrancore, elettricista
Luigi Renica, elettricista
Giuseppe Renzo, sottocapo cannoniere
Primo Ricca, marinaio
Ippazio Ricchiuto, marinaio
Giulio Ricci, secondo capo meccanico
Renzo Rinaldi, secondo capo elettricista, 28 anni, da Porto Santo Stefano
Salvatore Risolino, marinaio
Luigi Ritrovati, marinaio
Eugenio Riviello, secondo capo elettricista
Luigino Rizza, sottocapo radiotelegrafista
Romano Roman, capo cannoniere
Vincenzo Romano, cannoniere
Gaspare Romano, tenente del Genio Navale
Michele Romita, tenente del Corpo Reali Equipaggi Marittimi
Canio Rosa, secondo capo meccanico
Vittorio Rosa, specialista direzione del tiro
Giuseppe Rosas, aspirante guardiamarina
Silvino Rosiglioni, fuochista
Carletto Rossi, cannoniere
Giovanni Rossi, marinaio
Ruggero Rossi, fuochista
Venanzio Rossi, secondo capo cannoniere
Claudio Rossini, furiere
Antonio Rotella, fuochista
Vladimiro Rovina, sottocapo meccanico
Sebastiano Ruberà, sottocapo cannoniere
Giuseppe Ruffi, marinaio
Rosario Ruggeri, cannoniere
Vittorio Russo, specialista direzione del tiro
Egidio Russo, marinaio
Luigi Ruzza, radiotelegrafista
Virgilio Sabbati, elettricista
Domenico Sabbatti, cannoniere
Eligio Salussoglia, fuochista
Osvaldo Salvadori, fuochista
Renato Salvarezza, furiere
Oreste Salvatori, sottocapo carpentiere
Renato Salvetti, cannoniere
Vincenzo Sammarco, cannoniere
Carmine Sangiacomo, elettricista
Alberto Sani, sottotenente di vascello
Nicolò Santamaria, marinaio
Luigi Sant’Elmone, fuochista
Guido Santilli, fuochista
Renato Santin, marinaio
Angelo Santinato, marinaio
Antonio Santopoli, sottocapo cannoniere
Giovanni Sardo, sottocapo cannoniere
Umberto Sassettoli, fuochista
Francesco Satirio, secondo capo meccanico
Pietro Savariano, fuochista
Salvatore Savastano, capo cannoniere
Giovanni Scalone, cannoniere
Giovanni Scantamburlo, marinaio
Tullio Scarpa, fuochista
Angelo Schena, cannoniere
Vincenzo Schifano, marinaio
Antonio Scorza, marinaio
Giuseppe Scotognella, marinaio
Mario Scotti, aviere (Regia Aeronautica)
Rosario Scuderi, cannoniere
Angelo Sabastiani, fuochista
Antonio Secci, elettricista, 23 anni, da Serramanna
Franco Segrada, motorista navale
Augusto Selva, specialista direzione del tiro
Antonio Semeraro, fuochista
Dino Sergiapietri, fuochista
Giuseppe Serra, marinaio
Umberto Serrais, cannoniere
Guido Servillo, cannoniere
Salvatore Sieli, sottocapo specialista direzione del tiro
Giuseppe Silvano, secondo capo cannoniere
Pietro Silvestrini, marinaio
Nicola Simone, D.T.
Armando Simonetti, fuochista
Giovanni Simonini, cannoniere
Abramo Siri, marinaio
Biagio Soave, capo cannoniere
Francesco Paolo Soprano, fuochista
Mario Sorace, capo cannoniere
Sergio Sorano, fuochista
Attilio Sorato, fuochista
Armando Sorgi, cannoniere
Candido Sosterò, tenente di vascello
Michele Soviero, capo meccanico
Davide Sovran, sottotenente di vascello
Antonio Spagnoletti, marinaio
Cosimo Spagnoletti, fuochista
Marcello Spagnul, sottocapo torpediniere
Antonio Sparro, cannoniere
Modesto Spedaliere, cannoniere
Luigi Sperzagni, marinaio
Rosario Spoto, marinaio
Dante Squassoni, marinaio
Pompeo Squillante, sottocapo radiotelegrafista
Orlando Stabile, cannoniere
Marino Stacchiola, sottocapo infermiere
Vincenzo Staffilano, fuochista
Emilio Stagnaro, fuochista
Salvatore Stefanelli, cannoniere
Pietro Stellacci, furiere
Luigi Strada, sottocapo cannoniere
Salvatore Susi, sottocapo meccanico
Angelo Tabaglio, marinaio
Italo Taddei, sottocapo cannoniere
Giuseppe Tanzarella, sottocapo meccanico
Vincenzo Tardia, marinaio
Egidio Taverna, specialista direzione del tiro
Antonio Terdich, marinaio
Augusto Timperi, cannoniere
Bruno Tione, secondo capo cannoniere
Aristide Tiozzo, sottocapo nocchiere
Antonino Todaro, sottocapo specialista direzione del tiro
Tullio Tognetti, sergente cannoniere
Paolo Tomasi, marinaio
Gaspare Tombini, nocchiere
Nunzio Tonani, fuochista
Sergio Torchio, specialista direzione del tiro
Giuseppe Tornatore, cannoniere
Stefano Torre, cannoniere
Vincenzo Torre, marinaio
Umberto Torregiani, cannoniere
Cesare Torri, cannoniere
Rinaldo Tosato, meccanico
Giuseppe Toscano, cannoniere
Umberto Tosin, carpentiere
Augusto Tosoncin, cannoniere
Franco Travagliati, specialista direzione del tiro
Francesco Tria, capitano del Genio Navale
Guglielmo Truffelli, elettricista
Ernesto Trulio, tenente del Corpo Reali Equipaggi Marittimi
Pietro Tucci, fuochista
Angelo Tundo, elettricista
Valentino Turicchia, sottocapo cannoniere
Mario Valentini, sottocapo
Domenico Vallone, marinaio
Italo Valsecchi, fuochista
Franco Veghini, sottocapo
Natale Velletri, fuochista
Concetto Venenzi, sottocapo
Antonio Ventaloro, specialista direzione del tiro
Mario Ventura, marinaio
Francesco Verzera, sottocapo
Gino Vespasiani, fuochista
Giobatta Vetri, marinaio
Arturo Vicinanza, cannoniere
Gennaro Vicinnanza, fuochista
Cesare Vidda, secondo capo
Walter Viero, elettricista
Mario Viganò, fuochista
Antonio Vigilante, capo
Giuseppe Vigna, secondo capo
Gilberto Villa, sergente maggiore (Regia Aeronautica)
Carlo Villa, specialista direzione del tiro
Giuseppe Vinciguerra, marinaio
Angelo Vincoli, fuochista
Ermanno Vio, sottotenente di vascello
Santo Virgilio, specialista direzione del tiro
Angelo Viscovi, cannoniere
Natalino Vittorini, cannoniere
Lucrezio Viviani, capo
Giuseppe Voltatorni, marinaio
Antonio Vucovich, secondo capo
Angelo Zamboni, marinaio
Paolo Zamboni, cannoniere
Giovanni Zamparti, marinaio
Mario Zanetti, marinaio
Rocco Zavaglia, meccanico
Francesco Zavaldi, marinaio
Guerrino Zavatti, marinaio
Antonio Zedda, fuochista
Carso Zivieri, sergente
Antonio Zocchi, elettricista
Mario Zuffinetti, fuochista
Carlo Zuppini, cannoniere

(1) NOTA: L’elenco (preso da www.regiamarina.net) potrebbe contenere degli errori, per i quali ci si scusa e si ringrazia chi vorrà segnalarli.


Sopra, il marinaio fuochista Italo Valsecchi, 22 anni, da Romano di Lombardia, disperso sul Fiume; sotto, in una foto di gruppo a bordo della nave (da “Soldati, storie di combattenti romanesi tra Ottocento e Novecento”, di Rinaldo Monella ed Anna Maria Calegari)


Lapide in memoria del fuochista Sebastiano Accardo nel cimitero di Trapani (g.c. Giuseppe Romano)


Il Fiume nel 1931 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di vascello Giorgio Giorgis, nato a Roma il 23 aprile 1897:

“Comandante di incrociatore, durante lunghi e faticosi mesi di guerra, aveva dato alla sua nave e all'equipaggio, la pronta intelligenza, la feconda attività, l'elevata dirittura spirituale che lo distinguevano. Attaccato nella notte sul 28 marzo da una squadra nemica comprendente più navi da battaglia, accettava la lotta con fiera dedizione.
Venuto a mancare ogni mezzo per continuare a combattere, ridotta la sua nave un groviglio di materia e di fuoco, ferito egli stesso al capo e sanguinante, scendeva fra i marinai per trasfondere in loro con voce chiara, con parola calda la serenità e la forza del suo cuore.
Oltre ogni possibilità si prodigava nel tentativo di domare gli allagamenti, ed estinguere gli incendi. Perduta ogni speranza di salvezza, riuniva a poppa la sua gente per lanciare in estrema comunione di spiriti il saluto al Re.
E i marinai scesi ordinatamente nelle zattere, videro il loro comandante che diritto, forte, tranquillo, col sangue che gli colava lungo il viso, risaliva verso prora in mezzo al bagliore degli incendi.
Disparve con la nave che tanto aveva amato.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941”



Il Fiume e la corazzata Conte di Cavour negli anni Trenta (da “La Marina da guerra” di Ubaldo degli Uberti, Edizioni Salani, 1940, via Nedo B. Gonzales e www.naviearmatori.net)

Resoconto britannico sull’affondamento del Fiume, basato sugli interrogatori dei naufraghi recuperati (da “L’operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan” di Francesco Mattesini, USMM, Roma 1998):

“Il Fiume era comandato dal C.V. Giorgio Giorgis, che non fu salvato da nessuna nave inglese.
I movimenti del Fiume sono già stati narrati nel precedente paragrafo ad iniziare dall’attacco notturno.
Intorno alle ore 22:00 [il Fiume] procedeva di poppa allo Zara verso il salvataggio del Pola danneggiato.
L’azione nemica non era attesa e fu abbassata la guardia pur rimanendo in riposo presso i propri posti di combattimento.
Al Fiume fu ordinato di ridurre la velocità quando si pensò di essere nelle vicinanze del Pola.
Intorno alle ore 22:15 fu illuminato da un proiettore ed istantaneamente colpito da un salva di grosso calibro.
La torre X [la n. 3] fu “spazzata” via dalla nave ed il Fiume s’inclinò notevolmente sul lato dritto.
L’equipaggio andò in panico ed abbandonò la nave più presto possibile, nonostante che il Comandante dalla plancia provasse a controllare il panico.
Nonostante gli ordini del Comandante di rimanere ai propri posti di combattimento, fu subito chiaro che il Fiume non sarebbe rimasto a galla per molto; fu riferito che affondò in 15 minuti, bruciando furiosamente.
Molti dei sopravvissuti del Fiume furono recuperati il mattino successivo in condizioni pietose, e pochi furono coloro che erano vivi; ad Alessandria [di Egitto] furono sbarcati [del Fiume] 7 ufficiali e 53 marinai su un totale di circa 1.000 persone.
Alcuni prigionieri affermano che ci fu una grande esplosione interna al Fiume prima che affondasse, che si ritiene dovuta all’esplosione dei depositi di munizioni.
I sopravvissuti confermano l’apparire al mattino di un aereo da ricognizione ed anche l’ammaraggio di un idrovolante, che segnalò qualcosa ai sopravvissuti.
E’ stato detto che circa 600 uomini furono lasciati in acqua quando l’H.M.S. Defender recuperò i sopravvissuti del Fiume, ma non è dato di sapere se questi erano sopravvissuti del Fiume o dello Zara, o di entrambi.
Fu anche visto da parte dei sopravvissuti del Fiume un aereo tedesco mentre erano in corso le operazioni di salvataggio, ma i prigionieri non pensano che avesse alcuna intenzione ostile.
Il Fiume non ebbe tempo di rispondere al fuoco delle corazzate; un marinaio, che era in posizione di vedere lo sviluppo della battaglia, affermò che vide quello che considerò un caccia britannico a poppa del Fiume; egli osservò un’altra nave che faceva segnalazioni e più tardi vide un proiettore che illuminava il Fiume per rilevamento Rosso 110°; questo fu seguito da una bombardata a breve distanza per un rilevamento Rosso 90°.
Questo prigioniero afferma che fu uno degli ultimi a lasciare la nave e che il fuoco fu riaperto contro il Fiume quando era ormai affondato.
Il Comandante del Fiume fu visto una volta sul cassero prima che la nave affondasse.
Mentre erano in acqua, poco dopo l’affondamento del Fiume, i sopravvissuti dicono di aver visto due altre navi in fiamme, una delle quali era verso Sud; furono udite esplosioni verso Nord.
E’ stato riferito che il Comandante del caccia Oriani, C.F. Vittorio Chinigo, era il Comandante in 2° del Fiume nel 1939.
Un altro prigioniero afferma che ritenesse il Pola distante non più di ¾ di miglio quando il Fiume fu colpito.
Nessun altro incrociatore fu visto dai superstiti del Fiume durante l’azione notturna, fatta eccezione per lo Zara ed il Pola.
Ad un marinaio addetto ai depositi munizioni poppiero del Fiume fu chiesto di descrivere la propria attività quando il Fiume fu attaccato.
Egli protestò [complained] di essere stato rinchiuso [locked] nel deposito munizioni, ma in un qualche modo ne uscì; quando giunse in coperta vide che la nave era sbandata fortemente sul lato dritto e che la torre n. 4 [da 230 mm] ere divelta dalla nave.
Rapidamente s’impadronì di due giubbotti salvagente e saltò fuori bordo, dicendo a se stesso “Mamma mia non so nuotare” [I cannot swim].
In seguito venne su [tornò in superficie] e con sua sorpresa vide che galleggiava e si adoperò per raggiungere uno zatterone Carley.
Gli equipaggi delle navi italiane non sono dotati di giubbotti salvagente personali, ma al momento dell’abbandono nave corrono presso il più vicino deposito di giubbotti e ne prendono quanti più non possono.
Questi giubbotti salvagente sono di vari tipi di Kapok e sono ritenuti più pratici di quelli gonfiabili, non resistendo questi ultimi ai danni da schegge.”



Il Fiume nel 1931 (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)


Renzo Rinaldi e i ragazzidel Fiume
“Key to Victory – The Triumph of British Sea Power in World War II”, comprensivo della descrizione della battaglia di Capo Matapan