sabato 29 marzo 2014

Brenta


Il Brenta in Sudafrica nella seconda metà degli anni ’30 (John H. Marsh – Maritime Research Centre di Capetown, via Mauro Millefiorini e www.naviearmatori.net)  

Piroscafo da carico da 5400 tsl, 3319 tsn e 8550 tpl, lungo 118,85 metri e largo 16,44, pescaggio 9,75 metri, velocità 10,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino (con sede a Trieste), matricola 92 al Compartimento Marittimo di Trieste.

Breve e parziale cronologia

1917
Varato nei cantieri San Rocco di Muggia come Narenta per la Navigazione Libera Triestina, all’epoca ancora austroungarica. I lavori vengono ritardati dalla guerra ancora in corso, al termine della quale la Navigazione Libera Triestina diverrà una compagnia italiana.
1920
Completato come Brenta per la Navigazione Libera Triestina. Ha quattro gemelli: Laguna, Maiella, Cherca ed Isonzo.
19 maggio 1921
Il Brenta viene speronato dal piroscafo Tampa della Inter-Ocean Company, finito fuori controllo a seguito di un’avaria al timone, al largo di Chalmette Point (New Orleans). La collisione apre una falla nella prua del Brenta, che deve essere portato a posarsi su un basso fondale fangoso nei pressi del luogo dell’incidente.
1923-1925
Viene noleggiato dal Lloyd Triestino, per il quale viaggia con il nome di Brenta II. A seguito del ritorno al servizio per la NLT, nel 1925, la nave riassumerà il nome di Brenta.
27 dicembre 1926
Il Brenta viene sottoposto a sequestro giudiziario negli Stati Uniti a causa di una disputa legale tra la NLT e le compagnie statunitensi United States Steel Products Company, Vacuum Oil Company e Bunge North American Grain Corporation.
Partito da Valencia il 15 novembre 1926 con un carico di cipolle ed altro (pomodori, olio d’oliva) nella stiva numero 2 (oltre che negli interponti 1, 4, 5 e 6) e 900 tonnellate di carbone nella stiva numero 3, diretto a New York, il Brenta vi è infatti arrivato il 4 dicembre e si è scoperto che le cipolle, partite in buone condizioni, si sono deteriorate; le compagnie destinatarie accusano gli armatori e l’equipaggio di negligenza.
Risulterà poi, tuttavia, che il carico ha subito degli spostamenti, ma non a causa di errato stivaggio (è stato stivato correttamente), bensì del tempo particolarmente avverso incontrato, che ha anche prolungato il viaggio di quattro giorni rispetto al normale, oltre ad impedire di tenere continuamente aperti i portelloni per ventilare il carico. Il 20 novembre è scoppiato a bordo un incendio, causato da combustione spontanea del carbone nella stiva numero 3; le fiamme sono state prontamente domate, ma il carico di cipolle ha subito ulteriori danni.
Alla fine viene concluso che nessuno dei problemi sorti durante il viaggio, ed il danneggiamento del carico, sono dovuti a negligenza da parte dell’equipaggio od inadeguatezza della nave, che pertanto viene rilasciata.
14 ottobre 1927
Alle otto del mattino il Brenta, durante la navigazione verso la Columbia britannica, soccorre l’equipaggio della goletta statunitense Flowerdew nel Mar dei Caraibi, 200 miglia al largo di Savannah. I sei uomini dell’equipaggio della goletta, in lento affondamento a causa di vie d’acqua apertesi nello scafo, stanno tentando da tre giorni di tenere la loro nave a galla: quando avvistano il fumo del Brenta in lontananza, la Flowerdew è quasi completamente sommersa. L’equipaggio della goletta issa un segnale per chiedere aiuto, e la nave italiana risponde che sta dirigendosi a soccorrerli; i sei uomini abbandonano la Flowerdew, che successivamente affonda, su una scialuppa, e vengono issati a bordo del Brenta. Dato che quest’ultimo è diretto nella Columbia britannica, mentre l’equipaggio della Flowerdew vorrebbe essere sbarcato a Portland, si decide di trasbordarlo sulla prima nave diretta verso est che verrà incontrata: i naufraghi vengono così trasferiti in serata sul piroscafo Santa Veronica. Dopo il salvataggio, il Brenta annuncia anche l’accaduto via radio.
22 febbraio 1931
Porta da Napoli a Castellammare di Stabia, dove arriva alle 9.30, un centinaio di ospiti di riguardo invitati alla cerimonia del varo del veliero scuola Amerigo Vespucci.
1935
Il Brenta è in servizio sulla linea Adriatico-Africa Orientale.
1937
Con l’assorbimento della Navigazione Libera Triestina nel Lloyd Triestino, il Brenta passa nella flotta di quest’ultima compagnia.
Maggio 1940
Ad inizio del mese il Brenta viene sottoposto a temporaneo fermo per controllo da parte delle autorità alleate. Il risultato è che, per il ritardo causato dai controlli, gran parte del carico (orzo e grano) viene rovinato dagli insetti.

Massaua
Quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, il Brenta era tra la ventina di navi mercantili italiane che si trovavano nel porto eritreo di Massaua, sul Mar Rosso, nella colonia dell’Africa Orientale Italiana.
La fine, per queste navi bloccate fuori dal Mediterraneo e senza nessuna possibilità di recarsi altrove, era solo rimandata rispetto alle decine di mercantili italiani catturati od autoaffondati in tutto il mondo subito dopo la dichiarazione di guerra.
Come tutti gli altri mercantili rimasti in Eritrea, il Brenta passò i successivi dieci mesi fermo ed inattivo nel porto di Massaua, attendendo passivamente il susseguirsi degli eventi che alla fine, inevitabilmente, avrebbero portato alla caduta dell’Africa Orientale Italiana, circondata da colonie britanniche e del tutto priva di qualsiasi possibilità di rifornimento. Dopo l’iniziale avanzata del giugno 1940, le truppe italiane dovettero ripiegare sulla difensiva e poi arretrare sempre più: la Somalia cadde nel febbraio 1941, di lì a due mesi sarebbe toccato all’Eritrea.
La fine venne nell’aprile del 1941: ad inizio aprile era ormai evidente che nel giro di pochi giorni le forze britanniche avrebbero preso Massaua. Già da tempo era stata presa in esame la questione di cosa fare del naviglio italiano in Eritrea, nella quasi totalità concentrato nel porto di Massaua: tra fine febbraio e marzo furono fatte partire le poche navi che avevano scafi e macchine in buone condizioni, velocità non troppo bassa ed autonomia sufficiente a raggiungere porti amici o benevolmente neutrali in Francia (per i sommergibili) ed in Giappone (per le navi di superficie). Presero così il mare le motonavi India ed Himalaya, la nave coloniale Eritrea, i sommergibili Perla, Guglielmotti, Ferraris ed Archimede, il piroscafo Piave e gli incrociatori ausiliari RAMB I e RAMB II. L’India ed il Piave furono costretti a tornare indietro, il RAMB I fu affondato nell’Oceano Indiano, mentre le altre unità riuscirono a raggiungere le loro destinazioni.
Per tutte le altre navi, che non potevano lasciare l’Eritrea, l’unica sorte possibile era la distruzione: i cacciatorpediniere rimasti partirono per un’ultima missione suicida contro Porto Sudan, mentre per il naviglio mercantile ed ausiliario, parte a Massaua e parte nelle poco distanti Isole Dahlak, venne deciso l’autoaffondamento in massa, con il duplice scopo di non far cadere intatte le navi in mano nemica e di bloccare e rendere inutilizzabile per lungo tempo il porto di Massaua. Il piano predisposto dal comandante superiore navale dell’A.O.I., contrammiraglio Mario Bonetti, prevedeva che l’imboccatura del porto militare venisse ostruita da una fila di cinque navi (i mercantili Moncalieri, XXIII Marzo, Oliva ed Impero e la torpediniera Giovanni Acerbi) oltre a due bacini galleggianti da affondare più internamente; altre quattro navi (i mercantili Crefeld, Ostia, Gera ed Adua) ed un pontone gru si sarebbero autoaffondate in ordine sparso lungo il più ristretto accesso al porto commerciale, mentre l’imboccatura del porto meridionale, quella più grande, sarebbe stata bloccata da una fila di sette mercantili (Alberto Treves, Niobe, Vesuvio, Frauenfels, Brenta, Colombo e Liebenfels).
Fu questa la fine del Brenta: il 4 aprile 1941 il piroscafo si autoaffondò all’imboccatura del porto meridionale di Massaua, secondo l’ordine prestabilito, in linea di fila, tra il transatlantico italiano Colombo (a poppa) ed il mercantile tedesco Frauenfels (a prua).


Tre foto del relitto del Brenta, per g.c. di Edward (Ted) Ellsberg Pollard, nipote di Edward Ellsberg, autore del recupero e delle fotografie. Lo scafo rovesciato in secondo piano è quello del transatlantico Colombo, dietro al quale si vede il relitto del piroscafo tedesco Liebenfels.






Il cimitero delle navi affondate per bloccare l’imbocco del porto meridionale di Massaua: da sinistra verso destra, alcuni relitti apparentemente distrutti e non identificabili (probabilmente Alberto Treves e Niobe), il piroscafo italiano Vesuvio, il tedesco Frauenfels (parzialmente “sovrapposti” per via della prospettiva), il Brenta (unico ad avere anche il ponte di coperta sommerso), il Colombo (rovesciato) ed il Liebenfels (g.c. Ted Pollard)


Una foto cronologicamente successiva dei relitti del Brenta e del Colombo: Liebenfels e Frauenfels sono scomparsi, già recuperati (g.c. Ted Pollard).


Quattro giorni dopo, l’8 aprile, le forze britanniche occuparono Massaua, trovandovi nel porto un autentico cimitero di navi: 18 mercantili e navi ausiliarie tra italiane e tedesche, una torpediniera, un posamine e 13 unità di minori dimensioni, insieme a due grossi bacini galleggianti ed ad un pontone gru, si erano autoaffondati secondo il piano del contrammiraglio Bonetti.
L’equipaggio del Brenta venne internato. Il marinaio chersino Giuseppe Pavolini, un membro dell’equipaggio del piroscafo, morì in prigionia il 21 febbraio 1945 ad Embatkalla, in Eritrea.

A Massaua, dopo l’occupazione, le autorità britanniche avviarono le operazioni di bonifica del porto (affidate dapprima al tenente di vascello Peter Keeble della riserva della Royal Navy e successivamente, nell’aprile 1942, ad una squadra di specialisti al comando del capitano di fregata Edward Ellsberg dell’US Navy), per rimuovere i relitti e rendere il porto nuovamente agibile, ma solo a partire dal maggio 1942 il porto di Massaua divenne nuovamente utilizzabile.
Il recupero del Brenta si rivelò uno dei più pericolosi: nella stiva prodiera, infatti, prima di autoaffondare la nave, era stata collocata una trappola esplosiva composta da una mina navale innescata ed appoggiata sulle testate di tre siluri. Oltre a ciò, erano state sistemate nelle stive della nave parecchie altre mine e testate di siluri; per disinnescarle e rimuoverle, prima di procedere al recupero della nave, al tenente di vascello Keeble dovette essere affiancato il sottotenente di vascello Cox della Royal Australian Navy, un ufficiale specializzato nelle operazioni di sminamento. Le operazioni continuarono poi sotto la direzione del comandante Ellsberg, che rimosse sei mine ed una ventina di testate di siluri nel novembre 1942.
Da alcune lettere del comandante Ellsberg:
11 novembre 1942: “(…) Locally we are still soaked up in salvage. My salvage ship which lately raised the Tripolitania in a week, has gone back to work on the Brenta, which job we suspended temporarily while we were examining the unexploded mines and torpedo warheads we had already removed from the forehold of that vessel. Another salvage ship began rigging up for lowering the second pair of pontoons on our sunken derrick. My third ship is working sealing up the submerged deck of the XXIII Marzo (Mussolini could explain what that means) which we shall try to lift with compressed air, as the holes in her bottom are quite terrific. And my fourth salvage ship is wintering as you know, in the salubrious climate of the West Indies. Perhaps Mrs. Whiteside’s letter (when I get it from you) will help to explain why. (…)”
13 novembre 1942: “Tomorrow we sink our third pontoon on our sunken derrick. A busy day for me, I imagine. Today we removed a second mine from the hulk of the Brenta (we have already removed one and eight torpedo warheads) but find on closer examination of the hold that there are four more mines and about a dozen warheads still left to hoist out.”

Sopra: l’acqua viene pompata fuori dallo scafo del Brenta durante il recupero. Sotto: recupero di mine dal relitto del Brenta. Tutte le foto sono di Ted Pollard.




Il relitto del Brenta, recuperato dagli occupanti britannici, venne dichiarato buona preda e demolito nel 1951.


mercoledì 26 marzo 2014

Leone Pancaldo

Il Pancaldo nel 1938 (Fotocelere A. Campassi, Torino, g.c. Carlo Di Nitto via www.naviearmatori.net)

Cacciatorpediniere, già esploratore, della classe Navigatori (dislocamento standard 2125 tonnellate, 2760 in carico normale, 2880 a pieno carico). Durante il conflitto effettuò 13 missioni di guerra, percorrendo 6732 miglia nautiche e trascorrendo in mare 396 ore.

Breve e parziale cronologia

7 luglio 1927
Impostazione nei Cantieri Navali Riuniti di Riva Trigoso.
5 febbraio 1929
Varo nei Cantieri Navali Riuniti di Riva Trigoso.

Il varo del Pancaldo (tratta da “Riva Trigoso, il cantiere e la sua storia” di E. Bo, via Franco Lena e www.naviearmatori.net)

La nave poco dopo il varo (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net)

30 novembre 1929
Entrata in servizio come esploratore, seconda unità della sua classe.
Maggio-settembre 1930
Viene sottoposto, come i gemelli, a lavori tesi ad aumentarne l’insufficiente stabilità trasversale: le sovrastrutture vengono abbassate di un livello, vengono abbassati anche i fumaioli, l’albero a tripode viene rimpiazzato da uno più snello a fuso, i serbatoi di nafta posti ai lati dello scafo sopra la linea di galleggiamento vengono eliminati, impiegando al loro posto i doppi fondi (ma riducendo così le riserve di carburante da 630 a 533 tonnellate e di conseguenza l’autonomia), ed i complessi lanciasiluri trinati (tubo centrale da 450 mm e due tubi laterali da 533) vengono sostituiti con altri binati più leggeri (da 533 mm). Tutto ciò porta effettivamente ad un incremento della stabilità, ma non della tenuta del mare, l’altro punto debole dei “Navigatori”. Vengono anche aggiunte due mitragliere binate da 13,2/76 mm.


Dicembre 1930-gennaio 1931
Il Pancaldo (CF Diego Pardo) è tra le unità adibite ad appoggiare la crociera aerea transatlantica dall’Italia al Brasile di Italo Balbo. Sono tutte unità della classe Navigatori: Pancaldo, Antonio Da Noli e Lanzerotto Malocello formano il II Gruppo dislocato a Pernambuco, per l’assistenza nella zona americana dell’Atlantico, mentre Nicoloso Da Recco, Luca Tarigo ed Ugolino Vivaldi costituiscono il I Gruppo (dislocati alle Canarie ed assegnati all’Atlantico centrale) ed Emanuele Pessagno ed Antoniotto Usodimare il III Gruppo (di competenza della parte africana dell’Atlantico).
Gli idrovolanti di Balbo, undici Savoia Marchetti S. 55 (cui se ne aggiungeranno altri tre in Africa), decollano da Orbetello il 17 dicembre, fanno tappa a Cartagena, Kenitra, Villa Cisneros e Bolama e da qui decollano il 6 gennaio 1931, all’1.30 di notte, attraversando l’Atlantico e raggiungendo Porto Natal, in Brasile, alle 19.30 dello stesso giorno, dopo 3000 km. In questa fase di verificano varie avarie ed incidenti, che provocano la perdita di tre degli aerei. Un altro idrovolante, l’I-DONA del pilota Renato Donatelli, è costretto ad ammarare nell’Atlantico, sebbene a distanza non eccessiva dalla costa: ad accorrere in suo aiuto sono proprio il Pancaldo ed il Da Noli, che giungono a prenderlo a rimorchio. Alla fine l’idrovolante sarà in grado di decollare nuovamente e raggiungere la sua meta. Dopo aver fatto tappa a Bahia, gli S. 55 volano per altri 1400 km, arrivando infine in formazione su Rio de Janeiro, davanti al Pan di Zucchero, alle 17 del 15 gennaio 1931, insieme agli esploratori di scorta, sotto gli occhi di un milione di persone.

Il Pancaldo in navigazione nell’Atlantico meridionale durante la crociera aerea di Balbo (g.c. Marino Miccoli)
Il Pancaldo ed un’unità gemella ormeggiati a Recife (foto Antonio Miccoli, via Ozires Moraes/Sixtant)


Il soccorso all’idrovolante I-DONA (g.c. Marino Miccoli).




Il Pancaldo a Ceuta con un’unità gemella (g.c. Marino Miccoli)

La «Divisione Esploratori», composta dal Pancaldo e dalle altre unità della stessa classe, ormeggiata ad Algeri (g.c. Marino Miccoli)

Negli anni ’30 il Pancaldo opererà in Mediterraneo svolgendo normale attività di squadra.
Dicembre 1931
Riceve a Genova la bandiera di combattimento, insieme ad altre unità gemelle, nel corso di una grande cerimonia. Per contenere la bandiera di combattimento verrà realizzato, nel 1934, uno scrigno in maiolica ad opera dell’artista Mario Gambetta.
1932
Per migliorare la manovrabilità, il timone viene sostituito con uno di maggiori dimensioni.
1936-1938
Partecipa alla guerra civile spagnola.
1938
Riclassificato cacciatorpediniere ed assegnato alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, di base dapprima a La Spezia e successivamente a Taranto.

L’equipaggio del Pancaldo (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”)

1939-1940
Dopo un breve periodo in cui viene impiegato per l’addestramento a Pola, il Pancaldo viene sottoposto a nuove modifiche, per migliorarne la tenuta del mare, nei cantieri del Muggiano. Lo scafo viene allargato di un metro e la prua viene modificata e rialzata, con un tagliamare fortemente inclinato in avanti in luogo dell’originario dritto. La lunghezza viene portata da 105,5 a 109,3 metri, la larghezza da 10,2 a 11,2 metri, il pescaggio da 3,40 a 4,20 metri; il dislocamento standard e quello a pieno carico vengono portati rispettivamente a 2125 tonnellate (da 1935 originarie) ed a 2888 tonnellate (da 2580 originarie). Grazie allo scafo ingrandito, le scorte di carburante possono essere portate a 680 tonnellate, incrementando nuovamente l’autonomia, ma le modifiche causano il calo della velocità massima da 38 a 34 nodi, ma quella effettiva è intorno ai 27-28 nodi. I due complessi lanciasiluri binati da 533 mm vengono sostituiti con altrettanti trinati da 533 mm, vengono aggiunte altre due mitragliere binate da 13,2/76 mm ed anche due tramogge per bombe di profondità. I lavori si concludono nel gennaio 1940.

Gennaio 1940: il Pancaldo a La Spezia dopo i lavori di rimodernamento. Notare il nuovo profilo del tagliamare, completamente cambiato (g.c. STORIA militare)

10 giugno 1940
All’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale il Pancaldo (CF Luigi Merini) fa parte, insieme ai gemelli Ugolino Vivaldi ed Antonio Da Noli, della XIV Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Taranto, assegnata alla IX Divisione Navale (I Squadra Navale).

Le due morti del R. C. T. Leone Pancaldo

Nel corso della grande operazione che vide l’uscita in mare del grosso della flotta italiana per proteggere un convoglio diretto in Libia, tra il 7 ed il 9 luglio 1940, la XIV Squadriglia Cacciatorpediniere, composta da Pancaldo, Vivaldi e Da Noli, rimase di riserva a Taranto, pronta a muovere in caso di necessità. Il 9 luglio, però, la flotta italiana e la Mediterranean Fleet, anch’essa in mare a protezione di convogli, diedero battaglia al largo di Punta Stilo, e durante la fase di avvicinamento al nemico anche alle unità della XIV Squadriglia fu ordinato di lasciare Taranto per raggiungere il resto della flotta. Le tre navi salparono alle 6.18 del 9 luglio, per raggiungere il previsto punto di riunione delle forze navali italiane (37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a sudest di Punta Stilo) entro le 14.
Nella tarda mattinata, tuttavia, il Da Noli fu colto da avarie e costretto a rientrare, riducendo la Squadriglia ai soli Pancaldo e Vivaldi. Alle 13.55 le due rimanenti unità si posizionarono a dritta della IV Divisione (incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano), andando a formare, insieme alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere ed alla IV e VIII Divisione incrociatori, la colonna sinistra dello schieramento italiano, posta ad est della V Divisione costituita dalle corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour.
Alle 14.05 ebbe inizio l’avvicinamento alla flotta britannica, ed alle 15 il comandante della IV Divisone, ammiraglio Alberto Marenco di Moriondo, ordinò a Pancaldo e Vivaldi di portarsi a proravia dritta rispetto ai suoi incrociatori; ma i due cacciatorpediniere non riuscirono a raggiungere la posizione assegnata, perché il loro margine di superiorità in velocità rispetto alla IV Divisione era troppo ridotto.
Alle 15.15 gli incrociatori aprirono il fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate. Proprio all’atto dell’apertura del fuoco (e subito dopo aver avvistato il nemico), alle 15.15, la XIV Squadriglia si posizionò a sinistra rispetto alla IV Divisione, in modo da non essere intralcio al loro tiro ed alla loro libertà di manovra.
Incrociatori e corazzate cessarono poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per poi riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15 (incrociatori). Durante questa fase, in cui gli opposti schieramenti si scambiarono cannonate da grande distanza senza costrutto, la XIV Squadriglia non ebbe parte rilevante. Alle 15.59, però, la Cesare, la nave ammiraglia, venne danneggiata da un proiettile da 381 mm, dovendo ridurre la velocità. A seguito di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in mare delle forze italiane, decise di rompere il contatto per rientrare alle basi, ed alle 16.05 diramò l’ordine generale per le squadriglie di cacciatorpediniere di attaccare con il siluro le navi della Mediterranean Fleet, in modo da facilitare lo sganciamento delle navi maggiori.
La XIV Squadriglia ricevette l’ordine di attacco alle 16.09, dall’ammiraglio Marenco di Moriondo, perciò Pancaldo e Vivaldi accostarono a dritta, passarono a poppavia della Cesare e diedero inizio alla manovra di attacco, con rotta 15° e beta ritenuto 90°, da 25.000 metri di distanza. La XIV Squadriglia fu l’ultima ad andare all’attacco silurante. Alle 16.28, però, il caposquadriglia (CV Giovanni Galati sul Vivaldi) constatò che le unità britanniche, distanti ancora 18.000 metri, stavano accostando in fuori per allontanarsi, rinunciando all’inseguimento, perciò rinunciò a sua volta ad attaccare con i siluri ed assunse rotta 240°, emettendo cortine nebbiogene e seguendo la flotta italiana nella manovra di disimpegno.
Terminata la battaglia, la flotta italiana si avviò alle proprie basi. L’aliquota più consistente delle unità italiane, compreso il Pancaldo, diresse su Augusta: nel pomeriggio del 9 luglio la corazzata Conte di Cavour, gli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume e Gorizia, gli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi ed i 36 cacciatorpediniere delle Squadriglie VII, VIII, IX, XI, XIV, XV e XVI fecero il loro ingresso nella base siciliana. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che facevano presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato ad Augusta, Supermarina ordinò a tutte le navi di lasciare la base: dopo essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartirono per le basi di assegnazione (Napoli e Taranto), lasciando ad Augusta i soli Pancaldo e Vivaldi. La Cavour con i quattro incrociatori pesanti e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII e IX partirono già alle 00.55 del 10 luglio alla volta di Napoli, mentre Duca degli Abruzzi, Garibaldi e le Squadriglie Cacciatorpediniere XV e XVI presero il mare alle 17.05 dello stesso giorno, diretti a Taranto; per ultimi salparono Da Barbiano e Di Giussano con i cacciatorpediniere della XI Squadriglia, anch’essi per raggiungere Taranto, alle 19.05.
Anche il Pancaldo (al comando del capitano di fregata Luigi Merini) ed il Vivaldi (caposquadriglia della XIV Squadriglia, al comando del CV Giovanni Galati), una volta finito di rifornirsi, avrebbero dovuto lasciare Augusta alla volta di Messina, così da eliminare qualsiasi possibile bersaglio del previsto attacco aereo britannico.
Nel frattempo, però, alle 18.50 del 10 luglio, un idroricognitore del 201st Group della Royal Air Force, decollato da Malta, aveva sorvolato la rada di Augusta, avvistandovi due incrociatori e sei cacciatorpediniere, dato che in quel momento la IV Divisione (Da Barbiano e Di Giussano) e la XI Squadriglia non erano ancora partiti. L’idrovolante aveva comunicato quanto visto ai comandi di Alessandria ed Hal Far (Malta), che a loro volta avevano poi informato il comandante in capo della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, che si trovava in mare con il grosso della Mediterranean Fleet, 220 miglia a sudest della Sicilia, per l’operazione «MA 5». Tra le navi in mare con Cunningham c’era l’anziana portaerei Eagle, che aveva a bordo 17 aerosiluranti Fairey Swordfish e due caccia Gloster Gladiator degli Squadrons 813 e 824. Dato che il numero degli aerei imbarcati era superiore a quello che l’hangar della portaerei poteva contenere, alcuni erano stati sistemati sul ponte di volo. Questo faceva sì che fossero già pronti per un eventuale decollo: non vi sarebbe stato che da caricarli di bombe o siluri.
Avuta notizia delle unità avvistate ad Augusta dal Sunderland, l’ammiraglio Cunningham ordinò immediatamente che i nove Swordfish dell’813th Squadron decollassero per attaccarle con i siluri, ripartiti in due ondate di sei e tre aerei.
La Eagle si separò perciò dal grosso della Mediterranean Fleet, e, scortata da alcuni cacciatorpediniere, si avvicinò maggiormente alla Sicilia; alle 19.30 ebbe inizio il decollo dei sei Swordfish della prima ondata, cui seguirono poi i tre della seconda. Gli aerei diressero per nordovest, in modo da giungere su Augusta provenendo da sud, volando a 600 metri.
Ad Augusta, intanto, il Pancaldo, dopo aver completato il rifornimento di nafta, si ormeggiò intorno alle otto di sera alla boa A4, al centro della rada, in precedenza occupata dal Da Barbiano, ora partito, mentre il Vivaldi finiva di rifornirsi di carburante a Punta Cugno.
Come ordinato dal caposquadriglia Galati del Vivaldi, il Pancaldo, dovendo presto lasciare la boa e partire, era sui cavi leggeri. I mitraglieri e gli uomini del servizio di sicurezza erano ai loro posti. Alle 20.45, come da ordini del caposquadriglia, il Pancaldo era pronto a muovere con due caldaie, ed alle 21 lo fu con tutte e quattro.
Proprio alle 21 i MAS della IX Squadriglia, in agguato contro forze navali nemiche ed al contempo con compiti di avvistamento di aerei avversari una trentina di miglia a sud di Augusta, avvistarono i nove Swordfish che volavano verso Augusta e lo segnalarono con un messaggio di Precedenza Assoluta, ma i ritardi dovuti alle procedure di accettazione, smistamento e controllo fecero sì che il messaggio arrivasse all’ufficiale in servizio nella centrale operativa della difesa di Augusta venti minuti più tardi, ovvero proprio mentre il primo dei siluri scoppiava.
Alle 21.15 gli Swordfish della prima ondata avvistarono Augusta, ma poi, sorvolando la rada, notarono con delusione che in luogo dei due incrociatori e sei cacciatorpediniere avvistati dal Sunderland vi erano solo due cacciatorpediniere, perciò si allontanarono senza attaccare, e tornarono alla Eagle.
I tre aerosiluranti che formavano la seconda ondata, invece, arrivarono alle 21.20 da sudest, sorvolarono la diga foranea, si abbassarono sino ad essere a soli trenta metri di quota ed avvistarono a 1500 metri il Pancaldo, ormeggiato alla boa con la prua a nord, ed il Vivaldi che finiva di rifornirsi al pontile di Punta Cugno. I due cacciatorpediniere erano illuminati dalla luna; era una sera senza onde né vento. Uno degli Swordfish si diresse verso il Vivaldi, gli altri attaccarono il Pancaldo.
Da bordo del Pancaldo, i tre aerei che si avvicinavano per attaccare vennero avvistati intorno alle 21.25: ma il fatto che gli Swordfish volassero con le luci di posizione accese, invece che oscurati come avrebbero dovuto fare degli aerei nemici, il fatto che effettivamente in quel momento stessero decollando da Catania dei velivoli della Regia Aeronautica (diretti a Malta per un bombardamento), che – per agevolare la messa in formazione – avevano le luci di posizione accese, ed infine la totale mancanza di un allarme, fecero ritenere agli uomini del Pancaldo che i tre aerei avvistati fossero italiani. La smentita sarebbe arrivata meno di mezzo minuto.
Il primo degli aerei effettuò una larga virata ad ovest nella rada, poi si abbassò sino ad appena dieci metri sopra la superficie del mare (come regolare per gli attacchi di aerosiluranti a navi in porto) e sganciò il proprio siluro da una distanza di poco inferiore ai 600 metri. Il siluro passò tra la poppa del Pancaldo ed una rete parasiluri (situata 600 metri a sud della boa A4, lunga 80 metri, profonda 10 metri su 25 di fondale ed orientata verso nord-nord-est per evitare attacchi siluranti da sud), poi scoppiò contro la scogliera situata vicino alla batteria Terre Vecchie (meno di 30 secondi dopo che gli aerei erano stati avvistati da bordo della nave). L’esplosione del siluro allarmò tanto le difese della base quanto l’equipaggio del Pancaldo: subito dopo la detonazione del siluro, il personale fu mandato ai posti di combattimento.
Mentre il primo Swordfish riprendeva quota e si allontanava verso est, il secondo, pilotato dal tenente di vascello Leary, si avvicinò da sudest (da poppa), superò la rete parasiluri – la cui presenza ed orientamento lo costrinsero però a sganciare con un angolo molto sfavorevole – e subito dopo lanciò il suo siluro. Questa volta l’arma andò a segno, raggiungendo il Pancaldo sulla dritta, a prua, in corrispondenza del locale caldaie prodiero, con un angolo di quasi 150 gradi (in luogo dei 30 da manuale). Il suo scoppio fece sussultare la nave, e venne sentito dall’equipaggio come un colpo sordo.
Proprio in quel momento i mitraglieri aprirono il fuoco contro gli aerei, ma ormai il danno era fatto: il Pancaldo si stava appruando rapidamente, ed in pochi minuti l’acqua iniziò ad invadere il ponte.
Il personale di macchina intercettò il vapore e lo scaricò in aria, mentre i mitraglieri continuavano a fare fuoco e quanti non avevano un compito specifico calavano zattere Carley e lance, o cercavano di forzare il portello di sottocastello, che era stato bloccato dall’esplosione intrappolando degli uomini. Il comandante Merini, constatato che non vi era possibilità di impedire o rallentare l’affondamento, dispose che l’equipaggio salisse in coperta, poi ordinò il saluto al re e l’abbandono della nave. Gli uomini si radunarono a poppa, sulla dritta, mentre la nave sbandava a sinistra; i mitraglieri continuarono a sparare finché il mare non invase le loro piazzole. Quando poco mancava all’affondamento completo, gli uomini radunati a poppa dritta gridarono “Viva il Re!” e si gettarono in mare. Alle 21.39 il Leone Pancaldo giaceva sul fondale dalla rada di Augusta, completamente sommerso, in 28 metri d’acqua. La bandiera, lasciata issata al picco, continuò a fluttuare sott’acqua nella debole corrente marina che aveva rimpiazzato il vento.
Mentre tutto questo accadeva, il Vivaldi e le difese di terra della base aprivano il fuoco a loro volta, lo Swordfish affondatore risaliva in quota dopo una stretta virata a destra e si allontanava verso est, ed il terzo aerosilurante attaccava il Vivaldi senza colpirlo.
Alle 21.30 il semaforo di Torre Avolos, situato all’estremità settentrionale della diga foranea, con visuale su tutta la rada, avvertì di aver visto chiaramente la colonna d’acqua sollevata dallo scoppio del siluro che colpiva il Pancaldo. La centrale operativa della difesa di Augusta, informata per telefono, poté così inviare tempestivamente diversi mezzi navali in soccorso, prima ancora del cessato allarme. Sul luogo dell’affondamento si diressero immediatamente il Vivaldi, un rimorchiatore, una bettolina ed altre imbarcazioni minori.
Tutto l’equipaggio superstite del Pancaldo, 204 uomini su 220, venne tratto in salvo nel giro di un’ora e mezza, poi si continuò a cercare i dispersi per tutta la notte. In tutto vennero recuperate 16 salme, l’ultima, quella di un sottufficiale, il mattino dell’11 luglio; non vi furono dispersi. Tutte le vittime si erano venute a trovare nella zona della nave colpita dal siluro. Altri nove uomini del Pancaldo erano rimasti feriti.

Morirono nel primo affondamento del Pancaldo:

Libero Andreanelli, sergente motorista, 25 anni, da Porto San Giorgio
Ermenegildo Dalchecco, marinaio fuochista, 22 anni, da Pontelongo
Antonio Del Medico, sottocapo meccanico, 22 anni, da Molfetta
Angelo Di Bella, marinaio fuochista, 22 anni, da Milazzo
Luigi Fresoli, marinaio fuochista, 24 anni, da Licciana Nardi
Franco Imeroni, secondo capo segnalatore, 28 anni, da Cagliari
Giuseppe La Vecchia, marinaio fuochisa, 23 anni, da Barletta
Mauro Manna, marinaio, 20 anni, da Casoria
Francesco Manunza, marinaio, 22 anni, da Oristano
Francesco Marino, marinaio, 22 anni, da Palermo
Michele Nicoli, marinaio elettricista, 25 anni, da Castrignano del Capo
Angelo Rocco, marinaio fuochista, 21 anni, da Milano
Virgilio Sabbatini, capo meccanico di seconda classe, 40 anni, da Cupra Marittima
Giovanni Signorini, secondo capo meccanico, 27 anni, da Cicognolo
Costantino Solinas, marinaio fuochista, 20 anni, da Sassari
Emilio Sommacal, marinaio elettricista, 21 anni, da Trichiana


L’equipaggio del Pancaldo venne poi assegnato a varie altre unità, andando incontro alle avverse vicende della guerra. Certo non furono pochi i sopravvissuti del Pancaldo che trovarono la morte su altre unità negli anni a venire: tra di essi vi era il sottocapo radiotelegrafista Giovanni Ferrandina, perito nell’affondamento del sommergibile Ammiraglio Millo, il 14 marzo 1942.
Immersioni sul relitto, dopo l’affondamento, rivelarono che lo scafo non era tanto danneggiato da impedire un recupero, pertanto si decise di recuperare il Pancaldo per rimetterlo in servizio. Il corrispondente di guerra Vero Roberti, nel suo libro “Con la pelle appesa a un chiodo”, ricordò che nell’aprile 1941 la bandiera del Pancaldo sventolava ancora al picco, tesa dalla corrente, e riportò il commento di uno degli addetti al recupero: “Bisogna lasciarla stare lassù perché, quando la silurante verrà a galla, la prima cosa che vedrà il sole sarà la sua bandiera che non venne mai ammainata”. Ricordava ancora Roberti: “Con uno specchio da polpi guardo anch’io. La piccola nave riposa sul fondale sabbioso. Un’ombra di velluto avvolge la silurante che è scesa dritta sul fondo, tanto che apparve viva ai palombari, in un abisso verdeazzurro. Frange di alghe rosse sono abbarbicate alla carena, ma il tagliamare le sovrasta. Nella diluita luce solare sembra che la silurante navighi ancora. La sua sagoma lunga e sottile tremola nel gioco delle correnti e le due lettere dipinte sullo sguscio di prora s’intravedono come in corsa sul mare. Al picco, che è quel mezzo pennone aderente all’albero di poppa, sventola la bandiera, distesa tra due lame d’acqua”.
I palombari dell’Ufficio porto e gli uomini dell’officina lavori di Augusta, dopo lunghi lavori (per alleggerire la nave in vista del recupero fu necessario asportare le artiglierie, i tubi lanciasiluri e le ancore con le relative catene a mezzo di pontoni a gru), riportarono a galla il Pancaldo il 26 luglio 1941, un anno dopo il suo affondamento. Non prima, però, che la nave reclamasse per sé una diciassettesima vita: quella del secondo capo palombaro Bruno Lorenzi, che trovò la morte in un incidente verificatosi durante i lavori di recupero.

Un particolare del recupero del Pancaldo; in cielo sono visibili alcuni palloni frenati di sbarramento (da “Augusta 1940-1943. Cronache della piazzaforte” di Tullio Marcon)

Il relitto del Pancaldo riportato a galla, nel luglio 1941. L’operazione di recupero ha reso necessaria la rimozione di tutto l’armamento, l’alberatura ed uno dei due fumaioli (Coll. N. Siracusano via Maurizio Brescia ed Associazione Venus)

Un’altra immagine della nave dopo il recupero (da http://www.warshipsww2.eu/shipsplus.php?language=E&id=61069)

Il 1° agosto il relitto del cacciatorpediniere poté essere immesso in bacino, dove fu sottoposto ai lavori necessari a metterlo in grado di affrontare il viaggio sino a Genova, dove avrebbe subito più estesi lavori di riparazione e ricostruzione.

Lo scafo del Pancaldo dilaniato dall’esplosione del siluro, in bacino dopo il recupero (g.c. STORIA militare)


Le sovrastrutture prodiere del Pancaldo nell’agosto 1941, durante il periodo di lavori in bacino (g.c. STORIA militare)

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Il Pancaldo ormeggiato ad Augusta nell’ottobre 1941, dopo i lavori in bacino (g.c. STORIA militare)

Il 27 ottobre 1941 il Pancaldo lasciò Augusta alla volta di Genova, dove fu quindi avviato ai lavori di ripristino nei cantieri Ansaldo. Tali lavori si protrassero per oltre un anno, avendo termine solo il 17 novembre 1942. Durante le riparazioni venne anche modificato l’armamento: dapprima, a fine 1941, le due mitragliere singole da 40/39 mm e le quattro binate da 13,2/76 mm vennero rimpiazzate da nove più efficaci mitragliere Breda 1940 singole da 20/65 mm, poi, nel corso del 1942, il complesso lanciasiluri trinato poppiero venne sbarcato e sostituito con due mitragliere pesanti Breda 1939 da 37/54 mm.
Completata la ricostruzione, il Pancaldo fu trasferito all’Arsenale di La Spezia, dove venne dotato di un radar EC.3/ter “Gufo” e di un ecogoniometro. La nave tornò finalmente in servizio il 12 dicembre 1942, quasi due anni e mezzo dopo il suo affondamento, venendo assegnata alla XV Squadriglia Cacciatorpediniere. Ma la sua seconda vita avrebbe avuto breve durata.

Il Pancaldo in uscita da La Spezia nel dicembre 1942. Sulla coffa è visibile il radar EC.3/ter “Gufo” (g.c. STORIA militare)

Il ricostruito Pancaldo venne assegnato alla XV Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Trapani, ritornando pienamente operativo solo nel marzo 1943, quando cominciò ad operare in compiti di scorta convogli e trasporto truppe da Trapani a Tunisi.
Queste missioni, con il procedere della battaglia dei convogli verso la sua conclusione, divenivano sempre più rischiose. La sera del 23 marzo 1943 il Pancaldo (CF Raffai) lasciò Pozzuoli insieme al gemello Lanzerotto Malocello, per una missione di trasporto di truppe tedesche (circa 350 uomini ciascuno) a Tunisi. Poco più tardi i due cacciatorpediniere vennero raggiunti da un terzo, il Camicia Nera (partito da Gaeta), mentre il quarto ed ultimo, l’Ascari, si unì alla formazione all’alba del 24 marzo.
La formazione, al comando del CF Mario Gerini dell’Ascari, sarebbe dovuta transitare tra i campi minati difensivi italiani X 2 e S 73 con rotta 101°, puntando su Zembretta, un’isola del golfo di Tunisi, per poi raggiungere Tunisi, la sua meta. Le navi procedevano a zig zag, che interruppero momentaneamente alle 6.44 del 24 marzo per accostare con rotta 201°. Alle 7.05 fu avvistato un gruppo di navi a sinistra, sul rilevamento 160°, a 12 km, e venti minuti più tardi un altro gruppo, sempre a sinistra e su rilevamento 160° ma a 15 km; in breve, tuttavia, apparve evidente che entrambe le formazioni erano convogli di ritorno dalla Tunisia. I quattro cacciatorpediniere procedevano a zig zag a 27 nodi.
Alle 7.28, però, il Malocello urtò una mina a dritta e rimase immobilizzato e sbandato, circa 28 miglia a nord di Capo Bon, segnalando “siluro a dritta” (da bordo si ritenne infatti di essere stati silurati): gli altri cacciatorpediniere accostarono perciò a sinistra. Seguì un momento di indecisione: i comandanti delle varie unità, essendo partiti da porti diversi, non avevano potuto discutere in precedenza su che misure prendere per una simile eventualità, ed alcuni comandanti non sapevano chi fosse al comando del Pancaldo e del Malocello. Poco dopo, infine, il comandante Gerini ordinò a Pancaldo e Camicia Nera di proseguire per Tunisi, mentre lui con l’Ascari sarebbe rimasto ad assistere il Malocello.
Il Pancaldo ed il Camicia Nera raggiunsero entrambi indenni la loro destinazione, ma le altre due unità andarono incontro ad una tragica sorte: il Malocello affondò dopo un’ora e l’Ascari, mentre era impegnato nel salvataggio dei naufraghi, urtò a sua volta tre mine ed affondò. Su 1138 uomini imbarcati sui due cacciatorpediniere, solo 197 vennero salvati.


Il Pancaldo, a destra, ed il gemello Pigafetta a Gaeta nell’aprile 1943 (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia ed Associazione Venus)


Un’altra immagine del Pancaldo a Gaeta nell’aprile 1943 (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia)

Alla fine di aprile del 1943 il Pancaldo, insieme al cacciatorpediniere tedesco Hermes, venne incaricato di una nuova missione di trasporto di truppe tedesche e rifornimenti da Pozzuoli a Tunisi. La guerra in Nordafrica ormai era persa, la caduta della Tunisia una questione di settimane: ma, per non dare ai soldati rimasti in terra africana l’impressione di essere stati abbandonati e per ritardare il più possibile il completamento dell’occupazione alleata della Tunisia, cui sarebbe seguita l’invasione del suolo italiano a partire dalla Sicilia, ancora venivano organizzate missioni di trasporto in condizioni ormai disperate, con i cieli del Mediterraneo ormai in mano agli Alleati e le loro unità navali e subacquee che si facevano ogni giorno più numerose ed aggressive.
A Pozzuoli il Pancaldo e l’Hermes imbarcarono rispettivamente 247 e 215 militari tedeschi, oltre ad alcuni rifornimenti, poi, appena truppe e carico furono sistemati a bordo, i due cacciatorpediniere salparono dal porto campano. Erano le 19.30 del 29 aprile 1943: nessuna delle due navi avrebbe mai più rivisto l’Italia.
Sul Pancaldo, al comando del capitano di fregata Tommaso Ferreri Caputi, erano sistemati in tutto 527 uomini: oltre ai 247 soldati tedeschi diretti a Tunisi (5 ufficiali, 34 sottufficiali e 208 soldati), infatti, la nave aveva 280 uomini di equipaggio.
Nella serata e nella notte successiva la navigazione procedette tranquilla, poi, a metà mattino del 30 aprile, ebbero inizio gli attacchi aerei mentre i due cacciatorpediniere navigavano nel Canale di Sicilia.
Intorno alle 9 del mattino, cinque aerosiluranti alleati assalirono le due unità dell’Asse a ponente di Pantelleria. Pancaldo ed Hermes aprirono il fuoco con il loro armamento contraereo, e gli aerei dovettero sganciare i loro siluri senza riuscire a mettere nessuno a segno.
Passò un’ora, poi, verso le 10.10, ad otto miglia da Kelibia (costa tunisina), comparvero nel cielo dodici cacciabombardieri che furono identificati come Spitfire; si trattava in realtà di altrettanti Curtiss P-40 “Kittyhawk” del 5th Squadron del 7th Wing della South African Air Force. I due cacciatorpediniere fruivano della scorta aerea di otto caccia Macchi C. 200 della Regia Aeronautica, decollati dalla Sicilia, che si gettarono nella mischia contro gli aerei nemici. La battaglia aerea era nel pieno del suo svolgimento, quando sopraggiunsero anche dei caccia tedeschi Messerschmitt Bf 109 dello Jagdgeschwader 27; a loro volta, altri dodici P-40 del 2nd Squadron del 7th Wing SAAF furono inviati a rinforzare i loro compagni del 5th Squaron. Lo scontro si concluse a favore degli aerei dell’Asse, che respinsero l’attacco dei velivoli sudafricani senza che questi riuscissero a colpire i due cacciatorpediniere. Gli aerei italo-tedeschi ritennero di aver abbattuto dieci velivoli nemici; in realtà, da parte sudafricana risultò la perdita di un singolo Kittyhawk, abbattuto mentre mitragliava una delle navi, mentre un secondo P-40 subì gravi danni. Gli aerei del 7th Wing rivendicarono a loro volta l’abbattimento di un caccia tedesco Bf 109.
Alle 11.22, al largo di Capo Bon, il Pancaldo e l’Hermes subirono un terzo attacco, questa volta da parte di 18 bombardieri scortati da dei caccia, che arrivarono da sud e bombardarono le due navi, senza però che nessuna bomba andasse a segno. Dopo aver superato le due navi dell’Asse, i bombardieri si congiunsero con un gruppo di altri 32 aerei provenienti dalla direzione di Zembra: i 50 aerei si riunirono, poi si divisero equamente in due gruppi di 25 e, alle 11.36, tornarono all’attacco. I nuovi arrivati erano degli altri P-40 (“Warhawk” in quanto americani, mentre gli aerei dello stesso tipo in servizio per il Commonwelth erano chiamati “Kittyhawk”) del 79th Fighter Group dell’USAAF (85th, 86th, 87th e 316th Squadron, quest’ultimo “prestato” dal 324th Fighter Group), scortati a quota maggiore da degli Spitfire.
Verso mezzogiorno i P-40 dell’86th e dell’87th Squadron si gettarono sul Pancaldo: dopo aver superato indenne i tre precedenti attacchi aerei, il cacciatorpediniere italiano, nonostante il violento tiro contraereo e le continue evoluzioni a tutta forza per eludere gli attacchi (al pari dell’Hermes), esaurì la propria buona sorte e fu più volte colpito da diverse bombe, due delle quali colpirono in pieno ed asportarono grossi pezzi della prua. Molte altre caddero tutt’attorno alla nave, avvolgendola nelle colonne d’acqua sollevate dalle loro esplosioni; il Pancaldo, con gravi danni, ridusse di molto la velocità, emettendo denso fumo, poi si fermò e rimase immobilizzato e vulnerabile. I velivoli statunitensi attaccarono ancora, per mitragliare la nave italiana a bassa quota, ma a quel punto intervennero 15 Messerschmitt Bf 109G dello Jagdgeschwader 77 e del Gruppe I. dello Jagdgeschwader 53. Nel furioso scontro che ne seguì, da parte americana vennero rivendicati tre Bf 109 abbattuti (due con certezza ed uno probabile) e tre danneggiati, mentre da parte tedesca si ritenne di aver abbattuto uno Spitfire (da un aereo dello JG 77) e tre P-40 (da aerei dello JG 53). Le perdite effettive risultarono poi essere di tre P-40 perduti (due entrati in collisione ed il terzo travolto dai loro rottami) da parte americana, e di un Bf 109 abbattuto ed uno danneggiato da parte tedesca.
Ciò non servì a salvare il Pancaldo, che, colpito da bombe che danneggiarono le macchine, perforarono lo scafo e provocarono vari allagamenti, iniziò ad affondare con decine di morti e feriti a bordo. Lo stesso comandante Ferreri Caputi era stato gravemente ferito da schegge al petto ed alla testa, ma rimase al comando fino alla fine, abbandonando la nave per ultimo.
Alle 12.30 il Pancaldo s’inabissò due miglia per 29° (a nord/nordest) da Capo Bon, e l’Hermes, seriamente danneggiato e con morti e feriti a bordo, non poté fermarsi a prestare soccorso, per non fare la stessa fine. L’unità tedesca riuscì alla fine ad arrivare a Tunisi, dove sarebbe poi rimasta immobilizzata per i gravi danni riportati all’apparato motore, dovendo essere autoaffondata una settimana dopo, alla caduta della Tunisia.
Mentre ancora l’attacco era in corso, il Comando Marina di Biserta, ricevutane notizia, dispose che alcune unità prendessero il mare per fornire aiuto al Pancaldo, il più messo a mal partito (ancora non si sapeva del suo affondamento) e, dopo che fu affondato, per soccorrerne i naufraghi. Nemmeno questi mezzi soccorritori ebbero pace: due di essi, il MAS 552 e la motosilurante MS 25, partiti insieme da Biserta poco dopo l’una del pomeriggio ed in navigazione verso il luogo dell’affondamento, vennero mitragliati e bombardati nel primo pomeriggio da 22 Kittyhawk del 2nd e 5th Squadron SAAF, che, pur perdendo un aereo, affondarono il MAS 552 tre miglia a nord di Zembra e ridussero la MS 25 ad un relitto, che fu portato all’incaglio a Zembra senza tornare mai più in servizio.
Dei 280 membri dell’equipaggio del Pancaldo, 156 uomini, tra cui il comandante Ferreri Caputi, vennero infine tratti in salvo, mentre altri 124 morirono.
Tra le truppe tedesche imbarcate i morti furono 75, mentre 172 uomini furono tratti in salvo.


I caduti tra l’equipaggio:

Giuseppe Accordino, marinaio, disperso
Luigi Acquarone, marinaio nocchiere, disperso
Giuseppe Agnello, sottocapo cannoniere, deceduto
Pasquale Amenta, sergente meccanico, disperso
Lino Gennaro Amelotti, sottocapo cannoniere, disperso
Francesco Ardizzone, marinaio nocchiere, disperso
Vito Arenare, marinaio cannoniere, disperso
Aldo Arvedi, marinaio, disperso
Luigi Ascione, marinaio fuochista, disperso
Luigi Balzano, marinaio fuochista, disperso
Guglielmo Barello, sottocapo cannoniere, disperso
Giuseppe Battaglia, marinaio, disperso
Lodovico Bergonzi, marinaio fuochista, disperso
Tommaso Borromeo, marinaio nocchiere, disperso
Primo Botti, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Bringhenti, marinaio, disperso
Daniele Cairo, marinaio fuochista, disperso
Ennio Calamati, marinaio elettricista, disperso
Vincenzo Calestini, sottocapo furiere, disperso
Livio Callaga, marinaio fuochista, disperso
Francesco Campo, secondo capo motorista, disperso
Alfio Cappello, marinaio, disperso
Ugo Carli, marinaio cannoniere, disperso
Vittorio Catrimi, marinaio, disperso
Benito Ceccarelli, marinaio, disperso
Luigi Chiappoli, marinaio cannoniere, disperso
Mario Cocchi, marinaio fuochista, disperso
Luigi Costagliola, marinaio cannoniere, disperso
Vincenzo Crapulli, sergente cannoniere, disperso
Enrico Curti, marinaio S. D. T., disperso
Ercole De Maio, marinaio elettricista, disperso
Giovanni Dell’Amura, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Di Leva, sergente meccanico, disperso
Sirio Dondini, sottocapo cannoniere, disperso
Vincenzo Drudi Casadei, sottocapo cannoniere, disperso
Pasquale Esposito, marinaio cannoniere, disperso
Filippo Evola, sergente cannoniere, disperso
Franco Fava, marinaio cannoniere, disperso
Annibale Fedi, sottocapo S. D. T., disperso
Giuseppe Fenotti, marinaio cannoniere, disperso
Mario Fiorillo, sottocapo segnalatore, disperso
Giuseppe Fortis, marinaio idrofonista, disperso
Giovanni Fortunato, marinaio cannoniere, disperso
Ernesto Fortuzzi, marinaio cannoniere, disperso
Giordano Foschi, sottocapo torpediniere, disperso
Luigi Fumagalli, marinaio fuochista, disperso
Domenico Galati, marinaio cannoniere, disperso
Agostino Gavotto, marinaio cannoniere, disperso
Martino Genna, marinaio S. D. T., disperso
Michele Giacomantonio, marinaio fuochista, disperso
Filippo Giannetti, sergente meccanico, disperso
Corrado Giardinella, capo radiotelegrafista di seconda classe, disperso
Adolfo Giovannini, marinaio motorista, disperso
Giuseppe Glielmo, secondo capo furiere, disperso
Domenico Guadagno, capo meccanico di terza classe, disperso
Attilio Gualco, capo S. D. T. di terza classe, disperso
Vittorio Guarnieri, marinaio fuochista, disperso
Carlo Sergio Imbimbo, sottocapo meccanico, disperso
Antonio Impicciché, marinaio, disperso
Balsassarre Lavorante, capo meccanico di seconda classe, disperso
Vincenzo Leonetti, sergente cannoniere, disperso
Vito Lepore, sottocapo infermiere, disperso
Francesco Lezza, marinaio cannoniere, disperso
Carlo Mannini, marinaio elettricista, disperso
Vincenzo Marino, marinaio, deceduto in Tunisia il 3.5.1943
Francesco Mattera, sergente meccanico, disperso
Guerrino Medeot, marinaio motorista, disperso
Elio Mengoni, marinaio, disperso
Enzo Micol, marinaio S. D. T., deceduto in territorio metropolitano il 26.11.1944
Giovanni Mondo, marinaio carpentiere, disperso
Silvio Monico, capo nocchiere di terza classe, disperso
Rolando Morezzi, sottocapo elettricista, disperso
Carmine Napolitano, marinaio silurista, deceduto
Ivo Nardi, marinaio S. D. T., disperso
Pietro Pallante, secondo capo segnalatore, disperso
Matteo Palumbo, marinaio cannoniere, disperso
Cataldo Pane, marinaio fuochista, disperso
Gino Parrini, marinaio cannoniere, disperso
Aldo Pastorino, marinaio fuochista, disperso
Mario Pelosi, marinaio cannoniere, disperso
Ezio Petrini, secondo capo cannoniere, disperso
Giuseppe Pittui, sottocapo cannoniere, disperso
Angelo Pivaro, marinaio, disperso
Nicola Ragno, sottocapo S. D. T., disperso
Mario Rava, tenente del Genio Navale, deceduto
Stefano Ravizza, marinaio fuochista, disperso
Nicola Recchiuti, marinaio, disperso
Agostino Ressia, marinaio cannoniere, disperso
Guido Ricci, marinaio, disperso
Giulio Rigato, secondo capo meccanico, disperso
Oscar Rosignoli, secondo capo S. D. T., disperso
Attilio Rottoli, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Sartoretti, capo cannoniere di seconda classe, disperso
Benedetto Savona, marinaio cannoniere, disperso
Francesco Settanni, sergente elettricista, disperso
Nicola Siniscalchi, sottocapo radiotelegrafista, disperso
Giovanni Solinas, marinaio fuochista, disperso
Luigi Tarissi, secondo capo elettricista, disperso
Giuseppe Tiano, sottocapo fuochista, disperso
Alberto Treccani Chinelli, marinaio elettricista, disperso
Francesco Trimboli, marinaio, disperso
Angelo Tuttorosa, marinaio fuochista, disperso
Primo Vai, sottocapo fuochista, disperso
Antonio Valentino, sottocapo radiotelegrafista, disperso
Francesco Vallone, marinaio fuochista, deceduto in territorio metropolitano l’8.10.1944
Gennaro Vitale, sottocapo cannoniere, deceduto
Davide Zorzi, marinaio elettricista, disperso
Carlo Ottone, marinaio radiotelegrafista, disperso

Ancora una foto del Pancaldo come appariva nel 1943 (g.c. Aneta Brzezinska/Profile Morskie)


Di seguito una serie di immagini scattate a bordo del Pancaldo nei primi anni Trenta, quando ancora era classificato esploratore. Tutte le fotografie, realizzate dall’allora cannoniere puntatore (successivamente divenuto maresciallo capocannoniere stereotelemetrista) Antonio Miccoli, imbarcato sul Pancaldo dal 1930 al 1933, sono state gentilmente concesse dal figlio Marino.

In esercitazione con emissione di cortine nebbiogene, insieme ad altre unità della classe Navigatori:
 





 In navigazione con mare mosso, sempre insieme ad altri “Navigatori”:



Lanci di siluri:




La scia prodotta all’estrema poppa


Il complesso binato centrale da 120 mm


Teloni usati per convogliare area fresca attraverso le maniche a vento e nei locali interni, usate comunemente prima che venisse introdotta l’aria condizionata o forzata (foto scattate durante la crociera aerea di Balbo):


Sovrastruttura e complesso da 120 visti da prora estrema:

  
La squadra del Pancaldo vincitrice di una gara di voga tra unità della Regia Marina, in posa dopo la vittoria. Antonio Miccoli è il secondo da destra in prima fila, a braccia conserte, seduto accanto al salvagente.



Il maresciallo Antonio Miccoli (la terza foto è del 1936, la quarta del 1938, subito successiva alla nomina a capo di terza classe):



Il Pancaldo ed altri “Navigatori” ormeggiati con la poppa a terra



La maggior parte delle informazioni sui due affondamenti provengono dagli articoli “1940: l’estate degli Swordfish”, di Franco Prosperini, e “Canale di Sicilia, 30 aprile 1943”, di Marco Mattioli, su “Storia Militare”. Si ringraziano inoltre Antonello Forestiere, direttore del Museo della Piazzaforte di Augusta, e Domenico C. per alcune precisazioni e correzioni risultanti dalla sua ricerca documentale.