sabato 22 febbraio 2020

Cicogna

La Cicogna (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)

Corvetta della serie Gabbiano della classe Gabbiano (670 tonnellate di dislocamento in carico normale, 740 a pieno carico). Portava la sigla C 15.
Durante la sua breve carriera, che la vide principalmente impegnata nell’attività di scorta a convogli e caccia antisommergibili, effettuò 36 missioni di guerra (di cui 9 di scorta), percorrendo 5273 miglia nautiche e trascorrendo 494 ore in mare, ed affondò con bombe di profondità il sommergibile britannico Thunderbolt.

Breve e parziale cronologia.

15 giugno 1942
Impostazione presso i cantieri Ansaldo di Sestri Ponente (Genova) (numero di costruzione 565).
12 ottobre 1942
Varo presso i cantieri Ansaldo di Sestri Ponente.

La Cicogna (in secondo piano, a sinistra) e la gemella Gru (in primo piano) alla banchina allestimento navi dei Cantieri Ansaldo di Genova Sampierdarena, a fine gennaio 1943 (g.c. STORIA militare)

11 gennaio 1943
Entrata in servizio.
È la sesta unità della classe Gabbiano ad essere completata.

La Cicogna alla banchina allestimento dei cantieri Ansaldo di Genova nel gennaio 1943 (Coll. Marco Ghiglino)

Gennaio-Febbraio 1943
Svolge un breve periodo di addestramento preliminare a La Spezia, al termine del quale viene assegnata alla I Squadriglia Corvette, dipendente dal Settore della Sardegna e della Sicilia ed avente base a Trapani (per altra fonte sarebbe stata assegnata alla I Squadriglia fin dall’entrata in servizio, restando però a La Spezia per l’addestramento).
Marzo 1943
Si trasferisce da La Spezia a Trapani, dove rimarrà poi dislocata, svolgendo attività di ricerca antisommergibili e scorta convogli.

La Cicogna durante un’esercitazione al largo di La Spezia con il vecchio sommergibile H 6, nella primavera del 1943 (USMM)

12 marzo 1943
Alle 00.30 la Cicogna (tenente di vascello Augusto Migliorini), insieme alle torpediniere Sirio (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti, caposcorta capitano di vascello Corrado Tagliamonte), Ardito (capitano di corvetta Silvio Cavo) e Pegaso (capitano di corvetta Mario De Petris), salpa da Napoli per scortare a Tunisi il convoglio «D», formato dai piroscafi tedeschi Esterel e Caraibe.
Alle 2.10 l’Ardito deve rientrare a Napoli a causa di una grave avaria di macchina.
Alle 14.40 si uniscono al convoglio la cisterna militare Sterope, partita da Messina e diretta a Biserta, e le torpediniere Cigno (capitano di corvetta Carlo Maccaferri) ed Orione (capitano di corvetta Luigi Colavolpe) che la scortano. Poco prima si è unita alla scorta anche la corvetta Persefone (capitano di corvetta Oreste Tazzari), salpata da Trapani, che insieme alla gemella Antilope ed a cinque cacciasommergibili tedeschi ha il compito di effettuare ricerca e caccia antisom preventiva; poco dopo si aggrega anche la vecchia torpediniera Generale Antonino Cascino (tenente di vascello Gustavo Galliano), proveniente da Messina.
Alle 16.10, al largo di Capo Cefalù, si unisce alla scorta anche la torpediniera Libra (capitano di corvetta Gustavo Lovatelli), proveniente da Palermo, e più tardi i cacciasommergibili VAS 231 e VAS 232.
Già dal 10 marzo, tuttavia, i comandi britannici – attraverso le decrittazioni di “ULTRA” – sanno che la nave cisterna Sterope e la motonave Nicolò Tommaseo devono arrivare a Messina alle 20 del 9, provenienti da Brindisi, per poi unirsi ad Esterel e Caraibe ed alla motonave Manzoni, provenienti da Napoli e diretti a Messina o Trapani, e fare rotta insieme verso Tunisi e Biserta, dove giungere nel pomeriggio dell’11. Il 12 marzo “ULTRA” ha poi appreso del rinvio di 48 ore di tale programma, con l’arrivo a Messina di Sterope e Tommaseo alle 14 dell’11 anziché la sera del 9; i comandi britannici deducono correttamente che la prevista riunione in mare avverrà nella giornata del 12, e pertanto inviano numerosi aerei a cercare il convoglio.
Lo trovano alle 20.40: tra quell’ora e le 21.20 il convoglio viene continuamente sorvolato da aerosiluranti, bersagliati più volte dal tiro di tutte le navi (per altra fonte, il convoglio sarebbe stato localizzato per la prima volta alle otto di sera da un velivolo munito di proiettore «Leigh Light», che avrebbe illuminato le navi e comunicato l’avvistamento, scatenando alle nove di sera l’attacco degli aerosiluranti). Uno di essi, un Bristol Beaufort del 39th Squadron pilotato dal tenente Arnold M. Feast, viene abbattuto dal tiro della scorta; la Persefone recupera tre superstiti, tra cui lo stesso Feast. Ciononostante, alle 21.25 (o 21.35), dodici miglia ad ovest di Capo Gallo, la Sterope viene colpita a prora sinistra da un siluro, sganciato da un altro Beaufort del 39th Squadron R.A.F. (pilotato dal capitano Stanley Muller-Rowland). Per ordine del caposcorta, Pegaso e Cascino sono distaccate per assistere la petroliera danneggiata, mentre il resto del convoglio prosegue.
Altri quattro Beaufort attaccano le navi italiane, senza ottenere ulteriori centri; due di essi sono colpiti, uno dei quali (sergente William A. Blackmore) viene abbattuto senza superstiti e l’altro (sergente J. T. Garland) viene gravemente danneggiato ma riesce a tornare a Luqa (Malta).
Alle 22.19 (o 22.10) il convoglio viene nuovamente attaccato, stavolta dal sommergibile britannico Thunderbolt (capitano di corvetta Cecil Bernard Crouch), che silura e danneggia l’Esterel sei miglia ad est di Capo San Vito siculo (per altra fonte, due miglia a nord di tale Capo).
Il Thunderbolt è partito da Malta il precedente 9 marzo per la sua quindicesima missione di guerra, la sesta in Mediterraneo, con l’ordine di pattugliare le acque ad ovest di Marettimo e la costa nordoccidentale della Sicilia e poi raggiungere Algeri al termine della missione; non si è mai avuta una formale conferma che sia stato questo battello a silurare l’Esterel, non essendo il Thunderbolt mai rientrato dalla sua missione (come si vedrà più sotto), ma non avendo alcun altro sommergibile britannico rivendicato un attacco in circostanze compatibili con questo siluramento, è pressoché certo che sia stata proprio opera del Thunderbolt.
Dopo l’attacco, il convoglio viene raggiunto da due cacciasommergibili, il VAS 231 ed il VAS 232, che danno assistenza all’Esterel per qualche minuto prima di allontanarsi di nuovo. Su ordine della Sirio, la Persefone e l’Orione danno assistenza all’Esterel; il piroscafo danneggiato viene anch’esso preso a rimorchio (prima dall’Orione e successivamente da due rimorchiatori inviati da Trapani) e portato a Trapani, dove giungerà l’indomani alle 14.20 (ma non sarà mai riparato).
Dopo l’attacco, la Libra viene distaccata dalla Sirio per dare la caccia al sommergibile, che riesce a localizzare con l’ecogoniometro alle 23.42, in posizione 38°17’ N e 12°57’E (una dozzina di miglia a nordest di Capo San Vito siculo), mantenendo poi il contatto per due ore e bombardandolo con sette scariche di bombe di profondità tra le 23.47 e l’1.38 del 15. Dopo l’ultima scarica, l’equipaggio della Libra vede emergere una colonna d’acqua e fumo nero e sente un forte odore di nafta, il che induce il suo comandante a ritenere di avere affondato il sommergibile; con il senno di poi, è probabile che il Thunderbolt sia stato danneggiato in questo attacco.
In seguito ai siluramenti di Esterel e Sterope, il convoglio riceve ordine di interrompere la traversata verso Tunisi e di entrare invece a Trapani (secondo altra fonte, invece, il dirottamento a Trapani del convoglio sarebbe stato determinato dall’avvistamento – verificatosi alle 20.18 del 12, da parte di un ricognitore della Luftwaffe –  di quattro cacciatorpediniere britannici al largo di Bona, con rotta nordest ed elevata velocità); alle 22.55, tuttavia, la Cicogna viene distaccata per dare la caccia ad un altro sommergibile che ha localizzato. Lo attacca con lancio di bombe di profondità, ma senza risultato.

Il tenente di vascello Augusto Migliorini, comandante della Cicogna dall’entrata in servizio al giugno 1943. Nato a Piombino (Livorno) il 31 marzo 1911 ed entrato in Marina nel 1928, dopo un periodo di imbarchi su unità di superficie prestò ininterrottamente servizio su sommergibili dal 1937 al 1942: dapprima sul Galileo Ferraris durante la guerra civile spagnola, poi come comandante in seconda sul Tembien all’inizio della seconda guerra mondiale, ed infine al comando del Nereide in Mediterraneo (gennaio 1941-aprile 1942) e del Luigi Torelli in Atlantico (maggio-settembre 1942). Accumulò così una preziosa esperienza come sommergibilista, che gli sarebbe tornata utile quando venne destinato al comando di un’unità antisommergibili come una corvetta, divenendo così nemico mortale dei mezzi subacquei su cui era stato imbarcato fino ad allora. Destinato al comando della Cicogna nel settembre 1942, prima ancora che questa fosse varata, vi rimase fino a poco più di un mese prima del suo affondamento. Sorpreso a Genova dall’8 settembre 1943, si diede alla macchia ed entrò a far parte della Resistenza, assumendo la direzione del Servizio Informazioni Clandestino in Liguria nel marzo 1944; fu arrestato due volte da tedeschi e repubblichini e due volte scappò, riprendendo la propria attività di raccolta di informazioni militari e collegamento tra i diversi gruppi partigiani della zona ed una missione britannica fino alla fine del conflitto. Fu decorato complessivamente con una Medaglia d’Argento e cinque di Bronzo al Valor Militare (tre per il suo servizio sui sommergibili, una per l’affondamento del Thunderbolt con la Cicogna, una per l’attività partigiana), una Croce di Guerra al Valor Militare e due Croci al Merito di Guerra. Lasciata la Marina nel 1946, fu eletto in quello stesso anno sindaco di Finale Ligure, dove si era trasferito a vivere con la famiglia già durante la guerra, venendo poi rieletto per quasi trent’anni di fila (lasciò la carica di sindaco soltanto nel 1975, dopo aver governato Finale dal 1946 con una sola interruzione nel periodo 1960-1964). Fu inoltre presidente dell’Ente porto di Savona e della società Italia di Navigazione. A Finale Ligure morì il 2 agosto 1983.

13 marzo 1943
Alle sette del mattino la Cicogna, conclusa la caccia, entra a Trapani, dove il resto del convoglio è arrivato sei ore prima.
Alcune ore più tardi, alle 13.45, la Cicogna lascia Trapani per dare la caccia al sommergibile precedentemente attaccato dalla Libra. Alle 18.45 la Cicogna incontra la Persefone, anch’essa incaricata di cercare il sommergibile, nella zona in cui le due corvette dovranno svolgere il loro rastrello antisom: le condizioni meteomarine sono ideali.
La ricerca continua per tutta la notte, ma senza risultato; di tanto in tanto la Cicogna lancia qualche bomba di profondità, ma non riesce ad ottenere contatti chiari all’ecogoniometro.
14 marzo 1943
Alle 5.16 la ricerca è finalmente coronata da successo: la Cicogna ottiene una buona eco col proprio ecogoniometro, e lancia subito un segnale galleggiante per indicare la posizione del sommergibile. La Persefone, invece, non riesce a rilevare a sua volta il sommergibile, e poco dopo (poco prima delle 5.30) riceve l’ordine di lasciare la zona per assumere la scorta del piroscafo Pegli, in navigazione da Trapani a Palermo.
Rimasta sola, la Cicogna continua per due ore nella sua ricerca ecogoniometrica: a tratti il contatto è molto nitido, ma in altri momenti tende ad affievolirsi, fino anche a sparire del tutto.
Alle 7.34 la Cicogna ottiene di nuovo un buon contatto, ed alle 7.38 avvista un periscopio a 2000 metri a proravia sinistra, ma non riesce ad ottenere nuovamente un contatto sonar, ed il periscopio subito sparisce sotto la superficie (secondo altra fonte, invece, l’idrofono stabilisce un contatto nella direzione in cui è stato avvistato il periscopio, ma lo perde subito); il comandante Migliorini – mettendo a frutto la propria precedente esperienza di sommergibilista – decide di non attaccare subito, per indurre il comandante del sommergibile nemico a credere che la Cicogna abbia esaurito la propria scorta di bombe di profondità, ordinando di assumere velocità 10 nodi e di preparare al lancio un “pacchetto” di 24 bombe di profondità in attesa del momento giusto per attaccare. Alle 8.45 viene ottenuto di nuovo un buon contatto sonar e l’idrofonista della Cicogna inizia a battere distanze progressivamente decrescenti, mentre il rilevamento del sommergibile rimane invariato; poco dopo (alle 8.48, proprio quando Migliorini ha infine deciso di lanciare le bombe e sta per dare l’ordine), alcuni uomini sulla prua della corvetta avvistano di nuovo il periscopio del battello nemico, sulla dritta, stavolta ad appena due metri di distanza, ma questo subito scompare sotto la superficie. Sporgendosi dall’aletta di plancia per guardare, il comandante Migliorini può vedere personalmente la scia del periscopio che defila lungo il lato di dritta della Cicogna ad una distanza di circa due metri e mezzo; ordina di lanciare subito le 24 bombe di profondità e poi, mentre queste esplodono in mare, di aumentare la velocità ed accostare di 180° (170° per altra fonte), invertendo la rotta, per condurre un nuovo attacco. Temendo che l’ultima salva del pacchetto appena lanciato possano essere esplose ad una profondità troppo elevata, Migliorini dà ordine di preparare al lancio un altro pacchetto di 24 bombe; tuttavia, poco dopo che la Cicogna ha completato l’inversione di rotta, viene notato un ribollio in superficie a poca distanza, dopo di che la poppa del sommergibile viene vista affiorare in superficie, ondeggiando violentemente e fortemente sbandata sulla sinistra (circa 90° secondo alcune fonti), levandosi nel cielo perpendicolarmente alla superficie, con un angolo di quasi 90°. Dopo essere affiorata fino a mostrare anche un tratto di chiglia, la poppa del sommergibile scompare nuovamente sotto la superficie, lasciando dietro di sé una massa ribollente di carburante affiorante e bolle d’aria. L’esplosione delle bombe di profondità ha investito in pieno il Thunderbolt, che è affiorato momentaneamente con la poppa – forse per effetto dell’esplosione delle bombe, che ha sollevato lo scafo, o forse in un disperato tentativo di emergere – per poi affondare definitivamente. La Cicogna ripassa nel punto in cui la poppa del sommergibile è affiorata e poi scomparsa, nella quale il mare continua a ribollire, e vi getta altre due bombe di profondità; dopo le nuove esplosioni si verifica un ulteriore abbondante affioramento di nafta e bolle d’aria (secondo altra fonte, invece, la quantità di nafta affiorata sarebbe stata “modesta”), seguito dopo circa quattro minuti da un’abbondante quantità di acre fumo biancastro, una vera e propria nube, che il comandante Migliorini ritiene essere gas di cloro prodotto dal contatto dell’acqua di mare con l’acido solforico delle batterie del sommergibile. Migliorini ordina di invertire la rotta, e la Cicogna torna ancora una volta sul punto in cui è scomparso il Thunderbolt per lanciarvi un’ultima bomba di profondità, dopo la quale si verifica «un’eruzione di acqua bianca». La corvetta si trattiene sul posto per un’altra ora, ma non ottiene più alcun contatto all’ecogoniometro, ed alla fine lascia la zona e si allontana ad elevata velocità. Nel suo rapporto, il comandante Migliorini scriverà: «Smg nemico colpito, probabilmente affondato, non identificato».
Il Thunderbolt è affondato con tutto l’equipaggio nel punto 38°14’ N e 12°42’ E, a 4,1 miglia per 338° dal faro di Capo San Vito Siculo (sulla costa settentrionale della Sicilia), dove il mare è profondo più di mille metri (altre fonti indicano come posizione 38°15’ N e 15°15’ E, presso Capo Milazzo, od ancora “vicino all’imbocco settentrionale dello stretto di Messina”, ma si tratta di un errore).
Il marinaio cannoniere Salvatore Curatolo, siciliano, all’epoca diciannovenne, racconterà sessantotto anni più tardi: "…difficile dimenticare quella sagoma scura emersa dall’acqua. (…) Quando il Comandante Augusto Migliorini, uomo di grande capacità e sensibilità, ha dato il via alla salva, siamo rimasti stupiti. Se lo bombardiamo li facciamo fuori tutti, era il nostro pensiero, ma ovviamente abbiamo obbedito all’ordine. Dopo aver scaricato ventiquattro bombe sull’obiettivo è trascorso un minuto, forse meno, prima di vedere emergere il sommergibile colpito. (…) Migliorini era stato un sommergibilista e non fu difficile per lui capire la tattica del nemico. (…) Pensavamo alla vita di quei poveri uomini, ma in guerra si sa: morte tua, vita mia. La costa della Sicilia era molto lontana, circa quattro, sei miglia dalla costa. Esattamente non so dire di fronte a quale punto della Sicilia ci trovavamo. A due o tre ore di navigazione da Trapani. (…) Quando ho visto la pinna in aria, ho pensato: quante madri piangeranno".

La Cicogna durante la caccia al Thunderbolt (?) (Coll. Franco Bargoni, tratta da “Esploratori, fregate, corvette ed avvisi italiani 1861-1968” di Franco Bargoni e Franco Gay, USMM 1969, via Marcello Risolo)

È la seconda volta che questo sommergibile affonda nell’arco di quattro anni: il Thunderbolt, infatti, era stato originariamente varato nel giugno del 1938 con il nome di Thetis, ma era affondato il 1° giugno 1939 per un tragico errore durante una prova d’immersione nella baia di Liverpool. Su 103 uomini presenti a bordo (oltre all’equipaggio, anche decine di operai e funzionari del cantiere di costruzione, osservatori tecnici ed altro personale civile e militare dell’Ammiragliato), soltanto in quattro erano riusciti ad uscire dal sommergibile, la cui poppa era rimasta affiorante al disopra della superficie per parecchie ore; tutti gli altri erano deceduti per soffocamento. Successivamente, durante le operazioni di recupero, si era verificata una centesima morte, quella di un palombaro impiegato nei lavori. Recuperato e riparato, il Thetis era stato rimesso in servizio nell’ottobre 1940 con il nuovo nome di Thunderbolt, ed aveva avuto una carriera abbastanza fortunata, affondando un sommergibile (l’italiano Capitano Tarantini), tre navi mercantili e quattro motovelieri oltre a lanciare un attacco di “chariots” (mezzi d’assalto derivati dai siluri a lenta corsa italiani) contro il porto di Palermo, affondando lo scafo dell’incompleto incrociatore leggero Ulpio Traiano e danneggiando gravemente la motonave Viminale. Fortuna terminata con il suo incontro con la Cicogna. Con i 62 uomini del suo “secondo” equipaggio, sono state in tutto 162 le vite perdute su questo sommergibile.
La perdita del Thunderbolt verrà ufficialmente rivelata dalle autorità britanniche soltanto due mesi e mezzo più tardi, il 2 giugno 1943, cioè esattamente quattro anni dopo la scoperta dell’affondamento del Thetis (che, affondato la sera del 1° giugno, era stato trovato soltanto il mattino successivo) e gli infruttuosi tentativi di salvarne l’equipaggio.
Il comandante Migliorini sarà decorato, per l’affondamento del Thunderbolt, con una Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: «Comandante di unità antisommergibile, impegnata in una missione di scorta convoglio, eseguiva la ricerca di un sommergibile che, in precedenza, aveva colpito con siluro una unità scortata. Rilevata la posizione dell’unità nemica, la attaccava con decisione e, nonostante la reazione, la colpiva ripetutamente sino a provocare l’affondamento».
Una volta affondato il Thunderbolt, la Cicogna riceve l’ordine di raggiungere la Persefone ed il Pegli per unirsi alla scorta del piroscafo, e così fa.
Alle 9.01, nel punto 38°16’ N e 13°09’ E, il sommergibile britannico Sibyl (tenente di vascello Ernest John Donaldson Turner) avvista il convoglio, scortato anche da due idrovolanti, a 6400 metri di distanza, ed alle 9.49 – in posizione 38°16’ N e 13°10’ E – lancia quattro siluri da 1650 metri. Dopo un minuto il Pegli viene colpito da una delle armi ed inizia a sbandare, in preda agli incendi; Cicogna e Persefone (per altra fonte, la sola Persefone) passano subito al contrattacco con abbondante lancio di bombe di profondità (dieci alle 9.55, esplose piuttosto vicine al Sibyl; altre dieci poco più tardi, scoppiate a maggiore distanza), ma senza riuscire ad arrecare danni al sommergibile attaccante.
Dopo oltre un’ora di agonia, il Pegli affonda nel punto 38°14’ N e 13°13’ E (a sei miglia per 270°, cioè ad ovest, di Capo Gallo); le corvette riescono a salvare la maggior parte dei 40 uomini dell’equipaggio, mentre quattro risultano dispersi, compreso il suo comandante. Terminato il salvataggio, la Persefone ed un’altra corvetta frattanto sopraggiunta, l’Antilope, riprendono la caccia contro il Sibyl, che tuttavia riesce ad allontanarsi indenne (in tutto, durante la caccia le corvette lanciano infruttuosamente ben 95 bombe di profondità).

La Cicogna al largo di Torre Ligny (Trapani) il giorno dopo l’affondamento del Thunderbolt

15 marzo 1943
Cicogna e Persefone partono da Trapani e vengono inviate a rinforzare la scorta del convoglio «Volta», in navigazione da Biserta all’Italia e composto dai piroscafi italiani Volta, Teramo (entrambi carichi di circa 500 prigionieri di guerra) e Forlì, dal piroscafo tedesco Charles Le Borgne, dalla piccola motocisterna italiana Labor e dalla nave cisterna tedesca Ethylene, con la scorta delle torpediniere Cigno, Sirio (caposcorta) e Libra.
Cicogna e Persefone raggiungono il convoglio alle 12.30 del 15 marzo (altra versione parla delle 2.30, ma sembra probabile un errore); alle 17.40 il convoglio riceve ordine di raggiungere Trapani, per sostarvi qualche ora.
Alle 18.34, a poca distanza dalle Egadi, scoppia sull’Ethylene un incendio, causato da autocombustione di gas di benzina presenti nelle sue cisterne vuote: la petroliera tedesca viene presa a rimorchio dalla Libra, che la traina fino alle 21 circa, quando viene rilevata nel rimorchio dal rimorchiatore Tifeo appositamente uscito da Trapani.
16 marzo 1943
Il convoglio, compresa la danneggiata Ethylene, raggiunge Trapani all’una di notte; le navi sostano in rada per tre ore, dopo di che ripartono alle quattro (o 4.30) del mattino, senza più l’Ethylene che rimane invece a Trapani.
Lasciata Trapani, il convoglio segue la costa siciliana fino a Palermo, dove arriva alle 12.15 dello stesso giorno; Cicogna, Persefone, Labor e Volta entrano in porto e vi rimangono, mentre il resto del convoglio prosegue per Napoli.
17 marzo 1943
Cicogna, Antilope e Persefone (caposcorta) salpano da Palermo alle 6.25 per scortare a Trapani le cisterne militari Devoli e Velino.
Alle 10.57, a sei miglia per 245° dal faro di Capo San Vito, il sommergibile britannico Splendid (tenente di vascello Ian Lachlan Mackay McGeogh) lancia quattro siluri contro la Devoli, da una distanza di soli 550 metri: colpita da due delle armi a prua ed a poppa, la nave cisterna si capovolge immediatamente per poi galleggiare in questo stato fino all’una del pomeriggio, quando affonda portando con sé 14 dei 32 membri dell’equipaggio. È la Cicogna a recuperare i diciotto superstiti, mentre Antilope e Persefone danno la caccia al sommergibile attaccante senza risultati tangibili; poi, ultimato il salvataggio e trasbordati i naufraghi su un rimorchiatore, la Cicogna passa a dare a sua volta la caccia al sommergibile, mentre le altre due corvette si allontanano scortando la Velino a Trapani. La Cicogna svolge una caccia sistematica fino alle 15.25, quando ottiene un buon contatto sonar a 2,5 miglia per 340° dal faro di Capo San Vito e lo attacca con il lancio di un “pacchetto” di 24 bombe di profondità. Ritenendo di aver danneggiato il sommergibile, il comandante Migliorini ordina altri due attacchi con bombe di profondità, dopo i quali vengono viste delle bolle d’aria affiorare in superficie, il che induce Migliorini a ritenere di aver certamente danneggiato il sommergibile nemico, ma non di averlo affondato (secondo altra fonte, invece, avrebbe ritenuto di averlo affondato). In realtà lo Splendid non ha subito danni, e si è ritirato verso nord a 91 metri di profondità (tornato a quota periscopica alle 15.15, avvista due “cacciatorpediniere” a circa tre miglia di distanza verso poppa, dopo di che si dirige verso acque tranquille a sudest di Ustica).
Durante la caccia, alle 15.45, la Cicogna avvista le scie di quelli che a bordo vengono ritenuti essere tre siluri, che la mancano; tuttavia, dal giornale di bordo dello Splendid non risulta alcun attacco con siluri dopo quello che affondò la Devoli. È probabile che l’equipaggio della Cicogna, nella tensione del momento, abbia scambiato per scie di siluri un’increspatura prodotta in realtà da qualcosa di diverso (ad esempio, dei cetacei in affioramento), cosa non infrequente in simili circostanze.
21 marzo 1943
La Cicogna e la gemella Antilope, insieme ai cacciasommergibili VAS 231 e VAS 232, partono da Trapani alle sette del mattino per scortare a Susa il piroscafo Foggia.
A causa del mare burrascoso, tuttavia, nel pomeriggio il convoglietto deve interrompere la traversata e rifugiarsi a Pantelleria, dove arriva alle 18.45.
22 marzo 1943
Alle cinque del mattino il convoglietto riparte alla volta di Susa, dove giunge alle quattro del pomeriggio.
30 marzo 1943
Partita da Trapani, alle 16 la Cicogna (tenente di vascello Augusto Migliorini) si unisce alla scorta del convoglio «GG», salpato da Napoli per Biserta il giorno precedente e formato dai piroscafi CremaChieti e Nuoro scortati dalle torpediniere Cigno (al comando del capitano di corvetta Carlo Maccaferri, ma con a bordo il caposcorta, capitano di vascello Francesco Camicia) e Cassiopea (capitano di corvetta Virginio Nasta) e dai cacciasommergibili tedeschi UJ 2203 e UJ 2210.
Qualche ora dopo, tuttavia, la Cicogna lascia il convoglio per scortare il Chieti a Palermo; qui le due navi giungono alle 23.35, dopo di che la corvetta riprende subito il mare per tornare ad unirsi al convoglio «GG».
31 marzo 1943
Alle 6.40, poco ad ovest delle Egadi, la Cicogna si ricongiunge con il convoglio «GG», cui poco prima si sono uniti il piroscafo Benevento, la torpediniera Clio (capitano di corvetta Carlo Brambilla) ed il cacciasommergibili tedesco UJ 2207. Le navi godono inoltre di forte scorta aerea.
Alle 13.52, mentre il convoglio è dieci miglia ad est del banco Skerki, viene attaccato da otto bombardieri Lockheed Hudson, scortati da 4-5 caccia Lockheed Lighting, che sganciano le bombe da 2500-3000 metri di quota, senza colpire alcuna nave. Sia i mercantili che le navi di scorta reagiscono violentemente con le proprie mitragliere, ma non colpiscono alcun aereo; anche i caccia italiani e tedeschi della scorta aerea, trovandosi a bassa quota al momento dell’attacco, non riescono ad aver contatto con i velivoli avversari. Alle 14.24 si unisce alla scorta la torpediniera Enrico Cosenz (capitano di corvetta Emanuele Campagnoli). Alle 15.57, mentre il convoglio si trova già in linea di fila per imboccare la rotta obbligata di Zembretta, subisce un attacco di tre ondate di aerei, una dopo l’altra: la prima, composta da altri otto bombardieri Hudson scortati da caccia Lighting, sgancia molte bombe da 2500 metri, senza colpire nulla; la seconda, formata da otto bombardieri e quattro aerosiluranti, sopraggiunge da ovest (direzione del sole, lato dritto del convoglio) e sgancia molte bombe ed alcuni siluri, di nuovo senza fare danni; alle 16 la terza ondata di sei bombardieri e cinque aerosiluranti attacca il convoglio su entrambi i lati. Stavolta – sono le 16 – il Nuoro viene colpito sul lato sinistro da un siluro, e scoppia un incendio a bordo. Le navi abbattono due aerei, i caccia tedeschi ne abbattono un terzo – un bombardiere quadrimotore – ma subendo la perdita di due velivoli (secondo altra fonte, le navi avrebbero abbattuto due aerei e la scorta aerea della Luftwaffe altri quattro).
La Cicogna viene distaccata per prestare assistenza al Nuoro, mentre il resto del convoglio prosegue.
Abbandonato dall’equipaggio, il Nuoro salta in aria alle 16.34, 28 miglia a nord dell’isola di Zembra, quando le fiamme raggiungono il carico di munizioni che ha nelle stive; la Cicogna non può fare altro che recuperare i naufraghi, ma riesce a trarne in salvo soltanto 44 – meno della metà del totale – prima che il forte vento, che la sta facendo scarrocciare pericolosamente verso un campo minato, induca il comandante Migliorini ad interrompere l’operazione e fare rotta verso Trapani. Altri 50 sopravvissuti del Nuoro verranno salvati successivamente da mezzi minori inviati sul posto, mentre alcuni dei naufraghi perderanno la vita durante la lunga permanenza in mare.
Il comandante del Nuoro, capitano Angelini (rimasto alla deriva per oltre ventiquattr’ore prima di essere tratto in salvo da alcune unità minori), descriverà nel suo rapporto il comportamento della Cicogna in modo piuttosto critico: «…Nel frattempo la corvetta C 15 si era avvicinata per raccogliere i naufraghi ed aveva messo a mare la sua piccola imbarcazione, con a bordo due marinai e sulla quale, scorgemmo con gioia che il GIACALONE [un marinaio del Nuoro] era stato tratto a bordo. Intanto però lo zatterino di provenienza francese, sprovvisto di acqua e delle altre dotazioni, sul quale avevamo trovato posto, aveva iniziato ad imbarcare acqua (…) Così decidemmo di chiedere soccorso all'imbarcazione della C15, la quale non avendo più posti disponibili a bordo, ci prese a rimorchio in attesa della corvetta. Attorno a noi si raccolsero altre zattere e naufraghi. Non eravamo preoccupati della situazione perché la corvetta era in zona e speravamo che presto, saremmo definitivamente stati tutti tratti in salvo. Trascorsero altri 30 minuti e vedemmo la corvetta dirigere verso la nostra parte. A circa 200 metri si fermò ed invece di imbarcare i naufraghi, richiamò la lancia e non appena imbarcati i suoi due marinai, lasciò la stessa e partì senza che nulla ci fosse comunicato».
1° aprile 1943
Alle 2.15 la Cicogna raggiunge Trapani e vi sbarca i 44 naufraghi del Nuoro, tra i quali vi sono diversi feriti.
Alcune ore più tardi prende nuovamente il mare per dare la caccia al sommergibile britannico Unrivalled (tenente di vascello Hugh Bentley Turner), che alle 9.20 ha lanciato una salva di siluri contro i motovelieri Triglav e San Matteo quattro miglia a sudest di Capo San Vito siculo, affondando il primo dei due. La Cicogna lancia una trentina di bombe di profondità tra le 9.40 e le 10.45, ma senza danneggiare l’Unrivalled, che si ritira indenne verso il mare aperto.
6 aprile 1943
Alle 7.12 la Cicogna entra a Trapani dopo aver completato una missione di scorta ad un convoglio.
Alle 15.13 Trapani subisce un bombardamento da parte di venti quadrimotori della 12th USAAF, aventi come obiettivo la zona portuale: e il porto viene infatti colpito, con l’affondamento di diverse unità minori (i MAS 533 e 576, il cacciasommergibili VAS 202, le vedette foranee V 54 Giuseppe Surdo, V 331 S. Vincenzo e V 332 Maria Rosa, i dragamine ausiliari B 26 Santa Lucia e B 556 Nuova Italia, il motoveliero Madonna di Montenero) ed il danneggiamento di altre, ma numerose bombe cadono anche sulla città, provocando ingenti danni (30.000 vani distrutti o danneggiati, pari a metà del totale, secondo fonti locali) e 63 vittime tra la popolazione civile, soprattutto nel rione popolare di San Pietro, il più colpito. Anche le perdite tra i militari sono considerevoli: tra il solo personale della Regia Marina, infatti, si registrano 18 morti e 32 dispersi; un imprecisato numero di soldati dell’Esercito trova la morte nella Caserma Fardella, colpita in pieno dalle bombe.
Tra le tante vittime di questa incursione sono anche tre membri dell’equipaggio della Cicogna: il marinaio Ugo Luppi, 23 anni, da Crevalcore (Bologna); il marinaio nocchiere Felice Mattera, 21 anni, da Serrara Fontana (Napoli); il marinaio Domenico Palli, 23 anni, da Rosciano (Pescara). Non risultando che la Cicogna sia stata danneggiata da questa incursione, è probabile che Luppi, Palli e Mattera siano stati tra i tanti marinai sorpresi a terra dal bombardamento, e periti in città insieme ai civili. Soltanto il corpo di Mattera sarà ritrovato: Luppi e Palli verranno considerati dispersi.
14 aprile 1943 (?)
Secondo una fonte non verificata, in questa data la Cicogna sarebbe stata danneggiata da una bomba, con vittime e feriti tra l’equipaggio (tra questi ultimi anche il sottocapo cannoniere Emanuele Nastasi, di 17 anni, gravemente ferito alla testa e ricoverato poi in ospedale per lungo tempo).
8 giugno 1943
Il marinaio elettricista Mario Nurchis, 19 anni, da Sorso (Sassari), facente parte dell’equipaggio della Cicogna, muore in territorio metropolitano (non è stato possibile accertare le esatte circostanze in cui ciò accadde).
21 giugno 1943
Il tenente di vascello Augusto Migliorini lascia il comando della Cicogna, venendo sostituito dal parigrado Giulio Riccardi.

(da “Esploratori, fregate, corvette ed avvisi italiani 1861-1968” di Franco Bargoni e Franco Gay, USMM 1969, via Marcello Risolo)

Bombe su Messina

“Porta” della Sicilia, e punto di passaggio pressoché obbligato per le truppe ed i rifornimenti inviati nell’isola dal continente, Messina si ritrovò, durante la seconda guerra mondiale, a diventare un obiettivo di prim’ordine per l’aviazione angloamericana.
Il primo bombardamento della città dello Stretto ebbe luogo il 9 gennaio 1941, ma fu ben poca cosa: un singolo bimotore Bristol Blenheim, qualche spezzone incendiario, pochi danni e nessuna vittima. L’indomani seguì un bombardamento più pesante – venti Blenheim ed alcun Swordfish –, ma anche questa volta i danni furono limitati, e non si ebbero a lamentare perdite umane. Seguì una pausa di sei mesi, poi un singolo bombardamento nel luglio del 1941, altri due in settembre, quattro in novembre e nove nel corso del 1942 (sei di fila nel mese di maggio, uno in giugno, uno in luglio ed uno in dicembre). Ma nel complesso, le incursioni aeree fino alla fine il 1942, a Messina come nel resto del Sud Italia, ebbero entità ben scarsa, essendo sferrate da un pugno di bimotori di base a Malta, troppo pochi per causare distruzioni su larga scala. Tutto cambiò con l’entrata in scena dell’USAAF: l’aviazione statunitense, dotata di quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator” e Boeing B-17 “Flying Fortress” in grado di trasportare ben altro carico bellico, avrebbe sferrato un’offensiva senza precedenti dalle nuove basi nordafricane, in cooperazione con una rinvigorita RAF, sino a ridurre Messina "in una condizione quasi simile a quella in cui fu ridotta dal terremoto del 1908".

Il primo bombardamento del 1943 ebbe luogo il 26 gennaio: dodici “Liberator” sganciarono le loro bombe sul porto e sugli scali ferroviari, causando danni piuttosto contenuti. La notte seguente bimotori britannici Vickers Wellington bombardarono il porto a più riprese, ma la maggior parte delle bombe caddero in mare, mentre due dei Wellington furono abbattuti dalla contraerea; l’indomani toccò ad altri cinque bombardieri statunitensi mentre il 30 gennaio fu ancora la RAF ad attaccare, di notte com’era sua abitudine, colpendo la stazione centrale, il porto, i depositi della nafta dei traghetti. La mattina successiva tornarono i “Liberator”, undici, colpendo il centro abitato e causando 57 morti ed oltre un centinaio di feriti. Questa incursione fece mancare acqua, luce e gas e seminò il panico tra la popolazione, che iniziò a sfollare in massa verso le campagne; scelta saggia quella di chi sfollò, perché l’indomani altri 17 “Liberators” (in due distinti attacchi) e 24 bombardieri statunitensi colpirono il centro cittadino, le invasature dei traghetti e la zona del porto. Il 3 febbraio fu il turno di 18 B-17 “Flying Fortress” che devastarono il centro cittadino con bombe dirompenti ed incendiarie; cinque giorni dopo quindici “Liberator” bombardarono ancora il centro di Messina causando 16 morti e 25 feriti. Ci fu poi una pausa di un paio di settimane, ma il 23 febbraio altri 25 quadrimotori statunitensi tornarono alla carica, causando otto vittime e 32 feriti. Il 3 marzo vi fu un fugace attacco da parte di sette “Fortezze Volanti”, mentre venti giorni dopo 30 “Liberator” colpirono ancora una volta il centro cittadino, causando dodici morti e 39 feriti. Il 24 marzo furono ben 50 i “Liberator” che martellarono la città per tutto il pomeriggio, seguiti in serata dagli aerei della RAF, che provocarono cinque vittime; il 1° aprile furono soltanto i britannici a bombardare, mentre il 6 aprile due squadriglie di “Liberator” sganciarono per l’ennesima volta le loro bombe sul centro cittadino, causando sei morti tra i civili. Ad inizio aprile, ormai, Messina era in uno stato pietoso: la fornitura di gas ed energia elettrica era interrotta, quella dell’acqua potabile fortemente limitata, i servizi pubblici collassati; 60.000 dei 200.000 abitanti della città erano sfollati nei villaggi circostanti, altre migliaia si erano adattate a vivere stabilmente nei rifugi antiaerei.

Il 12 aprile Messina fu colpita da più di cento bombardieri, tra britannici e statunitensi, ma il bilancio in termini di vite umane fu relativamente ridotto, forse per via dello sfollamento di massa dalle zone più a rischio: tre morti e dodici feriti; il 15 aprile USAAF e RAF si avvicendarono di nuovo sui cieli della città, mentre il 28 aprile 31 bombardieri statunitensi attaccarono le batterie contraeree, ma molte bombe finirono anche sulle abitazioni civili. Il 30 aprile fu la volta di 21 “Liberator”, che scatenarono vasti incendi sui monti Peloritani, causando sei vittime e dieci feriti; l’indomani toccò a 21 B-24; il 9 maggio si verificò il più pesante bombardamento che Messina avesse visto fino a quel momento, da parte di ben 120 quadrimotori “Liberator”, dei quali 40 colpirono la zona della stazione ferroviario e gli approdi dei traghetti, ed 80 colpirono il centro cittadino. La notte seguente, altre due formazioni di bombardieri colpirono città e porto. Aumentava il fenomeno dello sfollamento: i negozi di generi alimentari ancora aperti vendettero le ultime razioni di pane, 150 grammi al giorno, e poi chiusero i battenti. Il 13 maggio due ondate di bombardieri britannici colpirono la zona portuale e la stazione ferroviaria; una settimana più tardi l’USAAF devastò ancora una volta il centro storico, la zona portuale e le invasature dei traghetti, seguita dalla RAF che colpì le batterie contraeree ed i quartieri periferici. Il 22 maggio fu colpita per la prima volta la riviera nord, tra Paradiso e Ganzirri, nella quale si erano rifugiati molti sfollati dalle zone centrali; nella notte fu bombardato ancora una volta il centro cittadino, scatenando un incendio che divorò migliaia di piante dell’Orto Botanico e mettendo definitivamente fuori uso la rete idrica. Anche l’erogazione dell’acqua venne così definitivamente a mancare. Il 24 maggio settanta quadrimotori (40 britannici e 30 statunitensi) bombardarono il centro e la periferia a sud, e l’indomani più di 200 bombardieri – un nuovo primato per Messina – devastarono tutta la città ed affondarono in porto i piroscafi Polluce ed Iris, la torpediniera di scorta Groppo ed il traghetto Reggio (altra fonte parla, in quest’ultima data, di 40 B-24 e 89 B-17, che avrebbero sganciato 253 tonnellate di bombe).
Il 7 giugno la RAF bombardò Messina per tutta la notte, lanciando anche volantini con cui si esortava la popolazione a premere per la fine della guerra; il 13 giugno varie ondate di quadrimotori colpirono sia il centro che la periferia, provocando tre vittime civili, ed il giorno seguente 136 B-17 scaricarono sulla città 319 tonnellate di bombe. Il 17 giugno Messina fu bombardata da dieci bombardieri britannici; il 18 giugno 76 “Liberator” colpirono lo scalo ferroviario (distruggendo 25 vagoni carichi di rifornimenti) ed il porto (affondando il traghetto Scilla) sia il centro cittadino, provocando dieci vittime e 54 feriti. L’indomani i “Liberator” colpirono la riviera nord ed il porto; il 21 giugno ottanta bombardieri devastarono per l’ennesima volta i quartieri centrali, provocando numerose vittime, e quattro giorni dopo ben 130 “Liberators” martoriarono la sventurata città sicula per tutto il pomeriggio con un totale di 280 tonnellate di bombe, seguiti in serata, ancora una volta, dalla RAF.
In uno scenario di rovina e desolazione, pattuglie di soldati passavano per le vie distribuendo magre razioni di minestra, pane ed acqua ai civili accampati davanti ai ricoveri; l’ammiraglio Pietro Barone, comandante della Piazza Militare Marittima di Messina, diede ordine di evacuare dalla città gli ultimi civili, ma quelli che ancora vivevano a Messina preferirono restare presso quel che rimaneva delle loro case, vivendo nei rifugi antiaerei in condizioni facilmente immaginabili.

Il 28 giugno ebbe inizio uno stillicidio di attacchi da parte di bombardieri medi e leggeri e di cacciabombardieri, che concentrarono i loro attacchi sulla zona portuale: erano ormai in fase avanzata i preparativi per l’operazione "Husky", l’invasione della Sicilia, ed i comandi angloamericani intendevano paralizzare i collegamenti tra l’isola ed il continente. Il 29 giugno si verificò un duplice attacco da parte di bimotori, che causarono dieci morti ed un centinaio di feriti; il 5 luglio fu la volta di un nuovo attacco di 86 quadrimotori dell’USAAF, che provocò altre sette vittime e più di duecento feriti, attacco ripetuto l’indomani da altri 85 bombardieri statunitensi. Tra il 12 giugno ed il 2 luglio, cioè in tre settimane, le forze aeree angloamericane sganciarono 830 tonnellate di bombe su Messina.
Nella notte tra il 9 ed il 10 luglio, 160.000 soldati britannici, statunitensi e canadesi sbarcarono sulle spiagge della Sicilia sud-orientale, dando il via ad "Husky". Messina era lontana dalle zone dello sbarco, ma l’inizio delle operazioni terrestri non fece che acuire il suo martirio: ora più che mai la “porta della Sicilia” diventava un obiettivo di primaria importanza, da bombardare senza sosta per impedire dapprima l’afflusso di rinforzi e rifornimenti per i difensori e successivamente, quando i comandi dell’Asse decisero di ritirarsi dalla Sicilia, per ostacolare l’evacuazione delle truppe italo-tedesche.
Il 12 luglio, due giorni dopo lo sbarco, 140 quadrimotori dell’USAAF (altra fonte parla invece di 79 bombardieri) scaricarono ancora una volta centinaia di tonnellate di bombe sulla sventurata città dello Stretto, causando 76 vittime tra la popolazione civile; quella stessa sera un centinaio di bimotori Wellington della RAF ripeterono l’opera. La notte successiva, nuovo pesante bombardamento da parte di altri 43 velivoli della RAF: ormai le strade erano tanto crivellate di crateri e disseminate di macerie da rendere impossibile l’intervento delle squadre della Croce Rossa e dei Vigili del Fuoco. Ma il giorno peggiore fu probabilmente il 14 luglio: tra le dieci del mattino e le quattro del pomeriggio, furono ben 322 i bombardieri che martellarono Messina in più ondate (nelle due sole giornate del 13 e 14 luglio furono sganciate circa ottocento tonnellate di bombe). Terminato questo bombardamento, la popolazione rimasta si diede al saccheggio dei magazzini militari, per poi vendere la refurtiva sul mercato nero. In serata, ancora una volta, attaccarono i bombardieri della RAF. Altri attacchi aerei seguirono il giorno seguente, mentre il 17 ed il 19 luglio fu la volta di due bombardamenti navali da parte della Royal Navy.

E fu in quell’infernale estate messinese che ebbe fine anche la vita operativa della Cicogna.
Nel primo pomeriggio del 24 luglio 1943, cinque unità sottili si trovavano all’ancora nelle acque antistanti il sobborgo messinese di Pace: la Cicogna (al comando del tenente di vascello Giulio Riccardi), le gemelle Camoscio e Gabbiano e le torpediniere Pallade e Partenope. Non era, quello, un luogo tranquillo per ormeggiarsi: tutta la riviera nord di Messina, in quanto luogo di approdo delle motozattere che portavano rifornimenti dal continente, era continuamente soggetta ad attacchi aerei angloamericani. D’altra parte, quale luogo poteva considerarsi sicuro, a Messina, in quei terribili giorni?
La sorte della Cicogna si compì alle 13.45 (13.49 per altra fonte) di quel giorno, quando otto cacciabombardieri angloamericani piombarono sulla riviera nord bombardando e mitragliando ogni imbarcazione che incontrarono sul loro percorso (il diario di guerra della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine parla invece di un "pesante attacco aereo" che si sarebbe svolto a mezzogiorno). Delle cinque navi italiane all’ancora in quelle acque, soltanto Pallade e Gabbiano uscirono indenni dall’attacco: Camoscio e Partenope subirono entrambe gravi danni e perdite tra gli equipaggi (quattro morti e 25 feriti sulla Camoscio, dodici morti e numerosi feriti sulla Partenope, che dovette essere portata ad incagliare per evitarne l’affondamento), ma la sorte peggiore toccò proprio alla Cicogna.
All’ancora fra la rada di Paradiso e Ganzirri, la corvetta fu colpita da alcune bombe, che aprirono un grosso squarcio nello scafo e scatenarono un violento incendio (si parla addirittura di una “marea di fuoco”) che fece deflagrare parte delle munizioni presenti a bordo. L’equipaggio riuscì ad estinguere le fiamme, ma la nave dovette essere fatta incagliare sulla vicina spiaggia per scongiurarne l’affondamento.  La vita operativa della Regia Nave Cicogna era durata poco più di sei mesi.
Nell’attacco aereo persero la vita ventun uomini della Cicogna: quattro ufficiali, quattro sottufficiali e tredici tra sottocapi e marinai.

I loro nomi:

Dante Baroffio, marinaio torpediniere, da Legnano (deceduto)
Arnaldo Bianchi, sergente torpediniere, da Signa (deceduto)
Omero Criscuolo, sottotenente del Genio Navale, da Camogli (deceduto)
Fortunato Dordoni, marinaio nocchiere, da Genova (disperso)
Filippo Ferrando, marinaio torpediniere, da Ronco Scrivia (deceduto)
Gaetano Giuca, marinaio cannoniere, da Scicli (deceduto)
Azzo Antonino Longoni, tenente di vascello, da Sondrio (deceduto)
Attilio Meloni, secondo capo torpediniere, da Sassari (deceduto in territorio metropolitano il 27.7.43, presumibilmente per le ferite)
Aldo Meniconi, sottocapo cannoniere, da Perugia (deceduto)
Giglio Menzera, marinaio motorista, da Palagiano (deceduto)
Ivo Meucci, marinaio cannoniere, da Scandicci (deceduto)
Luigi Montanari, guardiamarina, da Varese (deceduto)
Raffaele Montanari, sottocapo, da Sestri Levante (disperso)
Attilio Pagan, marinaio, da Chioggia (deceduto)
Luciano Pietrarelli, marinaio cannoniere, da Roma (deceduto)
Antonio Polimeni, secondo capo furiere, da Reggio Calabria (deceduto)
Giulio Riccardi, tenente di vascello, da Pizzoli (deceduto)
Eduardo Rivolta, sergente, da Milano (deceduto)
Antonio Sanguineti, marinaio cannoniere, da Sestri Levante (deceduto)
Ciro Francesco Sesti, marinaio, da Taranto (disperso)
Pietro Tatarella, marinaio, da Cerignola (deceduto)


Tra le vittime di questa incursione vi furono anche il comandante della Cicogna, tenente di vascello Giulio Riccardi, ed il comandante in seconda, tenente di vascello Azzo Longoni. Entrambi avevano trent’anni, entrambi avevano scelto la carriera del mare pur essendo nati in mezzo alle montagne: Riccardi sull’Appennino abruzzese, Longoni in Valtellina. Li accomunò anche la tragica fine abordo della Cicogna. Il comandante Riccardi trovò la morte nel tentativo di arginare l’incendio prima che le fiamme facessero esplodere le bombe di profondità; alla sua memoria fu conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con la seguente motivazione: "Ufficiale di alto spirito combattivo, animato da fiero amore di Patria, in ogni momento dedicava la sua opera al servizio senza preoccupazione di sé. In attacco aereo a bassa quota che colpiva la nave al suo comando nel disperato tentativo di arginare la marea di fuoco che invadeva la coperta e minacciava l'esplosione di ingente quantitativo di bombe antisom nelle tramogge di poppa, trovava morte atroce ed eroica che coronava la sua opera dedita alla Marina ed alla Patria".
Era invece originario di un paese di mare come Sestri Levante il cannoniere armaiolo Antonio Sanguineti, di venti anni. I suoi familiari seppero soltanto da un suo commilitone, sopravvissuto all’attacco, che Antonio era stato colpito durante il mitragliamento della Cicogna ed era morto per le ferite riportate.
Il marinaio ventunenne Filippo Ferrando al momento dell’attacco aveva appena terminato il suo turno di guardia e si era ritirato negli alloggi per riposare: passò dal sonno alla morte, come raccontarono alcuni suoi commilitoni ai suoi parenti che vivevano nel paesino di Isola del Cantone, abbarbicato sull’appennino ligure. Il suo compaesano Giorgio Pedemonte, anch’egli arruolato in Marina ed assegnato a terra presso un deposito di siluri a Napoli (inizialmente imbarcato sulla torpediniera Orione, era stato riassegnato a questo incarico dopo essere stato ferito durante un attacco aereo), era andato a trovarlo a bordo della Cicogna qualche mese prima, quando questa era passata per Napoli diretta verso sud (“lo ricordo in pantaloncini corti, faceva il panettiere da imbarcato”): Ferrando gli aveva esposto il proprio timore che la Cicogna non sarebbe mai giunta in Sicilia. Pedemonte lo aveva rassicurato dicendogli che la corvetta Gru, passata per Napoli appena tre giorni prima con a bordo un altro loro compaesano, Cristoforo Bregata, che aveva a sua volta espresso simili paure, era giunta in Sicilia sana e salva: invece, qualche tempo dopo, Pedemonte apprese la notizia della morte dell’amico.
Il motorista pugliese Giglio Menzera, ventenne, era fortunosamente scampato, qualche tempo prima, ad un incendio scoppiato nella sala macchine della Cicogna: mandato in licenza premio dopo aver contribuito a riparare i danni all’apparato motore, aveva manifestato i suoi timori in famiglia, dicendo alla madre – riferendosi all’incidente cui era scampato – che “i miracoli avvengono una sola volta”. E infatti, per lui, il miracolo non si ripeté in quel tragico 24 luglio.
Il guardiamarina ventiduenne Luigi Montanari, lombardo di Varese, era figlio primogenito del pittore Giuseppe Montanari, esponente della corrente artistica del «Novecento italiano». Il padre, da artista quale era, espresse il suo dolore attraverso una sua opera: un disegno a carboncino cui diede il titolo di “Sacrificio”, raffigurante tutta la famiglia – sé stesso, la moglie Nina, i figli Cini e Marisa – stretta “attorno al corpo esanime di Ciccio per un ultimo pietoso abbraccio”.

I feriti dell’attacco vennero trasbordati sulla nave ospedale Virgilio, che proprio in quel momento si apprestava a lasciare lo Stretto di Messina dopo aver imbarcato feriti tedeschi sulle spiagge di Sant’Agata.
Fin da subito le condizioni della Cicogna apparvero tali da rendere difficile un recupero; ma le già poche speranze che si potevano nutrire in tal senso furono definitivamente frustrate dall’andamento sfavorevole delle operazioni militari in Sicilia. Nella Sicilia sudorientale, Siracusa era stata occupata il giorno stesso dello sbarco, e la piazzaforte di Augusta era stata presa già il 12 luglio, in seguito alla diserzione di gran parte della guarnigione; lo stesso giorno era stata occupata anche Ragusa, mentre Agrigento, difesa ben più accanitamente da reparti di bersaglieri, cadde il 16 luglio insieme a Porto Empedocle, dopo di che le truppe statunitensi dilagarono nella Sicilia occidentale catturando 50.000 prigionieri e prendendo Palermo il 22 luglio, Trapani il giorno seguente e Marsala il 24. Anche Caltanissetta, al centro della Sicilia, era caduta il 18 luglio; Enna, già sede del comando della 6a Armata italiana, era stata occupata due giorni dopo. Catania, le cui difese erano state rinforzate da reparti di paracadutisti tedeschi, avrebbe resistito più a lungo, fino al 5 agosto; ma già a fine luglio era evidente che la battaglia per la Sicilia era persa, e che il massimo che si potesse fare era di ritirarsi verso Messina cercando di rallentare l’avanzata avversaria e di salvare il salvabile. Già il 29 luglio il comandante delle forze tedesche nel Mediterraneo, feldmaresciallo Albert Kesselring, scrisse ad Hitler per prospettare l’evacuazione delle truppe tedesche in Sicilia; il 4 agosto il comandante delle forze tedesche in Sicilia, general Hans-Valentin Hube, aveva proposto di iniziare ad evacuare le truppe ed il materiale superflui, contro il parere del comandante della 6a Armata, generale Alfredo Guzzoni, desideroso di prolungare ulteriormente la resistenza. Ciononostante, ed a dispetto delle rassicurazioni in senso contrario date da Hube a Guzzoni il 6 agosto, i Comandi tedeschi iniziarono egualmente a traghettare i loro uomini sul continente; Guzzoni, venutolo a sapere l’indomani, e conscio che le sue male armate e demoralizzate truppe non avrebbero potuto resistere a lungo da sole, diede inizio a sua volta all’evacuazione dei reparti italiani il 10 agosto. Nei giorni seguenti, traghetti, motozattere ed altre piccole imbarcazioni trasferirono in Calabria 62.000 soldati italiani e 40.000 tedeschi, insieme a quasi 10.000 veicoli e qualche migliaio di tonnellate di materiale militare. Le due evacuazioni, italiana e tedesca, furono condotte in maniera totalmente indipendente l’una dall’altra, in un’atmosfera di reciproca diffidenza tra due eserciti che si sentivano sempre meno alleati; l’evacuazione delle truppe italiane fu diretta dall’ammiraglio Barone e dal suo vice, contrammiraglio Pietro Parenti, mentre quella delle truppe tedesche fu organizzata dal capitano di fregata Gustav von Liebenstein. Il colonnello Bogislaw von Bonin, comandante del XIV Panzerkorps, sbarrò alle truppe italiane alcune delle strade di accesso a Messina, riservate esclusivamente ai reparti tedeschi, ed operò requisizioni arbitrarie di veicoli del Regio Esercito (fu per questo che i reparti tedeschi lasciarono la Sicilia con più veicoli di quanti non ne avessero avuto all’inizio della campagna); provvedimenti che nascose al suo comandante in capo, feldmaresciallo Kesselring, che probabilmente non avrebbe approvato.

Questo flusso di uomini e mezzi passava attraverso Messina, e l’aviazione angloamericana non dava dunque tregua alla città sicula: il 4 agosto Messina fu colpita da 200 bombardieri statunitensi (altra fonte parla di 130 bombardieri, di cui 69 B-17 statunitensi di giorno e 61 Wellington britannici di notte), che sganciarono 307 tonnellate di bombe, l’indomani da ben 400, e poi ancora il 6, il 7, l’8, il 9, il 12, il 13 (in queste due notti i Wellington britannici sganciarono ben 339 tonnellate di bombe), il 14, il 15, il 16 (in queste due ultime date, 95 bombardieri e 485 tra caccia e cacciabombardieri sganciarono complessivamente 154 tonnellate di bombe). In quest’ultima data ci si mise anche la Royal Navy, con un bombardamento navale effettuato dagli incrociatori Uganda e Mauritius, dal monitore Roberts e dalle cannoniere olandesi Flores e Soemba. Nel solo periodo tra il 31 luglio ed il 10 agosto i bombardieri angloamericani compirono 528 sortite ed i cacciabombardieri 759, lanciando in tutto 1415 tonnellate di bombe, su un totale di 6542 tonnellate di esplosivo piovute su Messina nell’arco dell’intera guerra: poco più di duecento tonnellate tra il 1940 ed il 1942, 2056 tonnellate nei primi sei mesi del 1943 e ben 4300 tonnellate tra luglio ed agosto. Questa pioggia di bombe aveva distrutto oltre un terzo degli edifici di Messina e provocato almeno 854 vittime civili, oltre ad indurre la quasi totalità della popolazione a sfollare.
Il 16 agosto, ormai, il fronte era giunto alle porte di Messina. A sud, l’VIII Armata britannica era arrivata a Scaletta Zanclea, dove la trattenevano le retroguardie della divisione paracadutisti tedesca "Hermann Göring" nonché i campi minati e gli ostacoli stradali lasciati dalle truppe dell’Asse in ritirata; ad ovest, la VII Armata statunitense aveva occupato Rometta e Spadafora quel pomeriggio, rallentata da reparti della 29. Panzergrenadier-Division tedesca attestati in terreno favorevole alla difesa tra Villafranca Tirrena, il sobborgo messinese di Gesso ed i monti Peloritani. Ormai i cannoni da 155 mm “Long Tom” dell’esercito statunitense riuscivano già a raggiungere col loro tiro Villa San Giovanni, sulla sponda calabrese dello Stretto. In città il generale di brigata Ettore Monacci, che una settimana prima aveva assunto il comando della Piazza di Messina al posto dell’ammiraglio Barone (il 9 agosto, infatti, erano stati sciolti sia il Comando Militare Marittimo Autonomo della Sicilia che la Piazza Militare Marittima di Messina), ordinò la distruzione mediante cariche esplosive delle opere portuali che erano sopravvissute ai bombardamenti, e l’evacuazione delle ultime truppe; poi lasciò anch’egli Messina, tra gli ultimi, prima di mezzanotte. Alle 5.30 del 17 agosto il generale Walter Fries, comandante della 29. Panzergrenadier-Division, ed il suo superiore Hans-Valentin Hube, comandante di tutte le truppe tedesche in Sicilia, lasciarono Messina; alle 6.15 duecento soldati tedeschi della "Hermann Göring" e della 29a Panzergrenadier, che formavano le retroguardie che avevano sbarrato gli ultimi accessi della città a Casazza ed Acqualadrone, s’imbarcarono a loro volta per la Calabria. Ultimissima ad andarsene fu una pattuglia ritardataria di otto soldati italiani, che riuscirono a salire all’ultimo momento su un mezzo semovente tedesco.
Le prime truppe Alleate ad entrate a Messina furono americane: un plotone della compagnia "L" del 3rd Battalion, 7th Infantry Regiment della 3a Divisione Fanteria statunitense, al comando del sottotenente Ralph Yates, ed una pattuglia della compagnia comando del medesimo battaglione, al comando del parigrado Jeff McNeely, entrambe la sera del 16 agosto. Alle sette del mattino successivo, neanche un’ora dopo la partenza delle ultime truppe dell’Asse, il generale Lucian Truscott, comandante della 3a Divisione Fanteria statunitense, ricevette le autorità civili di Messina sulle colline ad ovest della città; un’ora dopo Truscott incontrò il console della M.V.S.N. Michele Tomasello, comandante della 6a Legione della MILMART ed ufficiale più alto di grado ad essere rimasto a Messina, per trattare la resa formale della città. Avendo l’ordine di aspettare il comandante della VII Armata, generale Patton, Truscott rimandò Tomasello in città accompagnato dal suo aiutante, generale di brigata William W. Eagles, ed attese il suo superiore mentre a partire dalle 8.30 quattro compagnie statunitensi del 7th e del 145th Infantry Regiment facevano il loro ingresso a Messina per procedere alla sua occupazione.
Patton e Truscott entrarono a Messina verso le dieci del mattino; il comandante della VII Armata, insieme a ben sei altri generali (Truscott; Eagles; Hobart R. Gay, capo di Stato Maggiore di Patton; Walter Bedell Smith, capo di Stato Maggiore del quartier generale interalleato nel Mediterraneo, l’Allied Force Headquarters; John P. Lucas, vice del generale Eisehnower, comandante in capo delle forze Alleate nel teatro del Mediterraneo; Geoffrey Keyes, vice di Patton), accettò la resa da parte del console Tomasello: niente più che una formalità, ad ogni modo, visto che di truppe dell’Asse a Messina e dintorni ne erano rimaste ben poche (i prigionieri catturati in quell’ultimo giorno non furono che duecento, soldati rimasti indietro e che non si erano potuti imbarcare). Quanto ai britannici, la cui avanzata era stata rallentata da campi minati ed ostacoli di vario genere, dovettero accontentarsi di entrare a Messina per secondi. Prime truppe di sua maestà a mettere piede nella città dello Stretto, già in mano agli statunitensi, furono quelle della 4th Armoured Brigade del generale di brigata John Cecil Currie ed i commandos del 2nd Commando del tenente colonnello John “Jack” Churchill.

Tra i tanti relitti che gli Alleati trovarono disseminati nel porto e nella rada di Messina era anche quello della Cicogna. Ridotta ad un relitto che fin da subito era apparso difficilmente recuperabile (tanto più in considerazione della pressoché ininterrotta offensiva aerea angloamericana su Messina), la corvetta era stata abbandonata in quello stato al momento della ritirata da Messina. Alcune fonti affermano anche che la corvetta sarebbe stata sabotata od autoaffondata prima dell’abbandono della città (onde evitare che potesse essere riparata dagli Alleati), ma il volume "Navi militari perdute" edito dall’Ufficio Storico della Marina Militare si limita a parlare di abbandono sul posto del relitto. Secondo altra fonte la Cicogna fu abbandonata sul posto dopo essere stata resa inutilizzabile; un altro volume dell’USMM, "Esploratori, fregate, corvette ed avvisi italiani 1881-1974" afferma che "il relitto della corvetta, reso inutilizzabile, fu affondato". Una foto pubblicata nel medesimo libro e datata settembre 1943, tuttavia, mostra la Cicogna ancora incagliata e non affondata, sebbene fortemente sbandata sul lato di dritta.
Quel che è certo è che gli angloamericani (né, dopo l’armistizio dell’8 settembre, la stessa Marina italiana) non fecero alcun tentativo di riparare la Cicogna, evidentemente troppo danneggiata.
 
Il relitto della Cicogna nel settembre 1943 (Coll. Franco Bargoni, via “Esploratori, fregate, corvette ed avvisi italiani 1861-1968” dell’USMM, via Marcello Risolo)

Neanche Camoscio e Partenope, le altre due navi gravemente danneggiate nell’incursione del 24 luglio, tornarono più in servizio sotto bandiera italiana: mentre, a differenza della Cicogna, poterono entrambe essere trasferite in Italia prima della caduta di Messina, i loro lavori di riparazione erano ancora in corso alla data dell’armistizio (8 settembre 1943), e caddero ambedue in mano tedesca, l’una a Livorno e l’altra a Napoli. La Partenope fu distrutta dalle truppe tedesche pochi giorni più tardi, al momento della loro ritirata da Napoli, mentre la Camoscio, riparata e messa in servizio dalla Kriegsmarine, affondò sotto bandiera tedesca in Mar Ligure nell’agosto 1944.

La Cicogna fu formalmente radiata dai quadri del naviglio militare il 18 ottobre 1946, con decreto del capo provvisorio dello Stato, ma il suo relitto rimase per altri sei anni ad arrugginire nelle acque antistanti Messina. Soltanto nell’ottobre del 1952, a poco meno di dieci anni dal bombardamento che aveva posto fine alla sua vita, la carcassa della corvetta venne alfine recuperata e demolita.

Sei dei ventuno uomini uccisi nell’incursione aerea del 24 aprile 1943, i cui resti non risultarono identificabili, riposano oggi in una tomba comune nel sacrario militare di Cristo Re a Messina, nel quale giacciono i resti di 1288 soldati, avieri e marinai morti nella seconda guerra mondiale (in gran parte morti nei combattimenti in difesa della Sicilia nell’estate del 1943) ed altri 110 periti nella prima guerra mondiale. Anche altri caduti della Cicogna, i cui corpi poterono essere invece identificati, riposano al Sacrario di Cristo Re, in loculi singoli che portano il nome di ciascuno di essi; tra di essi Antonio Sanguineti ed il suo compaesano Raffaele Montanari.
 
La tomba di sei caduti ignoti della Cicogna nel sacrario di Cristo Re (foto Sergio Cavacece, da La Voce del Marinaio)