lunedì 30 maggio 2016

Berillo

Il Berillo (da “Sommergibili italiani” di Alessandro Turrini ed Ottorino Ottone Miozzi, USMM, Roma 1999)

Sommergibile di piccola crociera della classe Perla (dislocamento di 695 tonnellate in superficie e 855 in immersione). Svolse in guerra quattro missioni offensive ed una di trasferimento, percorrendo complessivamente 3978 miglia in superficie e 320 in immersione, e passando un mese ai lavori.

Breve e parziale cronologia.

14 settembre 1935
Impostazione nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di cantiere 1141).
14 giugno 1936
Varo nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone. Ne è madrina Alma Antonimi Laudati, moglie del comandante in seconda della base navale di Pola, capitano di fregata Guglielmo Laudati.

Berillo in allestimento (da “I sommergibili di Monfalcone” di Alessandro Turrini, supplemento alla “Rivista Marittima” n. 11 del novembre 1998)

5 agosto 1936
Entrata in servizio. Assegnato alla XXXV Squadriglia Sommergibili (di base a Messina) e dislocato ad Augusta.
1936
Compie una lunga crociera addestrativa nel Mediterraneo centrale, toccando Tobruk, Bengasi, Marsa el Hilal, Porto Bardia, Lero e Napoli.
Gennaio-Settembre 1937
Partecipa clandestinamente alla guerra civile spagnola, svolgendo in tutto tre missioni.
1° gennaio 1937
Salpa da Napoli al comando del capitano di corvetta Vittorio Prato, per la prima missione della guerra di Spagna (da effettuarsi al largo di Cartagena). A bordo, quale ufficiale di collegamento, è il capitano di corvetta Bobadilla della Marina spagnola nazionalista.
17 o 18 gennaio 1937
Rientra alla base a mani vuote.
5 agosto 1937
Salpa da Augusta, al comando del capitano di corvetta Andrea Gasparini, per la seconda missione della guerra civile spagnola. Raggiunta la zona assegnata (Canale di Sicilia, a nordovest di Pantelleria, tra Capo Lilibeo e Capo Bon), vi rimane per undici giorni, durante i quali si verificano 45 tra avvistamenti e manovre d’attacco (ma solo in una lancerà dei siluri).
14 agosto 1937
Lancia infruttuosamente due siluri contro un piroscafo.
16 agosto 1937
Rientra alla base.

Il Berillo (g.c. STORIA militare)

28 agosto 1937
Parte per la terza missione nell’ambito della guerra di Spagna, stavolta al largo di Cartagena.
6 settembre 1937
Rientra alla base senza aver avvistato navi sospette.
1938
Dislocato a Massaua (Eritrea), in Mar Rosso, insieme ai gemelli Iride ed Onice.
Primavera 1939
Torna in Mediterraneo, a Taranto. Successivamente trasferito ad Augusta.
Gennaio 1940
Assume il comando del Berillo il tenente di vascello Camillo Milesi Ferretti.
10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Berillo fa parte della XIII Squadriglia Sommergibili (insieme a Gemma ed Onice), avente base a La Spezia (I Grupsom); viene però dislocato ad Augusta. Effettua alcune missioni nel Mediterraneo centrale, senza incontrare navi nemiche.
13 luglio 1940
Inviato in pattugliamento a levante di Gibilterra, insieme ai più grandi sommergibili Morosini, Nani e Faà di Bruno. Non incontra alcuna nave nemica.
In una successiva missione è inviato nelle acque di Malta, ma di nuovo non avvista nulla.

Il Berillo passa sotto il ponte girevole di Taranto (g.c. Valerio Civetta)

L’affondamento

Il 17 settembre 1940 il Comando del Gruppo Sommergibili di Messina telefonò al tenente  di vascello Camillo Milesi Ferretti, comandante del Berillo, per chiedere se il sommergibile fosse pronto a partire; Milesi Ferretti rispose che il battello era pronto in attesa di ordini da settimane, e la mattina del 18 giunse l’ordine di passare dall’approntamento in due ore all’essere pronti a partire non appena fosse stato ordinato. Un fuochista, avendo la febbre alta, dovette essere lasciato a terra, contro la sua volontà (disse di non voler sbarcare e che si trattasse di un male passeggero, ma Milesi Ferretti dovette lasciarlo a terra).
Verso le 16, l’equipaggio venne richiamato a bordo e messo al corrente della missione.
Arrivò poi l’ordine d’operazioni, in busta sigillata, portata da un ufficiale in motocicletta: agguato offensivo al largo di Sidi el Barrani e Marsa Matruh, fino al limite dell’autonomia, anche a supporto dell’offensiva italiana in Egitto. Milesi Ferretti venne anche informato della presenza di un sommergibile avversario lungo la sua rotta, subito fuori dalla base.
Mezz’ora più tardi, alle otto di sera del 18 settembre 1940, il Berillo, salutato da uomini degli equipaggi di altre unità presenti ad Augusta, salpò dalla base siciliana diretto nel settore ad esso assegnato, al largo di Alessandria d’Egitto, a sud di Creta ed a sudovest della Turchia.
Dopo aver navigato in superficie per tutta la notte, il battello s’immerse l’indomani alle undici di mattina, per evitare l’avvistamento da parte di un ricognitore britannico; riemerse solo dieci ore dopo, col favore del buio, per cambiare aria e ricaricare le batterie, proseguendo verso la zona assegnata per la missione. All’alba s’immerse di nuovo; trascorse la giornata in ascolto idrofonico alla quota di 50 metri, per poi riemergere alle 18. Durante la navigazione si verificarono alcune avarie; alle 24, infatti, la pompa di poppa dovette essere fermata per avaria, ma venne riparata dal fuochista Giovanni Barcaro e da un collega, dopo alcune ore di scomodo lavoro sotto i tubi di lancio.
Con l’alba il Berillo s’immerse di nuovo, e di nuovo passò la giornata in agguato a profondità variabili (nessuna traccia di navi) per poi riemergere con il buio e proseguire verso la propria destinazione. Nuova immersione alle quattro del mattino successivo, e nuova avaria: dopo poche ore, i timoni elettrici di profondità di poppa smisero di rispondere ai comandi, costringendo a passare alla manovra manuale mentre si provvedeva a laboriose riparazioni che si conclusero solo alle 17, senza che il problema fosse risolto in modo definitivo (i timoni non funzionavano più in modo ottimale, ed erano seriamente esposti al rischio di una nuova avaria). Giunta la sera, altra emersione per ricarica accumulatori e ricambio d’aria. Nella notte, procedendo ad una decina di miglia dalla costa, si videro gli incendi dei bombardamenti ed il fuoco della contraerea in direzione di Marsa Matruh; il bagliore era tale che il sommergibile si dovette allontanare, perché rischiava di diventare troppo visibile.
Alle quattro del mattino del 25 settembre (altra fonte parla del 21 settembre) il Berillo raggiunse il settore da pattugliare, a nord di Ras Ultima; due ore dopo s’immerse a 50 metri di profondità, ponendosi in agguato in ascolto idrofonico.

Due giorni trascorsero senza che niente accadesse (vennero avvistate di prora delle ombre che sembravano quelle di navi in fila, ma il sommergibile, avvicinatosi per attaccare, scoprì che si trattava di scogli), e la sera del 27 settembre, come sempre alle 21, il Berillo riemerse per cambiare aria, ricaricare le batterie e gettare in mare i rifiuti. Quando però fu ordinato di mettere in moto i motori, questi non partirono (ciò secondo il motorista Gian Battista Civetta, mentre il fuochista Barcaro affermò invece che i motori, prima quello di dritta e poi quello di sinistra, si fermarono dopo qualche ora di navigazione), per interruzione della circolazione dell’olio; nonostante l’immediato intervento dell’equipaggio, che lavorò tutta la notte per rimettere in funzione i motori – quello di sinistra poté essere rimesso in moto, ma solo a due cilindri, mentre per quello di dritta non si riuscì ad ottenere nulla –, il sommergibile rimase immobilizzato per tutta la notte, e non poté perlustrare l’area assegnata.
Giunta l’alba, alle sei del mattino del 28, il Berillo si immerse di nuovo, tenendosi poi in agguato, cambiando di quando in quando la quota, ma sempre senza notare alcuna traccia di navi nemiche. Alle 21, solita emersione per cambio aria e ricarica batterie; il motore di sinistra era ancora malfunzionante, mentre rinnovati sforzi per riattivare il motore di dritta non portarono ad alcun risultato.
Trascorse un altro giorno, come al solito in immersione (con un solo motore elettrico funzionante: l’altro era in avaria perché rimasto ingranato con il motore diesel, a causa della viratrice), ed alle 21.30 del 29 settembre il Berillo riemerse, in condizioni di navigabilità sempre più precarie per via dello stato dei suoi motori. Appena emerso (secondo Civetta; secondo Barcaro, invece, verso le 23), il sommergibile ricevette un messaggio cifrato da Roma: «Prolungata missione 5 giorni – stop – zona = ALFA = 60 miglia N.O. zona attuale – stop – Avvistamento formazioni nemiche rotta N.O. a sud di Candia = stop – Operare in collaborazione coi sommergibili zone 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – stop = eventuali informazioni da Supermarina ore X = stop = Super Marina ore 0,01 – per conoscenza a tutte le navi in rotta per il Mediterraneo Orientale». Il messaggio precisava inoltre la composizione della forza navale avvistata: una corazzata, una portaerei, cinque incrociatori e 19 cacciatorpediniere. Erano in mare per l’operazione «MB. 5», un (riuscito) tentativo di rifornire Malta; la reale consistenza della formazione britannica era di due corazzate (Valiant e Warspite), una portaerei (Illustrious), due incrociatori leggeri (Orion e Sydney), un incrociatore pesante (York) ed undici cacciatorpediniere. Le navi incaricate di rifornire Malta erano gli incrociatori leggeri Liverpool e Gloucester, su cui erano stati imbarcati 1200 uomini più un carico di materiali; inoltre sarebbe stato in mare durante l’operazione il convoglio «AN. 4», partito da Port Said e diretto al Pireo, con la scorta dell’incrociatore antiaereo Calcutta e di quattro cacciatorpediniere. La prospettiva di un tale potenziale “bottino” non mancò di destare entusiasmo tra l’equipaggio.

Trascinandosi alla esasperante velocità di cinque nodi, il Berillo riuscì egualmente a raggiungere il nuovo settore assegnato (al largo di Sidi el Barrani, 60 miglia più a nord rispetto al settore precedente) alle sette del mattino del 30 settembre. L’equipaggio, desideroso di scontrarsi con le navi britanniche dopo tanti giorni trascorsi senza avvistare nulla, lavorò ancor più alacremente alla riparazione del motore di dritta: non solo i motoristi, ma anche gli elettricisti si unirono ai lavori, e quando a sera il battello riemerse, finalmente il motore di dritta ritornò a funzionare. All’alba del 1° ottobre, il sommergibile tornò ad immergersi, per poi restare in agguato a quota periscopica per il resto del giorno. Ancora una volta, nessuna nave avversaria entrò nel raggio visivo del Berillo.
Il mare era calmo; la vita a bordo, durante le ore diurne di immersione (una quindicina al giorno), era alquanto monotona. Era fatto divieto di parlare o produrre altri rumori (che sarebbero stati rilevati dagli idrofoni di eventuali unità nemiche), dunque gli uomini stavano ognuno per proprio conto, leggendo, dormendo, o scambiandosi le proprie foto per vederle e farle vedere. All’interno del sommergibile faceva terribilmente caldo – 50° C – e la trasudazione era tale che dal soffitto gocciolava continuamente sudore condensato. Nonostante tutto, nessuno si lamentava.
Alle 21 del 1° ottobre, una volta di più – sarebbe stata l’ultima –, il Berillo tornò in superficie per il solito ricambio d’aria e ricarica batterie. Quando però il comandante ordinò di mettere in moto, i motori ricominciarono a dare noie: questa volta fu la pompa dell’olio ad andare in avaria, ma gli elettricisti, lavorando a lungo nel piccolo spazio disponibile, riuscirono infine a ripararla; i motoristi, intanto, lavoravano al motore di sinistra, ancora malfunzionante (smontarono gli stantuffi per pulire i canali di circolazione dell’olio sulle loro testate). Verso l’una di notte del 2 ottobre il motorista Gian Battista Civetta, sfinito (era sveglio e al lavoro ormai da sessanta ore), unto e sporco di nafta (l’acqua a bordo era razionata, tanto da non potersi nemmeno lavare), andò a dormire in cuccetta, mentre il fuochista Giovanni Barcaro lo sostituì tra quanti stavano lavorando ai motori (ma secondo il racconto di Barcaro, sembrerebbe che anche lui andò a riposare all’una, dopo lungo lavoro, nelle stesse condizioni di Civetta).

Il sonno di Civetta durò poco: verso le tre di notte il nemico tanto atteso venne avvistato, ed a tutto l’equipaggio venne ordinato di andare ai posti di combattimento. Le navi avversarie, che avevano rotta verso Alessandria e distavano 6000 metri, erano i cacciatorpediniere Havock (capitano di fregata Rafe Edward Courage) ed Hasty (capitano di corvetta Lionel Rupert Knyvet Tyrwhitt), che stavano rientrando al Pireo dopo aver scortato il convoglio «AN. 4» (fonti britanniche indicano l’orario dell’incontro tra il Berillo ed i cacciatorpediniere italiani come le cinque del mattino del 2 ottobre, però dicono anche che s’immerse subito: la discrepanza di orario potrebbe quindi spiegarsi con l’avvistamento del Berillo, da parte dei britannici, solo dopo che questo aveva lanciato i siluri, dunque molto più tardi dell’avvistamento dei cacciatorpediniere da parte dei sommergibili).
Restando in superficie (per via del malfunzionamento dei motori diesel, vennero utilizzati i motori elettrici), il comandante Milesi Ferretti fece assumere rotta perpendicolare alla direzione di avvistamento; il profilo della prima nave avvistata venne identificato come quello di un cacciatorpediniere quando la distanza fu calata a 4000 metri, mentre la seconda  nave, che seguiva la prima a 2000 metri, rimase un’ombra indistinta, tanto che Milesi Ferretti pensò che potesse trattarsi di un piroscafo (in quanto la distanza tra le due navi era superiore a quella che normalmente tenevano tra loro due cacciatorpediniere in linea di fila in navigazione notturna). La velocità della prima nave venne stimata in circa 25 nodi; quando la distanza fu calata, anche la seconda nave venne riconosciuta come un cacciatorpediniere.
Il Berillo, non visto dalle navi britanniche (che invece Milesi Ferretti distingueva ormai benissimo anche ad occhio nudo), serrò le distanze fino a 800 metri; il comandante ordinò di preparare dapprima il tubo numero 1 e poi anche il 2 ed il 3, quindi attese che il bersaglio assumesse un’angolazione favorevole al lancio ed ordinò di preparare al lancio il tubo numero 2; infine, diede l’ordine di lanciare. L’ennesima avaria colpì stavolta il sistema di lancio elettrico dei siluri, impedendo il lancio, così i siluristi dovettero procedere al lancio manuale; passarono i secondi, mentre a bordo del Berillo tutti fremevano in attesa dello scoppio, ma non si udì nessuna esplosione che confermasse il buon esito del lancio. Sulla coperta del cacciatorpediniere di testa si generò un certo movimento, e la nave iniziò a trasmettere un segnale alla sezionaria, mediante il fanale azzurro di poppa.
Milesi Ferretti diede allora ordine di lanciare altri due siluri – la distanza era frattanto calata a 600 metri –, ma nemmeno questi andarono a segno; ordinò allora tutta la barra a sinistra, per presentare la poppa al secondo cacciatorpediniere, e lanciargli due siluri con i tubi poppieri (dato che a prua era rimasto un solo siluro). Uno dei siluri già lanciati, però, percorse in superficie (anziché alla quota regolata) i primi cento metri, sollevano una vistosa scia, che ne permise l’avvistamento. (Per altra fonte Havock ed Hasty avvistarono il primo siluro ed evitarono gli altri due; per altra ancora, il secondo ed il terzo siluro passarono sotto lo scafo di uno dei cacciatorpediniere, senza esplodere).
A questo punto, le navi britanniche illuminarono simultaneamente il Berillo con quattro proiettori, ed al contempo spararono una salva d’artiglieria, che non colpì il sommergibile, ma lo inquadrò alla perfezione. Prima che il battello potesse lanciare sul secondo cacciatorpediniere, il primo accostò fortemente a sinistra (evitando il siluro di pochi metri), accelerò fortemente e mise la prua sul Berillo, con l’evidente intenzione di speronarlo; a Milesi Ferretti non rimase che ordinare l’immersione rapida.

Il Berillo in navigazione (g.c. Valerio Civetta)

In trentadue secondi, il Berillo s’immerse a 90 metri di profondità, mentre i cacciatorpediniere iniziavano il lancio delle bombe di profondità. Una dopo l’altra, ne esplosero cinque, sopra la coperta del sommergibile; l’equipaggio rimase calmo, il comandante seguitò impassibile a dare ordini. I manometri vennero messi fuori uso, così come bussola e telefoni. Seguirono altre cinque bombe di profondità, sempre a quota di poco superiore a quella a cui si trovava il sommergibile; questa volta tutto lo scafo venne scosso violentemente e venne a mancare la luce, costringendo all’uso delle lampade d’emergenza. Intanto, il battello stava sprofondando rapidamente; le continue esplosioni delle bombe di profondità rendevano molto difficile mantenerne il controllo, continuando a farlo appruare od appoppare, facendo scricchiolare e deformare lo scafo.
Milesi Ferretti ordinò di fermare le macchine e mettere tutti i timoni in alto, ma il timoniere rispose che i timoni non funzionavano; allora il comandante trasmise a prua ed a poppa, mediante interfonico, telefono e trasmettitore di ordini, di fermare le macchine e mettere tutti i timoni in alto con manovra manuale, ma tutti i sistemi di trasmissione erano fuori uso. A questo punto, ordinò di aprire le porte stagne e passare l’ordine a voce; poi dispose «Un filo d'aria a prora, un filo d'aria al centro». Il Berillo continuò a sprofondare, anche se più lentamente: superata la quota di collaudo di 80 metri, raggiunse presto i 110, mentre il comandante dava ordini per arrestare questa caduta con opportuno dosaggio dell’aria; il sommergibile arrivò fino a 135 metri di profondità, prima di fermarsi ed iniziare lentamente a risalire. Arrivò a 40 metri di profondità, poi di nuovo ricominciò a precipitare verso l’abisso: 130 metri. Poi, di nuovo, la risalita.
Il comandante Milesi Ferretti diede ordine di sfogare i doppi fondi verso l’interno; ciò ebbe però l’effetto di far salire la pressione nei locali a 3,5 kg/cm2, con notevole sensazione di “schiacciamento” sugli uomini, specie sui timpani.
Da poppa venne riferito che si sentivano delle specie di “guizzi” sullo scafo: i cacciatorpediniere stavano usando i periteri per localizzare il Berillo. Dato che fermare i motori non serviva a niente contro un nemico dotato di peritero (sarebbe stato invece utile nel caso in cui avessero avuto solo degli idrofoni, che potevano solo rilevare i rumori), Milesi Ferretti ordinò di mettere il motore di dritta avanti a mezza forza, per muoversi e rendere più difficile la “mira” dei lanci di bombe di profondità.
Il Berillo si era fortemente appruato (almeno 18°); il motorista Civetta, con altri uomini, si recò nella camera di lancio poppiera per tentare di ripristinare l’assetto.
L’idrofonista informò Milesi Ferretti che una delle navi britanniche si stava avvicinando (si sentiva il rumore delle sue eliche); poi il rumore delle eliche divenne così forte da potersi sentire ad orecchio. Il Berillo stava nuovamente scendendo; era a 70 metri quando il cacciatorpediniere passò sulla sua verticale, poi – otto minuti dopo la prima scarica di bombe – seguì una nuova serie di violentissime esplosioni, con cadenza regolare.
Questa volta i danni furono ingenti: caddero lampade, si staccarono strumenti fissati alle paratie, motori vennero divelti dai basamenti, a poppa scoppiò un incendio. La detonazione di una bomba investì in pieno l’asse motore di sinistra, rendendo inutilizzabile quel motore (ciò secondo Civetta; secondo Barcaro il motore di sinistra si fermò perché saltarono i massimi, mentre ad essere deformato fu l’asse dell’elica di dritta, e l’attrito causato dal pressatrecce fu all’origine dell’incendio) e provocando una prima via d’acqua nello scafo; fu necessario fermare anche il motore di dritta e domare le fiamme con gli estintori, dopo che Barcaro aveva infruttuosamente tentato di raffreddare l’attrito gettandovi sopra dell’acqua. L’acqua entrata si accumulò in camera di manovra, poi prese a scorrere da prora a poppa e viceversa, ogni volta che il battello si appruava o si appoppava.
Nonostante i tentativi del comandante di ripristinare l’assetto, il Berillo continuava in uno snervante saliscendi; ogni otto minuti un cacciatorpediniere ripassava e lanciava un’altra scarica di bombe di profondità, ogni volta più violenta e più vicina.
Spento l’incendio, Milesi Ferretti ordinò di mettere in moto un’elica, ma il motore non partì, essendo «andato a massa». Ancora saliscendi: per due volte il Berillo fu ad un passo dall’affiorare in superficie, nonostante i tentativi di fermarlo, ma ogni volta ritornò a scendere. Anche le cassette degli accumulatori si erano rotte.
Intanto il sommergibile era sceso a più di 120 metri di profondità, oltre quaranta metri in più rispetto alla quota di collaudo, e continuava a sprofondare, a causa dell’acqua imbarcata: 130 metri, e ancora più giù.
Milesi Ferretti riuscì finalmente a ridurre l’ampiezza dei “saliscendi”, mantenendosi tra 50 e 90-100 metri, ma ogni otto minuti il cacciatorpediniere si ripresentava con la sua pioggia di cariche di profondità. Vennero accese due o tre lampade portatili ad accumulatore; tutte le apparecchiature erano ormai a pezzi, tranne l’idrofono.

Verso le 5.30, subito dopo un’altra scarica di bombe, il Berillo si fermò finalmente a 90 metri, ma subito dopo arrivò la ventesima scarica di bombe di profondità: stavolta esplosero ancora più vicine, tanto da deformare vistosamente lo scafo, e la discesa del sommergibile riprese più veloce di prima, molto più veloce. Milesi Ferretti ordinò “Aria per tutto” al direttore di macchina Bassi, ma la pressione dell’aria era minore di quella dell’acqua: non restava più nulla da fare per arrestare la caduta verso l’abisso.
Gli uomini erano sdraiati nelle loro cuccette, ormai disperando di poterne uscire vivi, qualcuno già rassegnato; il motorista Civetta guardò negli occhi il collega Loris Petrolini, sdraiato accanto a lui, e gli strinse le mani; sentì un altro giovane marinaio pregare ed invocare sottovoce la madre. Ricacciò le lacrime. Il fuochista Barcato strinse al petto le foto dei cari. Un guardiamarina, Maggio, chiese al comandante in seconda, sottotenente di vascello Vittorio Nordio: “Non c’è proprio speranza?”, e questi rispose semplicemente “No”.
Nonostante i timoni a salire, il Berillo era sprofondato forse alla quota di 170 metri, forse addirittura 200 (i manometri a giro completo erano arrivati al massimo della loro scala, 150 metri, ma il sommergibile aveva continuato a scendere); quasi tutta l’aria era stata consumata nelle manovre precedenti. Il sommergibile era sbandato su un fianco per l’acqua imbarcata, molte apparecchiature erano divelte. Milesi Ferretti chiese quanta aria fosse rimasta e, quando gli fu risposto che ce n’erano solo 40 kg, ordinò di aprirla comunque ed aspettare.
Quando tutto sembrava perduto, il Berillo arrestò la sua interminabile discesa verso l’abisso e poi, quasi impercettibilmente, iniziò lentamente a risalire; prima lentamente, poi via via più velocemente. Non si sentivano più le navi britanniche, tanto da destare l’illusione che se ne fossero andate. In ogni caso, Milesi Ferretti si preparò ad un combattimento in superficie: diede ordine di preparare in torretta le casse contenenti l’archivio segreto, pronte ad essere gettate in mare, ed ai serventi del cannone di prepararsi a salire in coperta appena fossero emersi; sarebbe stato Nordio a dirigere il tiro, dalla torretta, mirando al cacciatorpediniere più vicino. Il resto dell’equipaggio avrebbe atteso sottocoperta, in prossimità dei portelli, ed avrebbe abbandonato il battello solo al suo ordine. Milesi Ferretti decise di restare sottocoperta, per provvedere all’autoaffondamento qualora vi fosse stato pericolo di cattura; disse a Nordio di aprire subito il fuoco e che lui, se non avesse sentito sparare né ricevuto comunicazioni di Nordio entro tre minuti dall’emersione, avrebbe avviato l’autoaffondamento. A quel punto, Nordio avrebbe dovuto ordinare l’abbandono nave, non appena avesse sentito a prua gli sfoghi d’aria.
La risalita fu lenta fino a circa 40 metri, poi accelerò di colpo; gli ultimi 40 metri furono risaliti “a pallone”.
Alla fine – alle 5.30 del 2 ottobre, due ore dopo l’inizio del bombardamento con cariche di profondità – il sommergibile riaffiorò in superficie, sbandato di 45° su un fianco (tanto da far cadere tutti a terra); a causa del contatto delle batterie con l’acqua di mare, si produsse del cloro, che bruciava i piedi e dava fastidio alla respirazione.
Dalla camera di comando, il sergente cannoniere puntatore scelto volontario Sebastiano Parodi ed il secondo capo nocchiere volontario Alberto Maya salirono in torretta per aprire il portello ed uscire, ma il volantino era andato distrutto nel bombardamento, impedendo l’apertura. Milesi Ferretti ordinò di aprirlo con una chiave, ed al contempo dispose l’apertura dei portelli di prua e di poppa; ma anche qui i volantini erano spariti, i perni tranciati: l’equipaggio era intrappolato dentro il sommergibile, ed intanto fuori si sentivano già i boati delle prime cannonate sparate dai cacciatorpediniere britannici.
L’Havock e l’Hasty, infatti, non si erano affatto allontanati: quando videro il Berillo emergere e poi restare fermo in superficie, non tardarono ad aprire il fuoco coi loro cannoni.

Sul Berillo i membri dell’equipaggio, impazienti di uscire dopo il lungo bombardamento e soprattutto per via del pericoloso cloro e della pressione insopportabile, si accalcavano intorno ai portelli, generando una certa confusione. Il comandante Milesi Ferretti invitò alla calma, mentre Maya e Parodi lavoravano all’apertura dei portelli. Deciso ad impedire la cattura del suo sommergibile, Milesi Ferretti, calcolando che i cacciatorpediniere avrebbero impiegato almeno una decina di minuti per ammainare un’imbarcazione e mandarla verso il Berillo, fece scattare il cronometro e decise che avrebbe atteso quattro minuti, poi, se ancora non si fosse riusciti ad aprire i portelli, avrebbe aperto gli sfoghi d’aria ed autoaffondato il sommergibile, a costo di condannare tutto l’equipaggio.
Due minuti erano passati, quando un proiettile sparato dai cacciatorpediniere centrò la torretta del sommergibile, passandola da parte a parte, ed investì in pieno proprio Maya – che si era appena rivolto a chi era di sotto per chiedere che gli porgessero un volantino – e Parodi, uccidendoli sul colpo: Parodi, ucciso da una grossa scheggia allo stomaco, rimase appoggiato al controportello; Maya, senza più la parte posteriore della testa, cadde ai piedi di Milesi Ferretti e di Barcaro, suo intimo amico, che lo chiamò vanamente più volte prima di rassegnarsi alla triste evidenza. Un altro marinaio rimase ferito leggermente. La cannonata, fatale per Maya e Parodi, salvò invece la vita al resto dell’equipaggio: spalancò infatti il portello, permettendo finalmente di uscire.
Subito Milesi Ferretti ordinò di gettare a mare la cassetta con l’archivio segreto, ed ai serventi del cannone di raggiungere il pezzo.
Passando attraverso il foro della cannonata, gli uomini salirono in coperta, mentre i due cacciatorpediniere si avvicinavano. Il cannone era incatastato, reso inutilizzabile dalle esplosioni delle bombe, con l’otturatore bloccato ed il portello della riservetta contorto: impossibile rispondere al fuoco. Agli uomini del Berillo non rimase che gettarsi in mare, e mettersi a nuotare in direzione dei cacciatorpediniere.
Milesi Ferretti, rimasto da solo sottocoperta (anche il controportello venne richiuso), aspettò per due minuti, sentendo le cannonate dei cacciatorpediniere, ma nessun rumore che indicasse che anche il cannone del Berillo avesse aperto il fuoco. Attese ancora per altri due minuti, tenendosi sulla bocca un fazzoletto per non essere soffocato dal gas di cloro che si era diffuso ovunque, poi aprì gli sfoghi d’aria, per affondare il suo sommergibile.
Diede un’occhiata ai manovri, per vedere se segnavano una perdita di quota, ma erano deformati e bloccati sul valore di 40 metri, a causa dell’eccesso di pressione dell’ultima caduta.
Dato che il Berillo non sembrava affondare, Milesi Ferretti decise di salire in coperta per vedere cosa stesse succedendo; dopo essere faticosamente riuscito ad aprire uno spiragli spingendo sul controportello, uscì in plancia sotto la luce dei proiettori dei cacciatorpediniere, distanti forse cinquecento metri. Il Berillo era appruato ed affondava lentamente; a bordo non c’era più nessuno, ad un centinaio di metri si vedeva una macchia scura e si sentivano voci, l’equipaggio.
Milesi Ferretti vide l’acqua venirgli incontro, ed istintivamente aprì la cintura per togliersi i pantaloni; poi, ricordando che aveva deciso di affondare col suo battello, riallacciò la cintura e si appoggiò all’affusto di una mitragliera contraerea, ritenendo che il gorgo dell’affondamento lo avrebbe risucchiato con sé. Dopo aver guardato un’ultima volta il suo Berillo, incrociò le braccia ed attese, mentre l’acqua saliva.
Poi – erano le sei del mattino del 2 ottobre (altra fonte parla delle 5.15: orario incompatibile con quanto sopra riportato, forse le 6.15) –, il sommergibile s’inabissò per sempre nel punto 33°09’ N e 26°24’ E (o 33°10’ N e 26°24’ E), ad est di Sollum, 50 miglia a sud di Creta e 120 miglia a nord di Sidi el Barrani.
Civetta, il motorista, si era allontanato di una ventina di metri quando vide il Berillo colare a picco, portando con sé le salme di Maya e Parodi, unici caduti nell’azione. Il sommergibile sarebbe stato il loro sepolcro.

Il comandante Milesi Ferretti non riuscì nell’intento di affondare col sommergibile. Una bolla d’aria, fuoriuscita dalla torretta, lo portò a galla, e si ritrovò in acqua, poco distante da altri naufraghi; sentendoli chiamare “Comandante, comandante”, rispose. Ormai non aveva più molto senso cercare la morte. I pesanti pantaloni e le scarpe alte gli intralciavano i movimenti in acqua; tentò infruttuosamente di slacciare le scarpe e di levarsi i pantaloni, che però rimasero attorcigliati attorno alle ginocchia, poi venne raggiunto da due uomini, uno dei quali gli offrì di appoggiarsi a lui; lo aiutarono a liberarsi di scarpe e pantaloni, poi il primo dei due uomini disse che sarebbe andato a cercare un’imbarcazione. Milesi Ferretti rispose “Lascia perdere, vai tu, non voglio niente” e l’uomo si allontanò a nuoto; quanto a lui, non essendo un gran nuotatore, ed avendo già esaurito le forze, si girò sulla schiena e nuotò lentamente, il necessario a restare a galla. Dopo circa un’ora si ritrovò sottobordo ad uno dei cacciatorpediniere, da dove gli venne lanciata una cima; dopo che ebbe vanamente tentato di issarsi a bordo con le sue forze, gli fu avvolta la cima intorno alla vita, e venne issato sul cacciatorpediniere.
Affondato il Berillo, l’Havock e l’Hasty misero a mare delle lance, che provvidero al recupero dei 45 naufraghi (5 ufficiali e 40 sottufficiali e marinai; per altra fonte, probabilmente erronea, 47 tra cui 7 ufficiali). Sette membri dell’equipaggio (i marinai Antonio Casole, Ambrosino e Barberi, il sergente segnalatore Appoggi, il sottocapo silurista Manes, il secondo capo elettricista Diofebi ed il motorista navale Rosario Cavallero) erano rimasti feriti (secondo un elenco compilato da un superstite, uno di essi, Diofebi, morì per le ferite; non vi è però traccia di questo nome negli elenchi dei caduti in guerra della Marina, né vi è menzione della morte di membri dell’equipaggio del Berillo oltre a Maya e Parodi).
Sbarcati ad Alessandria la sera successiva, scortati da sentinelle armate, gli uomini del Berillo vennero condotti nel campo di prigionia di Geneifa, in Egitto (dove già si trovavano i superstiti di altre navi italiane affondate dai britannici: l’incrociatore Colleoni, il cacciatorpediniere Espero, i sommergibili Rubino, Gondar, Console Generale Liuzzi e Uebi Scebeli, oltre a militari dell’Esercito e dell’Aeronautica catturati in Nordafrica), dove sarebbe iniziata la lunga prigionia che li avrebbe successivamente portati a Ramgarh, nella lontana India, nel 1941, ed in seguito a Yol, anch’esso in India.
Il comandante Milesi Ferretti non si rassegnò all’idea della prigionia: tentò di fuggire già da Geneifa, senza successo; poi ritentò a Yol, insieme ad altri due ufficiali (il capitano armi navali Elios Toschi ed il tenente Luigi Faggioni, entrambi della X Flottiglia MAS), stavolta con successo. I tre ufficiali, travestiti da indiani (su di loro, le autorità britanniche avevano messo una taglia di 20.000 rupie), vissero per due mesi con i pastori locali, poi si divisero, e Milesi Ferretti raggiunse Goa, nella colonia dell’India portoghese.

Il Berillo in porto (g.c. Valerio Civetta)


La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al motorista navale Giovanni Civetta:


“Imbarcato su sommergibile durante impari combattimento contro due siluranti avversarie, si prodigava nella riparazione di un motore termico in avaria, sotto la violenta prolungata caccia nemica, desisteva dal suo lavoro solo quando per  l’imminente affondamento, ne riceveva esplicito ordine. Salito in coperta affrontava impavido il ravvicinato tiro delle navi avversarie, dando prova, nelle difficili circostanze,

della massima calma e del più sereno coraggio.

(Mediterraneo Centrale, 2 ottobre 1940).”




Sopra, tre foto del motorista Giovanni Civetta; sotto, la medaglia del Berillo (per g.c. di Valerio Civetta, figlio di Giovanni Civetta).



domenica 29 maggio 2016

V 276 Baicin

Il Baicin fotografato a Mazara del Vallo, con il precedente nome di Maria Leonarda (g.c. Mauro Millefiorini)

Il Baicin era un motoveliero da carico, un brigantino goletta di 173 tsl, costruito nel 1900 (in origine il suo nome era stato Maria Leonarda) ed appartenente all’armatore genovese Giovanni Fenzo, che l’aveva iscritto con matricola 1107 al Compartimento Marittimo di Genova.
Il 13 settembre 1941 il Baicin venne requisito a La Spezia dalla Regia Marina, che lo iscrisse con sigla V 276 nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, impiegandolo nella vigilanza foranea.

All’1.30 del 27 febbraio 1943 il Baicin era in navigazione nel Mar Ligure quando, in posizione 47°37’ N e 09°25’ E, venne avvistato verso oriente dal sommergibile britannico Torbay (tenente di vascello Robert Julian Clutterbuck). Il comandante britannico identificò la nave italiana come una goletta della vigilanza antisommergibili, ferma e con le vele ammainate; il Torbay si avvicinò lentamente fino ad appena una novantina di metri, ma ciò non provocò alcuna reazione da parte del Baicin, né alcun altro segno di vita a bordo del motoveliero. A questo punto, all’1.50, il sommergibile aprì il fuoco col cannone da 100 mm e con una mitragliatrice Vickers da 7,7 mm; il tiro del cannone risultò estremamente impreciso, mettendo a segno un solo colpo su dieci sparati. L’equipaggio del Baicin abbandonò immediatamente la nave, dopo di che gli uomini del Torbay abbordarono il motoveliero e ricuperarono un sacco pieno di libri documenti, già provvisto di pesi per l’affondamento e pronto ad essere gettato in mare. I marinai britannici procedettero ad ispezionare la nave, che sottostimarono in un’ottantina di tsl; notarono che il motore sembrava nuovo, e che sul castello di prua vi era “rilevatore sonoro” (forse un aerofono, visti i compiti assegnati alle vedette foranee, cioè avvistare e segnalare gli aerei nemici in avvicinamento alla costa). Videro inoltre che le mitragliere di cui la nave era armata non erano state montate sui loro supporti.

Prima di andarsene, gli uomini del Torbay piazzarono una carica esplosiva sotto il motore ed appiccarono il fuoco in vari punti, poi il sommergibile mitragliò il Baicin anche con una mitragliera Oerlikon da 20 mm, dopo di che si allontanò verso sud, alle 2.40. Poco dopo (ma le fonti italiane, in questo discordanti, indicano le 2.10 come orario dell’affondamento) il Baicin esplose ed affondò circa 36 miglia a sudovest dell’isola del Tino (e 35 miglia a sudovest di La Spezia).
Non vi furono vittime tra l’equipaggio.


L’affondamento del Baicin nel giornale di bordo del Torbay (da Uboat.net):

“0130 hours - In position 47°37'N, 09°25'E sighted a darkened ship to the Eastward. The target was identified as an A/S schooner. The ship was stopped and no sails were set. Crept closer to 100 yards on the motors without stirring up any signs of life on board.
0150 hours - Opened fire with the Vickers gun and the 4" gun. the 4" gunfire was extremely inaccurate, 10 rounds being fired for only one hit. The crew of the schooner wasted no time in abandoning their ship. The schooner was boarded and a sack of books weighted and ready for dumping overboard was recovered. The vessel was inspected and was found to be a brigantine of about 80 tons had a new looking engine and a sound detector on the forecastle. The machine guns were not in their mountings. A demolition charge was set under the engine and fire was set in several places. Several rounds of Oerlikon fire were also fired in the schooner.
0240 hours - Torbay proceeded southward. The vessel was later soon to blow up.”



giovedì 26 maggio 2016

Emma

Non sembrano esistere immagini dell’Emma, probabilmente per via della sua brevissima vita; qui è visibile un disegno della motonave Apuania, sua gemella.

L'Emma era una moderna motonave da carico da 7391 tsl e 9950 tpl, capace di una velocità di 14 nodi. Aveva due gemelle, Apuania ed Humanitas; appartenente all'armatore genovese Andrea Zanchi, era fresca di cantiere e non aveva nemmeno fatto in tempo ad essere iscritta ad un Compartimento Marittimo quando venne affondata.
Completata nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano, a La Spezia (numero di cantiere 257), nel dicembre del 1942, il 19 dicembre venne requisita a La Spezia dalla Regia Marina, senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato; come tutte le moderne motonavi di nuova costruzione, venne immediatamente destinata al trasporto di rifornimenti sulle rotte per la Tunisia.
La vita dell'Emma fu brevissima e s'interruppe prematuramente, a poche ore dall'inizio del suo primo viaggio sulla famigerata "rotta della morte".

Alle 17 del 15 gennaio 1943, infatti, la nave salpò da Napoli per Biserta in convoglio con la motonave tedesca Ankara, fruendo della scorta della torpediniera Clio (tenente di vascello Carlo Brambilla) e delle moderne torpediniere di scorta Groppo (capitano di corvetta Beniamino Farina, caposcorta) ed Uragano (capitano di corvetta Luigi Zamboni). A bordo dell'Emma si trovavano circa 350 uomini, tra equipaggio e militari italiani e tedeschi, ed un carico che consisteva in dieci carri armati tedeschi – sei Panzer IV e quattro Panzer II –, 300 tonnellate di munizioni e 650 tonnellate di altri materiali. Il tempo non era dei migliori: vento e mare molto grosso da ponente-maestro.
Uno dei 350 uomini a bordo dell'Emma era il diciannovenne marinaio Emilio Ramognini, originario di Sassello. Nonostante avesse a carico due fratelli minori e la madre vedova, era stato arruolato nel C.R.E.M. come marinaio servizi vari il 4 febbraio 1942 e chiamato alle armi il successivo 10 novembre; dopo un breve periodo al deposito C.R.E.M. di La Spezia, il 9 dicembre era stato imbarcato sull'Emma, ancora in allestimento nei cantieri del Muggiano. La nave era armata con un cannone da 120 mm ed i marinai dell'equipaggio militare, tra cui Ramognini, avevano preparato delle piattaforme in legno destinate ad ospitare quattro mitragliatrici contraeree quadrinate tedesche, imbarcate insieme ai loro armamenti per migliorare la difesa contraerea della nave.
Da La Spezia l'Emma, non appena ultimata, era partita alla volta di Napoli, dove doveva imbarcare i rifornimenti da trasportare in Africa: il Natale del 1942 era stato trascorso in navigazione sottocosta. Giunta a Napoli, si era proceduto all'imbarco dei rifornimenti, effettuato nottetempo per maggior segretezza. Le munizioni vennero caricate nelle stive, gli automezzi in coperta; presero imbarco alcuni soldati italiani ed una compagnia tedesca di rimpiazzi diretti in Tunisia, cui era aggregata anche una trentina di prigionieri sovietici. Emilio Ramognini, le cui mansioni a bordo includevano quelle di cambusiere e cameriere, avrebbe ricordato che il vitto a bordo era abbondante: quando anzi avanzava della pasta ne portava ai prigionieri sovietici, che ringraziavano sempre per la gentilezza, mentre i soldati tedeschi apparivano scontrosi e sgarbati.
Dopo la partenza da Napoli Ramognini salì in plancia, ma non essendoci ordini per lui scese sottocoperta nei locali ov'erano sistemati i soldati tedeschi perché aveva notato che uno di essi aveva una fisarmonica: appassionato di musica, chiese il permesso di poterla suonare, ma il proprietario rifiutò in malo modo, al che Ramognini se ne tornò in plancia a scrutare il mare con il binocolo.

Tra le 19.40 e le 19.45 del 15 gennaio, una decina di miglia a sud/sudovest di Ischia (per altra fonte, cinque miglia a sud dell’isola), l'Emma fu colpita nella stiva situata a poppavia della sala macchine da un siluro lanciato dal sommergibile britannico P 228 (poi Splendid, al comando del tenente di vascello Ian Lachland Mackay McGeogh).
Il sommergibile aveva avvistato il convoglio alle 19.10, a poppavia sinistra, quando si trovava 30° a prora dritta dell'Emma. In quel momento, due delle torpediniere si trovavano a proravia del convoglio, mentre la terza si trovava vicino al secondo mercantile della fila; restando in superficie, lo Splendid si era avvicinato e, alle 19.27, aveva lanciato cinque siluri da 1830 metri, per poi immergersi subito dopo.
Grazie alla sua solida costruzione, la motonave rimase a galla; mentre l'Uragano proseguì nella scorta all'Ankara, che tirò dritto sulla sua rotta (per ordine del caposcorta), Groppo e Clio rimasero con l'Emma, per prenderla a rimorchio.
Intanto, non avendo subito danni per le poche e lontane bombe di profondità gettate dopo l'attacco, lo Splendid si era allontanato per mezz’ora, indi era riemerso, constatando la presenza della nave danneggiata e ferma con due torpediniere che l'assistevano. Dopo aver ricaricato le batterie, il sommergibile s'immerse alle 20.37, essendo la luna uscita dalle nubi, e McGeogh decise di finire la preda ferita. Si avvicinò in immersione, ma la velocità di avvicinamento era tanto bassa che dopo un’ora la distanza tra lo Splendid e le navi italiane era ancora superiore a 2740 metri; per giunta, l'oscurità divenne più fitta, al punto da impedire di vedere il bersaglio, così alle 21.50 lo Splendid riemerse temporaneamente per cercare l'Emma, la trovò, e s’immerse di nuovo. A questo punto una delle torpediniere localizzò lo Splendid con l'ecogoniometro, ma, non appena accelerò per avvicinarsi ad esso, perse il contatto.
Alle 23.50 lo Splendid lanciò un siluro dai tubi prodieri – l'ultimo – da circa 2290 metri di distanza: l’arma mancò il bersaglio, ed il sommergibile si allontanò di nuovo, per ricaricare le batterie ed i tubi lanciasiluri. Non era ancora finita.

Il mare grosso vanificò i tentativi delle torpediniere di prendere l'Emma a rimorchio per portarla a Napoli: sia la Clio che la Groppo tentarono inutilmente, e durante l'ultimo tentativo la Clio venne scagliata da un'onda contro il mercantile, subendo vasti danni all'opera morta, che la costrinsero a rientrare a Napoli alle tre di notte del 16. (Per altra versione la Clio tentò anche di affiancarsi all'Emma per prendere a bordo truppe ed equipaggio, e fu durante questo tentativo che venne sbattuta dalle onde contro lo scafo dell'Emma, rimanendo seriamente danneggiata).
Trascorse così una notte d'angoscia per gli uomini dell'Emma, bloccati sulla nave danneggiata, immobilizzata ed in balia del mare, che impediva ogni trasbordo o rimorchio. Nel corso della notte, la motonave andò alla deriva verso sud/sudest. Emilio Ramognini avrebbe ricordato, a distanza di anni, quella notte da incubo, nella quale si sentivano grida provenienti dalle stive ma nessuno ne usciva, forse le scalette erano danneggiate ed impraticabili: "La luna ogni tanto spariva lasciando il buio più nero del nero, quando riappariva le onde riflettevano sul mare la tragedia che si stava consumando, eravamo in balia delle onde, il vento e le onde sferzavano il mio volto".
All'1.15, intanto, lo Splendid era riemerso per la ricarica: l'Emma, assistita da una torpediniera, era visibile circa 7315 metri a sudest, mentre altre due torpediniere stavano conducendo un rastrello a nordovest.
All'alba del 16 gennaio sopraggiunsero due rimorchiatori d'alto mare inviati da Napoli, l'Ursus ed il Titano, che diedero inizio alle operazioni per prendere a rimorchio l'Emma.
Sembrava che tutto potesse concludersi per il meglio, ma lo Splendid non se ne era andato: era sempre nei pressi, in attesa dell'occasione per poter attaccare.
Dopo aver mantenuto il contatto visivo con la motonave per tutta la notte, alle sei del mattino il sommergibile si era immerso in profondità, aveva caricato due siluri ed aveva iniziato la manovra di avvicinamento. Salito a quota periscopica alle 7.15, McGeogh aveva visto il bersaglio alla distanza di 2290 metri, con una torpediniera ancora nei suoi pressi (per altra fonte, però, tutte le torpediniere erano rientrate a Napoli nel corso della notte) ed un rimorchiatore affiancato. Fatalmente, il rimorchio dell'Emma verso Napoli avrebbe portato le navi italiane proprio ad avvicinarsi inconsapevolmente allo Splendid, che alle 8.35 del 16 gennaio lanciò un siluro da soli 685 metri.
Dopo meno di un minuto, quando si stava per completare la presa a rimorchio dell'Emma, la motonave venne centrata dal siluro (sul momento, da parte italiana, si pensò che i siluri fossero due).
Lo scoppio delle armi coinvolse le trecento tonnellate di munizioni che si trovavano a bordo, e l'Emma si disintegrò in una terrificante esplosione nel punto 40°25' N e 13°56' E (per altra fonte 40°37' N e 13°47' E), 17 miglia a sudovest di Capri (per altra fonte, a 12 miglia per 240° da Capri).
Anche i due rimorchiatori vennero investiti dall’esplosione: l'Ursus, che aveva già teso il cavo di rimorchio, venne colpito da dei rottami che uccisero un uomo e ne ferirono due; ancor peggio andò al Titano, che si trovava accanto all'Emma per prendere un altro cavo e fu travolto dall'onda generata dall’esplosione, che uccise sette uomini del suo equipaggio e ne ferì altri venti.

Le torpediniere e vari mezzi salpati da Napoli e guidati da aerei da ricognizione – ora il tempo stava rapidamente migliorando – perlustrarono a lungo lo specchio di mare in cui l'Emma era saltata in aria, ma riuscirono a salvare soltanto sette sopravvissuti, dei circa 350 uomini che erano a bordo.
Uno di questi sette era Emilio Ramognini: aveva visto le scie dei siluri dirette verso la nave e si era subito lanciato in mare, senza neanche mettersi un salvagente, dal lato opposto a quello da cui provenivano. Si era buttato "a soldatino", con i piedi verso il basso; nel volo perse il binocolo da cui non si separava mai, poi ci fu la terrificante esplosione. Nell'impatto colpì qualcosa con il piede sinistro e rimase ferito, poi sprofondò sotto la superficie ma riuscì a tornare a galla. Visto un cadavere che galleggiava nei pressi con un salvagente indosso, si avvicinò per prenderlo, ma scoprì con orrore che il corpo era privo di un braccio e della testa. Allontanatosi, s'imbatté nei tronchi usati per realizzare le piattaforme su cui erano state installate le mitragliere quadrinate tedesche, e ne afferrò uno senza più lasciarlo, pur sapendo nuotare benissimo. Le onde lo sballottavano di continuo, un momento era sulla cresta di un'onda e quello successivo veniva inghiottito dal mare, in un movimento altalenante; quasi non sentiva il freddo. Intorno a lui riaffioravano ogni tanto pezzi di legno, casse, copertoni, altri rottami. Un aereo segnalava alle navi soccorritrici la posizione dei naufraghi; dopo quella che parve un'eternità ma che probabilmente, rifletté in seguito, non doveva essere stata più di un'ora venne issato a bordo di una nave ed adagiato su una coperta. Il piede ferito, che perdeva abbondantemente sangue, venne provvisoriamente fasciato con una sciarpa; intanto un cagnolino gli leccava le orecchie. Pensò ai compagni scomparsi con la nave: "...un marò quasi senza denti e un testicolo, un giorno gli avevo chiesto perché non avesse provato a far domanda di esonero, ma a quel tempo arruolavano tutti, c'era bisogno di personale... un altro marò di Milano con i baffetti, faceva il panettiere con suo padre... un maresciallo cannoniere veneto tanto bravo... adesso erano tutti morti".

La lunga e pesante caccia antisommergibile (lo Splendid, tornato a quota periscopica alle 8.45, aveva constatato il risultato del lancio – la nave era scomparsa – e poi era sceso a 21 metri, allontanandosi verso nordovest) non portò alcun risultato: una bomba di profondità esplose vicina al sommergibile alle 10.07, poco dopo che un'accidentale perdita di quota l'aveva quasi portato ad affiorare, e poco più tardi, dopo che lo Splendid era sceso a 107 metri, un pacchetto di dieci bombe era esploso poco a poppavia; dopo quest’attacco, però, le unità impegnate nella caccia avevano perso il contatto.
Lo Splendid avrebbe incontrato la sua fine in quelle stesse acque tre mesi più tardi, per mano del cacciatorpediniere tedesco Hermes.

Emilio Ramognini venne sbarcato a Napoli e ricoverato all'ospedale militare marittimo di Piedigrotta insieme ad altri tre superstiti, un maresciallo dei carabinieri ed un sergente ed un autiere entrambi del Regio Esercito. La sera stessa del 16 venne operato al piede per esiti di ferita da scheggia e lesioni ai tendini: prima di addormentarlo con l'etere una suore infermiera gli disse "Adesso vai in paradiso", il che non dovette risultare molto rassicurante. Si svegliò con la gamba ingessata fino alla coscia, ingessatura che tenne per quattro mesi; il piede guarì, ma perse l'uso dell'articolazione. Avendo Ramognini perso tutto il suo corredo nell'affondamento, il medico che l'aveva operato gli regalò 50 lire, ed il caposala 25.
Nei giorni successivi venne a trovarlo la fidanzata di un maresciallo segnalatore che era tra i dispersi: gli raccontò che avrebbero dovuto sposarsi a breve, che aveva pregato fin dalla partenza della nave; pur sapendo che non c'erano altri sopravvissuti, le disse per consolarla che forse era stato salvato da un'altra nave. Nella camerata c'erano altri sei o sette feriti e naufraghi di varie unità, tra cui un marinaio ustionato su tutto il corpo che invocava la madre: era stato ridotto così da un attacco aereo su una motozattera carica di carburante; una notte morì.
A Ramognini era stata prescritta una cura di sulfamidici, farmaci molto forti che avevano però l'effetto di bloccargli lo stomaco: si accordò allora con un marinaio infermiere, tale Fumagalli, un omone di quasi due metri che aveva sempre fame, cedendogli la parte di razione che non riusciva a mangiare in cambio del suo impegno a distruggere, gettandoli nel bagno, una parte dei farmaci che avrebbe dovuto ingerire.
A poco a poco riprese a camminare, ed un giorno, trovandosi per le vie di Napoli, incontrò una compagnia di soldati tedeschi che scambiandolo per un mutilato - aveva il piede ferito nascosto nei pantaloni larghi - si misero sull'attenti e gli resero gli onori.

Ramognini era ancora ricoverato all'ospedale di Piedigrotta quando esplose nel porto la motonave Caterina Costa, facendo centinaia di vittime: si trovava al tavolo a recitare il rosario con la suora ed altri feriti, e lo spostamento d'aria li gettò a terra. Pochi giorni dopo, il 4 aprile 1943, fu trasferito a Bologna, al centro ortopedico Putti: qui fu privato delle stampelle, per evitare che continuando a camminare con esse s'ingobbisse, e gli furono invece dati dei bastoni a forma di "T" fasciati con bende, che fungevano da ammortizzatore. Fu nuovamente operato al piede sinistro, che non si era saldato bene, ma iniziò a soffrire di osteomielite.
Ramognini avrebbe ricordato in seguito l'ottimo trattamento e la grande professionalità dei medici di questo centro, sempre indaffarati a mitigare i danni causati dal piombo e dal fuoco sui feriti di guerra: ad un marinaio furono impiantate nel ventre le mani ustionate affinché ricrescesse la pelle, per poi separarle con ottimo risultato; ad un altro fu ricostruita la vescica, ad un altro ancora il naso asportato da una fucilata, ad un altro il calcagno, il che permise di salvargli la gamba. C'erano molti grandi mutilati, molti senza una gamba, alcuni in condizioni peggiori: un ufficiale che aveva perso mani ed occhi, un ragazzo poco più che ventenne che aveva perso gambe, braccia, un occhio ed un orecchio. Una volta un ufficiale medico chiese a Ramognini di aiutarlo a tenere fermo un marinaio con una gamba amputata cui doveva praticare un'incisione per far fuoriuscire il pus dal moncone che si era infettato: quando incise con il bisturi il sangue schizzò ovunque, Ramognini andò nei bagni per lavarsi e vi trovò il cadavere di una ragazza, una delle vittime civili di un bombardamento aereo avvenuto poco prima, portate all'ospedale e sistemate dove c'era spazio.
Anche in tanto strazio c'era spazio per la leggerezza e l'allegria di soldati e marinai che avevano pur sempre vent'anni o poco più: in un'occasione Ramognini ed alcuni compagni tentarono di fare un gavettone a Calderoli, un ragazzo ferito ad un braccio che usciva tutte le sere, ma accidentalmente l'acqua cadde invece sul cappellano del centro, entrato dalla porta da cui ci si aspettava dovesse entrare il destinatario dello scherzo, strappandogli un'imprecazione (nondimeno il sacerdote, chiarito l'equivoco, si mostrò compiaciuto del buono spirito dei degenti); due marinai cui mancavano ad uno il braccio sinistro ed all'altro il destro suonavano la fisarmonica insieme stando affiancati, un altro senza gamba suonava il mandolino. Una contessa bolognese riforniva il centro con la frutta delle sue piantagioni, e regalò a Ramognini un bastone da passeggio.

Dal centro Putti Ramognini, una volta migliorate le sue condizioni, venne nuovamente trasferito all'Ospedale Regina Margherita di Castelfranco Emilia, che ricevette un giorno la visita a sorpresa della principessa di Piemonte Maria José con il suo seguito di alti ufficiali: per far prima i degenti corsero a letto senza nemmeno togliersi le scarpe. La principessa ascoltò i singoli casi e fece generose donazioni, ad un marinaio senza una gamba diede mille lire, a Ramognini saputo che aveva madre vedova e fratelli minori a carico regalò 500 lire ed una foto dei suoi figli.
Data la sua condizione Ramognini non fu disturbato neanche dopo l'armistizio e l'occupazione tedesca del Nord Italia: ottenuta una licenza tedesca, continuò a fare la spola tra Bologna, Castelfranco Emilia e Camerana, dov'era in convalescenza. Il 16 febbraio 1945 fu sottoposto a Torino a visita per essere dichiarato invalido di guerra: un guardiamarina della commissione, saputo che era sopravvissuto all'affondamento dell'Emma, gli disse di fare un ex voto alla Madonna. Fu congedato definitivamente il 5 dicembre 1945; si sarebbe spento nel 2014, all'età di 91 anni.

Le vittime fra l'equipaggio civile dell'Emma:
(nominativi tratti dall'Albo d'Oro della Marina Mercantile, si ringrazia Carlo Di Nitto)

Gerolamo Acquarone, nostromo, da Imperia
Giovanni Ardoino, marconista, da Bonassola
Giuseppe Baracchini, commissario di bordo, da Genova
Raffaele Barba, marinaio, da Torre del Greco
Giuseppe Barsotelli, garzone di camera, da Ameglia
Bartolomeo Berti, marinaio, da Forte dei Marmi
Pietro Brizzi, giovanotto, da Lerici
Mario Brondi, garzone di camera, da Lerici
Giovanni Campanella, fuochista, da Lerici
Giuseppino Cellai, operaio meccanico, da Arcola
Carlo Cimmino, marinaio, da Torre del Greco
Roberto Colombo, capitano di lungo corso, da Camogli
Umberto Cuccurullo, ufficiale di macchina, da Torre Annunziata
Ernesto Dall'Orso, capitano di lungo corso, da Lavagna
Andrea Degli Innocenti, fuochista
Giobatta Del Bene, nostromo, da Deiva
Pietro Devoto, elettricista, da Lerici
Martino Eufrate, marinaio, da Marsiglia
Bartolomeo Figari, direttore di macchina, da Camogli
Fioravante Forlano, marinaio, da La Spezia
Ferdinando Franceschini, carbonaio, da Lerici
Giuseppe Germiniasi, fuochista, da Genova
Michele Giacopello, marinaio, da Lerici
Ernesto Giberti, cameriere, da Nervi
Ottavio Iavazzo, mozzo, da Torre del Greco
Ascanio La Bruna, garzone di cucina, da Napoli
Alcimedonte Landi, operaio meccanico, da Arcola
Antonio La Salandra, ufficiale di macchina, da Roma
Giacomo Luxardo, pennese, da Framura
Aldo Magni, capo fuochista, da Molfetta
Eugenio Martinelli, cameriere, da Bogliasco
Francesco Molato, carpentiere, da Monte di Procida
Giuseppe Oliviero, marinaio, da Torre del Greco
Vittorio Paladini, operaio meccanico, da Carrara
Cesare Panizza, cuoco, da Medicina
Antonio Passalacqua, panettiere, da Camogli
Francesco Pastorino, capitano di lungo corso, da Camogli
Attilio Pellegrini, fuochista, da La Spezia
Giuseppe Piccardo, cuoco, da Genova
Silvio Sarbia, fuochista, da Ameglia
Raimondo Scala, marinaio, da Torre del Greco
Roberto Scotto, capitano di lungo corso, da Bacoli
Domenico Sorrentino, carbonaio, da Torre del Greco
Giovanni Spanò, ufficiale di macchina, da Olbia
Giuseppe Strambi, giovanotto, da Lerici
Salvatore Tille, marinaio, da Torre del Greco
Emanuele Torre, cambusiere, da Santa Margherita
Vincenzo Varchetta, fuochista, da Portovenere
Mario Vassale, marinaio, da Lerici
Giovanni Viviani, marinaio, da Bonassola

L'affondamento dell'Emma nel diario di bordo dello Splendid (da Uboat.net):

"15 January 1943
1910 hours - A lookout sighted ships on the starboard quarter. P 228 was 30 degrees on the starboard bow of the target, a 6000 tons merchant ship. She was in convoy with one other merchant ship. They were escorted by three destroyers. Two of the destroyers were ahead of the leading merchant ships. The third destroyer was near the second merchant ship. Started a surface attack.
1927 hours - Fired five torpedoes from 2000 yards. Dived immediately afterwards. One explosion was heard that was thought to be a hit. A few depth charges were dropped following this attack but these were not close. After withdrawing for 30 minutes P 228 surfaced. One merchant ship was seen to lay stopped with two destroyers standing by. The starboard engine was out of action. Kept the damaged merchant ship in sight while charging the depleted battery on the port engine.
2037 hours - Dived as the moon came from behind the clouds. Decided to finish off the damaged merchant ship. An hour after diving the range was still over 3000 yards when the darkness became more intense so that the target could no longer be seen.
2150 hours - Surfaced to locate the target. Successfully did so and submerged again. When the range closed one of the destroyers obtained contact with her Asdic on P 228 but when the destroyer picked up speed she lost contact again.
2350 hours - Fired the last remaining bow torpedo in the tubes from a range of about 2500 yards. It missed. P 228 then retired from the scene to charge the battery and reload the torpedo tubes.
16 January 1943
0115 hours - Surfaced to charge. The target could be seen at a range of 8000 yards to the South-East. One destroyer was still standing by. Two other destroyers were to the North-West, sweeping. During the rest of the night the target was kept in sight.
0600 hours - Dived deep and loaded two torpedoes. Also started to close the target.
0715 hours - Came to periscope depth. Saw the target at a range of 2500 yards. One destroyer was still with her. A tug was seen alongside the target and soon afterwards the tow towards Naples began. Fortunately the target had to be towed towards P 228 to get there. Started attack.
0835 hours - Fired one torpedo from 750 yards. It hit. Breaking up noises were heard immediately afterwards.
0845 hours - Returned to periscope depth. A destroyer and two tugs were in sight but the merchant ship had gone so it must have sunk. P 228 then went to 70 feet and withdrew to the North-West. No immediate counter attack followed.
1005 hours - Depth control was lost and P 228 broached. She dived immediately again.
1007 hours - A depth charge exploded fairly near. HE and Asdic impulses were also picked up coming nearer. P 228 went to 350 feet. A pattern of 10 depth charges were dropped which exploded close astern. After this attack the enemy lost contact. P 228 meanwhile continued to retire to the North-West.
1400 hours - Returned to periscope depth. No ship or aircraft in sight."