domenica 25 febbraio 2018

Fiume

Il Fiume ormeggiato a Lero nel luglio 1942; sulla sinistra il piroscafetto Tarquinia (Archivio Centrale dello Stato, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)

Piroscafo passeggeri di 662 (o 654) tsl, 386 tsn e 300 tpl, lungo 48,18 metri, largo 7,80 e pescante 5,30, con velocità di 10,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia, ed iscritto con matricola 308 al Compartimento Marittimo di Venezia. Nominativo internazionale IBTM, nome in codice "Festino".
Poteva trasportare 14 passeggeri in cabina ed aveva due stive della capienza di 246 metri cubi.

Adibito al traffico locale tra le isole dell’Egeo, effettuava viaggi bisettimanali collegando tra loro tutte le isole dell’arcipelago, trasportando sia civili che militari, italiani e greci. Nave familiare a chiunque nel Dodecaneso, questo piccolo piroscafo si guadagnò la fama di «cavallo da tiro dell’Egeo». Così Aldo Cocchia, comandante militare di Lero dal giugno 1941 al marzo 1942, ricordò il Fiume nel suo libro "Convogli": "…affollatissimo, infaticabile vaporetto dell’«Adriatica», vero tranvai delle isole".
Non venne mai requisito dalla Regia Marina, né iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, ma venne comunque armato con un cannone, alcune mitragliere e bombe di profondità, a scopo difensivo. Ciò non servì ad evitarne la tragica fine.

Breve e parziale cronologia.

1926
Costruito nei cantieri Lübecker Maschinenbau Gesellschaft di Lubecca per la compagnia di navigazione Brodarsko-akcijskog ''Boka'' di Cattaro (Jugoslavia), come jugoslavo Prestolonaslednik Petar.
Impiegato sulle linee regolari di trasporto merci e passeggeri lungo le coste della Jugoslavia, si rivela del tutto inadeguato al servizio per cui è stato costruito (forse a causa di un fraintendimento tra la compagnia proprietaria ed il cantiere costruttore circa le caratteristiche della nave).


La nave nel suo originario aspetto come Prestolonaslednik Petar (da www.paluba.info)

1928
Data la sua inadeguatezza, la compagnia ''Boka'' vende il Prestolonaslednik Petar ad una compagnia italiana, la Società Anonima ''Costiera'' di Fiume, con una perdita di oltre 3.000.000 di dinari jugoslavi.
La nuova proprietaria cambia il nome della nave da Prestolonaslednik Petar a Calitea, la registra a Fiume e la impiega inizialmente su linee brevi nell’Adriatico orientale (soprattutto Venezia-Trieste-Fiume-Pola-Spalato).
Per altra versione, il piroscafo sarebbe stato trasferito nel Dodecaneso già nel 1930, ed avrebbe cambiato nome in Calitea in tale occasione, allo scopo di reclamizzare il nuovo complesso termale aperto a Calitea nel 1929.

Il Fiume a Simi nel 1929 (Facebook)

4 aprile 1932
La società ''Costiera'' di Fiume, insieme ad altre compagnie di navigazione dell’Adriatico (''San Marco'' di Venezia, ''Nautica'' di Fiume, ''Puglia'' di Bari, S.A.I.M. di Ancona e Società di Navigazione Zaratina di Zara), confluisce nella nuova Compagnia Adriatica di Navigazione S.A., con sede a Venezia.
Il Calitea passa pertanto alla flotta della nuova compagnia; nello stesso anno, viene ribattezzato Fiume.
Stazza lorda e netta risultano essere 654 tsl e 382 tsn.


Il Fiume a Simi (Facebook-Rodostoxytes)

17 dicembre 1936
La Compagnia Adriatica di Navigazione diventa Società Anonima di Navigazione Adriatica, sempre con sede a Venezia.
Il porto di registrazione del Fiume cambia da Fiume a Venezia.
1937
Trasferito a Rodi ed impiegato sulle rotte del Dodecaneso.


Il Fiume con i colori della società Adriatica (da adriaticanavigazionevenezia.blogspot.it)

1937-9 giugno 1940
In servizio alternato sulle linee 61 (Rodi-Coo-Stampalia, quindicinale), 62 (Rodi-Castelrosso, settimanale) e 63 (Rodi-Caso, settimanale o quindicinale), tra Rodi (capolinea) e le altre isole del Dodecaneso.
In questo periodo trasporta, tra l’altro, molti emigranti greci da Castelrosso e da altre isole minori fino a Rodi, da dove poi s’imbarcheranno su altre navi dirette soprattutto in Australia.



Il Fiume a Castelrosso nel 1938 (sopra: da www.shipfriends.gr; sotto: da Facebook-Rodostoxytes)



5 luglio 1939
Il piroscafo Rim (appartenente ad armatori greci, ma battente bandiera panamese), proveniente da Costanza (Romania) e diretto in Palestina con a bordo 814 profughi ebrei in fuga dalle persecuzioni nazifasciste (600 imbarcati a Costanza e 200 – ex cittadini italiani, cui è stata revocata la cittadinanza a causa delle leggi razziali – a Rodi), s’incendia al largo di Rodi (o di Simi).
Il Fiume, insieme ad una nave militare, accorre sul posto per prestare soccorso; tutti i passeggeri del Rim vengono salvati, 450 dei quali dal Fiume, che li sbarca a Rodi. Qui i profughi ebrei vengono provvisoriamente alloggiati in attendamenti militari nello stadio cittadino (“L’arena del sole”); all’inizio del 1940 verranno nuovamente imbarcati sul Fiume, che li porterà in Palestina.

Il Fiume a Coo (Facebook-Rodostoxytes)

16 giugno 1940
Sei giorni dopo l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Fiume viene armato con un cannone da 76/40 mm, quattro mitragliere da 13,2 mm ed una numerosa dotazione di bombe di profondità. Viene inoltre imbarcato personale militare addetto a tale armamento, ed il comandante del Fiume, capitano di lungo corso Armando Pillon, viene militarizzato col grado di tenente di vascello.
Posto a disposizione del Governo Autonomo di Rodi, durante la guerra il Fiume verrà impiegato sia nel servizio civile di linea che per trasporti militari; non verrà requisito né militarizzato per disposizione dello stesso Governo Autonomo, che spera così di evitare che esso venga attaccato, ma viene ugualmente dotato dell’armamento difensivo sopra descritto.
Il comandante Pillon viene informato della posizione dei campi minati nelle acque che la sua nave deve attraversare, e verrà sempre aggiornato circa le notizie sulla presenza di sommergibili nemici.


Il Fiume a Kolonna (Skala) (Facebook-Rodostoxytes)

23 giugno-6 luglio 1940
Rimane inattivo a Rodi.
Luglio 1940
Dopo il 6 luglio inizia ad effettuare due collegamenti sulle linee 1 (Rodi-Coo-Calino-Lero) e 2 (Rodi-Scarpanto).
23 luglio 1940
Torna a navigare, di volta in volta, verso le destinazioni necessarie, per mantenere i collegamenti ed i rifornimenti tra le popolazioni civili ed i presidi militari del Dodecaneso.




Quattro immagini di un viaggio a bordo del Fiume in tempo di guerra: militari delle varie armi, frammisti a qualche civile, sistemati un po’ dappertutto nell’esiguo spazio disponibile a bordo della piccola nave. Inverno del 1941-1942 (Archivio Centrale dello Stato).



1940-1942
Nelle condizioni sopra descritte, per due anni il Fiume effettua due viaggi settimanali tra le isole del Dodecaneso, in servizio civile di linea (linee 61, 62 e 63), ma riceve anche talvolta missioni di natura militare: in alcuni casi, a seguito dell’avvistamento di sommergibili, viene inviato a dar loro la caccia; in alcune occasioni, riceve l’incarico di far esplodere le mine avvistate lungo le rotte percorse, e durante le soste nel porto di Rodi concorre alla difesa contraerea con il suo armamento. Il comandante Pillon, per i suoi due anni di servizio a bordo del Fiume, svolgendo i compiti più svariati in acque insidiose, riceverà una Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Nei suoi viaggi di linea bisettimanali, il Fiume parte da Rodi e tocca tutte le isole dell’arcipelago, trasportando militari e civili sia italiani che greci (dodecanesini). In molte delle isole (ad esempio, Stampalia), mancando un porto vero e proprio, l’imbarco e sbarco dei passeggeri dalla nave viene effettuato per mezzo di barche.
Aprile-Maggio 1941
Dopo l’intervento tedesco nei Balcani e la resa della Grecia, il Fiume è tra le navi che trasportano i contingenti italiani inviati ad occupare e presidiare le isole Cicladi e Sporadi.
 
Il Fiume nel 1942, con colorazione mimetica (Facebook-Rodostoyxtes)

L’affondamento

Alle 12.05 del 24 settembre 1942 il Fiume, al comando del capitano Aldo Cantù, salpò da Rodi alla volta di Simi. A bordo, oltre a 81,5 tonnellate di provviste destinate ai diversi scali nella linea numero 1, si trovavano 38 uomini di equipaggio (29 civili e 9 militari) e 249 passeggeri di cui 94 erano civili e 155 erano militari. Questi ultimi erano principalmente personale della Regia Aeronautica, di ritorno dalla licenza; c’erano anche, tra gli altri, il maggiore Tronci della 6a Divisione Fanteria "Cuneo" stanziata a Samo, il comandante Zino della Capitaneria di Porto di Calino, ed il primo seniore (tenente colonnello) Aldo Billò, della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, nonché vari ufficiali e soldati delle Divisioni "Cuneo" e "Regina" che presidiavano le Cicladi ed il Dodecaneso. Tra i passeggeri civili vi erano diverse decine di greci (forse una settantina), abitanti delle isole del Dodecaneso; ad esempio, vi era un gruppetto di abitanti dell’isola di Nisiro. C’era anche il podestà (italiano) di Nisiro, Sanna. Anche alcuni membri dell’equipaggio civile erano greci, mentre gli ufficiali erano tutti italiani.
(Articoli di giornale greci parlano di 300 o 400 militari italiani imbarcati sul Fiume, tra cui cinque alti ufficiali, diretti a Simi per rinforzarne od avvicendarne la guarnigione, oltre che di un numero di civili greci dodecanesini variabilmente indicato tra i 70 ed i 200; ma l’origine di tali notizie sembra piuttosto dubbia, mentre i dati accennati più sopra risultano dalla relazione ufficiale inviata il 12 ottobre 1942 alla società Adriatica dal secondo ufficiale Silvio Kastelic, ritenuta assai più attendibile).
Il capitano Cantù aveva assunto il comando del Fiume da appena dieci giorni, in sostituzione del capitano di lungo corso Armando Pillon, che era stato al comando del Fiume sin dal giorno dell’entrata in guerra dell’Italia, 10 giugno 1940, e che era sbarcato per una breve licenza.
Cinque minuti dopo la partenza, il Fiume passò al traverso di Punta Sabbia, ed accostò assumendo rotta 287°. Il cielo era sereno, con vento da maestrale forza 4-5 e mare lungo da tramontana, che non impedivano comunque al piroscafo di navigare alla prevista velocità di 10 nodi abbondanti.
Il comandante Cantù rimase sul ponte fin verso mezzogiorno e mezzo, poi andò in cabina, raccomandando al personale di guardia sul ponte di fare attenzione alle mine vaganti. In plancia restavano cinque uomini: il secondo ufficiale Silvio Kastelic, due timonieri di guardia (uno dei quali sulla normale) e due vedette della Regia Marina sulle due alette, una a dritta ed una a sinistra. La navigazione procedeva tranquilla.
Non era passata neanche un’ora dalla partenza, quando alle 13.02 (13.10 per altra fonte; in quel momento la nave si trovava a circa 9 miglia e mezzo da Punta Sabbia) il Fiume fu scosso da una violenta esplosione a poppa. Era stato colpito da un siluro lanciato dal sommergibile greco Nereus, al comando del capitano di corvetta A. Rallis: questi aveva avvistato il Fiume ed identificato il suo bersaglio, sovrastimandone le dimensioni (come spesso accadeva), in un bastimento di 1500 tsl adibito a trasporto truppe. Aveva lanciato tre siluri: i primi due avevano mancato il bersaglio, ma il terzo aveva fatto centro.
Il Nereus aveva già incontrato il Fiume due giorni prima, il 22 settembre, nello stretto di Rodi, ma in quell’occasione Rallis aveva deciso di non attaccare, onde evitare di rivelare la propria presenza nella zona (evidentemente, Rallis non giudicava che valesse la pena di rivelare la propria posizione per attaccare ad un bersaglio così piccolo). Questa volta, il Fiume non aveva avuto la stessa fortuna.

L’esplosione parve sollevare dall’acqua la piccola nave, per poi farla ricadere in mare, infilandovisi di poppa. Lo squarcio aperto dal siluro era a circa un terzo dal traverso di poppa; e di poppa il Fiume colò a picco, impennandosi improvvisamente verso il cielo, e poi inabissandosi in posizione quasi verticale, a 7 miglia per 310° da Punta Sabbia di Rodi (cioè sette miglia a sudovest dell’isola; il Nereus indicò invece il luogo del siluramento come a 6 miglia per 130° da Capo Alupo). Trascorsero appena 25 secondi tra il momento dell’impatto del siluro, e quello in cui il Fiume scomparve per sempre tra le acque dell’Egeo: la maggior parte delle persone a bordo non ebbe scampo, e affondò con la nave. Altri si ferirono mortalmente precipitando lungo il ponte fortemente inclinato, o vennero trascinati a fondo dal risucchio generato dal bastimento che affondava.

Il comandante Cantù, subito dopo il siluramento, venne visto mentre cercava di raggiungere il ponte di comando ed intanto di indossare il giubbotto salvagente; l’improvvisa impennata del piroscafo agonizzante, tuttavia, gli fece perdere l’equilibrio, ed il comandante scivolò verso poppa. Non fu mai più rivisto.
Il marinaio timoniere Giorgio Coti s’imbatté nel primo ufficiale, Emilio Vianello, mentre quest’ultimo si precipitava fuori dalla sua cabina, chiedendo un giubbotto salvagente. Coti gli diede il suo, poi si tuffò in mare; non lo rivide più. Il corpo di Vianello fu tra quelli recuperati dai MAS; il secondo ufficiale Kastelic, tratto in salvo dallo stesso mezzo, lo riconobbe e notò che aveva la colonna vertebrale spezzata e diffuse emorragie da occhi, naso e bocca. Non aveva fatto in tempo ad indossare il salvagente offerto da Coti: lo aveva ancora attorcigliato attorno ai polsi. Suo figlio era nato nove giorni prima.
Uno dei due ufficiali radiotelegrafisti, Tommasini, uscì dalla stazione radio e cercò di indossare il giubbotto salvagente, ma ebbe la stessa sorte del comandante Cantù: perse l’equilibrio e precipitò verso poppa. Il marinaio Albona della Regia Marina, uno dei componenti dell’equipaggio militare, lo vide in mare, sanguinante da una ferita alla testa; cercò di incoraggiarlo, assisterlo e sollevarlo con un secondo giubbotto salvagente, ma Tommasini chiuse gli occhi e scomparve. Il suo corpo fu tra quelli recuperati dai MAS.
L’altro ufficiale radiotelegrafista, Gadaleta, uscì ferito dalla sua cabina e si diresse verso il locale radio; l’ultimo a vederlo fu il comandante Zino della Capitaneria di Porto di Calino, mentre Gadaleta cercava di restare aggrappato al parapetto perdendo sangue da occhi, orecchie e bocca. Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Uno dei passeggeri greci, un diciassettenne di nome Gabriel Margaritis, viaggiava sul Fiume con la madre Maria: erano di Simi, ma si erano recati a Rodi per un’operazione di appendicite, della quale Gabriel avevano bisogno (a Simi non c’era un ospedale); la madre lo aveva accompagnato. Si erano imbarcati sul Fiume per tornare nella loro isola. Quando il Fiume fu silurato e rapidamente affondò, la madre precipitò lungo il ponte e scomparve, mentre Gabriel, finito in mare, venne trascinato sott’acqua per tre o quattro metri dal gorgo generato dal piroscafo in affondamento. Risalito in superficie, si aggrappò ad alcuni rottami.
Il venticinquenne Antonio Di Donna, soldato del 10° Reggimento Fanteria (50a Divisione Fanteria "Regina"), era salito sul Fiume per tornare all’isola di Coo, ov’era stanziato, tornando da una licenza di convalescenza. Quando il siluro colpì la nave, Di Donna si trovava su una piattaforma con altri soldati; la piattaforma venne lanciata in mare e Di Donna perse i sensi, per poi rinvenire tra le braccia dei soccorritori (che erano, nella sua memoria, turchi). Sopravvisse, ma una ferita alla spalla, provocata da una scheggia di metallo, lo avrebbe reso invalido per il resto della vita.
Tra i passeggeri greci c’erano anche Vassilios Pharmakidis, con la moglie ed i tre figli: la madre dei bambini cercò di salvarli facendoli salire su un rottame galleggiante, ma qualcuno lo fece capovolgere, ed i tre figli annegarono. Pharmakidis sarebbe stato tratto in salvo, soltanto per morire sei giorni dopo.
Il capo stiva greco Manolis Charalambis (il suo collega italiano, Luca Cuculaci, al momento del siluramento si trovava nella cala di poppa, intento a preparare la pittura per i ritocchi al fuoribordo: non fu mai più rivisto) si arrampicò sulla prua estrema mentre la nave affondava, e da lì precipitò in mare; in acqua, si aggrappò all’estremità di un remo che galleggiava in superficie. All’estremità opposta si trovava un altro naufrago (che il figlio di Charalambis, ripetendo i racconti del padre a decenni di distanza, menzionò poi come “il capitano”; ma sembra strano che questi potesse essere il comandante Cantù, che nessun superstite risulterebbe aver visto in acqua).
Non c’era stato, naturalmente, il tempo di calare alcuna imbarcazione; otto zatterini, liberatisi dalle ritenute, emersero tra i naufraghi, che vi si poterono aggrappare in attesa che arrivasse aiuto.

Il Comando Marina, presumibilmente informato dell’accaduto dal personale delle batterie costiere, che avevano certamente visto il Fiume affondare, provvide ad inviare rapidamente i soccorsi. Per primi, subito dopo l’affondamento, giunsero sul posto due idrovolanti della Croce Rossa; ma uno di essi, tentando di ammarare, s’impuntò sui pattini e si ribaltò. Per colmo di sfortuna, parte dell’ala del velivolo cappottato cadde proprio sul remo cui erano aggrappati Manolis Charalambis e l’altro naufrago; quest’ultimo fu colpito dall’ala ed ucciso sul colpo, mentre Charalambis sopravvisse.
Il secondo idrovolante, un CANT Z. 506 con a bordo, tra gli altri, il tenente medico Evaldo Angeloni, raccolse i pochi naufraghi che poteva prendere a bordo, poi decollò nuovamente.
Tre quarti d’ora dopo sopraggiunse da Rodi una squadriglia di MAS, al comando del tenente di vascello Giusto Riavini (il quale da civile, prima di essere chiamato alle armi, era stato anch’egli ufficiale della società Adriatica, la stessa cui apparteneva il Fiume), che salvarono tutti i naufraghi che erano ancora in vita.
I MAS lanciavano salvagente ai naufraghi in mare per aiutarli a restare a galla, intanto che provvedevano a raccoglierli; Gabriel Margaritis, il giovane passeggero greco, si avvicinò a nuoto ad uno dei MAS ma, indebolito dall’operazione di appendicite (che aveva subito solo sei giorni prima) e dal tempo passato in acqua, non riuscì ad afferrare la cima che gli era stata lanciata, e sprofondò sott’acqua per un paio di metri. Pregò allora l’arcangelo Michele di salvarlo, promettendo di dedicare la sua vita alla Chiesa; in quel momento, nel suo ricordo, si sentì spingere dal basso e riemerse. Gridò per richiamare l’attenzione dei marinai italiani, che lo videro e lo issarono a bordo. Avrebbe mantenuto la parola; presentatosi al monastero di San Giovanni a Patmo, divenne in seguito un novizio e poi un monaco presso il monastero di Panormitis a Simi, restandovi poi per fino alla sua morte, avvenuta all’età di 81 anni. La salma di sua madre Maria fu una delle poche che poterono essere ritrovate e seppellite.
I naufraghi raccolti dai MAS vennero portati a Rodi, dove furono sistemati provvisoriamente nell’ufficio della dogana.

Su 287 persone che si trovavano a bordo del Fiume, soltanto 73 sopravvissero all’affondamento: 10 membri dell’equipaggio civile, 8 dell’equipaggio militare e 55 passeggeri (20 civili e 35 militari). Morirono 19 membri dell’equipaggio civile, uno dell’equipaggio militare (il marinaio cannoniere Pietro Cattarin, di 29 anni, da Padova), 74 passeggeri civili e 120 passeggeri militari. 
Delle 214 vittime, 194 non furono mai ritrovate. (Circola su Internet anche la cifra di 333 vittime totali, ma non viene indicata alcuna fonte a sostegno di tale asserzione; di nuovo, si considerano come accurate le informazioni contenute nella relazione di Kastelic).
Tra gli ufficiali del Fiume, soltanto il secondo ufficiale Kastelic era sopravvissuto; erano periti con la nave il comandante Cantù, il primo ufficiale Vianello, i radiotelegrafisti Tommasini e Gadaleta ed il direttore di macchina Giorgio Modonese (che al momento del siluramento era probabilmente nella sua cabina, e che non fu visto da alcuno dopo l’impatto del siluro). Tra i passeggeri superstiti vi erano il maggiore Tronci ed il comandante Zino, mentre furono tra gli scomparsi il primo seniore Billò della M.V.S.N. ed il podestà Sanna di Nisiro.
I pochi corpi recuperati – 17 passeggeri e tre membri dell’equipaggio civile – vennero sepolti con un funerale solenne il 25 settembre 1942, nel cimitero monumentale di Rodi.

Le vittime tra l'equipaggio civile:

Tommaso Autiero (od Antiero), fuochista, da Napoli (o Bari)
Aldo Cantù, comandante, da Spoleto
Michele Caragiorgio, carpentiere, da Castelrosso
Bruno Cortivo, operaio meccanico, da Venezia
Luca Cuculati, marinaio
Giorgio Cumneno (o Cucumneni), cameriere, da Nichita
Nicola De Santis, fuochista (*)
Nicola De Santis, piccolo di camera, da Mola di Bari (*)
Stamatio Fentuco, garzone di camera, da Piscopi
Giuseppe Gadaleta, ufficiale radiotelegrafista, da Molfetta
Ciriaco Magripli, garzone di camera (**)
Evangelo Magripli, piccolo di camera (**)
Giorgio Modenese, direttore di macchina, da Venezia
Michele Nicoletto, carbonaio, da Simi
Giovanni Sacri, fuochista, da Simi
Vittorio Seberini, fuochista, da Fiume
Giovanni Sorri, fuochista
Stavo Stavinidri, fuochista, da Simi
Arturo Tomasini, ufficiale radiotelegrafista, da Treviso
Gino Tosoni, maestro di casa, da Venezia
Emilio Vianello, primo ufficiale, da Venezia

(*) Non è chiaro se si tratti di un caso di omonimia, o se si tratti in realtà della stessa persona il cui nome è ripetuto due volte (il documento usato come fonte indica diversa paternità).

(**) Non è chiaro se si tratti di due persone diverse (magari imparentate) o della stessa persona, il cui nome è ripetuto due volte e sbagliato in un caso.

Come spesso accade nel caso di affondamenti in guerra di piccole navi passeggeri, difficilmente percepibili come obiettivo militare, con un elevato numero di vittime civili, anche sulle circostanze dell’affondamento del Fiume sono circolate – in Grecia – le voci più disparate. Secondo alcuni, la nave sarebbe stata affondata perché trasportava truppe italiane, ed il Nereus ne era stato informato dallo spionaggio greco; il nuovo comandante, inoltre, avrebbe commesso l’errore di comunicare l’esatto orario di partenza da Rodi, mentre il precedente comandante forniva sempre orari falsi, allo scopo di ridurre le probabilità di essere intercettati da sommergibili greci, informati da qualche spia tra la popolazione greca di Rodi. Ancora, si è puntato il dito contro il cannone di cui il Fiume era dotato: gli Alleati ed i greci avrebbero sollecitato gli italiani a rimuoverlo, essendo la nave adibita al trasporto di passeggeri, e la presenza dell’armamento avrebbe reso il piroscafo un obiettivo militare.
In realtà, le ragioni sopra indicate assomigliano molto alle “leggende” e dicerie popolari che sorgono spesso, per sentito dire, dopo tragedie del genere; non sembra che vi siano fonti ufficiali che confermino queste notizie, che d’altra parte sono in larga parte confutabili. Sembra infatti difficile che gli Alleati potessero attribuire al piccolo Fiume una tale importanza da chiedere ai comandi italiani di non armarlo “perché trasportava passeggeri”, il che peraltro non lo avrebbe in alcun modo protetto dall’offesa nemica: non esistevano, all’epoca, convenzioni internazionali che proteggessero le navi passeggeri di nazioni belligeranti, anche se adibite esclusivamente al servizio civile di linea (solo le navi ospedale e le navi di Paesi neutrali erano protette). Per quello che un comandante di sommergibile od un pilota d’aereo ne poteva sapere, qualsiasi nave passeggeri nemica poteva avere a bordo truppe (e spessissimo, difatti, ciò avveniva, anche su navi in servizio di linea che non erano specificamente adibite al trasporto di truppe: è proprio questo il caso del Fiume) e dunque rappresentava un bersaglio legittimo. Di norma, che la nave fosse armata o meno, si sceglieva sempre di attaccare, nella supposizione che a bordo potesse avere militari o materiale bellico; morirono così migliaia di civili di tutte le nazionalità, in tutti i mari del mondo. Nessuna legge puniva l’attacco ad una nave passeggeri disarmata, e nessuna Marina ordinava ai suoi comandanti di risparmiarle.
Di conseguenza, il fatto che il Fiume fosse armato c’entra ben poco col suo affondamento. Lo stesso si può dire sulla presenza a bordo di 155 militari italiani: non era certo la prima volta che il Fiume ne trasportava, anzi, in quel tempo di guerra in cui nel Dodecaneso erano stanziati 55.000 militari italiani delle tre armi (in pratica, c’era più di un militare italiano ogni tre civili residenti nell’arcipelago), questi ultimi erano tra i passeggeri più assidui del Fiume, che nei suoi viaggi trasportava tra un’isola e l’altra sia militari che civili, senza distinzione. Anche la storia dello spionaggio greco che avrebbe avvisato il Nereus del “carico” del Fiume sembra quindi difficilmente credibile, dato che il piroscafetto trasportava militari, frammisti a civili, praticamente in ogni suo viaggio.
L’affondamento del Fiume non è che uno degli innumerevoli, tragici episodi della guerra totale sul mare.

(Archivio Centrale dello Stato)


domenica 18 febbraio 2018

Michele Bianchi

Il Michele Bianchi a La Spezia nel maggio 1940. In questo periodo, per temporanea indisponibilità dei nuovi cannoni da 100/47 mm, il sommergibile fu dotato di un vecchio pezzo da 102/35, poi sostituito con il nuovo modello (g.c. STORIA militare)

Sommergibile oceanico della classe Marconi (1191 tonnellate di dislocamento in superficie e 1489 in immersione).
Durante il conflitto svolse 7 missioni di guerra, quattro in Atlantico e tre in Mediterraneo, percorrendo 13.220 miglia in superficie e 1002 in immersione, trascorrendo 89 giorni in mare ed affondando 3 navi mercantili per complessive 24.222 tsl.
Per lungo tempo, a causa dell’errata identificazione di due delle tre navi da esso affondate, al Bianchi è stato attribuito l’affondamento di un tonnellaggio nettamente inferiore (14.705 tsl, quasi 10.000 tsl in meno del reale), riportato ancor oggi da numerose fonti anche ufficiali, ma ricerche più approfondite hanno permesso di rettificare questo errore.

Breve e parziale cronologia.

15 febbraio 1939
Impostazione nei cantieri Odero-Terni-Orlando del Muggiano (La Spezia).
3 dicembre 1939
Varo nei cantieri Odero-Terni-Orlando del Muggiano.

Il varo del Bianchi (da “Gli squali dell’Adriatico” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it)

3 aprile 1940
Durante le prove d’immersione al largo di La Spezia, il Bianchi (avente a bordo il contrammiraglio Massimiliano Vietina, della Commissione di collaudo del Ministero della Marina) raggiunge senza inconvenienti la profondità di 115 metri.
15 aprile 1940
Entrata in servizio. Suo primo comandante è il capitano di corvetta Vittore Carminati.
10 giugno 1940
Al momento dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Bianchi si trova dislocato a La Spezia, impegnato nel periodo di addestramento iniziale, che si protrarrà fino a metà agosto.
18 giugno 1940
Il comando del Bianchi passa dal capitano di corvetta Carminati al parigrado Adalberto Giovannini.
15 agosto 1940
Ultimato il periodo di addestramento (svolto nelle acque di La Spezia, dov’è stato costruito), salpa per la prima missione di guerra, un pattugliamento a levante di Gibilterra.
17 agosto 1940
Raggiunge il settore assegnato, nei pressi dello stretto di Gibilterra, ed inizia a pattugliarlo.
25 agosto 1940
Alle 6.03 il Bianchi (capitano di corvetta Adalberto Giovannini, da Capodistria), stando in immersione, lancia un siluro contro un’unità britannica da pattugliamento (una nave di piccole dimensioni, dalle caratteristiche imprecisate) al largo di Gibilterra. Viene sentita un’esplosione, e Giovannini ritiene di avere probabilmente affondato l’unità nemica, ma in realtà il siluro non è andato a segno.
3 settembre 1940
Lascia il settore di agguato per rientrare alla base.
Segue un periodo di lavori in arsenale, in preparazione del suo trasferimento a Betasom, la base sommergibilistica italiana in Atlantico.
27 ottobre 1940
Il Bianchi (capitano di corvetta Adalberto Giovannini) parte da La Spezia diretto in Atlantico per la sua prima missione in quell’oceano, al termine della quale dovrà raggiungere Bordeaux, sede di Betasom. Prima di dirigere per Bordeaux, dovrà effettuare un agguato al largo di Capo San Vincenzo, a sudovest di Lisbona, formando con altri tre sommergibili (Morosini, Marcello e Brin, gruppo denominato «Morosini»), anch’essi in corso di trasferimento in Atlantico (ciascuno dei quattro battelli deve attraversare lo stretto di Gibilterra individualmente, nei giorni immediatamente successivi al novilunio, che cade il 1° novembre), uno sbarramento a maglie molto larghe al largo della penisola iberica, dove confluisce il traffico britannico tra Freetown ed il Regno Unito. I sommergibili dovranno restare in agguato nelle zone assegnate fino al raggiungimento dei limiti di autonomia, poi dovranno raggiungere Bordeaux.
Durante i primi giorni di navigazione verso lo stretto di Gibilterra, il Bianchi procede in immersione di giorno ed in superficie di notte, per ricaricare le batterie.
3 novembre 1940
Arrivato all’1.05 della notte poche miglia ad est di Punta Almina (vicino a Ceuta, nel Marocco spagnolo), il Bianchi s’immerge per attraversare lo stretto di Gibilterra in immersione. Salvo imprevisti, dovrebbe riemergere alle 19 di quella sera.
Durante l’attraversamento, tuttavia, il Bianchi viene individuato ed attaccato da unità britanniche: dalle 2.20 alle 4.27 viene sottoposto a caccia con impiego di torpedine a rimorchio e lancio di cinque bombe di profondità, che non causano danni.
Dopo le otto del mattino, il sommergibile inizia a manifestare seri problemi nel mantenimento dell’assetto e nel governo, causati dalle forti correnti sottomarine dello stretto (violente correnti contrastanti provenienti da entrambe le direzioni, problema incontrato da quasi tutti i sommergibili durante il passaggio dal Mediterraneo all’Atlantico: per via dell’elevata evaporazione, le correnti tendono ad entrare nel Mediterraneo, mentre altre ne fuoriescono verso l’Atlantico): gli ecometri segnalano che la profondità sotto lo scafo sta rapidamente diminuendo, il che significa che il sommergibile sta venendo deviato verso la costa del Marocco; si susseguono bruschi “sbalzi” verso l’alto e verso il basso, anche di una dozzina di metri, a volte di prua ed a volte di poppa, facendo cadere gli uomini e rovesciando a terra gli oggetti. Alle 8.20 il Bianchi incappa in un “vuoto d’acqua” creato dal gioco delle correnti e “precipita” fino a 118 metri di profondità, il limite di collaudo. Per frenare la caduta il sommergibile si libera della zavorra; inizia allora a risalire “a pallone”, velocissimamente, per poi fermarsi a 50 metri.
Addentrandosi sempre più nello stretto, dato che il fondale risulta via via meno profondo, mentre gli idrofoni stanno iniziando a rilevare rumori prodotti da unità sottili in superficie, il comandante Giovannini decide di posarsi sul fondale col sommergibile ed attendere che le navi nemiche se ne vadano. Il Bianchi si posa dunque sul fondo ed aspetta dalle 11.50 alle 13, ma alla fine la corrente, che trascina lo scafo contro il fondale roccioso, rischiando di danneggiarlo, lo costringe a rimettere in moto.
Alle 15.45 il sommergibile perde nuovamente l’assetto a causa delle correnti e sprofonda fino a 142 metri di profondità, molto oltre la quota di collaudo; si sentono inquietanti scricchiolii, ma lo scafo sembra resistere. Giovannini ordina la risalita (per una fonte il battello sarebbe a questo punto risalito “a pallone” fino a pochi metri dalla superficie, prima di “ricadere” nuovamente), ma il Bianchi sprofonda di nuovo fino a 154 metri. A questo punto, considerata la serietà della situazione – la riserva d’aria sta per esaurirsi, e così pure le batterie – e l’impossibilità di restare immerso ancora a lungo, il comandante decide di emergere.
Alle 15.55 il Bianchi emerge a 6 miglia da Tangeri. Cinque minuti dopo, un idrovolante britannico Saro London del 202nd Squadron della Royal Air Force (facente parte del Coastal Command ed avente base a Gibilterra) avvista il sommergibile e lancia l’allarme, pur senza attaccare direttamente (secondo una fonte britannica il London avrebbe attaccato e danneggiato il Bianchi, ma ciò sembra un errore). Per il resto, non si vede in giro nessuno a parte qualche barca da pesca, la situazione sembra calma: si prosegue dunque in superficie l’attraversamento dello stretto.
Dopo aver navigato in superficie per un’ora e mezza, quanto basta per ricambiare almeno in parte l’aria e ricaricare parzialmente le batterie, il Bianchi s’immerge di nuovo, ad un paio di miglia da Capo Spartel. Una volta di più, il governo in quota risulta molto difficile; alle 18.20 vengono fermati i motori ed iniziata la presa di fondo, con un’accostata verso est, parallelamente alla costa.
Improvvisamente, il fondo sale da 70 a 40 metri, ed il Bianchi striscia violentemente con le appendici esterne sul fondale sabbioso, venendo spinto in alto e “prendendo” rapidamente quota, come se stesse seguendo un fondale che sale ripidamente. Giovannini tenta di fermarlo allagando la cassa rapida di immersione, ma alle 18.24, trovandosi ormai ad appena dieci metri di profondità, il Bianchi si ferma per un violento urto di prora; poi viene spinto ancora più in alto, fino a far emergere le camicie dei periscopi. Osservando al periscopio, Giovannini vede che la prua del sommergibile affiora fuori dall’acqua, incastrata tra gli scogli della costa: il Bianchi si è incagliato a Punta de los Pichones, sulla costa marocchina.
Il comandante ordina allora di emergere e procedere all’esaurimento ad alta pressione. Verso il largo vengono avvistati tre cacciatorpediniere britannici, disposti parallelamente alla costa con intervalli di 3-4 km l’uno dall’altro, in navigazione a lento moto; stanno cercando il Bianchi, in cooperazione con due aerei, ma non l’hanno ancora avvistato. Giovannini fa alzare la bandiera ed armare il cannone e le mitragliere, poi si disincaglia manovrando con i motori elettrici; poco dopo, uno degli aerei avvista il Bianchi e lo segnala alle navi lanciando dei razzi verdi.
Il cacciatorpediniere centrale dei tre che si vedono, distante circa 6 km dal Bianchi, accosta bruscamente a sinistra ed accelera, dirigendosi verso il sommergibile, mentre dalla bocca dello stretto compare un quarto cacciatorpediniere, che si avvicina ad elevata velocità.
Non essendo in condizione di immergersi, né di lanciare siluri con i tubi prodieri, il comandante Giovannini decide di non ingaggiare un combattimento che si concluderebbe inevitabilmente con la distruzione del suo sommergibile, e di rifugiarsi invece nel vicino porto neutrale di Tangeri, in Marocco, città dichiarata nel 1923 "Zona internazionale" (dunque politicamente e militarmente neutrale) sotto amministrazione multinazionale, e poi occupata provvisoriamente nel giugno 1940 da truppe spagnole. Il comandante dà dunque ordine di non aprire il fuoco se non per rispondere ad eventuale tiro nemico, e procede col Bianchi lungo la costa per entrare a Tangeri. Per sicurezza, nell’eventualità che il tentativo non dovesse avere successo, Giovannini ordina anche di distruggere i documenti dell’archivio segreto, gli ordini d’operazione e le lettere segrete. (Per altra versione, il Bianchi avrebbe invece diretto verso Tangeri in immersione, venendo inseguito, cannoneggiato e bombardato ripetutamente con bombe di profondità dal Greyhound, fino ad emergere in prossimità del porto per entrarvi).
Il cacciatorpediniere britannico Greyhound (capitano di fregata Walter Roger Marshall A’Deane), che è l’unità capogruppo, si avvicina ad alta velocità cercando di guadagnare verso la prua del sommergibile (da bordo del quale si riesce anche a leggere la sigla identificativa dell’attaccante, H05), tuttavia non apre il fuoco e non punta nemmeno i suoi cannoni verso il battello italiano: non vuole usare le armi, essendo ormai in acque territoriali del territorio di Tangeri, dunque neutrali. Prima di desistere, il Greyhound fa un tentativo in extremis di speronare il Bianchi per affondarlo, ma il tentativo fallisce ed il sommergibile prosegue verso il porto, ormai vicinissimo. Quando il Bianchi arriva infine alla bocca del porto e rallenta per entrarvi, il Greyhound, giunto ormai a soli 600 metri dal sommergibile, accosta a sinistra e torna nei limiti delle acque territoriali; sulla torretta del sommergibile, il comandante Giovannini porta la mano alla visiera e poi leva il cappello e lo agita in segno di saluto al comandante del Greyhound, visibile in controplancia del suo caccia, che sportivamente risponde alzando le mani sopra la testa e stringendole vigorosamente. La popolazione di Tangeri, accorsa al porto per assistere al “testa a testa” tra Bianchi e Greyhound, accoglie il primo come se fosse il vincitore di una gara sportiva.
Il Bianchi entra a Tangeri alle 19 e viene raggiunto da una motosilurante spagnola uscita dalla darsena interna, che gli indica di ormeggiarsi alla boa di levante, ordine che viene eseguito. Una volta ormeggiato, salgono a bordo numerosi componenti della comunità italiana di Tangeri, che strigono le mani e invitano a cena gli uomini del Bianchi. Poche ore dopo, entra nel porto anche un secondo sommergibile italiano, il Brin (capitano di corvetta Luigi Longanesi Cattani), reduce anch’esso da un’avventura simile a quella del Bianchi.
Il Greyhound e gli altri tre cacciatorpediniere rimangono a vigilare fuori dal porto fino al calare del buio.
Il governatore spagnolo di Tangeri – la Spagna fascista di Francisco Franco è formalmente neutrale, ma di fatto favorevole alle potenze dell’Asse – concede a Bianchi e Brin poco meno di 60 giorni per effettuare le riparazioni, fino allo scadere del 31 dicembre, dopo di che dovranno lasciare il porto neutrale o verranno internati. Quei due mesi sarebbero un tempo più che sufficiente, anche se il problema è costituito dalla scarsità dei mezzi disponibili in loco per compiere tali lavori, nonché dall’esiguità dei fondi disponibili a Bianchi e Brin: in breve le casse dei due sommergibili vengono svuotate, tanto da impedire anche di distribuire la paga agli equipaggi. Un giorno, però, il panettiere Giovanni Macca, un italiano che vive a Tangeri, si presenta sul Bianchi ed offre 20.000 franchi: “Questi sono tutti i miei risparmi, ma sono felice di poterli donare ai vostri equipaggi”. Successivamente, anche il Consolato italiano interviene, fornendo 60.000 lire. Dall’Italia, grazie anche alla compiacenza delle autorità spagnole, vengono inviati segretamente a Tangeri tecnici e pezzi di ricambio per effettuare le riparazioni.
L’atmosfera a Tangeri, città neutrale in un mondo in fiamme, è per certi versi surreale: per strada e nei bar i marinai dei due sommergibili italiani incontrano sovente marinai e soldati britannici della base di Gibilterra, arrivati a Tangeri per passarvi una breve licenza al finesettimana. Nonostante lo stato di guerra esistente tra i due Paesi, non sorgono incidenti tra italiani e britannici, anzi talvolta si scherza e ci si offre da bere. Un comune amico presenta al comandante Giovannini un anziano ufficiale della riserva della Royal Navy, l’ammiraglio Gaunt, che vive a Tangeri in una villa sul mare (e che – si mormora – sarebbe il comandante dei servizi segreti britannici a Tangeri): questi si complimenta cavallerescamente con Giovannini: “Ho seguito dalla mia finestra la vostra manovra per sfuggire al caccia britannico. Voglio esprimere a lei e al Comandante Longanesi il mio compiacimento per la maniera brillante con la quale vi siete sottratti alle prue avversarie”.
Il 4 dicembre i marinai di Bianchi e Brin celebrano la festa di Santa Barbara, patrona dei marinai, organizzando competizioni sportive cui assistono molti cittadini di Tangeri. Nella stessa occasione vengono anche distribuite ad alcuni uomini del Bianchi le decorazioni frattanto conferite per un fatto d’armi precedentemente accaduto in Mediterraneo: mancando materialmente le medaglie, le donne italiane di Tangeri cuciono dei nastrini, che Giovannini appunta sul petto dei suoi uomini per simboleggiare le medaglie.
Non per questo, comunque, la guerra si è fermata: Tangeri è un covo di spie di tutti i Paesi, e i servizi segreti britannici tengono d’occhio Bianchi e Brin, cercando di interferire con le riparazioni o di attuare qualche sabotaggio; nelle capitali dei Paesi coinvolti si svolge una “battaglia” diplomatica circa la sorte dei due sommergibili fermi nel porto neutrale. A Roma Mussolini si fa aggiornare giornalmente sulla situazione, prevedendo un forzamento del blocco; a Londra, i britannici vorrebbero ottenere dalle autorità spagnole il sequestro dei due battelli; la stampa angloamericana sostiene che il governo italiano abbia provocato intenzionalmente l’incidente per spingere la Spagna ad entrare in guerra dalla parte dell’Asse, accuse continuamente smentite da Madrid.

Il Bianchi alla fonda a Tangeri (da Settimanale Epoca n. 625, del 25 novembre 1962)

12-13 dicembre 1940
Terminate le riparazioni (per quanto possibile, quanto meno, con i mezzi disponibili a Tangeri), Bianchi e Brin sono pronti a partire: tuttavia, dato che lo spionaggio britannico tiene i sommergibili sotto osservazione, pronto a segnalarne a Gibilterra la partenza per organizzarne l’intercettazione e la distruzione non appena usciti dal porto, i comandanti Giovannini e Longanesi Cattani escogitano vari stratagemmi per ingannare le spie: fanno credere che ci siano ancora molte riparazioni da svolgere, e scelgono per la partenza la notte fra il 12 ed il 13 dicembre, cioè una notte in cui le condizioni di luce e di mare – luna piena e mare calmissimo –, che faciliterebbero l’individuazione dei sommergibili, sconsiglierebbero di lasciare Tangeri. Una scelta apparentemente poco logica, proprio perché così i britannici non penseranno che i sommergibili intendano davvero partire in una notte del genere. Per rafforzare l’inganno, durante la giornata del 12 dicembre i marinai dei sommergibili stendono la biancheria in coperta, e mandano i loro vestiti migliori alle lavanderie di Tangeri; venuta la sera, i marinai vengono mandati a terra in franchigia, mentre Giovannini e Longanesi Cattani, anch’essi scesi a terra come al solito, prendono parte ad un cocktail e poi si recano al cinema, sedendosi poco lontano da alcuni ufficiali britannici. Tutto ciò per far credere che non ci sia alcuna intenzione di partire: in realtà, l’ordine per tutti è di tornare a bordo entro l’una di notte.
Lo stratagemma funziona: unica unità britannica di guardia fuori del porto è l’Agate, un modesto cacciasommergibili ausiliario che gli equipaggi di Bianchi e Brin hanno soprannominato “mulo”. Terminato lo spettacolo, Giovannini e Longanesi Cattani lasciano il cinema e tornano verso il porto continunando la recita: passeggiano con calma, parlando del più e del meno e fermandosi di tanto in tanto. Ma una volta a bordo, vengono fulmineamente impartiti gli ordini per la partenza; gli uomini accorrono ai loro posti, e intanto due subacquei scendono in mare e tranciano con grosse pinze i cavi della linea telefonica Tangeri-Gibilterra, per evitare che qualche spia possa dare l’allarme all’ultimo momento. Una volta recuperati i subacquei, i sommergibili mettono in moto nella notte chiarissima, con visibilità tale da permettere di distinguere chiaramente la costa della Spagna, dall’altra parte dello stretto.
Sul Bianchi, il comandante Giovannini aspetta che l’Agate, compiendo il suo giro di vigilanza, si allontani il più possibile, poi ordina di muovere; entrambi i battelli, con la biancheria ancora stesa in coperta, dirigono verso l’imboccatura del porto. L’Agate lancia dei segnali luminosi, ma ormai è troppo tardi per un intervento: alle 2.44 del 13 dicembre Bianchi e Brin doppiano a tutta forza la punta del molo, indi escono in mare aperto e si dileguano, eludendo i cacciatorpediniere britannici che lanciano infruttuosamente bombe di profondità in un’area piuttosto vasta. “Venerdì 13” non ha portato fortuna ai britannici, mentre ne ha portata parecchia agli italiani.
La vicenda della fuga da Tangeri di Bianchi e Brin ispirerà un film del 1963, “Finché dura la tempesta” (“Torpedo Bay” per il pubblico anglosassone), con Gabriele Ferzetti, James Mason e Lilli Palmer.
Necessitando comunque di ulteriori e più approfondite riparazioni, il Bianchi deve però rinunciare al previsto agguato al largo dello stretto e dirige subito verso Bordeaux; il sommergibile Marcello lo ha sostituito nel settore assegnatogli.


Il Bianchi rientra a Bordeaux da una missione, nel 1940 (Fondazione Museo Storico del Trentino)

18 dicembre 1940
Alle 5.40 il Bianchi assiste all’infruttuoso duello d’artiglieria combattuto tra il Brin ed il sommergibile britannico Tuna, al largo della Gironda.
Entrato nella Gironda, il Bianchi arriva a Bordeaux a mezzogiorno (per altra fonte, nel pomeriggio).
Per la sue azioni durante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra e la successiva evasione da Tangeri, il comandante Giovannini viene decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare.
5 febbraio 1941
Il Bianchi (capitano di corvetta Adalberto Giovannini) salpa da Bordeaux per una missione nell’Atlantico settentrionale. È il primo a partire di un gruppo – denominato proprio Gruppo «Bianchi» – di quattro sommergibili (gli altri sono Otaria, Marcello e Barbarigo, partiti i primi due il 6 febbraio ed il terzo il 10) i quali, a seguito di accordi presi tra il comandante di Betasom, ammiraglio Angelo Parona, ed il Comando dei sommergibili tedeschi, dovranno operare in cooperazione con gli U-Boote tedeschi e la Luftwaffe (precisamente, i quadrimotori Focke-Wulf FW 200 "Condor" dei quali si sta sperimentando con notevole successo l’impiego nella duplice funzione di ricognitori e bombardieri antinave) contro i convogli britannici in navigazione nel Nordatlantico, a sud dell’Islanda. I sommergibili italiani devono raggiungere zone d’agguato contigue, ad ovest dell’Irlanda, e rimanervi fino al raggiungimento dei limiti di autonomia, per poi tornare a Bordeaux.
Questa operazione segna la ripresa della cooperazione tra sommergibili italiani e tedeschi nel Nordatlantico, interrotta a inizio dicembre 1940 in seguito agli scarsi risultati ottenuti fino a quel momento dai battelli di Betasom: a fine gennaio 1941, a seguito di un aumento degli affondamenti da parte di sommergibili italiani (in particolare da parte del Luigi Torelli, che ha affondato quattro piroscafi un una sola missione), l’ammiraglio tedesco Dönitz si è ricreduto ed ha deciso di riprendere la collaborazione con le unità italiane, dalle quali si aspetta migliori risultati di quelli osservati in precedenza. A Bianchi, Otaria, Marcello e Barbarigo sono assegnati settori d’operazioni a cavallo del parallelo 15° Est; il Bianchi, in particolare, dovrà appostarsi nelle aree individuate dai paralleli 54° e 55° Nord e dai meridiani 18° e 20° Ovest, e dai paralleli 56° e 57° Nord e dai meridiani 15° e 23° Ovest.
Le condizioni meteomarine, fin dall’attraversamento del Golfo di Guascogna, sono particolarmente avverse, con continue e violente tempeste: il Bianchi incontra mare forza 8, che gli asporta il primo portellone anteriore dell’intercapedine, provocando una modesta entrata d’acqua ed allagando il periscopio d’attacco. Nondimeno, il sommergibile prosegue nella missione in buone condizioni, ed il comandante Giovannini si considera abbastanza soddisfatto della tenuta al mare del Bianchi, anche di poppa e con governo difficoltoso.
6 febbraio 1941
Alle 2.50 il Bianchi avvista una vedetta antisommergibili tedesca della base di Lorient, dalla quale si allontana.
7 febbraio 1941
Alle 12.53 avvista un aereo e s’immerge per non essere avvistato.
14 febbraio 1941
Raggiunge la zona assegnata per la missione.
All’1.45 il Bianchi avvista nel buio della notte un grosso piroscafo da carico oscurato, con lunghissimi pozzi delle stive e tre alberi a traliccio, di stazza valutata dal comandante Giovannini in circa 5000-6000 tsl. La nave segue rotta 60°, verso nordest, ad una velocità stimata di 10 nodi; il Bianchi, restando in superficie, manovra dal lato favorevole rispetto alla luce lunare, ed alle 3.26, da una posizione a proravia del bersaglio, lancia un primo siluro da 450 mm, che però non va a segno. Reiterata la manovra d’attacco, alle 4.36 il Bianchi lancia altri due siluri, da 533 mm, da una distanza di 700 metri. Questa volta entrambi i siluri vanno a segno; il piroscafo affonda in soli 65 secondi, tentando di lanciare un segnale di soccorso che non riesce però a completare.
Per lungo tempo, la nave affondata dal Bianchi in questo attacco è stata identificata come il piroscafo britannico Belcrest di 4517 tsl (capitano Norman Cecil Brockwell), unità dispersa del convoglio SC. 21 (nel quale occupava la posizione n. 12 e col quale aveva perso il contatto l’11 febbraio, rimanendo arretrata), salpata da Halifax per Newport (Galles) con un carico di acciaio e merci varie e scomparsa con tutto l’equipaggio di 37 uomini. La maggior parte delle fonti ufficiali, comprese quelle italiane, attribuisce ancor oggi al Bianchi l’affondamento del Belcrest.
Ricerche più recenti, tuttavia, analizzando meglio le tempistiche e le posizioni delle sparizioni di navi mercantili Alleate e dei numerosi attacchi da parte di sommergibili dell’Asse avvenuti in quei giorni nel Nordatlantico, nonché le caratteristiche delle navi coinvolte e le descrizioni fornite dai sommergibili delle loro vittime, hanno invece concluso che il Belcrest sia stato affondato alle 22.57 del 14 febbraio, 300 miglia a ponente dell’Irlanda (in posizione 54° 15' N, 18° 45' O), da due siluri – che colpirono la nave a prua ed al centro, facendola spezzare in due ed affondare in 90 secondi – lanciati dal sommergibile tedesco U 101 (tenente di vascello Ernst Mengersen), al cui attacco era stato precedentemente attribuito l’affondamento del piroscafo Holystone di 5462 tsl (capitano John Stewart Bain). Quest’ultimo, un piroscafo disperso del convoglio OB. 284, era partito scarico da Hull diretto ad Halifax, via Oban, e fu invece affondato alle 00.38 del 15 febbraio, 500 miglia a sud-sud-ovest dell’Islanda (posizione 55° 39' N, 25° 15' O, a sud-sud-est di Rockall), da un siluro lanciato dal sommergibile tedesco U 123 (tenente di vascello Karl-Heinz Moehle), che – dopo averlo lungamente inseguito lanciando infruttuosamente altri cinque alle 22.15, 22.35, 22.44 e 23.38 del 14 febbraio ed alle 00.12 del 15 – lo colpì a poppa sinistra provocandone la violenta esplosione ed il repentino affondamento, senza lasciare superstiti tra i 40 uomini dell’equipaggio. (Anche questa nave è stata da alcuni indicata come la possibile vittima del Bianchi).
In precedenza, a questo attacco dell’U 123 era stato accreditato l’affondamento dell’Alnmoor (capitano Albert Edwards), un piroscafo britannico di 6573 tsl partito da Halifax il 31 gennaio (per altra fonte proveniente da New York, via Sydney) e diretto a Glasgow (per altra fonte anch’esso a Newport, nel Galles) con un carico di merci varie, farina, acciaio, altri metalli e leghe di ferro e 14 aerei da caccia Curtiss. Dopo aver perso il contatto col convoglio SC. 21 di cui faceva parte (come il Belcrest; l’Alnmoor occupava nel convoglio la posizione n. 62), restando indietro a causa del maltempo, l’Alnmoor era scomparso (in posizione approssimata 55° N e 13° O) con l’intero equipaggio di 42 uomini, sorte toccata a diversi piroscafi Alleati – tra cui Belcrest e Holystone –, in quei giorni, nelle tormentate acque dell’Atlantico settentrionale.
Alla luce delle ricerche più recenti, emerge che fu proprio l’Alnmoor la vittima del Bianchi, affondando con tutto il suo equipaggio nel punto 55° 16' N e 19° 07' O, a sud-sud-ovest di Cape Clear (l’estrema propaggine meridionale dell’Irlanda).
In definitiva, gli affondamenti dei tre piroscafi scomparsi tra il 14 ed il 15 febbraio 1941 erano stati in precedenza così accreditati: Belcrest dal Bianchi; Holystone dall’U 101; Alnmoor dall’U 123 (per un periodo, l’affondamento dell’Alnmoor venne attribuito anche all’U 101); mentre le ricerche più aggiornate hanno portato a questo “riordino”: Alnmoor dal Bianchi; Belcrest dall’U 101; Holystone dall’U 123.
Subito dopo aver affondato l’Alnmoor, alle 4.52, il Bianchi avvista un altro piroscafo da carico con rotta nordovest, ma le condizioni iniziali sfavorevoli all’attacco e l’elevata velocità del mercantile inducono il comandante Giovannini ad abbandonare l’inseguimento.
16 febbraio 1941
Dietro richiesta del Comando dei sommergibili tedeschi, che ha deciso di spostare i suoi battelli più a nord, il Comando di Betasom ordina ai suoi quattro sommergibili in mare di formare uno sbarramento ad ovest dell’Irlanda, per attaccare il naviglio nemico nelle zone più a sud di quelle assegnate agli U-Boote tedeschi sulle rotte con il Canale del Nord.
18 febbraio 1941
A seguito della riduzione del traffico nemico nell’area assegnata ai sommergibili italiani (fatto notare dal Comando tedesco all’ammiraglio Parona) ed a nuove direttive del Comando sommergibili tedesco, il Comando di Betasom ordina a Bianchi, Marcello e Barbarigo di spostarsi circa 80 miglia più a nord, formando un nuovo schieramento in un settore che risulta più adatto al momento, andando a “coprire” una vasta area delimitata dal Canale del Nord (parallelo 57° Nord) e l’estremità meridionale dell’Islanda. Lo schieramento italiano va a completare quello analogo degli U-Boote tedeschi lungo il meridiano 20° Ovest.
19 febbraio 1941
A seguito dell’avvistamento (in posizione 59°40' N e 06°15' O, ottanta miglia a nordovest di Capo Wrach), da parte di un FW. 200 "Condor" del I./KG. 40 (pilotato dal tenente Bernhard Jope, che due anni e mezzo più tardi sarà l’affondatore della corazzata Roma), del convoglio britannico OB. 287 (composto da 40 navi mercantili e 5 navi scorta), in navigazione verso ovest a 7 nodi, l’ammiraglio Dönitz ordina di formare uno sbarramento (il cui centro deve trovarsi davanti alla prora del convoglio) lungo il meridiano 12° Ovest e fra i paralleli 60°50' N e 59°10' N, con i sommergibili U 48, U 69, U 73, U 96 e U 107 (distanziati tra loro di 20-25 miglia). Un sesto U-Boot, l’U 103, è ormai sulla rotta di rientro e non può partecipare allo sbarramento, che viene invece integrato e prolungato, verso sud, da Marcello e Barbarigo, mentre al Bianchi viene ordinato di portarsi in posizione arretrata per prendere parte all’attacco, se possibile, dopo l’avvistamento del convoglio da parte dei sommergibili in posizione avanzata. Per permettere di schierare tutti i battelli, ai sommergibili viene ordinato di attaccare soltanto dopo aver ricevuto l’ordine dal Comando a terra.
20 febbraio 1941
A seguito di ripetuti avvistamenti da parte di aerei FW. 200, risulta evidente che la rotta del convoglio OB. 287 dirige sull’ala meridionale dello schieramento tedesco, col rischio che esso possa dunque aggirare lo sbarramento dal lato meridionale; il Barbarigo, che dovrebbe trovarsi in quel punto per prolungare verso sud lo schieramento degli U-Boote, non riesce a portarsi nella posizione assegnata a causa del tempo fortemente avverso. Il posto nello sbarramento che dovrebbe essere occupato dal Barbarigo viene allora assegnato al Bianchi, ma neanche quest’ultimo riesce a portarvisi in tempo; di conseguenza, il convoglio riesce a passare pressoché indenne, mancando un sommergibile proprio nel punto decisivo. Una sola nave, già danneggiata dai "Condor", viene affondata da un U-Boot.
Alle 15.03 i sommergibili ricevono ordine di spostarsi verso ovest a seguito dei mutamenti di rotta del convoglio, perché la posizione segnalata dagli aerei risulta piuttosto imprecisa. Bianchi e Marcello devono posizionarsi sulle ali del nuovo schieramento spostato verso ovest; il Bianchi, in particolare, riceve ordine di raggiungere la posizione 59°30' N e 14°20' O.
Per tutta la giornata, la discordanza tra le posizioni segnalate dai velivoli della Luftwaffe e quelle risultanti dalle rilevazioni radiogoniometriche del Servizio B della Kriegsmarine determinano non poca confusione: sulle prime Dönitz regola i suoi ordini sulle segnalazioni degli aerei, che reputa più attendibili, ma alle 19.45, rendendosi conto che invece esse sono sbagliate, ordina la formazione di una nuova linea di sbarramento più a est, sulla base delle informazioni del Servizio B. Il nuovo sbarramento, situato vicino al meridiano 17° Ovest, è disposto perpendicolarmente alla direttrice di marcia del convoglio e formato ancora da U 48, U 69, U 73, U 96 e U 107 e prolungato alle estremità dai sommergibili italiani, Bianchi e Barbarigo a nord e Marcello a sud. Ma l’OB. 287 ormai è sfuggito.
21 febbraio 1941
Alle 2.23 Betasom, con un nuovo ordine, assegna il Bianchi al settore 46-99-52, il Barbarigo al 46-67-36 ed il Marcello  al 27-74-43.
Alle 3 il B.d.U. sposta lo sbarramento ancora più ad ovest, disponendolo perpendicolarmente alla direttrice di marcia del convoglio ed ordinando che tutti i sommergibili inizino a rastrellare le zone su rotta vera 45°. Il Bianchi raggiunge la posizione assegnata, ma alle 14 riceve un nuovo segnale di scoperta del convoglio, pertanto non esegue il rastrellamento e si dirige invece direttamente verso il convoglio, sulla base delle informazioni contenute nel segnale di scoperta.
Alle 19.45 il Bianchi avvista un altro sommergibile, probabilmente italiano: forse si tratta del Marcello.
Alle 23 vengono dati ordini per la formazione di un nuovo sbarramento, composto da Bianchi, Barbarigo e quattro U-Boote tedeschi, con rastrellamento su rotta vera 65°.
22 febbraio 1941
All’1.20 Betasom ordina a Bianchi, Marcello e Barbarigo di effettuare il loro pattugliamento con rotta 45° e velocità 8 nodi fino a nuovo ordine.
Alle 9.30 un altro FW. 220 avvista in posizione 59°59' N e 01°24' O (40 miglia a sud di Lousy Bank) il convoglio OB. 288, successore dell’OB. 287, in navigazione dall’Inghilterra verso ovest con 46 mercantili e sei navi scorta (cacciatorpediniere Georgetown – caposcorta –, Antelope ed Achates, corvetta Heather, peschereccio armato Ayrshire, piroscafo armato Manistee, quest’ultimo requisito dalla Royal Navy come “ocean boarding vessel”, in sostanza un incrociatore ausiliario).
Ricevuta la notizia, Dönitz invia inizialmente contro il convoglio i sommergibili U 46 e U 552, e successivamente, quando (a mezzogiorno) il "Condor" corregge la posizione del convoglio originariamente segnalata, ordina la creazione di un nuovo gruppo di ricerca composto dai sommergibili che si trovano in posizione idonea ad intervenire: i tedeschi U 69, U 73, U 69, U 96, U 97 e U 552 e gli italiani Bianchi e Barbarigo.
Alle 11.16 il Bianchi avvista in posizione 57°55' N e 17°40' O il periscopio di un sommergibile immerso (per altra fonte, probabilmente erronea, avrebbe avvistato un sommergibile emerso, senza però riconoscerne la nazionalità), a soli 800 metri di distanza. Poco dopo anche il Bianchi s’immerge e si allontana.
Più tardi, dalle 16 fino alle 21.15, il Bianchi avverte scoppi di bombe di profondità, una quarantina in tutto, a grande distanza, nella direzione in cui in mattinata aveva avvistato il periscopio del sommergibile immerso.
È possibile il sommergibile avvistato fosse il Marcello, scomparso in quei giorni con tutto l’equipaggio, e che gli scoppi uditi dal Bianchi ne fossero l’epitaffio. Proprio a partire dalle 16 (le 15 per il fuso orario britannico), infatti, il cacciatorpediniere britannico Montgomery ha eseguito una caccia con bombe di profondità nel punto 59°00' N e 17°00' O, a sudovest delle Isole Ebridi, non lontano dalla zona di agguato assegnata al Marcello, sebbene senza riscontrare alcun segno tangibile di aver affondato il bersaglio (d’altro canto, nessuno dei sommergibili tedeschi in zona ha riferito di aver subito un attacco nell’ora e punto indicati dal Montgomery). La posizione indicata dal Montgomery dista però 68-69 miglia da quella del Bianchi, il che rende piuttosto improbabile che quest’ultimo possa aver avvertito gli scoppi delle bombe lanciate in quell’azione, a meno che una delle due unità non abbia indicato una posizione sbagliata (o che gli scoppi avvertiti dal Bianchi siano stati determinati da un’altra e differente azione antisommergibili). Il Marcello, in immersione, non avrebbe potuto percorrere in sei ore una tale distanza.
Nel frattempo, il primo sommergibile ad avvistare il convoglio è l’U 73 (il più a nord dello sbarramento), alle 16.16, il quale continua poi a pedinare il convoglio ed a trasmettere aggiornamenti sulla sua rotta e posizione. In serata, però, il mare tempestoso e la scarsa visibilità fanno perdere il contatto tra l’U 73 ed il convoglio. Alle 21 Dönitz, ritenendo improbabile che un altro sommergibile possa localizzare il convoglio durante la notte, ordina a U 73, U 69, U 96 e U 123 di spostarsi verso ovest e formare entro le 10 dell’indomani mattina una nuova linea di sbarramento, prolungata dal Bianchi (che riceve anch’esso ordine di spostarsi più ad ovest) all’estremità settentrionale e dal Barbarigo a quella meridionale. Raggiunte le posizioni assegnate, i sommergibili ricevono ordine di procedere verso nordest a 7 nodi, allo scopo di incrociare la rotta del convoglio. Il mare tempestoso ostacola la navigazione, ma la manovra risulta azzeccata, in quanto i sommergibili riescono a disporsi al convoglio OB. 288 il quale, navigando verso nordest, incoccia nella linea di sbarramento a sud dell’Islanda, come previsto da Dönitz, subendo gravi perdite.


Caricamento di un siluro sul Bianchi, a Bordeaux (USMM via www.regiamarina.net)

23 febbraio 1941
Alle 10 l’U 96 è il primo sommergibile ad avvistare il convoglio, che naviga verso sudovest a 8 nodi; le accurate notizie trasmesse continuamente da tale sommergibile per tutta la giornata permettono alle altre unità dello sbarramento di regolare la loro rotta per intercettare l’OB. 288 durante la notte. Poco dopo il tramonto, il Comando sommergibili tedeschi dà libertà di attacco.
Alle 11.54 il Bianchi riceve il telegramma che annuncia la scoperta del convoglio e, essendo in posizione prodiera, assume rotta parallela; alle 16.45 inizia l’avvicinamento al convoglio e viene ricevuto un altro telegramma di scoperta con una nuova posizione. Il sommergibile assume rotta di avvicinamento a tutta forza, per stabilire il contatto col convoglio.
Il Bianchi si trova in posizione favorevole per intercettare il convoglio, ed alle 17.45 (poco dopo il crepuscolo), mentre procede verso la posizione assegnata, avvista all’orizzonte un piroscafo di stazza stimata in 7000 tsl, in posizione 59°29' N e 20°43' O. Si tratta del britannico Manistee (capitano di fregata Eric Haydn Smith), di 5360 tsl, requisito dalla Royal Navy come "ocean boarding vessel" con sigla F 104 (armato con due cannoni da 152 mm e due cannoni contraerei ed impiegato per la sorveglianza delle rotte oceaniche) e facente parte dell’OB. 288; partito da Liverpool il 18 febbraio, ha successivamente perso il contatto col convoglio. Contemporaneamente, il Manistee viene avvistato anche dal sommergibile tedesco U 107 (capitano di corvetta Günter Hessler), in navigazione di rientro verso la base. Il Bianchi manovra in modo da tenersi fuori vista, in posizione favorevole per attaccare, rilevando gli elementi del zigzagamento.
Cinque minuti dopo aver avvistato il Manistee, alle 17.50, il Bianchi avvista a 1500 metri di distanza anche un U-Boot tipo IX (dislocamento stimato da Giovannini in 750 tonnellate), il quale sta anch’esso evidentemente adocchiando la medesima preda: è appunto l’U 107. Quest’ultimo avvista invece il Bianchi soltanto alle 20.55, di prora; il comandante tedesco vede che anche l’italiano è interessato al medesimo bersaglio, ed avendo il carburante ormai agli sgoccioli – il che significa che questo è l’ultimo inseguimento che potrà intraprendere prima di dover rientrare alla base –, decide di superare il Bianchi con la manovra e silurare per primo la nave britannica, deciso ad ottenere il successo per sé. L’U 107 manovra dunque gradualmente in modo da portarsi tra il Manistee ed il sommergibile italiano.
Entrambi i sommergibili aspettano per cinque ore che il sole tramonti, tenendosi fuori vista su rotta parallela a quella del Manistee, dopo di che attaccano simultaneamente, manovrando di prora rispetto al piroscafo, senza alcuno scambio di messaggi: tanto Giovannini quanto Hessler hanno capito di avere il medesimo obiettivo, e ognuno vuole colpire per primo. Tra i due sommergibili nasce una sorte di non dichiarata “gara” alle spese della nave britannica: l’U 107 inizia il suo avvicinamento mentre anche il Bianchi sta virando per attaccare; Hessler scrive nel suo rapporto di una “battaglia per portarsi sopravvento” tra i due sommergibili. Aldo Cocchia, all’epoca dei fatti capo di Stato Maggiore della base di Betasom, scriverà nel dopoguerra nel suo libro “Sommergibili all’attacco” (1955): «Allora fra i due sommergibili s’ingaggia una specie di regata a chi arriva prima sul bersaglio: una regata che ha per traguardo il piroscafo e una posta un po’ diversa dalle solite coppe delle competizioni sportive, una gara nella quale poi ricamarono molto gli organi della propaganda tedesca, anche perché Giovannini aveva brillantemente partecipato anni indietro alle regate veliche di Kiel e aveva vinto il primo premio fra le imbarcazioni delle Marine Militari».
Alle 21.22 il Bianchi rallenta per ridurre la distanza, ed avvista per la seconda volta il sommergibile tedesco, «che evidentemente manovra per attaccare lo stesso bersaglio»; alle 22.20, finito il crepuscolo, il battello italiano inverte la rotta per avvicinarsi, e dieci minuti dopo avvista il bersaglio a 3-4 km di distanza, preparandosi ad attaccare di prora. Alle 22.34 viene avvistato ancora una volta l’U 107, che attacca anch’esso di prora sullo stesso rilevamento del bersaglio.
Il Bianchi cerca di portarsi al lancio per primo, ma sarà invece l’U 107, più veloce e manovriero, a portarsi per primo in una posizione adatta ed a lanciare: alle 22.38 l’U-Boot inverte rapidamente la rotta sulla dritta per attaccare di poppa, subito imitato dal Bianchi che inverte la rotta dal lato opposto (sulla sinistra) per non intralciare la sua manovra ed attaccare a sua volta di poppa. Alle 22.42 il sommergibile tedesco lancia un siluro, che viene visto andare a segno da entrambi i sommergibili, sul lato sinistro dell’unità britannica, a centro nave (in corrispondenza della sala macchine, secondo il comandante tedesco). Il comandante Giovannini scrive nel suo rapporto che il Manistee viene colpito alle 22.45 dal siluro lanciato dall’unità tedesca e comincia a sbandare e procedere a lento moto col timone alla banda.
Accorgendosi poi che il Bianchi sta manovrando di prora a bassa velocità per lanciare a sua volta, l’U 107 vira di bordo per non trovarsi nel campo di tiro del battello italiano; alle 22.56 il Bianchi accosta con tutta la barra a dritta, avvicinandosi per un attacco di prora da distanza minima, e lancia un siluro da 533 mm, da 600 metri di distanza. Da bordo del sommergibile italiano viene sentito un forte scoppio e vista una colonna di fumo a poppa del Manistee, che sembra sbandare ancora di più e calare in mare le lance di salvataggio, nelle quali prende posto l’equipaggio. Alle 23.05 il comandante Giovannini, ritenendo di aver colpito il piroscafo a poppa e di avergli impartito il colpo di grazia, si allontana, "per lasciare libero il sommergibile alleato" e per mettersi in cerca di altre navi del convoglio.
In realtà, in base a quanto osservato dall’U 107, il siluro lanciato dal Bianchi non colpisce il Manistee, che vira stretto e prosegue sulla sua rotta con velocità inalterata, occultandosi con una cortina nebbiogena. L’esplosione sentita a bordo del Bianchi è stata presumibilmente dovuta a prematura esplosione del siluro. (Lo storico tedesco Jürgen Rohwer, autore di una monumentale opera sui successi dei sommergibili durante la seconda guerra mondiale, scrive che: "un secondo siluro a segno [dopo quello dell’U 107 delle 22.42], riferito dal sommergibile italiano Bianchi, è incerto". Lo storico italiano Francesco Mattesini mette anzi in dubbio, nonostante quanto osservato da entrambi i sommergibili, che anche il precedente siluro dell’U 107 abbia davvero colpito il Manistee, e tanto meno in sala macchine: se ciò fosse accaduto, difficilmente il piroscafo avrebbe potuto proseguire con velocità immutata, ed elevata, ed intraprendere le manovre evasive che gli permisero di rimandare la sua fine per tutta la notte, eludendo diversi attacchi dell’U-Boot. Tuttavia che il siluro dell’U 107 avesse colpito è confermato da un messaggio radio lanciato dal Manistee stesso alle 22.45, in cui riferiva che la stiva carbonaia principale era allagata, ma che per il resto la situazione era sotto controllo. Il fatto che il Manistee non comunicò, nelle ore successive e fino alla sua ultima comunicazione il mattino seguente – che avvenne dopo essere stato colpito dal secondo siluro dell’U 107 –, di essere stato colpito da altri siluri avvalora l’impressione che il siluro del Bianchi non lo abbia colpito). Mentre il Bianchi si allontana, l’U 107 si lancia all’inseguimento del Manistee, che procede a zig zag e lo tiene sotto tiro con i suoi cannoni. Lo zigzagamento e le manovre del piroscafo vanificano ripetuti attacchi da parte dell’U 107: due siluri lanciati alle 22.58 vanno a vuoto, così come un altro lanciato alle 23.42; l’inseguimento si protrae fino alle 7.58 del mattino seguente (alle 4.05 il Manistee comunica di trovarsi in posizione 58°55' N e  21°00' O, e di procedere a 7,5 nodi) quando un nuovo lancio di due siluri da parte del sommergibile tedesco risulta infine in un siluro a segno, sulla poppa; dopo aver comunicato di essere stato attaccato da un sommergibile nel punto 58°55' N e  20°50' O (364 miglia a sud di Reykjavik, in Islanda), il Manistee affonda gradualmente di poppa. Non vi sono sopravvissuti tra i 141 uomini dell’equipaggio.
Il Bianchi, nel mentre, naviga nella notte tra frequenti piovaschi, all’inseguimento degli altri bastimenti del convoglio. Durante la notte, come ordinato dal Comando dei Western Approaches, le unità della scorta, arrivate al limite dell’autonomia, abbandonano i mercantili sul meridiano 19° Ovest; a dispetto dell’ordine di dispersione impartito alle 21 del 23 febbraio, avente lo scopo di dare ai mercantili ormai indifesi maggiori probabilità di scampare agli attacchi dei sommergibili, i piroscafi proseguono invece in gruppo lungo la loro rotta, così facilitando l’attacco degli U-Boote: i bersagli sono raggruppati (la dispersione avrebbe reso più difficile rintracciarli uno per uno) e senza più nessuna scorta. Anche il tempo gioca a favore dei sommergibili: notte buia senza luce lunare, il che rende quasi impossibile per i mercantili avvistare i sommergibili, ma al contempo vento leggero e moto ondoso moderato, tale da non disturbare la corsa dei siluri. Il primo U-Boot attacca alle 23.27, seguito da altri due, affondando in breve tempo quattro piroscafi; a questo punto il convoglio inizia a disperdersi ed i sommergibili, tra cui il Bianchi, iniziano a dare la caccia ai mercantili isolati.
24 febbraio 1941
Il Bianchi avvista un piroscafo di stazza stimata in oltre 7000 tsl, che il comandante Giovannini identifica come una nave "tipo Adrastus" (7905 tsl) della Blue Funnel Line, avente «prora da incrociatore, poppa normale, isola centrale bassissima con plancia non grande e bene staccata, puntali e picchi di carico supplementari sul cassero e castello». Dopo un breve inseguimento, ostacolato dal mare grosso e dalla pioggia che riduce la visibilità, alle 4.37 il Bianchi lancia due siluri da 450 mm dai tubi di poppa; entrambi (secondo l’apprezzamento di Giovannini) vanno a segno ed immobilizzano il piroscafo, provocandone un vistoso appruamento. Dopo aver lasciato all’equipaggio il tempo di abbandonare la nave sulle scialuppe ed allontanarsi, alle 5.29 il Bianchi lancia un terzo siluro da 450 mm, da uno dei tubi di prua; anche questo colpisce il bersaglio, facendo sollevare un’alta colonna d’acqua all’altezza della prima stiva di prua. Poco dopo il piroscafo cola a picco nel punto 59°55' N e 21°03' O (398 miglia a sud di Reykjavik).
Come nel caso Belcrest/Alnmoor, anche la nave affondata dal Bianchi in questa occasione è stata per lungo tempo oggetto di un errore d’identificazione. In prima battuta, da parte italiana la vittima del Bianchi è stata per qualche tempo identificata come il piroscafo britannico Waynegate di 4260 tsl (capitano Sydney Gray Larard), salpato da Greenock il 19 febbraio e diretto a Freetown con 6200 tonnellate di carbone, facente parte del convoglio OB. 288 fino alla sua dispersione. Il Waynegate fu colpito da un siluro alle 4.19 del 21 febbraio, sul lato di dritta tra le paratie 1 e 2, iniziando rapidamente ad appruarsi; abbandonato dall’equipaggio di 41 uomini, che si misero in salvo su due scialuppe (furono tutti recuperati, alcune ore più tardi, dal cacciatorpediniere Léopard della Francia Libera), venne poi finito con un secondo siluro alle 4.38, nella stiva numero 2 (sempre sul lato di dritta), affondando di prua in cinque minuti nel punto 58°50' N e 21°47' O, a sud dell’Islanda. L’affondatore del Waynegate è stato però identificato nel sommergibile tedesco U 73 (tenente di vascello Helmuth Rosenbaum), che prima di colpirlo aveva già lanciato un primo siluro, rivelatosi difettoso, alle 3.51.
Scartato il Waynegate, molte fonti anche ufficiali (compreso l’Ufficio Storico della Marina Militare, sulla base delle notizie fornite dall’Ammiragliato britannico e confermate dallo storico tedesco Jürgen Rohwer) hanno lungamente identificato la vittima del Bianchi nel piroscafo britannico Linaria (capitano Henry Theodore Speed), di 3385 tsl, unità dispersa del convoglio OB. 288. Salpato da Loch Ewe per Halifax il 20 febbraio, con un carico di 2501 tonnellate di carbone, il Linaria scomparve nella notte del 23-24 febbraio con tutto l’equipaggio di 35 uomini, dopo la dispersione dell’OB. 288. Nel corso dell’attacco, avvenuto in condizioni meteo estremamente avverse, il comandante Giovannini non si era reso conto di aver affondato una nave di oltre 10.000 tsl, ed aveva identificato il suo bersaglio come un piroscafo "tipo Adrastus" (di 7905 tsl), la cui sagoma era molto simile a quella del Linaria, il che portò ad attribuire al Bianchi l’affondamento di quest’ultimo.
In realtà, ricerche più recenti hanno attribuito l’affondamento del Linaria al sommergibile tedesco U 96 (tenente di vascello Heinrich Lehmann-Willenbrock), che all’1.16 del 24 febbraio colpì il piroscafo con un siluro, provocandone l’affondamento di poppa nel punto 59°45' N e 20°48' O, circa 265 miglia a sud di Reykjavik.
Viceversa, la vittima del Bianchi era il ben più grande piroscafo neozelandese Huntingdon, di 10.946 tsl (capitano John Percy Styrin), salpato da Swansea il 13 febbraio 1941 con un carico di merci varie per l’Australia. Aggregatosi al convoglio OB. 288 sul Clyde per affrontare con esso la traversata oceanica, alle 2.35 del 24 febbraio (orario britannico, che si discosta di due ore da quello del Bianchi per via del fuso orario) l’Huntingdon venne colpito da un siluro sul lato sinistro, che aprì un’ampia falla in corrispondenza della stiva prodiera n. 1. Mentre il bastimento si appruava, l’equipaggio salì in coperta e, su ordine del comandante Styrin, calò le scialuppe ed abbandonò la nave, dopo di che, alle 3.12, il terzo siluro lanciato dal Bianchi colpì ancora l’Huntingdon facendolo spezzare in due ed affondare in dieci minuti, in posizione 58°25' N e 20°23' O (secondo fonti britanniche), a nordovest della Scozia. A differenza degli equipaggi del Linaria, del Manistee e di parecchi altri piroscafi del convoglio, che non sopravvissero alle terribili condizioni meteo di quella notte (temperature bassissime e neve), tutti i 66 uomini che componevano l’equipaggio dell’Huntingdon si salvarono grazie al generoso intervento del piroscafo greco Papalemos, il quale si fermò a recuperare i naufraghi della nave silurata a dispetto del rischio di essere silurato a sua volta.
Mentre l’affondamento del Linaria era stato accreditato al Bianchi, per lungo tempo quello dell’Huntingdon è stato attribuito all’U 96; ma un più attento esame degli orari di attacchi e affondamenti ha invece portato ad invertire queste attribuzioni, accreditando al Bianchi l’affondamento dell’Huntingdon e all’U 96 quello del Linaria. Questa nuova valutazione è stata convalidata da diversi storici, tra cui Jürgen Rohwer e Francesco Mattesini.
Nel corso della notte, in tutto, il convoglio OB. 288 perde ben dieci navi affondate dai sommergibili (tra queste, l’Huntingdon era la più grande), che colano a picco anche altri due mercantili isolati capitati per caso nella zona.
Alle 10.15 Betasom ordina a Bianchi, Marcello e Barbarigo di comunicare la propria posizione.
25 febbraio 1941
A mezzogiorno Betasom ripete l’ordine per le unità dipendenti di comunicare la propria posizione.
Alle 14.11 il sommergibile tedesco U 47 (al comando del capitano di corvetta Günther Prien, uno dei più famosi assi della Kriegsmarine) avvista a nordovest dell’Irlanda, nel punto 46°15' N e 11°45' O, un convoglio di 20-25 mercantili in navigazione verso ovest a 7 nodi: è il convoglio OB. 290, salpato da Liverpool il 23 febbraio e scortato dai cacciatorpediniere Vanquisher, Winchelsea e Whitehall, dagli sloops Weston ed Enchantress e dalle corvette Pimpernel e Campanula.
L’U 47 mantiene il contatto con il convoglio, riuscendo anche a silurare quattro navi (tre vengono affondate, una danneggiata), e l’ammiraglio Dönitz, al fine di formare entro il mattino dell’indomani una linea di sbarramento disposta sul 17° meridiano (davanti alla rotta del convoglio), invia in quella direzione l’U 73, l’U 97, l’U 99. Anche Barbarigo e Marcello (ma quest’ultimo, con ogni probabilità, è già stato affondato) ricevono ordine di spostarsi più a sud, per posizionarsi sulle ali dello schieramento dei sommergibili tedeschi (Barbarigo a nord, Marcello a sud), mentre al Bianchi viene ordinato di portarsi in una posizione più avanzata.
Alle 20.20 Betasom ordina a Bianchi, Marcello e Barbarigo di spostarsi rispettivamente nelle posizioni 2799 44, 6199 13 e 5399 11. Con lo stesso messaggio, Betasom segnala un convoglio di 25 navi che alle 14 era in posizione 2715 nel sottoquadrante 25, in direzione 270°, con velocità di 7 nodi. Nessuno dei tre sommergibili riesce però a raggiungere tempestivamente le posizioni assegnate, trovandosi tutti troppo arretrati rispetto a tali posizioni.
26 febbraio 1941
Alle 2.20 Betasom comunica a Bianchi, Marcello e Barbarigo che alle 23.50 del giorno precedente il convoglio era in posizione 61 90 nel sottoquadrante 56, con rotta 230° e velocità 8 nodi, ordinando ai sommergibili di convergere su di esso.
L’U 47 mantiene il contatto col convoglio fino al tramonto del 26 febbraio, inviando continuamente aggiornamenti sulla sua posizione, ma perde poi il contatto a causa dell’intervento di un’unità di scorta, che lo obbliga ad immergersi; nelle stesse ore, però, anche l’U 97 ha preso contatto col convoglio, che viene anche attaccato da sei FW. 200 "Condor" con l’affondamento di sei navi ed il danneggiamento di altre quattro.
A mezzanotte l’OB. 290, oltrepassato il meridiano 19° Ovest, si disperde; ai sommergibili che si trovano nei pressi viene ordinato di procedere lungo la direttrice di marcia del nemico e di attaccare i bastimenti danneggiati e dispersi. Bianchi e Barbarigo ricevono l’ordine di attaccare due piroscafi danneggiati, che si trovano in posizione 56-99/66 con rotta 270° e velocità 4 nodi.
27 febbraio 1941
Nelle prime ore della notte il Bianchi, che ha modificato la rotta tornando verso nord e dirigendo verso le posizioni indicate da Betasom, avvista in successione tre navi mercantili. All’1.45, in posizione 53°54' N e 14°30' O, il sommergibile attacca la prima, che il comandante Giovannini identifica erroneamente come il piroscafo britannico Empire Ability di 7603 tsl: in realtà, tale bastimento non fa parte del convoglio OB. 290, dunque deve trattarsi di un’altra nave. Ad ogni modo, l’ampio moto ondoso devia il siluro da 450 mm lanciato dal Bianchi all’1.45, così come un secondo siluro dello stesso calibro lanciato alle 3.45 o 3.50 (per altra versione, il Bianchi avrebbe rivendicato un probabile siluro a segno su questa nave, ma senza apparentemente aver causato danni gravi). Il mercantile sconosciuto riesce così a fuggire indenne.
Alle 4.47, invece, un siluro da 533 mm del Bianchi colpisce la seconda nave: si tratta del piroscafo britannico Baltistan (capitano John Hobson Hedley), di 6803 tsl, partito da Ellesmere per Città del Capo con 8 passeggeri e 6200 tonnellate di materiale militare, in un viaggio per conto del governo britannico. Colpito dal siluro sul lato di dritta, il piroscafo affonda nel punto 53°50' N e 14°35' O (fonti italiane; per le fonti britanniche 51°52' N e 19°55' O, circa 400 miglia a ponente dell’isola Valentia, 300 miglia ad ovest di Bantry Bay, Irlanda, e 852 miglia a sud di Reykjavik), con la morte di 47 membri dell’equipaggio e 4 passeggeri, mentre i superstiti 14 membri dell’equipaggio (tra cui il comandante Hadley) e 4 passeggeri verranno successivamente tratti in salvo dal cacciatorpediniere britannico Brighton e sbarcati a Plymouth.
Il Bianchi assiste all’affondamento del Baltistan, dopo di che alle 5.40 (o 5.49) avvista una terza nave; la contromanovra offensiva intrapresa da questo piroscafo induce però il comandante Giovannini a sospettare che possa trattarsi di una nave civetta (unità antisommergibili potentemente armata, camuffata da nave mercantile), così che Giovannini decide di non attaccarla.
(Secondo una fonte, durante la navigazione di rientro a Bordeaux il Bianchi si sarebbe “disimpegnato dalla caccia di un incrociatore ausiliario”: non è chiaro se ciò faccia riferimento a questa presunta nave civetta oppure ad un’altra unità incontrata successivamente).

Il Bianchi arriva a Bordeaux il 4 marzo 1941, con al periscopio le bandierine triangolari indicanti i successi riportati durante la missione (da www.u-boote.fr)
Il comandante Giovannini saluta l’ammiraglio Parona (a destra) ed il capitano di vascello Aldo Cocchia (capo di Stato Maggiore di Betasom, a sinistra) al rientro dalla missione (g.c. STORIA militare)
L’accoglienza del Bianchi al suo rientro dalla missione, il 4 marzo 1941 (dal saggio di Francesco Mattesini – Forum AIDMEN)

4 marzo 1941
Il Bianchi rientra a Bordeaux dopo aver affondato tre navi per complessive 24.222 tsl, un risultato non dissimile da quelli conseguiti dagli U-Boote tedeschi nello stesso periodo: si tratta, fino a quel momento, del maggior tonnellaggio affondato da un sommergibile di Betasom (superando di quasi 7000 tsl il tonnellaggio affondato dal Torelli nella sua missione di gennaio), come giustamente rilevato dall’ammiraglio Parona, il quale il 24 marzo scrive in merito alla missione del Bianchi: «Missione condotta con tenacia ed abilità che ha conseguito il miglior risultato sino ad ora riportato dai sommergibili italiani operanti in Atlantico (29.068 tonn.) [Parona sovrastimò un poco il tonnellaggio affondato dal Bianchi, accreditandogli infatti anche l’affondamento del Manistee, e stimando dunque che il Bianchi avesse affondato 4 navi per complessive 26.800 tsl (Alnmoor, Huntingdon, Manistee e Baltistan, anche se ovviamente all’epoca non se ne conoscevano i nomi) e ne avesse probabilmente danneggiata una quinta di 7800 tsl (quella erroneamente identificata come Empire Ability)]Circa le osservazioni e proposte fatte dal Comando di bordo si osserva:

-si condivide l'opinione espressa circa l'opportunità di abbreviare per quanto possibile la durata delle trasmissioni R.T. e si provvederà in questo senso in occasione della adozione delle macchine cifranti [le famose "Enigma" tedesche];

-non si condivide l'opinione espressa che l'imersione debba essere considerata soltanto come una manovra difensiva: un migliore allenamento dei T.O. (che sul BIANCHI hanno avuto scarse occasioni di allenamento) permetterà al Comandante di convincersi che con mare fino a forza 5-6 è possibile mantenere, sia pure con qualche difficoltà, il battello in quota per la manovra di attacco in immersione;

-dal complesso delle informazioni in possesso di questo Comando Superiore non risulta in modo sicuro che sia seguito il sistema di pattugliamento delle rotte di transito dei convogli che sono regolarmente scortati; però sono stati frequentemente avvistati cc.tt. e navi di pattuglia in tutta la zona di operazione;

-quale cifra totale degli affondamenti deve essere considerata quella di 29.068 perché non è stato intercettato alcun segnale di soccorso corrispondente all'ora dell'azione del BIANCHI contro il piroscafo che il Comandante ha creduto di individuare per l'EMPIRE ABILITY;

-non si condividono i dubbi circa la completa esplosione delle cariche dei siluri: i siluri che hanno colpito sono sempre regolarmente esplosi e provocato l'affondamento delle unità colpite;
-si condivide l'opinione espressa circa l'opportunità dell'adozione di un apparecchio per la punteria ed il lancio notturno, uguale a quello usato dalle unità tedesche (U.Z.O.) che dà al Comandante la possibilità di effettuare il lancio e mantenere costantemente in punteria sul bersaglio il siluro col variare, anche nella fase finale dell'attacco, l'angolazione dell'arma per annullare le oscillazioni prodotte dal cattivo governo con mare agitato».

Dai vertici della Regia Marina non tardano ad arrivare i meritati complimenti: il 5 marzo l’ammiraglio Arturo Riccardi (capo di Stato Maggiore della Marina) comunica a Betasom «SUPERMARINA – 27647 – Esprimete Comandante Giovannini mio vivo plauso per prova di perizia e valore che hanno avuto felice coronamento nei ripetuti successi riportati durante ultima missione (alt) Estendete mio elogio ad Ufficiali et equipaggio del sommergibile BIANCHI (alt) 111505», e lo stesso giorno l’ammiraglio Mario Falangola (comandante della flotta subacquea italiana) comunica «MARICOSOM – 75716 – Per Comandante Giovannini (alt) A voi allo Stato Maggiore et all’equipaggio del BIANCHI mio compiacimento et mie felicitazioni vivissime per brillante esito missione (alt) 175005». Il comandante Giovannini viene decorato dalle autorità italiane con la Medaglia d’Argento al Valor Militare e dall’ammiraglio Dönitz con la Croce di Ferro di seconda classe.
Nella sua relazione a Supermarina l’ammiraglio Parona, di solito avaro di complimenti nei confronti dei comandanti da lui dipendenti, scrive tra l’altro: «Dai rapporti di missione dei due Sommergibili [Bianchi e Barbarigo] si rileva come gli ordini siano stati chiaramente intesi e ne sia stata compresa la ragione da parte delle unità operanti. In casi analoghi si ripeterà una manovra del genere, i concetti della quale sono stati illustrati ai comandanti dipendenti verbalmente e mediante aggiunta all’ordine generale di operazione di questo Comando»; Supermarina risponde a Betasom e Maricosom (il Comando della Squadra Sommergibili) «(…) Sono stati particolarmente apprezzati, non solo l’abilità e la sagacia, con le quali il Comandante Giovannini ha saputo trarre profitto di ogni elemento per raggiungere ed agganciare l’avversario, ma anche lo spirito offensivo e lo slancio dimostrati nelle singole azioni tattiche, che hanno consentito il conseguimento di risultati veramente cospicui per sé stessi e nella relatività con quelli raggiunti nella stessa azione dai sommergibili germanici impegnati. I frequenti casi di radiogoniometria delle nostre unità subacquee in Atlantico, che risultano dalle intercettazioni nemiche, anche se talvolta fortemente errati, convalidano le osservazioni fatte dal sommergibile Bianchi circa l'opportunità di abbreviare per quanto possibile la durata delle trasmissioni r.t. semplificando la procedura. Si prendono in considerazione le proposte di ricompense al valor militare, avanzate da codesto Comando».
Per Giovannini questa è anche l’ultima missione operativa al comando di sommergibili: subito dopo, infatti, viene deciso di affidargli l’incarico di dirigere Marigammasom, la scuola istituita a Gotenhafen (nel Mar Baltico) per addestrare i sommergibilisti italiani alle condizioni operative dell’Atlantico. (Secondo una fonte, ciò sarebbe stato motivato dall’età di Giovannini, 36 anni, ritenuta troppo avanzata per il comando di un sommergibile: si era infatti deciso, seguendo l’esempio della Kriegsmarine, di affidare il comando dei sommergibili ad ufficiali più giovani; tuttavia sembra improbabile che ciò sia stato il motivo della sostituzione di Giovannini, se si considera che il suo sostituto, Franco Tosoni Pittoni, era di appena un anno più giovane).

L’ammiraglio Parona accoglie il comandante Giovannini al termine della missione (dal saggio di Francesco Mattesini – Forum AIDMEN)


Il comandante Giovannini illustra il grafico della missione del febbraio 1941 all’ammiraglio Parona ed al comandante Cocchia (dal saggio di Francesco Mattesini – Forum AIDMEN)


15 marzo (o aprile) 1941
Assume il comando del Bianchi un altro promettente ufficiale, il capitano di corvetta Franco Tosoni Pittoni, triestino, di 35 anni, che in Mediterraneo ha affondato l’incrociatore britannico Calypso al comando del sommergibile Bagnolini.
30 aprile 1941
Terminato l’abituale periodo di lavori tra una missione e l’altra, il Bianchi (capitano di corvetta Franco Tosoni Pittoni) salpa da Bordeaux per una nuova missione ad ovest delle Isole Britanniche.
Fa parte di un gruppo di quattro battelli che devono operare congiuntamente al largo dell’Irlanda, denominato «Morosini»: gli altri sono OtariaBarbarigo e Morosini. I quattro sommergibili, in base agli ordini del B.d.U., devono assumere posizioni comprese tra i paralleli 61° e 58° Nord ed il meridiano 25° O. L’Atlantico settentrionale è stato diviso in settori: le navi di superficie tedesche devono operare ad ovest del 34° meridiano, i sommergibili italiani più ad est e gli U-Boote tedeschi ancora più ad est, nella zona più vicina all’Europa (ai sommergibili italiani è stato assegnato un settore più distante per via delle loro maggiori dimensioni ed autonomia rispetto a quelli tedeschi).
2 maggio 1941
Raggiunge il settore assegnato a ponente dell’Irlanda.
9 maggio 1941
Betasom comunica ai sommergibili in mare che un convoglio in navigazione verso ovest è stato avvistato nel punto 54° 30' N e 28° 30' O. Il Morosini, unico sommergibile che si trova nelle vicinanze, attacca la nave cisterna britannica Vancouver (5729 tsl) che però riesce a sfuggirli, perché più veloce. Bianchi e Barbarigo cercano la Vancouver, ma senza successo.
12 maggio 1941
Avvista in posizione 56° 40' N e 24° 40' O un piccolo convoglio formato da due sole navi mercantili, scortate da diverse unità sottili; l’elevata velocità del convoglio, stimata dal comandante Tosoni Pittoni in 14 nodi, impedisce però al Bianchi di mantenere il contatto. Il sommergibile può soltanto lanciare il segnale di scoperta.
15 maggio 1941
Alle 9.15 il Bianchi avvista del fumo all’orizzonte, nella direzione dalla quale, in base alle informazioni ricevute, è previsto l’arrivo di un convoglio britannico. Il sommergibile si dirige in quella direzione, e nel giro di alcuni minuti avvista in rapida successione altri fumi, fino ad un totale di una ventina; alle 9.21, pertanto, viene trasmesso il segnale di scoperta di convoglio imprecisato (pur non avendo ancora potuto rilevare rotta e velocità del convoglio, Tosoni Pittoni ritiene importante comunicare il prima possibile l’avvistamento del convoglio). Il convoglio avvistato è l’OB. 321 (capoconvoglio, viceammiraglio A. Hornell), partito da Liverpool l’11 maggio diretto in America e formato da 24 navi mercantili e 12 navi scorta.
Il Bianchi si avvicina per individuare la formazione, ma prima di poter capire quale sia la rotta seguita dal nemico, un’unità di scorta laterale di prodiera si avvicina minacciosamente al sommergibile. Non risulta possibile l’allargamento in superficie, dato che appaiono rapidamente visibili la coffa e l’estremità del fumaiolo della nave britannica, pertanto alle 10 il Bianchi si deve immergere, senza essere stato avvistato. Una volta immerso, il sommergibile assume una rotta tale da permettergli di avvicinarsi al convoglio il più possibile; vengono alternate brevi osservazioni al periscopio e veloci discese in profondità per non essere avvistati da eventuali aerei. Tosoni Pittoni prepara un segnale di scoperta più dettagliato, ed alle 10.30, 11 e 11.50 si porta a quota periscopica per verificare se sia possibile emergere in modo da trasmettere il segnale. Ogni osservazione mostra che il convoglio sta “avvolgendo” il Bianchi con successive accostate sulla sua dritta, prima per 240°, poi per 270°, indi per 300°. Portatosi, in immersione, fino ad una distanza di appena 10-12 metri, così poco da poter distinguere le plance dei mercantili, Tosoni Pittoni riesce infine a determinare che il convoglio debba essere composto da una trentina di piroscafi su due o forse anche tre colonne, con numerosa scorta prodiera, laterale e poppiera.
Per via delle accostate a dritta eseguite dal convoglio, il defilamento della lunga fila di trasporti avviene con grande lentezza; dato che alla radio è stata captata, su onda lunga, soltanto la ripetizione del segnale di scoperta lanciato al mattino dal Bianchi, il che induce Tosoni Pittoni a ritenere che il convoglio non sia ancora stato avvistato da altri, questi ritiene di primaria importanza trasmettere il prima possibile altre e più precise informazioni sul convoglio, in modo da permettere anche ad altri sommergibili di portarsi in zona per attaccare. Alle 12.10, pertanto, il Bianchi scende a 60 metri di profondità e si disimpegna dalla coda del convoglio con un’accostat asulla sinistra, allontanandosi a mezza forza verso nord. In questo lasso di tempo gli idrofoni non rilevano alcuna sorgente di rumore, neanche su indicazione del rilevamento periscopico.
Alle 13 il convoglio è sufficientemente passato; dopo aver aspettato ancora qualche minuto per far allontanare una nave di scorta poppiera, alle 13.05 il Bianchi emerge e lancia il segnale di scoperta, contenente la media delle rotte osservate, dopo di che si riporta in contatto col convoglio sul lato di dritta, in modo da tenersi fuori vista rispetto alla scorta poppiera.
Alle 14.25 un giro in fuori della scorta laterale induce il comandante Tosoni Pittoni ad ordinare nuovamente di immergersi, senza essere avvistati. Alle 15.25 il convoglio, tornato su rotta 270°, continua ad accostare sulla sua sinistra per 240° e forse per una rotta ancora più a sud, allontanandosi dal Bianchi; la testa del convoglio è quasi giunta al 19° meridiano, e Tosoni Pittoni stima che la puntata per rotta 300° sia stata una finta prima del piegamento a sud, come hanno già fatto in precedenza altri due convoglio. Di conseguenza, decide di emergere per osservare meglio, ed alle 15.35 viene in superficie. Mentre sta per lanciare un nuovo segnale di scoperta, durante l’esaurimento dei doppi fondi centrali, viene avvistato sulla sinistra, a poca distanza, un aereo mimetizzato che esce dalla scia del sole. Alle 15.45 viene ordinata l’immersione rapida, sebbene non in sicurezza da un eventuale attacco aereo, a causa della presenza delle navi di scorta del convoglio.
Alle 16.20, 35 minuti dopo l’immersione, viene avvertita la prima esplosione di bombe di profondità, che fa vibrare lo scafo. A bordo del Bianchi vengono fermate tutte le sorgenti di rumore; l’ascolto idrofonico dà risultato negativo, ma ormai Tosoni Pittoni ha capito che gli idrofoni non sono affidabili, dato che per tutto il mattino non hanno rilevato nemmeno le sorgenti del convoglio, nonostante la ridotta distanza. Alle 16.47 iniziano salve di bombe ad intervalli, sempre più vicine, al punto da far sentire nello scafo un rumore che il comandante Tosoni Pittoni attribuisce al gorgoglio dei gas delle esplosioni; alle 17.57 uno scoppio isolato fa ritenere a Tosoni Pittoni che la nave nemica si sia allontanata, dopo aver lanciato in tutto 29 bombe di profondità, pertanto viene rimesso in moto l’apparato Calzoni per salire a quota periscopica: ma le scariche di bombe riprendono, così alle 18.36 il Bianchi abbandona la risalita e torna in profondità. Il malfunzionamento degli idrofoni crea non pochi problemi, rendendo impossibile capire quante navi nemiche siano impegnate nella caccia, a quale distanza siano e quali velocità abbiano; durante gli intervalli più lunghi tra una scarica e l’altra il Bianchi cerca di portarsi a quota periscopica per osservare la situazione al periscopio, ma ogni volta deve rinunciare per il riprendere del martellamento. Le scariche di bombe continuano, dapprima più deboli e poi più forti, causando di nuovo vibrazioni e gorgoglio nello scafo, per poi divenire nuovamente più deboli e cessare del tutto alle 23.10. L’equipaggio del Bianchi ha contato gli scoppi di ben 80 bombe di profondità.
Alle 23.30 vengono rimessi in moto gli utenti e la pompa Calzoni, ed inizia la risalita. Una volta a quota sufficiente, il sommergibile effettua l’ascolto sull’onda lunga di mezzanotte, poi emerge ed assume rotta verso il nuovo punto assegnatogli da Betasom, 50° 05' N e 21° 25' O, l’estremità sinistra di uno sbarramento di cinque sommergibili diretto per parallelo.
Il convoglio incontrato e segnalato dal Bianchi verrà attaccato da altri sommergibili dell’Asse.
19 maggio 1941
Intercetta un segnale di scoperta lanciato dall’Otaria, ma non può intervenire perché troppo distante.
20 o 22 maggio 1941
Giunto al limite dell’autonomia, intraprende la navigazione di ritorno.
28 o 30 maggio 1941
Arriva a Bordeaux.
Segue un nuovo periodo di lavori.

Il Bianchi ormeggiato al Molo San Vincenzo di Napoli nel 1940: sulla sinistra il sommergibile Marcello, sullo sfondo l’incrociatore pesante Zara (Coll. Aldo Fraccaroli via g.c. Dante Flore e www.naviearmatori.net)

L’affondamento

La sera del 4 luglio 1941 il Bianchi, al comando del capitano di corvetta Franco Tosoni Pittoni, lasciò Bordeaux per una nuova missione atlantica, ad ovest dello stretto di Gibilterra, con obiettivo il traffico navale Alleato tra Gibilterra e le Canarie. Nella stessa area dovevano operare in gruppo nove sommergibili italiani: oltre al Bianchi, si trattava di Leonardo Da Vinci, Maggiore BaraccaAlessandro MalaspinaComandante CappelliniAlpino Bagnolini, Luigi TorelliMorosiniBarbarigo.
Lo Sperrbrecher III della Marina tedesca (un’unità ausiliaria ottenuta dalla conversione di una nave mercantile, rinforzata in modo da resistere alle esplosioni senza affondare, la cui funzione era di precedere altre unità in zone minate, per far esplodere le mine e liberare così il passaggio) scortò il Bianchi fino alla boa n. 1 della Gironda, poi il sommergibile proseguì da solo verso il mare aperto.
Dopo la partenza, però, il Bianchi non diede più notizia di sé: il 9 luglio Betasom gli ordinò di formare con altri cinque sommergibili una catena per agire contro un convoglio britannico salpato da Gibilterra, ma il Bianchi non confermò di aver ricevuto il messaggio. Trascorso qualche giorno senza comunicazioni, Betasom cercò nuovamente di mettersi in contatto radio col Bianchi, ma le ripetute chiamate via radio indirizzate al sommergibile tra il 12 ed il 18 luglio non ricevettero mai risposta.
Il Bianchi fu dichiarato disperso nell’Atlantico in posizione non definibile ed in data imprecisata tra il 5 luglio ed il 10 settembre 1941, con tutto il suo equipaggio di 61 uomini (8 ufficiali, 51 tra sottufficiali, sottocapi e marinai, e 2 operai militarizzati). La Marina considera ufficialmente gli uomini del Bianchi come dispersi nella data del 10 settembre 1941.
Solo nove mesi dopo la sua scomparsa, il 20 aprile 1942, il Bollettino numero 688 del Comando Supremo ne annunciò la perdita con poche asciutte parole, formula di rito già sentita per tanti altri battelli: «Il nostro sommergibile Bianchi non è tornato alla base».

Causa più probabile della sua perdita è attualmente ritenuta un attacco effettuato nel Golfo di Biscaglia dal sommergibile britannico Tigris (capitano di fregata Howard Francis Bone) il 5 luglio 1941, il giorno dopo la partenza del Bianchi da Bordeaux. Alle 9.41 di quel giorno il tenente di vascello Norman Jack Coe, ufficiale di guardia a bordo del Tigris, avvistò quella che ritenne essere una nave di superficie scortata da due pescherecci armati, e chiamò in camera di manovra il comandante Bone. Questi guardò a sua volta al periscopio e da una distanza di circa 8000 metri, tre minuti dopo l’avvistamento da parte di Coe, si rese conto che in realtà il bersaglio non era una nave, bensì un sommergibile italiano che navigava in superficie; non c’era nessun peschereccio, quelli che Coe aveva creduto gli alberi di due pescherecci erano in realtà le due antenne radio del sommergibile. Bone identificò il sommergibile come appartenente alla classe Squalo (in realtà, nessun battello di questa classe operò in Atlantico), avente rotta 295° e velocità 12 nodi. Il Tigris accostò in direzione dell’unità italiana per avvicinarsi ad alta velocità; a causa della calma piatta del mare, il riflesso del sole sulla superficie disturbava la visione di Bone (era stato questo riflesso, con ogni probabilità, a trarre in inganno Coe), che calcolò molto approssimativamente la rotta del sommergibile nemico, misurando la distanza tra le due antenne radio.
Alle 9.58 il Tigris lanciò contro l’altro sommergibile sei siluri, da una distanza stimata di 2750 metri, ad intervalli di 6 secondi l’uno dall’altro; quattro dei siluri erano del tipo Mk VIII, gli altri due del più vecchio modello Mk IV, tutti e sei aventi una velocità di 40 nodi. Dopo due minuti e 49 secondi dal lancio l’equipaggio del Tigris avvertì un’esplosione, seguita da un’altra un secondo più tardi; diversi minuti dopo vennero avvertite altre quattro detonazioni, una dopo 6 minuti e 10 secondi dal lancio, un’altra dieci secondi più tardi, un’altra ancora dopo 9 minuti e 16 secondi dal lancio e l’ultima quattro secondi dopo. Bone ritenne che le prime due esplosioni fossero dovute ad altrettanti siluri andati a segno, mentre il suono delle ultime quattro non fu avvertito molto distintamente a causa di rumori provenienti dal bersaglio, che stava probabilmente spezzandosi ed affondando.
Il comandante Bone avrebbe voluto emergere per ispezionare l’area in cerca di eventuali sopravvissuti, ma vedendo avvicinarsi un bombardiere tedesco Junkers Ju 88, decise invece di scendere più in profondità, alle 10.14, e lasciare la zona.
La posizione dell’attacco del Tigris, che avvenne circa 150 miglia ad ovest-sud-ovest dell’estuario della Gironda, nel punto approssimato 45°03' N e 04°01' O (a ponente di Bordeaux e 158 miglia a sudovest di La Rochelle), è compatibile con la rotta che il Bianchi, proveniente dalla Gironda, avrebbe dovuto seguire per attraversare il Golfo di Biscaglia e raggiungere il suo settore d’agguato; ed anche l’orario dell’attacco sembra plausibile, essendo il sommergibile partito il giorno prima, e spiegherebbe perché il Bianchi non diede più sue notizie dopo la partenza. D’altro canto, manca una prova certa, dato che il Tigris sentì delle detonazioni ma non osservò visivamente il siluramento e l’affondamento della sua vittima (e sono tutt’altro che rari episodi di “rumori di esplosioni” attribuite a siluri andati a segno, che in realtà non avevano colpito nulla).
L’U-Boat Assessment Committee, organo britannico incaricato di esaminare le informazioni su ogni attacco contro sommergibili dell’Asse da parte di unità aeree o navali delle forze del Commonwealth per valutarne l’esito, concluse che il sommergibile attaccato dal Tigris fosse stato colpito da un solo siluro, e che fosse stato "probabilmente affondato"; le ultime quattro esplosioni sentite dal Tigris (dopo 6 e 9 minuti) erano probabilmente dovute a siluri che colpivano il fondale a fine corsa. Se il primo siluro lanciato era andato a segno, la reale distanza del sommergibile italiano dal Tigris doveva essere di circa 3500 metri, oltre 700 in più di quanto stimato da Bone al momento del lancio. Anche la rotta del bersaglio stimata da Bone era probabilmente errata. La notizia dell’azione del Tigris venne comunicata dall’Ammiragliato britannico alle autorità italiane nel 1958, diciassette anni dopo la scomparsa del sommergibile, dietro richiesta di notizie da parte italiana.
Lo storico Francesco Mattesini ha espresso dei dubbi sulla possibilità che il Bianchi sia stato affondato dal Tigris per via della presenza di uno Junkers Ju 88 cui aveva accennato Bone nel suo rapporto; secondo Mattesini, appare strano che lo Ju 88 non si sia accorto dell’esplosione dei siluri e dell’affondamento di un sommergibile, se ciò fosse avvenuto (nel qual caso l’aereo lo avrebbe certamente riferito alla base). Mattesini ha anche rilevato che la Sezione Storica dell’Ammiragliato britannico, in una risposta (lettera H.S.L.129/58) all’Ufficio Storico della Marina Militare italiana, datata 31 dicembre 1958, affermò che "At 1001/5 July, H.M. S/M Tigris reported firing two torpedoes at a submarine of the Squalo class which was outward bound in 45°03’, 4°01’W. Result of this attack is non known, but the Tigris heard the explosion of her torpedoes" ("Alle 10.01 del 5 luglio, il sommergibile HMS Tigris riferì di aver lanciato due siluri ad un sommergibile della classe Squalo, avente rotta verso il mare aperto, nel punto 45°03’, 4°01’W. Il risultato di questo attacco non è noto, ma il Tigris sentì l’esplosione dei suoi siluri"), il che sembra intendere che lo stesso Ammiragliato nutrisse dei dubbi sul fatto che i siluri del Tigris avessero davvero colpito il bersaglio.
Il ricercatore Platon Alexiades, pur avendo nutrito a sua volta alcune riserve a riguardo, ha concluso sulla base della documentazione disponibile (italiana, britannica, tedesca) che la probabilità che il Bianchi sia stato affondato dal Tigris sia molto elevata, data la coincidenza tra il luogo ed orario indicati dal sommergibile britannico e la posizione in cui il Bianchi si sarebbe dovuto trovare a quell’ora in  base alla sua rotta presunta (se avesse tenuto una velocità di circa 11-11,5 nodi o poco meno, il che appare verosimile, si sarebbe trovato esattamente nel punto indicato dal Tigris, al momento dell’attacco di quest’ultimo) nonché il fatto che – in base ai rapporti di missione degli U-Boote tedeschi e sommergibili italiani in mare in quel periodo – nessun altro sommergibile dell’Asse si trovava nella zona al momento dell’attacco. Mattesini ritiene che la rotta seguita dal sommergibile avvistato dal Tigris, 295°, fosse incongruente con quella che avrebbe dovuto tenere un sommergibile proveniente da Bordeaux e diretto al largo dello stretto di Gibilterra, ma Alexiades (il quale ha calcolato che, se il Bianchi avesse assunto una rotta diretta dopo aver lasciato la Gironda, avrebbe avuto rotta circa 257°, che era anche la rotta che avrebbe dovuto seguire se avesse imboccato la Rotta di Sicurezza n. 5, la più logica per un sommergibile inviato nelle acque di Gibilterra) ha rilevato che tale rotta era stata stimata da Bone al periscopio in modo molto approssimativo (in base alla distanza tra le due antenne radio del bersaglio), dunque la vera rotta tenuta dal sommergibile attaccato era probabilmente differente, come d’altro canto era la distanza (stimata da Bone in 2750 metri ma in realtà prossima, dati i tempi di corsa dei siluri prima delle esplosioni, ai 3500 metri). Per quanto riguarda lo Ju 88, menzionato dal Tigris nel suo rapporto, che non avrebbe visto l’esplosione e l’affondamento del sommergibile, Alexiades ha ipotizzato che l’arrivo dell’aereo possa essere stato niente più che una scusa addotta da Bone, nel rapporto, per giustificare il suo allontanamento senza cercare superstiti dopo l’attacco (deciso probabilmente per eccesso di cautela, non volendo mettere a rischio il suo battello emergendo in una zona pericolosa). Esiste, naturalmente, la possibilità che il Bianchi possa aver evitato i siluri del Tigris per poi andare perduto successivamente per altre cause, ma ciò sembra poco verosimile, dato che gli scoppi sentiti dal battello britannico erano coerenti con almeno un siluro andato a segno, e che dal Bianchi non si ebbe più alcuna comunicazione da dopo la partenza.

Alcune fonti britanniche attribuiscono erroneamente l’affondamento del Bianchi al sommergibile britannico Severn (capitano di corvetta Andrew Neil Gillespie Campbell). Alle 00.48 del 7 agosto 1941, questo battello, che si trovava in quel momento in posizione 34°48' N e 13°04' O (a ponente di Gibilterra) dopo essere stato distaccato per dare la caccia ad eventuali U-Boote al largo del banco Seine (costa africana) nel corso di una missione di scorta al convoglio HG. 69, avvistò in condizioni di tempo avverso un sommergibile emerso, che identificò come un’unità italiana delle classi Squalo, Corridoni o Santarosa, a circa 3650 metri di distanza. Contro di esso il Severn lanciò infruttuosamente, alle 00.56, una prima salva di quattro siluri da distanze comprese tra i 2750 ed i 3650 metri, seguita all’1.01 da un quinto siluro da uguale distanza, di nuovo senza risultato, ed infine da un ultimo siluro (dal tubo numero 4) all’1.02, sempre da distanza compresa tra i 2750 ed i 3650 metri. Questo ultimo siluro, secondo il rapporto del Severn, andò a segno all’1.05, e venne avvertita a bordo un’esplosione molto forte; all’1.06 il Severn s’immerse per ricaricare i tubi lanciasiluri e si allontanò dalla zona. Da parte britannica si sostenne di aver affondato il sommergibile (anche se inizialmente le autorità britanniche dubitarono che l’attacco del Severn avesse avuto successo), che venne in seguito identificato da diverse fonti britanniche, anche autorevoli (come "History of British and Allied Submarine Operations" di Arthur Hezlet, che accredita l’affondamento del Bianchi al Severn anziché al Tigris), come il Michele Bianchi.
In realtà, il sommergibile attaccato dal Severn non poteva alcun modo essere il Michele Bianchi, che alla data del 7 agosto era già stato dichiarato disperso da tre settimane, e non poteva essere ancora intatto, non avendo più risposto ad alcuna comunicazione da più di un mese. Ricerche più recenti hanno infatti mostrato che il sommergibile attaccato dal Severn era il tedesco U 93, il quale, nonostante le impressioni dell’equipaggio britannico, non venne colpito; i marinai tedeschi sentirono gli scoppi di due siluri (probabilmente per fine corsa) e niente di più.

L’equipaggio del Bianchi, scomparso al completo:

Giovanni Accardo, marinaio
Adolfo Babbini (o Barbini), sottocapo motorista
Marino Balacco, marinaio
Amedeo Baldizzone, sottotenente di vascello
Enrico Barbato, marinaio elettricista
Salvatore Barbera, marinaio
Angelo Bellamacina, sottocapo radiotelegrafista
Francesco Belloni, capo meccanico di seconda classe
Beltramo Beltrami, capo radiotelegrafista di terza classe
Antonio Bertuccio, guardiamarina
Mario Bini, sottocapo elettricista
Antonino Blanco (o Bianco), secondo capo nocchiere
Ireneo Bodinò, sottocapo radiotelegrafista
Leo Borsellini, sottocapo radiotelegrafista
Gino Caiella, sottocapo elettricista
Gildo Caldara, marinaio silurista
Carlo Canibus, capo segnalatore di seconda classe
Luigi Cara, secondo capo cannoniere
Giuseppe Castellaneta, capo elettricista di seconda classe
Alvaro Cesaretti, sergente motorista
Gildo Colatriani, marinaio silurista
Antonio Colledan, sottocapo segnalatore
Mario Cremona, sottocapo cannoniere
Carlo Curato, capitano del Genio Navale
Antonino Emanuele, sottocapo furiere
Liderico Feraboli, operaio militarizzato (sergente)
Giovanni Francisco, secondo capo elettricista
Giovanni Gervaso, tenente del Genio Navale
Lino Ghironi, sottocapo motorista
Nicola (o Nicolò) Giammaresi, marinaio
Angelo Gubittà, sottocapo silurista
Anton Giulio La Sala, sottocapo motorista
Guerrino Laube, sottotenente di vascello
Nicola Leardi, sottocapo radiotelegrafista
Quinto Luciani, marinaio cannoniere
Francesco Mazza, marinaio cannoniere
Mario Mazzoni, marinaio silurista
Filippo Mistretta, capo  meccanico di terza classe
Mario Mullner, operaio militarizzato
Paride Nannetti, marinaio silurista
Mario Nardi, marinaio elettricista
Aladino Neri, marinaio silurista
Ugo Pancetti, marinaio cannoniere
Piero Panciatici, tenente del Genio Navale
Girolamo Papania (o Patania), marinaio motorista
Mario Parini, marinaio
Vasco Petroni, marinaio silurista
Mario Picone, sottocapo silurista
Donato Proietto, marinaio
Egidio Rasetti, sottocapo nocchiere
Giuseppe Raviotta, sottocapo motorista
Eugenio Secchi, marinaio silurista
Salvatore Sozio, secondo capo motorista
Salvatore Sturniolo, marinaio
Antonio Taccone, marinaio cannoniere
Sante Tagliazucchi, capo silurista di terza classe
Carlo Togni, sottocapo elettricista
Giovanni Torretta, marinaio fuochista
Franco Tosoni Pittoni, capitano di corvetta (comandante)
Giovanni Valeri, sottotenente di vascello
Mario Varotto, sottocapo motorista
 
L’equipaggio del Bianchi a La Spezia, durante l’addestramento, pochi giorni prima della dichiarazione di guerra. Al centro il comandante Giovannini, sbarcato prima dell’ultima missione (g.c. Associazione Betasom/www.betasom.it)

L’affondamento del Bianchi nel giornale di bordo del Tigris (da Uboat.net):

“0941 hours - The officer of the watch, Lt. N.J. Coe, RNR, sighted what he thought was a surface vessel escorted by two trawlers. Cdr. Bone was called to the control room. Three minutes later the target was identified as an Italian submarine. The masts thought to be of two trawlers were actually the two radio antennas of the submarine. Tigris turned to close the target at high speed.
0958 hours - Six torpedoes were fired from 3000 yards. After nearly three minutes two hits were heard.
1014 hours - Cdr. Bone wanted to surface to investigate the area for survivors but a Ju-88 aircraft was seen to approach. Cdr. Bone took Tigris deep.”

Un’altra immagine del Bianchi (g.c. www.grupsom.com)