sabato 25 febbraio 2017

Adamello

L’Adamello (USMM).

Piroscafo da carico da 5785 tsl e 3661 tsn, lungo 121,9 metri, largo 16,1 e pescante 10, con velocità di 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 1463 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

13 settembre 1920
Varato nei cantieri Northumberland Shipbduilding Company Ltd. di Newcastle-upon-Tyne (o Howdon), Regno Unito (numero di costruzione 255), come Adamello.
Dicembre 1920
Completato per il Lloyd Adriatico Società di Navigazione, con sede a Venezia.
1929
Trasferito alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione "Garibaldi", con sede a Genova.

Un’altra foto dell’Adamello (da www.marinamercanteuruguaya.blogspot.com

Montevideo

Anche l’Adamello fu nel numero dei tanti mercantili italiani che la dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, trovò in acque straniere e lontane dal Mediterraneo: in questo caso, dell’Uruguay.
L’Adamello, partito pochi giorni prima da Buenos Aires, in Argentina, l’8 giugno aveva ricevuto ordine dal governo italiano di dirigere verso Montevideo, assieme al piroscafo Fausto, anch’esso proveniente da Buenos Aires. Qui i due piroscafi si rifugiarono il 10 giugno, all’atto della dichiarazione di guerra, e qui furono internati quale mercantili di Paese belligerante in porto neutrale.
A Montevideo, l’Adamello rimase immobile per quindici mesi; periodo non del tutto privo di eventi. Il 17 gennaio 1941, infatti, scoppiarono a Montevideo incidenti tra alcuni marittimi dell’Adamello e del Fausto, che volevano che la "prima" del film "Il grande dittatore" di Charlie Chaplin venisse rimandata (perché il film faceva satira contro Hitler e Mussolini, caricaturati nei personaggi di Hynkel e Napoloni), e cittadini antifascisti di Montevideo. I tafferugli, cui parteciparono anche italiani appartenenti ad organizzazioni fasciste nell’Uruguay, degenerarono in una vera e propria guerriglia urbana nell’Avenida 18 de Julio; il tutto si concluse con nove arrestati, tra cui due ufficiali dell’Adamello.
Il 9 settembre 1941, pur essendo l’Uruguay neutrale, le autorità uruguaiane confiscarono il naviglio italiano presente nei loro porti, vale a dire l’Adamello ed il Fausto, espropriandolo agli armatori (ancora nel 1951, in un’interrogazione parlamentare, la Cooperativa Garibaldi avrebbe lamentato l’utilizzo dell’Adamello da parte del Governo uruguaiano, per il quale la compagnia non aveva mai ricevuto alcun compenso). Subirono analoga sorte anche due piroscafi danesi.
La confisca di Adamello e Fausto provocò un serio incidente diplomatico tra Italia ed Uruguay, risolto dalla diplomazia uruguaiana.
La confisca dei piroscafi, effettuata per decreto governativo, era stata decisa dalle autorità dell’Uruguay per ovviare alla carenza di naviglio causata dalla guerra: la Marina Mercantile uruguaiana consisteva in un unico vecchio piroscafo, e le navi delle altre nazioni erano ora utilizzate per trasportare rifornimenti e materiali per l’industria bellica Alleata e/o attaccate dai sommergibili dell’Asse. Questa carenza di naviglio impediva gli scambi ed indeboliva l’economia uruguaiana, per via della difficoltà nell’approvvigionamento di materiali per l’industria: i quattro piroscafi confiscati, pertanto, sarebbero stati utilizzati per i commerci con altri Paesi americani, specialmente gli Stati Uniti.
Diversi Paesi dell’America settentrionale, centrale e meridionale avevano già intrapreso mesi prima analoga mossa, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, che per primi lo avevano fatto nel marzo 1941. Difatti, già nel mese di aprile il servizio informativo dell’Ammiragliato britannico aveva segnalato l’intenzione, da parte delle autorità uruguaiane, di requisire Adamello e Fausto; e sempre in quel mese la polizia uruguaiana era salita sui due piroscafi italiani, così come su quelli danesi, quale "misura precauzionale".
Dopo la confisca, gli Stati Uniti pretesero, tramite l’ambasciatore Dawson e l’addetto navale Frank Loftin, che i piroscafi ex italiani venissero affidati alla società statunitense Moore McCormack; ma nei negoziati, condotti dall’ammiraglio Rodriguez Luis e dal dottor Guani, prevalsero infine le autorità dell’Uruguay, che mantenne il controllo dei due bastimenti.
Gli equipaggi italiani dei due piroscafi vennero sbarcati ed internati a Montevideo.
Assegnato alla flotta dell’Administración Nacional de Puertos (dipendente dal Governo uruguaiano), l’Adamello ricevette il nuovo nome di Montevideo (che fu anche il suo porto di registrazione; gli fu assegnato il nominativo di chiamata CXAJ), e riprese a navigare con bandiera ed equipaggio uruguaiano. Il suo comandante, capitano di fregata José Rodríguez Varela, apparteneva alla Marina Militare uruguaiana, così come la maggior parte dell’equipaggio, mentre la nave non era armata.


Sopra: la notizia, su un giornale uruguaiano, della confisca delle navi italiane e danesi; sotto, il piroscafo con il nuovo nome di Montevideo (da www.marinamercanteuruguaya.blogspot.com).


Ironia della sorte volle che l’Adamello, nave che era stata italiana per tutta la sua vita fino alla cattura, senza mai cambiare bandiera (piuttosto raro per una nave da carico dell’epoca), una volta divenuto l’uruguaiano Montevideo trovò la sua fine nel giro di pochi mesi, e proprio per mano di un’unità italiana: il sommergibile Enrico Tazzoli, comandato da uno degli assi di Betasom, Carlo Fecia di Cossato.
Il 9 febbraio 1942, infatti, il Montevideo lasciò l’Uruguay diretto a New York con un equipaggio di 49 uomini; era il primo viaggio del piroscafo sotto bandiera uruguaiana, e sarebbe stato anche l’ultimo. In base alle vigenti norme internazionali sulla neutralità, sulle murate erano state dipinte grandi bandiere dell’Uruguay, per indicare la nazionalità della nave ad eventuali sommergibili di Paesi belligeranti, e di notte la nave navigava a luci accese. Il carico, trasportato per conto della Marina Militare uruguaiana (che aveva noleggiato la nave), consisteva in 5998 tonnellate di vino, cereali, carne in scatola (2114 tonnellate), lana e pelle conciata (1170 tonnellate), uova, cuoio e fertilizzanti. Erano tutti prodotti dell’industria uruguaiana; nel viaggio di ritorno, il piroscafo avrebbe dovuto trasportare in Uruguay un carico di materie prime destinate all’industria del Paese sudamericano (1000 tonnellate di carta da giornale e 2000 tonnellate di ferro da costruzione).
Procedendo a 12 nodi, sua velocità massima, il Montevideo superò Porto Allegre, Bahia, Rio de Janeiro e Pernambuco, poi diresse per Saint Thomas nelle Isole Vergini americane, dove giunse il 5 marzo e si rifornì di carbone.
Durante la breve sosta a Saint Thomas (la nave ripartì lo stesso 5 marzo), l’equipaggio apprese del crescendo di attacchi di sommergibili dell’Asse nel Mar dei Caraibi: pochi giorni prima, un convoglio di sei navi era stato dimezzato da attacchi subacquei; un sommergibile nemico (era l’italiano Finzi) aveva cannoneggiato l’Isla de Mona. Queste notizie spinsero il comandante Varela ad adottare precauzioni tipiche della navigazione in tempo di guerra: vietato fumare al di fuori degli alloggi dell’equipaggio e, soprattutto, oscuramento totale della nave. In questo modo, però, egli condannò il suo bastimento: ora il Montevideo avrebbe navigato di notte a luci spente, proprio come una nave di un Paese belligerante, impedendo ai sommergibili dell’Asse di vederne le bandiere verniciate sulle murate e, dunque, di riconoscerlo come una nave neutrale. Per giunta, Varela ordinò che la nave navigasse a zig zag – anche questo era un provvedimento adottato in guerra dalle navi di Paesi belligeranti. Vennero rafforzati i turni di vedetta.
L’avvistamento del Montevideo da parte del Tazzoli avvenne l’8 marzo 1942. Secondo fonti italiane, l’avvistamento avvenne il mattino dell’8 marzo, da una distanza di ben 17 km; la nave aveva rotta nord. All’equipaggio del Tazzoli parve, forse per la grande distanza, che la nave non recasse distintivi di neutralità, pertanto il comandante Fecia di Cossato decise di attaccarla; la inseguì per due ore, poi s’immerse per attaccare col siluro, ma durante l’immersione il piroscafo andò scadendo sull’angolo di mira, e l’attacco non riuscì. A questo punto, Fecia di Cossato decise di lasciare che il Montevideo si allontanasse, poi riemerse con l’intento di attaccare dopo il tramonto, stando in superficie. Durante tutto il pomeriggio, il Tazzoli si tenne al limite della visibilità del piroscafo, ricominciando ad avvicinarsi solo una volta che fu calata l’oscurità. Ciò impedì agli uomini del Tazzoli di accorgersi che il loro bersaglio era uruguaiano e neutrale, dato che prima si erano tenuti troppo lontani per vederne le insegne, e poi era calato il buio, che impedì loro di vederle anche quando si avvicinarono. L’atteggiamento della nave, che zigzagava oscurata, non fece che rafforzare l’impressione che si trattasse di un bastimento degli Alleati.
L’equipaggio del Montevideo aveva avvistato un oggetto scuro in lontananza, subito scomparso sott’acqua – scambiato da alcuni per una tromba marina, e ritenuto da altri un sommergibile che si nascondeva tra trombe marine – già il mattino dell’8 marzo; il comandante Varela aveva ordinato di forzare l’andatura per cercare di distanziarlo. Alle 16 i marinai uruguaiani videro di nuovo l’oggetto affiorare in superficie, molto più vicino di prima, e questa volta concordarono nell’identificarlo come un sommergibile. Col calar della sera, comunque, l’equipaggio del Montevideo ritenne che il pericolo fosse passato; la nave procedeva a 8,5 nodi su rotta vera 321°, con vento forza 4 (30 nodi) da nordest, mare agitato e buona visibilità.
Alle 19.20 il Tazzoli iniziò l’attacco, lanciando un primo siluro. In quel momento Tazzoli e Montevideo si trovavano a 330 miglia da Puerto Rico.
Il siluro mancò il bersaglio, ma il Tazzoli ne lanciò prontamente un altro (dai tubi di prua), che alle 19.25 o 19.30 – dopo una corsa di 45 secondi – colpì il Montevideo sul lato di dritta, abbattendo l’albero maestro (rimase così ucciso un marittimo uruguaiano che era di vedetta in coffa) e provocando uno momentaneo sbandamento di 35°-40° (poi la nave tornò gradatamente in assetto); un’onda spazzò il ponte, distruggendo i picchi di carico e provocando due morti e due feriti.
Il piroscafo imbarcava acqua rapidamente, ed il comandante Varela ordinò di abbandonare la nave; le scialuppe di dritta erano state gettate dall’esplosione contro la sovrastruttura, pertanto venne calata una delle lance di sinistra, con 31 uomini a bordo (tra cui lo stesso Varela). Altri quattro uomini si misero in salvo su una zattera; tra di essi il radiotelegrafista, che aveva tentato di trasmettere i segnali SOS (richiesta di aiuto) e SSS (attacco di sommergibile) ma non ci era riuscito, a causa dei danni riportati dalle apparecchiature radio. Gli altri 14 membri dell’equipaggio erano morti: nove, di turno in sala macchine, erano stati uccisi dall’esplosione del siluro; due erano stati gettati contro gli argani dall’onda generata dallo scoppio del siluro, restando uccisi; un marinaio era annegato sottocoperta; la quattordicesima vittima era la vedetta precipitata in coperta con l’albero maestro.
Secondo i naufraghi uruguaiani, il Tazzoli girò intorno all’agonizzante Montevideo e puntò un proiettore sulla poppa, soffermandosi a leggere il nome della nave; poi aprì il fuoco col cannone. Da fonti italiane risulta che, subito dopo il siluramento, Fecia di Cossato fece armare il cannone prodiero, che sparò contro il Montevideo dieci colpi da 120 mm (tutti andati a segno); poi, visto che la nave era ancora a galla, le lanciò un altro siluro dai tubi di poppa, per finirla. Essendo la distanza di soli 150 metri, tuttavia, l’acciarino del siluro non fece in tempo ad attivarsi, e l’arma non esplose.
Nondimeno, i danni già subiti dal Montevideo erano fatali, e poco dopo la mezzanotte del 9 marzo il piroscafo affondò nel punto 29°13’ N e 69°35’ O o 29°30’ N e 70°00’ O (a sudovest di Bermuda ed a nordest di Haiti; 650 miglia ad est della Florida).
Dei naufraghi, la scialuppa con 31 uomini, dopo aver vanamente cercato in acqua altri superstiti, iniziò a remare verso le Grandi Antille e Porto Rico, finché, il 13 marzo, i suoi occupanti furono tratti in sarvo dal piroscafo olandese Telamon, che li sbarcò poi a Jeremie, sulla costa meridionale di Haiti. I quattro naufraghi sulla zattera, inizialmente ritenuti dispersi (la scialuppa non si era accorta della loro presenza), furono salvati dopo sei giorni dalla deriva senza cibo né acqua – si nutrirono di alghe e qualche pesce fortunosamente catturato, tenendo a bada gli squali a colpi di remo – dal mercantile statunitense Explorer, che li sbarcò a Trinidad il 16 marzo.

Il Montevideo fu la prima nave perduta in guerra dall’Uruguay, nazione all’epoca ancora formalmente neutrale (entrò in guerra contro Germania e Giappone solo il 15 febbraio 1945, anche se aveva rotto le relazioni diplomatiche con i Paesi dell’Asse, Italia compresa, già il 25 gennaio 1942).
L’affondamento del Montevideo, attribuito sia dall’equipaggio che dalla stampa uruguaiana ad un U-Boot tedesco, scatenò in Uruguay violenti sentimenti antitedeschi (tanto che fu necessario mandare poliziotti a vigilare le proprietà di cittadini tedeschi, per arrestare gli atti di violenza nei loro confronti) e la reazione delle autorità del Paese sudamericano, che a titolo di rappresaglia confiscò il mercantile tedesco Tacoma, che si trovava internato in un porto uruguaiano.
I 14 marittimi morti sul Montevideo furono le uniche vittime uruguaiane della seconda guerra mondiale.

Un’altra immagine dell’Adamello (da www.histarmar.com


domenica 19 febbraio 2017

Bolzano

La nave a Venezia (da www.navyworld.narod.ru)

Incrociatore pesante, unità singola della classe omonima (11.065 tonnellate di dislocamento standard, 13.243 in carico normale, 13.885 a pieno carico).
Autorizzato con il programma navale del 1929-1930, fu il settimo ed ultimo incrociatore pesante costruito per la Regia Marina: in origine, il programma di costruzioni della Marina prevedeva solo sei incrociatori pesanti, ossia i due della classe Trento ed i quattro della classe Zara. Quando, però, divenne evidente che uno di questi ultimi, il Pola, avrebbe dovuto servire per lungo tempo (quello necessario al rimodernamento delle corazzate Cesare e Cavour) come nave ammiraglia della squadra navale, si decise di costruire un settimo incrociatore pesante, in modo da avere – escludendo il Pola – due divisioni composta ciascuna da tre incrociatori pesanti.

Il Bolzano in allestimento a Genova nella primavera del 1933 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net).

Dal momento che i tre restanti "Zara" avrebbero costituito una di tali divisioni, il Bolzano avrebbe dovuto completare l’altra, composta dai due "Trento": per questa ragione, si decise di costruire un’unità che avesse caratteristiche omogenee ai "Trento" (in modo da poter operare efficacemente insieme ad essi), anche se ciò rappresentava un passo indietro rispetto agli "Zara". Mentre questi ultimi presentavano infatti un ottimo bilanciamento tra corazzatura e velocità, il Bolzano, come i "Trento", fu caratterizzato da elevata velocità ma protezione insufficiente. D’altra parte, vi era ancora, negli ambienti della Marina, chi riteneva che la velocità fosse un fattore più importante di robustezza (ma si volle comunque che il Bolzano fosse un po’ più robusto dei "Trento") e protezione.
Un’altra delle ragioni dietro la decisione di costruire il Bolzano furono le forti pressioni esercitate dalla società Ansaldo, che poi costruì la nave: i cantieri Ansaldo, infatti, erano fino ad allora rimasti “fuori” dal programma di costruzioni degli incrociatori pesanti (i sei precedenti erano stati costruiti dai cantieri Odero Terni Orlando di Livorno e La Spezia, dai Cantieri del Quarnaro di Fiume e Stabilimento Tecnico Triestino di Trieste), ed in caso di costruzione di un’altra nave tipo "Zara" (come si era ipotizzato) avrebbero dovuto condividere parte dei profitti con la rivale OTO.
Il nuovo incrociatore doveva avere cannoni dello stesso tipo usato sugli "Zara" (più moderni rispetto a quelli dei "Trento"), ma in torri con corazzatura più ridotta; una compartimentazione migliore di quella dei "Trento", che rendesse la nave in grado di restare a galla con tre compartimenti adiacenti allagati; scafo, sistema elettrico ed alloggi ammiraglio simili a quelli degli "Zara".

Dettaglio delle sovrastrutture prodiere del Bolzano (da www.history.navy.mil).

Progettato dal generale del Genio Navale Luigi Bonfiglietti, il Bolzano risultò dunque una versione migliorata dei "Trento", che beneficiava dell’esperienza degli "Zara" (tranne che per la corazzatura): a differenza dei "Trento", che avevano un ponte “continuo” da prora a poppa, il Bolzano fu dotato di castello di prua (della lunghezza di circa i due quinti dello scafo), come gli "Zara"; verso poppa il castello presentava degli “sgusci” per permettere ai pezzi secondari da 100/47 mm di sparare anche verso prora.
Inoltre il Bolzano venne dotato dei più moderni cannoni da 203/53 mm, adottati sugli "Zara", in luogo dei meno potenti 203/50 (Mod. 1924) di cui erano provvisti i "Trento". L’unica differenza tra il Mod. Ansaldo 1929, usato sul Bolzano, ed il Mod. 1927 degli "Zara" consisteva nella corazzatura delle torri, che sul Bolzano era minore. Caratteristica comune ai cannoni degli incrociatori pesanti italiani, i 203 del Bolzano, essendo montati in culla unica e dunque troppo "vicini" l’uno all’altro, lamentarono una notevole dispersione del tiro; per cercare di ovviare al problema si ridusse la velocità alla volata, ma con scarsi risultati. Risultarono comunque più precisi dei Mod. 1924 dei "Trento", sebbene a costo di una gittata e velocità iniziale del proiettile più basse. Inoltre, dato che ogni cannone disponeva di un elevatore dedicato ed era caricabile a qualsiasi angolo di elevazione, i Mod. 1929 del Bolzano ebbero cadenza di tiro quasi doppia rispetto ai Mod. 1924 dei "Trento".
Ogni cannone da 203 mm era lungo 11,177 metri e pesava 26,6 tonnellate (più di quelli Mod. 1924 dei "Trento", che ne pesavano 25); poteva sparare proiettili esplosivi del peso di 110,57 kg (con velocità di 940 m/s) ad una distanza massima di 31.550 metri (con alzo 45°) e proiettili perforanti del peso di 125,3 kg (con velocità di 900 m/s) ad una distanza massima di 31.566 metri (sempre con alzo 45°), al ritmo di 3,8 colpi al minuto. Le torri modello 1929 permettevano un alzo da –5° a +45° (ad una velocità di alzo di 5° al secondo) ed una rotazione di 150° su entrambi i lati.
Per la prima ed unica volta su un incrociatore pesante italiano, la catapulta per gli idrovolanti non fu collocata sul ponte di coperta a prua – dov’era troppo esposta al mare –, bensì a centro nave, in mezzo alle sovrastrutture, ed inoltre (altro miglioramento rispetto alle classi precedenti) risultava “brandeggiabile”. Non c’era hangar (lo spazio, a prua, che sugli altri incrociatori era occupato dall’hangar, venne impiegato per gli alloggi dell’equipaggio); uno degli idrovolanti sarebbe rimasto sulla catapulta, gli altri due sul ponte.
Per lasciare tra i due fumaioli lo spazio necessario all’installazione ed utilizzo della catapulta, la sala macchine fu divisa in due unità separate, una a prora ed una a poppa. Sebbene il peso dell’apparato motore fosse simile a quello dei "Trento", il Bolzano, dato che ogni sua caldaia produceva una maggior quantità di vapore rispetto a quelle dei predecessori, ebbe un numero inferiore di caldaie (dieci in luogo di dodici); la disposizione dell’apparato motore, andando da prora verso poppa, presentava nell’ordine: tre sale caldaie prodiere (1°, 2° e 3°, che alimentavano la motrice di prora), con due caldaie in ciascun locale (mentre erano tre per locale sui "Trento"); la sala macchine prodiera (che azionava le due eliche esterne); altre due sale caldaie (4° e 5°, che alimentavano la motrice di poppa); la sala macchine poppiera (che azionava le due eliche interne). Questa soluzione si presentava anche come più sicura in caso di danneggiamento: la messa fuori uso di un compartimento caldaie, infatti, avrebbe privato la nave solo del 20 % della potenza, anziché del 33 % dei "Trento".



 Le torri da 203 mm del Bolzano: sopra, quelle poppiere, e sotto, quelle prodiere (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net).


Per la produzione della corrente elettrica non vi erano diesel dinamo come sulle navi precedenti, bensì soltanto turbodinamo, il che permetteva di risparmiare spazio (ma aumentava i rischi in caso di inconvenienti); i generatori potevano produrre 1080 kilowatt di corrente.
Altre differenze tra Bolzano e "Trento" consisteva nella maggior profondità del doppio fondo nello scafo del Bolzano; nel fatto che il fumaiolo prodiero costituisse una struttura unica con la sovrastruttura prodiera, come sul Pola (mettendo a disposizione maggior spazio per gli alloggi dell’equipaggio); ed in migliori sistemazioni per l’equipaggio.
Come tutti gli incrociatori pesanti italiani, anche il Bolzano sforava abbondantemente le 10.000 tonnellate di dislocamento previste come limite massimo dal trattato di Washington (secondo una fonte, il Bolzano fu l’ultimo incrociatore ad essere costruito “ufficialmente” nei limiti del trattato di Washington), nonostante varie idee per tentare di ridurre il dislocamento (riduzione del numero delle ancore da tre a due e della lunghezza delle loro catene, riduzione delle scorte di proiettili da 203 da 100 ad 80 per pezzo, dimezzamento dei cannoni da 100/47 mm, riduzione del 20 % del loro munizionamento, etc.).
L’armamento secondario consisteva in sedici cannoni a doppio scopo OTO 1928 da 100/47 mm in complessi binati (in seguito ridotti a dodici), quello contraereo in quattro mitragliere singole Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm e quattro binate da 13,2/76 mm.
Nel 1937 l’armamento secondario e contraereo fu modificato; vennero eliminati i due complessi poppieri da 100/47 mm e le mitragliere Vickers-Terni da 40/39 (per altra fonte, due delle quattro Vickers-Terno da 40/39 erano già state eliminate nel 1934, mentre le altre due furono sbarcate nel 1937), mentre furono imbarcate otto mitragliere pesanti Breda 1932 da 37/54 mm e due mitragliere binate da 20/65 mm (cui nel 1942 se ne aggiunsero altre quattro dello stesso calibro Mod. Breda 1940, singole, in sostituzione delle inefficaci mitragliere da 13,2 mm).
I cannoni da 100/47 tiravano proiettili da 26 kg ad una distanza massima di 15.240 metri (con alzo 45°) per tiro antinave, e di 10.000 metri (con alzo 85°) per tiro contraereo, al ritmo di 8-10 colpi al minuto. L’alzo di tali cannoni andava da –5° a +85°, e potevano ruotare di 360°.
Vi era anche un armamento silurante, consistente in otto tubi lanciasiluri da 533 mm in impianti binati fissi (due a proravia del fumaiolo poppiero e due a poppavia di quest’ultimo), con riserva di dodici siluri tipo Si 270 (peso 1700 kg, con carica esplosiva di 270 kg; autonomia di 4000 metri a 46 nodi, 8000 metri a 35 nodi e 1200 metri a 29 nodi).
La dotazione aerea consisteva in tre idrovolanti da ricognizione: inizialmente dei Piaggio P. 6, poi sostituiti da Macchi M. 41 (altra fonte parla anche di CANT 25ARS e CMASA M.F.6) ed infine, dal 1938, da degli IMAM Ro. 43, che furono gli aerei di bordo durante la seconda guerra mondiale (quelli imbarcati al 10 giugno 1940 recavano i numeri di serie 321, 322 e 323). Secondo alcune fonti, tuttavia, il numero di aerei effettivamente imbarcati sul Bolzano non fu mai superiore ai due.
Nel 1939, la sovrastruttura della plancia sarebbe stata modificata per permettere un miglior posizionamento della centrale di direzione del tiro contraereo.

L’idrovolante IMAM Ro. 43 del Bolzano (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net)
L’apparato motore, quattro gruppi di turbine Parsons alimentati da dieci caldaie Yarrow-Ansaldo, imprimeva su quattro eliche la potenza di 150.000 HP, permettendo una velocità massima di 33 nodi, il che fece del Bolzano il più veloce incrociatore pesante della Regia Marina.
Alle prove in mare il Bolzano raggiunse una velocità massima di 36,81 nodi, con potenza sviluppata di 173.772 HP; ma tali prove erano eseguite in condizioni del tutto inverosimili, forzando l’apparato motore del 15 % e soprattutto con parte dell’armamento, la catapulta e parte degli apparati di direzione del tiro ancora non installati, per raggiungere velocità inverosimilmente elevate a fini propagandistici. Nel caso del Bolzano, le prove in mare furono effettuate con un dislocamento di sole 10.847 tonnellate, inferiore a quello che la nave ebbe poi in normali condizioni operative (secondo altra fonte, alle prove in mare fu raggiunta una velocità di 38 nodi, che però fu ridotta a 34 con la nave in condizioni operative). La riserva di carburante era di 2224 tonnellate, l’autonomia di 4432 miglia a 16 nodi.
Eccessivo, però, era stato il sacrificio della corazzatura: solo 70-75 mm al galleggiamento e 20-50 mm sul ponte principale, per appena due nodi in più rispetto ai ben più protetti "Zara". Per questa ragione, il Bolzano, tanto elegante nelle linee quanto vulnerabile nei fatti, si guadagnò l’appellativo di “errore splendidamente riuscito”.
Il peso complessivo della corazzatura era analogo a quella dei "Trento", ma con varie differenze nella sua disposizione; la cintura corazzata, spezza 70 mm, si estendeva tra hangar e depositi posteriori e tra ponte corazzato e inizio doppi fondi ed era alta circa 4,8 metri, di cui 1,1 sott’acqua. Oltre ai dati già citati, la corazzatura delle torri era spessa tra 80 mm sui lati e sul cielo e 100 mm sul lato frontale, quella delle barbette di 60 mm (meno dei 70 mm dei "Trento", per compensare il maggiore diametro delle barbette delle torri modello M1929 rispetto alle M1924 dei "Trento"), quella del torrione 100 mm sui lati, 40 mm sul ponte principale e 50 mm sul cielo, quella delle paratie 50-60 mm, quella della centrale di direzione del tiro 80 mm sui lati e 60 sul cielo, quella del tubo per le comunicazioni 70 mm sopra coperta e 60 sotto. Il timone era protetto da una corazzetta di 20 mm nella parte orizzontale e di 30 mm nella parte inclinata: insufficiente, come fu dimostrato nella battaglia di Punta Stilo.
Il “ridotto” corazzato centrale consisteva quindi in una cintura principale di 70 mm che si estendeva dal lato prodiero della barbetta della torre numero 1 al lato poppiero della barbetta della torre numero 4 (l’eliminazione dei diesel generatori situati a proravia della torre 1 aveva permesso di ridurne la lunghezza, spostando a poppavia la paratia), chiusa alle estremità da paratie corazzate di 50 mm a prora e 40 mm a poppa nella parte inferiore, e 60 mm nella parte superiore. All’estremità superiore, la cintura corazzata era “collegata” al ponte corazzato principale.
Tra le maggiori differenze rispetto ai "Trento" c’era l’inserimento, al di fuori del “ridotto” corazzato, di un ponte corazzato secondario (copertino) di 20 mm (con estremità inclinate spesse 30 mm) che si estendeva dalla paratia trasversale di poppa all’apparato motore della torre numero 1 da 203. Grazie all’eliminazione del locale diesel dinamo, la paratia corazzata trasversale prodiera poté essere spostata più a poppavia, in una posizione subito a proravia della barbetta della torre numero 1.
Il peso complessivo della corazzatura, sul Bolzano, era di 940 tonnellate, l’8,5 % del dislocamento standard della nave, leggermente di più che sui "Trento".

Vista della zona poppiera del Bolzano, a Genova, nel 1933 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net

Nel 1938, al tempo della crisi dei Sudeti, la Regia Marina prese in considerazione la possibilità di dotarsi una portaerei (idea scartata anni prima); tra le possibilità vagliate vi fu anche quella di trasformare il Bolzano in “incrociatore lanciaerei”. L’idea, basata su un progetto di incrociatore portaerei messo a punto nel 1925 dal generale del Genio Navale Giuseppe Rota, prevedeva la rimozione delle sovrastrutture e di due delle quattro torri da 203, lasciando soltanto la prima a prora e l’ultima a poppa, e l’installazione di quattro catapulte (tre brandeggiabili ed una incassata nel ponte); sul lato di dritta sarebbe stata realizzata un’isola di ridotte dimensioni, con uno o due fumaioli. La dotazione di aerei sarebbe stata di una dozzina di velivoli da caccia. Il progetto rimase sulla carta; una simile trasformazione, come si vedrà, fu nuovamente presa in considerazione durante la guerra, ma senza mai vedere la luce.

Il centro nave con i due idroricognitori (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net).

Particolarmente curati erano anche gli allestimenti interni del Bolzano: l’arredamento dei locali ufficiali era stato affidato all’architetto ed arredatore Tommaso Buzzi, che realizzò pareti e mobili in radica (la parete di una sala era fatta di radica intagliata che riproduceva in grande la carta geografica dell'Alto Adige), soprammobili raffinati e mobili avveniristici per l’epoca; alle pareti erano appesi quadri raffiguranti paesaggi dell’Alto Adige. La vetreria Vernini di Venezia realizzò le lampade a muro ed una grande coppa costata 240 lire dell’epoca; gli intarsi del legno vennero fatti a Milano, i rivestimenti degli zoccoli dei mobili nei bagni furono realizzati in ottone cromato ed i pavimenti in linoleum, con poltroncine e sedie in pelle arancio e rosso.

Il Bolzano nel Golfo di Genova nel 1933 (da www.history.navy.mil

Durante la seconda guerra mondiale il Bolzano effettuò 23 missioni di guerra (14 di ricerca del nemico, 8 di scorta e protezione del traffico, una di protezione ad unità impegnate nella posa di mine), percorrendo complessivamente 21.785 miglia nautiche e trascorrendo 1139 ore in mare; nave decisamente poco fortunata, passò ben 678 giorni ai lavori, cioè 22 mesi, su un totale di 39 mesi di conflitto tra l’Italia e gli Alleati, a causa dei gravi danni subiti in due siluramenti ed un bombardamento.

Un’altra immagine della nave nel 1933 (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net

Breve e parziale cronologia.

11 giugno 1930
Impostazione nei cantieri Ansaldo di Genova (numero di costruzione 295).
31 agosto 1932
Varo nei cantieri Ansaldo di Genova.
È madrina della nave Maria Adelaide di Savoia.


Il Bolzano sullo scalo, nel 1932.

Due immagini del varo del Bolzano (sopra: Coll. Maurizio Brescia, via www.associazione-venus.it; sotto: Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net



Il Bolzano durante l’allestimento.

19 agosto 1933
Entrata in servizio.
Il Bolzano e gli incrociatori pesanti Trento e Trieste formano la II Divisione della 1a Squadra Navale (al comando, dal 2 dicembre 1933, dell’ammiraglio di divisione Vincenzo De Feo).
In questo peridoo presta servizio sul Bolzano, quale ufficiale di rotta, il tenente di vascello Salvatore Pelosi, futura M.O.V.M.



Due immagini del Bolzano nel 1933 (sopra: g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net; sotto: g.c. STORIA militare)


29 giugno 1934
Il Bolzano, insieme al Trento, riceve la bandiera di combattimento (offerta dalle scuole della provincia di Bolzano), con una cerimonia tenuta a Venezia.
Luglio 1934
La II Divisione diventa III Divisione della 2a Squadra, con base a Messina: questa rimarrà la sua denominazione fino alla sua dissoluzione nel 1943.
Il porto siciliano diventerà la base storica della III Divisione: tra gli equipaggi acquisterà un particolare significato la statua della Madonnina presente all’imboccatura del porto, le cui tre dita benedicenti saranno associate alla III Divisione.
In questo periodo è comandante del Bolzano il capitano di vascello Giuseppe Lombardi.


Il Bolzano ai lavori a Livorno nel 1934 (g.c. STORIA militare)

1935-1940
La III Divisione partecipa all’addestramento di squadra e compie crociere di breve durata nel Mediterraneo orientale, in Grecia ed in Libia.
La Divisione prende inoltre parte alle operazioni connesse alla guerra civile spagnola, fornendo copertura ai convogli che trasportano in Spagna le truppe volontarie inviate a supporto dei falangisti di Francisco Franco, ed agendo come forza dissuasiva per impedire l’intervento della Marina spagnola repubblicana.
27 novembre 1936
Partecipa ad una rivista navale nel Golfo di Napoli, tenute in onore di Miklos Horthy, reggente d’Ungheria.


Il Bolzano (a destra) a Napoli insieme a Trento (al centro) e Trieste (a sinistra) nel 1937-1938.

10-12 marzo 1937
Scorta Benito Mussolini che si reca in crociera in Libia.
25 maggio 1937
Durante la guerra di Spagna, il Bolzano viene inviato a Maiorca per imbarcare e rimpatriare le salme di sei marinai dell’incrociatore ausiliario Barletta, uccisi da un bombardamento dell’aviazione repubblicana spagnola. Ritorna in Italia il 3 giugno.
7 giugno 1937
Partecipa ad una rivista navale organizzata in onore della visita in Italia del Ministro della Guerra tedesco Werner Von Blomberg.


Il Bolzano nell’estate del 1937 (per altra fonte, la foto risalirebbe invece alla rivista "H" tenuta l’anno successivo) (g.c. STORIA militare)

5 maggio 1938
Partecipa alla rivista navale "H" organizzata in occasione della visita in Italia di Adolf Hitler: nella rivista, il Bolzano fa parte della 1a Squadra Navale dell’ammiraglio Vladimiro Pini, formata, oltre che dal Bolzano, dal Trento, dal Trieste, dalle Divisioni di incrociatori leggeri degli ammiragli Minghetti (Muzio Attendolo, Eugenio di Savoia, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta), Barone (Alberto Di Giussano, Giovanni delle Bande Nere, Bartolomeo Colleoni) e Romagna (Alberico Da Barbiano, Luigi Cadorna ed Armando Diaz), da due squadriglie di esploratori classe Navigatori (Antonio Da Noli, Antoniotto Usodimare, Luca Tarigo, Ugolino Vivaldi, Nicolò Zeno, Giovanni Da Verrazzano, Alvise Da Mosto ed Antonio Pigafetta) e da una squadriglia di cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco).


L’incrociatore a Genova nel maggio 1938 (Coll. Guido Alfano, via Francesco Bucca e www.associazione-venus.it

Ottobre 1938
Il Bolzano scorta un convoglio di quattro piroscafi che riportano in Italia 10.000 volontari italiani che hanno combattuto in Spagna durante la guerra civile, che ormai volge al termine.
18 dicembre 1938
Il Bolzano trasporta in Sardegna Benito Mussolini, che si reca a presenziare all’inaugurazione della nuova città di Carbonia, eretta per volere del regime nella regione mineraria del Sulcis.


Il Bolzano a La Spezia nel maggio 1938.

Gennaio 1939
Il Bolzano viene visitato da Mussolini mentre si trova a La Maddalena.
1939
La III Divisione viene momentaneamente ampliata con l’assegnazione degli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Bartolomeo Colleoni ed Armando Diaz (nonché delle Squadriglie Cacciatorpediniere XI e XII, composte rispettivamente da Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera e da Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere), che vanno poi a formare la IV Divisione.


Il Bolzano in transito presso il ponte girevole di Taranto nel 1939 (da www.youtube.com

11 maggio 1939
Partecipa ad una rivista navale in onore del principe reggente Paolo di Jugoslavia.
10 giugno 1939
Partecipa ad una rivista navale tenuta a Livorno in occasione della festa della Marina, appena istituita.


La nave a fine anni ’30 (g.c. Carlo Di Nitto, via www.naviearmatori.net

10 giugno 1940
L’Italia entra nella seconda guerra mondiale.
Il Bolzano fa parte della III Divisione Navale, insieme al Trento (nave ammiraglia dell’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, comandante la III Divisione) ed al Trieste (che però si trova ai lavori), con base a Messina.
Lo stesso 10 giugno, alle 19.10, il Bolzano ed il Trento, insieme all’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia della 2a Squadra Navale) ed alla XI Squadriglia Cacciatorpediniere (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera), salpano da Messina per fornire copertura alla X Squadriglia Cacciatorpediniere (MaestraleGrecaleLibeccioScirocco), inviata ad effettuare una ricognizione notturna tra Marettimo e Capo Bon.
11 giugno 1940
La mattina dell’11 giugno, la III Divisione si unisce alla VII Divisione (incrociatori leggeri Eugenio di Savoia, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli), partita da Napoli il giorno precedente. Le navi procedono poi fino a nord di Favignana, a protezione della X Squadriglia (e, sempre secondo il relativo volume dell'USMM, anche del gruppo «Da Barbiano» che rientrava alla base dopo aver posato il campo minato «L. K.»: ma in realtà tale gruppo era tornato ad Augusta già nel pomeriggio del 10 giugno, per poi trasferirsi a Taranto nella notte dell'11).
Tutte le navi rientrano alle basi entro la sera dell’11 giugno.


Il Bolzano in una foto d’anteguerra (g.c. STORIA militare

12 giugno 1940
Alle due di notte Bolzano, Trento e Pola, insieme alla XI Squadriglia Cacciatorpediniere ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Lanciere, Corazziere, Ascari, Carabiniere), lasciano nuovamente Messina per intercettare due incrociatori britannici (il Caledon ed il Calypso) avvistati da dei ricognitori a sud di Creta, diretti verso ovest (gran parte della Mediterranean Fleet, al pari di una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a caccia, infruttuosa, di naviglio italiano: due corazzate ed una portaerei britannica compiono una ricognizione offensiva fra Creta, Capo Matapan e Bengasi, mentre forze navali francesi di base ad Alessandria effettuano un rastrellamento in Mar Egeo). (Per altra fonte le navi sarebbero uscite in mare per dare la caccia ad un convoglio britannico, segnalato da un ricognitore al largo di Creta ed avente rotta ovest; segnalazione che si rivela poi errata).
Al contempo salpano da Taranto, per fornire loro appoggio, la I (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia) e VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) e la IX (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) e XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno, Antoniotto Usodimare).
Alle 9, dato che nuovi voli di ricognizione non sono più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le unità italiane ricevono ordine di tornare in porto.
A mezzogiorno il sommergibile britannico Orpheus (capitano di corvetta James Anthony Surtees Wise), in agguato 70 miglia a nordest di Malta, avvista il Pola, la III Divisione e le Squadriglie Cacciatorpediniere XI e XII (meno il Geniere, che è dovuto rientrare in porto da qualche ora), in navigazione con rotta nord/nordovest. Forse perché troppo lontano, il sommergibile non attacca.
22-24 giugno 1940
La III Divisione (Trento e Bolzano), insieme alle Divisioni incrociatori I (Zara, Fiume, Gorizia) e II (Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni), al Pola (nave ammiraglia del comandante superiore in mare) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, X e XII (cioè tutta la II Squadra Navale, più la I Divisione), prende il mare per fornire copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo occidentale.
Le forze della II Squadra, partite da Messina (Pola e III Divisione), Augusta (I Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21 ed il 22) e Palermo (II Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto dello stesso giorno a nord di Palermo.
L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.


Il Bolzano con il Gran Pavese (da www.history.navy.mil

7 luglio 1940
La III Divisione (ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo), formata da Trento (nave ammiraglia) e Bolzano (capitano di vascello Gaetano Catalano Gonzaga di Cirella), salpa da Messina alle 15.45 insieme alla XI Squadriglia Cacciatorpediniere (Aviere, Artigliere – nave di bandiera del caposquadriglia, capitano di vascello Carlo Margottini –, Geniere e Camicia Nera) per poi congiungersi al resto della 2a Squadra Navale (incrociatore pesante Pola – nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Riccardo Paladini, comandante la 2a Squadra –, I e VII Divisione incrociatori con nove unità in tutto e IX, XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere) per scortare a distanza un convoglio salpato da Napoli alle 19.45 del 6 e diretto a Bengasi (motonavi da carico Marco FoscariniFrancesco Barbaro – salpata da Catania alle 12 del 7 – e Vettor Pisani, motonavi passeggeri Esperia e Calitea, con la scorta diretta dei due incrociatori leggeri della II Divisione, dei quattro cacciatorpediniere della X Squadriglia, delle quattro torpediniere della IV Squadriglia e delle vecchie torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Missori) con un carico di 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari e 5720 tonnellate di carburante, oltre a 2190 uomini. 
La 1a Squadra Navale (V Divisione con le corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, IV e VIII Divisione con sei incrociatori leggeri, VII, VIII, XV e XVI Squadriglia Cacciatorpediniere con 13 unità) esce anch’essa in mare a sostegno dell’operazione. Comandante superiore in mare è l’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, con bandiera sulla Cesare.
Le unità della 1a e della 2a Squadra salpano tra le 12.30 e le 18 del 7 luglio da Augusta (Pola, I e II Divisione), Messina (III Divisione), Palermo (VII Divisione) e Taranto (IV, V e VIII Divisione).
La II Squadra si pone 35 miglia ad est del convoglio, tranne la VII Divisione con la XIII Squadriglia, che viene invece posizionata 45 miglia ad ovest.
Durante la notte, la III Divisione naviga di conserva con la I Divisione con rotta verso la Cirenaica.
8 luglio 1940
L’operazione va a buon fine (il convoglio raggiunge Bengasi tra le 18 e le 22 dell’8), ed alle 14.30 le navi delle due squadra navali inizian la navigazione di rientro.
Ma alle 15.20, a seguito dell’avvistamento di una formazione britannica – anche la Mediterranean Fleet, infatti, è in mare a protezione di convogli – la 1a e la 2a Squadra Navale dirigono per intercettare le navi nemiche (che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in combattimento almeno un’ora prima del tramonto.
Alle 19.20, però, in seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a differenza dell’ammiraglio Campioni ha avuto modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità dei movimenti britannici) la flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle basi, con l’ordine di non impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. Le bombe cadono vicine agli incrociatori, ma non causano danni.


Il Bolzano fotografato poco prima della battaglia di Punta Stilo (g.c. STORIA militare)

9 luglio 1940
Per ordine dell’ammiraglio Paladini, la III Divisione prosegue verso nord dalle 00.45 del 9 sulla dritta di Pola e I Divisione (ammiraglio di divisione Pellegrino Matteucci, sullo Zara), sia per evitare d’incrociarsi con la VII Divisione che è in arrivo da sinistra (perché è in rotta verso lo stretto di Messina), sia per non passare in una zona nella quale Supermarina, alle 22.10, ha indicato trovarsi due sommergibili nemici.
La navigazione notturna di rientro si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione; la 2a Squadra (eccetto la VII Divisione, che è ancora separata da essa) accosta verso nord all’1.23.
Già dalle 22 dell’8, però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio.
Verso le quattro del mattino del 9 luglio la III Divisione passa ad est del gruppo «Cesare»; l’ammiraglio Campioni, che Paladini – assumendo che questi avesse intercettato l’ordine, inviato a mezzo radiosegnalatore – non ha informato dell’ordine alla III Divisione di proseguire verso nord (il che differisce da quanto ordinato in precedenza da Campioni), quando alle 4.30 la XV Squadriglia Cacciatorpediniere segnala grosse ombre su tale lato (che è quello da cui si prevede che possa provenire il nemico), ritiene che si tratti di unità nemiche. Vengono così inviate ad attaccarle, in rapida successione, la XV e la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere. In realtà si tratta appunto del Bolzano e del Trento, che si trovano dove – secondo le originarie disposizioni di Campioni – non dovrebbero essere: per fortuna, i due siluri lanciati dalla XV Squadriglia mancano il bersaglio, mentre l’VIII Squadriglia riconosce la sagoma delle navi “nemiche” per quella di due incrociatori tipo “Trento”, permettendo di interrompere l’attacco e chiarire l’equivoco.
Alle 6.40 la III Divisione si ricongiunge con Pola e I Divisione, ed alle 8 viene avvistato un idroricognitore Short Sunderland che pedina la flotta italiana, tenendosi al di fuori della portata delle artiglierie contraeree (la caccia italiana, chiamata ad intervenire, non verrà però inviata ad attaccarlo).
Verso le 13, dopo una mattinata di infruttuosi voli di ricognizione, un velivolo italiano avvista la Mediterranean Fleet 80 miglia a nordest della V Divisione, ossia molto più a nord di quanto previsto, ed in posizione adatta ad interporsi tra la flotta italiana e la base di Taranto: l’ammiraglio Campioni inverte allora la rotta, ed ordina a Paladini, che si trova più a sud e sta dirigendo per ovest-sud-ovest, di fare altrettanto, accostando ad un tempo per riunire più rapidamente le due Squadre.


Eccesso di fumo dalle caldaie poppiere del Bolzano durante la battaglia di Punta Stilo (g.c. STORIA militare)

Verso le 13 la 1a e 2a Squadra, ormai riunite, si dispongono su quattro colonne, distanziate di cinque miglia l’una dall’altra: la III Divisione, insieme alla I, al Pola ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere XI e XII, va a formare la seconda colonna da ovest (la prima è costituita dalla VII Divisione, la terza dalla V Divisione – rispetto alla quale la colonna con la III Divisione si trova tre miglia ad ovest, cioè sulla dritta – e la quarta dalle Divisioni IV e VIII). A causa della manovra d’inversione di rotta, il Bolzano si viene a trovare in testa al gruppo degli incrociatori pesanti, mentre il Pola, nave ammiraglia di Paladini, finisce in coda.
Tra le 13.15 e le 13.26, 45 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento, il gruppo «Pola» (di cui la III Divisione fa parte), mentre si trova a poppa dritta della Cesare e con rotta 183° – è in corso la manovra per assumere la propria posizione nella formazione ordinata da Campioni –, viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey Swordfish.
Gli aerei britannici, decollati dalla Eagle alle 11.45 con l’obiettivo di attaccare le corazzate italiane, che però non hanno trovato, provegono da ovest (cioè da sinistra); si avvicinano con decisione da poppavia agli incrociatori (approfittando del fatto che i cacciatorpediniere sono invece a proravia degli stessi), scendono in picchiata fino a 20-30 metri e sganciano i loro siluri da circa mille metri di distanza. Gli incrociatori si diradano, compiono rapide manovre evasive ed aprono subito un violento fuoco contraereo, evitando tutti i siluri (due diretti contro il Bolzano, altrettanti contro il Trento ed uno contro lo Zara). Gli aerei si allontanano, tre di essi danneggiati dal tiro delle navi italiane.
Alle 14.05 ha inizio l’avvicinamento alla flotta britannica: alle 15.15 gli incrociatori aprirono il fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate, che al contempo, insieme al gruppo «Pola», accostano a un tempo di 60° a dritta e così si spostano ad est/nordest insieme agli incrociatori pesanti per supportare gli incrociatori leggeri, i primi ad essere impegnati in combattimento. Entro le 15.40 i sei incrociatori pesanti della 2a Squadra si sono portati 6860 metri a proravia della corazzata Cesare, nave ammiraglia di Campioni.
Incrociatori e corazzate cessano poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per poi riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15 (incrociatori). Alle 15.53 l’ammiraglio Campioni ordina al gruppo «Pola» di serrare le distanze e dispiegarsi sulla linea di rilevamento 040°, per avvicinare gli incrociatori alle corazzate nemiche abbastanza da poter usare i cannoni da 203: l’idea è di cercare di “bilanciare” la disparità di calibro tra i cannoni delle corazzate italiane (320 mm) e quelle britanniche (381 mm) facendo sparare anche gli incrociatori pesanti sulle corazzate nemiche. Tuttavia queste ultime rimangono sempre al limite della gittata dei cannoni degli incrociatori pesanti italiani, dei quali solo il Trento spara tre salve contro di esse.
Nella seconda fase, la 2a Squadra manovra per avvicinarsi alle unità avversarie, e tra le 15.50 e le 16 i suoi incrociatori pesanti, su ordine dell’ammiraglio Paladini, aprono il fuoco da 20.000-25.000 metri contro gli incrociatori leggeri britannici del viceammiraglio John Tovey (OrionNeptuneSydneyLiverpool e Gloucester), che rispondono al fuoco con granata perforante e tiro raccolto ma poco efficace. Il Bolzano apre il fuoco alle 16, insieme allo Zara ed al Pola (che aprono entrambi il fuoco qualche secondo dopo il Bolzano), preceduto di alcuni minuti da Trento e Fiume e seguito di un minuto dal Gorizia.
Alle 15.59, però, la Cesare, la nave ammiraglia, viene danneggiata da un proiettile da 381 mm, dovendo ridurre la velocità. A seguito di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in mare delle forze italiane, decide di rompere il contatto per rientrare alle basi, ed alle 16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie di cacciatorpediniere di attaccare con il siluro le navi della Mediterranean Fleet, in modo da facilitare lo sganciamento delle navi maggiori.
Alle 16.03 (o 16.06) anche la 2a Squadra di Paladini, che sta riducendo le distanze con gli incrociatori di Tovey (che da parte loro stanno pericolosamente consumando le proprie già esigue riserve di munizioni) riceve da Campioni l’ordine di ritirarsi, ma Paladini fa proseguire il tiro alle sue navi finché i bersagli sono visibili.



Il Bolzano, in primo piano, ed il Pola a Punta Stilo (sopra: g.c. STORIA militare; sotto: g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net


In questa fase, alle 16.05, anche il Bolzano viene colpito, da tre granate perforanti da 152 mm del Neptune (secondo quanto attestato dalle fonti ufficiali; lo storico Francesco Mattesini, analizzando i rapporti britannici, ha però recentemente affermato che sarebbe stato l’Orion, e non il Neptune, a sparare i tre colpi che centrarono il Bolzano), sparate da 21.000 metri di distanza.
Il primo colpo raggiunge il Bolzano a poppa dritta (tra le ordinate 67 e 68, con inclinazione verso prua), subito sotto la linea di galleggiamento; perfora in successione il ponte di batteria, il ponte di corridoio e la parte inclinata della corazza di 30 mm che protegge il locale timone a mano, per poi esplodere nell’adiacente cala del capo carpentiere, sulla dritta. Le schegge del proiettile perforano in più punti il fasciame esterno, la paratia longitudinale che divide la cala del capo carpentiere dal locale timone a mano, la parte inclinata del cielo del deposito di nafta n. 19 e la paratia 64 AD, che divide la cala carpentiere dall’intercapedine 62-64, provocando una falla ed il conseguente allagamento del locale timone a mano, della cala carpentiere e dell’intercapedine 62-64, nonché di altri locali (intercapedine 78-81 AD, cale laterali); si verificano anche limitate infiltrazioni d’acqua nel locale dell’asse dell’elica centrale di sinistra (fino al cuscinetto portante più basso; ciò causerà l’inquinamento del circuito di lubrificazione della motrice) e nelle cale inferiori laterali del deposito munizioni della torre 4, ma qui il livello dell’acqua non supera il mezzo metro. Inoltre, l’esplosione trancia diversi cavi elettrici, così causando anche l’arresto dell’elettropompa n. 2 del timone e dell’elettropompa G.M.4 (poi riattivata con una linea di fortuna), per mancanza di corrente elettrica: dei due motori di azionamento del timone, uno è danneggiato e l’altro funziona a potenza ridotta.
Al contempo, un altro colpo del Neptune cade in mare a poppa dritta, vicinissimo al timone, il quale al momento dell’impatto stava venendo  brandeggiato per essere portato a 15°-20° sulla sinistra: l’onda di pressione causata dal proiettilie accelera bruscamente il movimento del timone già in corso, provocando degli scompensi nei meccanismi idraulici dell’agghiaccio, così che il timone rimane incastrato (cioè bloccato) a sinistra.
Di conseguenza, il Bolzano prende ad accostare a sinistra, e per circa sei minuti si ritrova ad effettuare una volta tonda a sinistra (cioè un’accostata di 360°), continuando nel mentre a rispondere al fuoco con tutte le torri.
Dato che si sono verificati contemporaneamente due danni che impediscono di governare, per alcuni minuti il Servizio di Sicurezza non riesce a determinare la natura del problema: si cerca di smuovere il timone, usando l’elettropompa n. 1 (ancora funzionante), ma senza successo; essendosi allagato il locale timone a mano, non è possibile è possibile tentare la manovra manuale. Un’ispezione dell’agghiaccio del timone rivela che questo si trova completamente alla banda sulla sinistra, e l’elettropompa n. 1 sforza senza riuscire a smuoverlo a causa degli scompensi presenti nei meccanismi dell’agghiaccio. A questo punto, individuato il problema, il direttore di macchina, maggiore del Genio Navale Giuseppe Nicolò Accame, fa eseguire dall’alloggio guardiamarina la manovra di messa in comunicazione dei torchi dell’agghiaccio, aprendo la valvola bypass (vengono, cioè, momentaneamente disinnestati i meccanismi del timone). Ciò, grazie all’effetto stabilizzante della velocità della nave, fa sì che il timone si porti nuovamente alla via; dopo di che, si richiude il bypass, ed il timone ritorna sotto il controllo della pompa.
Ci sono voluti sei minuti per ripristinare la governabilità della nave; in questo lasso di tempo, il Neptune ha colpito il Bolzano altre due volte, ed altri sui colpi sono caduti vicini allo scafo, causando altri danni.
Il secondo colpo a segno sul Bolzano colpisce a cira un metro dall’estremità della volata del cannone di dritta della torre numero 2 da 203 mm, danneggiandolo gravemente e mettendone a nudo il tubo anima; le schegge intaccano profondamente anche l’altro cannone, mettendo fuori uso un congegno di mira e mandando in avaria il telemetro da 7,20 della torre. Ciononostante, la torre continua a sparare con entrambi i cannoni (ma quando, durante le riparazioni, si farà una prova di tiro col cannone danneggiato, questo si spezzerà al primo colpo; anche l’altro cannone, per i danni causati dalle schegge, verrà sostituito). Due grosse schegge entrano nel locale rds. di dritta, mentre altre perforano il lato dritto della plancia comando (specie le stazioni di vedetta ivi situate) e le tughe sottostanti.
Un puntatore, il marinaio cannoniere Alfonso Marino, viene ucciso da una scheggia, penetrata in una feritoia della torre numero 2.


I danni alle volate dei cannoni da 203 della torre numero 2 (g.c. STORIA militare)

Il terzo colpo va a segno sulla sinistra, tra le ordinate 31 e 32 AD (secondo un’altra relazione, invece, sull’ordinata 30), perforando la lamiera del trincarino, entrando nella camera di lancio poppiera, rimbalzando sul ponte di batteria (corazzato di 50 mm) ed esplodendo nel medesimo locale, sulla sinistra, dietro gli stipetti per gli effetti dell’equipaggio, distruggendo stipetti, condotte di ventilazione ed altre parti leggere dell’allestimento, deformando il fasciame nel punto dell’attacco del ponte di coperta e del ponte di batteria al fasciame di murata, rompendo la guida per l’imbarco dei siluri, rompendo e deformando le ordinate 29, 30 e 31 AD, rompendo il baglio dell’ordinata 30, tranciando diversi cavi della luce elettrica, deformando la mastra del portellone di carico dei siluri, mettendo fuori uso il compressore siluri della stazione di lancio AD e rompendo diverse lamiere dell’osteriggio della sala macchine. Alcune schegge cadono nel locale macchine AD attraverso le griglie di protezione, ma non provocano danni.
L’esplosione del proiettile in camera di lancio uccide il marinaio fuochista Cosimo Balestra, ferendo altri 15 uomini (uno dei quali, il marinaio fuochista Damiano Altomare, in modo fatale), mettendo fuori uso il complesso lanciasiluri poppiero e provocando il lancio accidentale di sei degli otto siluri presenti. Anche i tubi lanciasiluri di sinistra subiscono diverse ammaccature, causate dalle schegge. L’esplosione di questo colpo riempie alcuni locali (tutto il ponte di batteria fino alla camera di lancio prodiera) di gas densi e scuri, costringendo il personale ad indossare le maschere antigas (tra l’altro, si nota la mancanza di estintori portatili).



 I fori d’entrata dei proiettili da 152 mm che colpirono il Bolzano a Punta Stilo (g.c. STORIA militare)


Il Bolzano imbarca 316 tonnellate d’acqua nei compartimenti poppieri (per via della falla aperta dal primo colpo a segno), di cui un centinaio nel deposito nafta n. 19 (che non contiene nafta), ma continua a fare fuoco ed evoluire ad alta velocità.
Altre salve cadono nelle immediate vicinanze del Bolzano durante la volta tonda; le loro schegge, insieme ad un successivo mitragliamento aereo, provocano anche la deformazione delle cucchiaie dei tubi lanciasiluri di poppa dritta, due fori in un’elica, la distruzione del proiettore prodiero, il danneggiamento di un altro ed innumerevoli fori sulle sovrastrutture.
A seguito dei colpi a bordo, si verificano anche dei problemi nella trasmissione delle comunicazioni in sala macchine, il che costringe a passare ordini a voce tra la centrale di controllo motore e gli altri locali. Nonostante tutto, la nave continua a fare fuoco con tutti i cannoni ed ad evoluire a quasi 35 nodi.
Il marinaio fuochista Damiano Altomare, ferito mortalmente e portato sul tavolo operatorio, prende una matita e inizia a scrivere un ultimo messaggio per i genitori: “Mamma, sono quasi contento di morire così. Baci da…”, ma muore prima di poter completare la frase, lasciando sul foglio una riga.
Via via che il fumo s’infittisce e nasconde le navi di Tovey, gli incrociatori pesanti della II Squadra cessano il fuoco: il Bolzano è l’ultimo a farlo, alle 16.20.
Intanto, dalle 16.03 e cioè da quando la danneggiata Cesare ha comunicato «la mia rotta è 270° – la mia velocità 20 nodi», Paladini ha ordinato ai suoi incrociatori di accostare di 140° sulla sinistra, mentre viene stesa una cortina nebbiogena. Gli incrociatori di Tovey, la cui azione è ostacolata negli ultimi minuti dai cacciatorpediniere mandati all’attacco silurante, cessano il fuoco alle 16.15, quando le distanze con quelli italiani sono scese a 18.000-21.000 metri. Si registra anche il breve intervento della Warspite, che alle 16.09 tira sei salve contro le navi di Paladini.
Tra le 16.10 e le 16.15 si svolge un nuovo attacco da parte di altri nove aerosiluranti Swordfish, anch’essi decollati dalla Eagle (alle 15.45): anche in questo caso, loro compito è attaccare le corazzate della V Divisione. Quando, verso le 15.55, giungono sul cielo delle due flotte in battaglia, gli Swordfish (guidati dal capitano di corvetta A. J. Debenham) si dirigono verso due grosse navi che procedono in testa agli incrociatori, pensando che siano le corazzate che cercano: calata la distanza, si accorgono che la prima è in realtà il Bolzano (le due grandi navi sono quelle della III Divisione, nella quale il Bolzano è, al momento dell’attacco, la nave di testa), che in questo momento procede in testa all’intera flotta italiana; ma decidono di attaccare lo stesso. Sotto l’intenso tiro contraereo italiano, gli Swordfish attaccano divisi in tre pattuglie, in rapida successione, lanciando sul lato di dritta del Bolzano; nessun siluro, comunque, va a segno. Gli aviatori britannici ritengono di aver messo a segno almeno un siluro, mentre da parte italiana sii stima di aver abbattuto almeno due aerei e probabilmente tre; in realtà, nessuno dei due contendenti ha subito danni.
Durante un mitragliamento aereo a bassa quota, la volata di una mitragliera da 13,2 mm del Bolzano viene colpita da un proiettile.
Tra le 16.19 e le 16.30 tre squadriglie di cacciatorpediniere britannici (2th, 10th e 14th Flotilla) aprono il fuoco contro quelli italiani da 11.250-12.500 metri, appoggiati tra le 16.39 e le 16.41 dal tiro dei pezzi secondari da 152 mm delle corazzate Warspite e Malaya. Alle 16.49 la “mischia” tra cacciatorpediniere, svoltasi a grande distanza, ha termine senza che nessuna unità sia stata colpita.
Terminata la battaglia, la flotta italiana si avvia alle proprie basi con direttrice di marcia 230°, passando a sud della Calabria; ma durante il rientro, tra le 16.20 e le 19.30, diviene oggetto anche dell'attacco da parte degli stessi bombardieri della Regia Aeronautica (una cinquantina, su circa 126 inviati in totale ad attaccare le forze britanniche), che le attaccano e bombardano pesantemente per errore di identificazione e malintesi (tra il comando delle due Squadre Navali e quello della II Squadra Aerea, cui appartengono i bombardieri) circa la posizione della flotta italiana e di quella britannica. Le insensate disposizioni vigenti in materia di comunicazioni tra Marina ed Aeronautica, che non contemplano la possibilità di comunicazioni dirette tra navi e aerei, impediranno alle prime di segnalare ai secondi l'errore; le stesse navi, non potendo distinguere la nazionalità degli aerei attaccanti, apriranno un intenso fuoco con proprie armi contraeree, rafforzando nei piloti l'impressione di stare attaccando navi nemiche. Alcune delle navi ed alcuni degli aerei, rispettivamente, cesseranno il fuoco e rinunceranno all'attacco riconoscendo all'ultimo momento la vera nazionalità del "nemico", ma alla fine gli attacchi ai danni delle navi italiane eguaglieranno, in intensità, quelli condotti contemporaneamente contro la vera Mediterranean Fleet. Nessuna nave italiana sarà, fortunatamente, colpita, mentre un bombardiere Savoia Marchetti S. 79 della 257a Squadriglia (XXXVI Stormo da Bombardamento Terrestre) finirà abbattuto dal "fuoco amico" delle navi. L’ammiraglio Campioni, per tentare di chiarire equivoco, ordina di stendere bandiere italiane sul cielo delle torri e di emettere fumo rosso dai fumaioli poppieri, pratica convenzionale, nelle esercitazioni in tempo di pace, per segnalare il gruppo “amico”.
L'incidente sarà poi fonte di aspre polemiche tra Marina e Aeronautica, ma per lo meno servirà a dare l'impulso ad un migliore sviluppo della collaborazione aeronavale, che però raggiungerà risultati soddisfacenti solo nel 1942.



 Due foto scattate sul Bolzano durante la navigazione di rientro dopo la battaglia di Punta Stilo (g.c. STORIA militare). Sopra, si nota l’accentuato rollio dell’incrociatore, causato dallo svuotamento dei depositi di nafta; sotto, è visibile un “paglietto turafalle” adagiato in coperta prima dell’uso.


Durante la navigazione di rientro, il Servizio di Sicurezza del Bolzano provvede a tamponare le vie d’acqua; dato che la forma dei “paglietti turafalle” non è adatta ai fori slabbrati verso l’esterno aperti dalle schegge, si cerca di otturarli alla meglio con feltro ed altri materiali di fortuna. Rimessa in funzione (con allacciamenti volanti) la pompa grandi masse numero 4, risulta possibile contenere e ridurre gli allagamenti; dopo un paio d’ore, però, il circuito di alimentazione della pompa va in avaria (l’elettropompa è finita sott’acqua, ma il motore elettrico è rimasto isolato e funzionante: il suo mancato funzionamento è causato da spruzzi d’acqua entrati in una cassetta di derivazione della linea elettrica, perforata da una scheggia), sicché la pompa smette di funzionare, e l’acqua nel locale timone a mano e nell’intercapedine 62-64 AD riprende a salire, costringendo a chiudere, tamponare e puntellare la portelleria di comunicazione fra i locali che si stanno allagando di nuovo e quelli soprastanti, ed a rinforzare le relative paratie trasversali. Bisogna sgottare, con un’autopompa barellabile ed una catena di secchi, l’acqua che sta iniziando a filtrare nel locale verricelli, prima che raggiunga i loro motori elettrici.
Mentre il grosso della flotta italiana dirige su Augusta, la III Divisione, insieme alla danneggiata Cesare, fa rotta per Messina, dove giunge alle 21 del 9 luglio.


Il Bolzano all’arrivo a Messina dopo la battaglia di Punta Stilo, con i segni dei danni subiti alle torri prodiere (g.c. STORIA militare)

Il Bolzano, a causa dello svuotamento di alcuni depositi di nafta, subisce un aumento del rollio a ben 11°, anche in condizioni di mare calmo; si rende necessario pompare molta acqua di zavorra nei serbatoi, per bilanciare la nave. Nei due giorni in mare e nella battaglia, la nave ha consumato 100 colpi da 203 mm, 800 tonnellate di carburante e 400 di acqua dolce.


I caduti del Bolzano a Punta Stilo:

Damiano Altomare, marinaio fuochista, 22 anni, da Molfetta (M.A.V.M.)
Cosimo Balestra, marinaio fuochista, 22 anni, da Massafra (C.G.V.M.)
Alfonso Marino, marinaio cannoniere o., 21 anni, da Angri (C.G.V.M.)


10 luglio 1940
In mattinata, nel porto di Messina, si riprende a prosciugare l’acqua che ha allagato il locale timone a mano e le intercapedini 62-64, con l’ausilio delle pompe del rimorchiatore Ursus. Un palombaro, intanto, tampona i fori da schegge con stoppa intrisa di sego ed un grosso paglietto turafalle; ciò permett di ridurre fortemente le infiltrazioni d’acqua e prosciugare del tutto anche l’acqua entrata nella cala laterale di sinistra del locale timone a mano. Dopo di che, viene effettuata sui fori una gettata di cemento a presa rapida rinforzata con tavole e puntelli di legno, il che permette di ripristinare la tenuta stagna dello scafo, annullando quasi del tutto le infiltrazioni.
12 luglio 1940
In serata Bolzano e Cesare, entrambe danneggiate, lasciano Messina scortate dai cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Pigafetta, Malocello e Zeno (due dei quali assegnati al Bolzano) nonché – di giorno – da aerei antisom della Regia Aeronautica, e dirigono per La Spezia, dove potranno effettuare rapidamente le necessarie riparazioni in una base non esposta ai bombardamenti aerei britannici. Le navi attraversano il Tirreno a 22-24 nodi fin quasi all’altezza delle Bocche di Bonifacio, indi costeggiano la Corsica fino a Capo Corso, per poi puntare su La Spezia. Durante la navigazione si rinforza, sul Bolzano, la paratia longitudinale di dritta del locale timone a mano, con lamiere elettrosaldate, nel caso dovesse cedere la colata di cemento.
13 luglio 1940
Preceduti da Aviere e Geniere che fanno dragaggio protettivo, Bolzano e Cesare passano tra l’Isola del Tino e Palmaria, e si ormeggiano in rada a La Spezia in tarda serata.


Il Bolzano all’arrivo a La Spezia dopo la battaglia di Punta Stilo. Sono visibili i danni alla torre numero 2 (g.c. STORIA militare)

14-16 luglio 1940
Il Bolzano viene portato in Arsenale e viene scoperchiata la torre numero 2, rimuovendo i due cannoni danneggiati da 203 mm: quello di dritta, danneggiato in modo irreparabile, viene esaminato e provato per capire come abbia potuto sparare ancora dopo essere stato colpito; sottoposto a prova di tiro, si spezza dopo il primo colpo. Il secondo cannone viene giudicato anch’esso irrecuperabile.
Il Bolzano viene immesso in bacino di carenaggio per riparare i danni allo scafo, ed a fine mese vengono imbarcati i due nuovi cannoni Ansaldo da 203 che sostituiscono quelli della torre numero 2.
4 agosto 1940
Terminate le riparazioni il giorno precedente, il Bolzano lascia La Spezia in mattinata per tornare a Messina, scortato dai cacciatorpediniere Ascari e Corazziere e dalle torpediniere Curtatone e Castelfidardo (queste ultime lasciano la scorta nel pomeriggio), nonché – di giorno – da aerei antisommergibili.
5 agosto 1940
Bolzano, Ascari e Corazziere giungono a Messina in tada mattinata.
31 agosto-1 settembre 1940
Il 31 settembre la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) salpa da Messina insieme ad otto cacciatorpediniere, per partecipare alle operazioni di contrasto all’operazione britannica «Hats» (consistente in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad Alessandria, per rinforzare la Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant, della portaerei Illustrious e degli incrociatori Calcutta e Coventry; invio di un convoglio da Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said; bombardamenti su basi italiane in Sardegna e nell’Egeo): Supermarina ha infatti saputo che sia la Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e sommergibili.
Complessivamente, all’alba del 31, prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina 4 corazzate della V (Cesare, Duilio e Cavour) e IX (Littorio e Vittorio Veneto) Divisione, 13 incrociatori della I (Pola, Zara, Fiume, Gorizia), III, VII (Eugenio di Savoia, Duca d’Aosta, Montecuccoli ed Attendolo) e VIII (Duca degli Abruzzi e Garibaldi) Divisione e 39 cacciatorpediniere (FrecciaDardoSaettaStrale della VII Squadriglia; FolgoreFulmineLampoBaleno dell’VIII Squadriglia; MaestraleGrecaleLibeccioScirocco della X Squadriglia; AviereArtigliereGeniere e Camicia Nera della XI Squadriglia; LanciereCarabiniereAscari e Corazziere della XII Squadriglia; GranatiereBersagliereFuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia; Alvise Da MostoGiovanni Da VerrazzanoAntonio PigafettaNicolò Zeno della XV Squadriglia; Nicoloso Da ReccoEmanuele Pessagno ed Antoniotto Usodimare della XVI Squadriglia). La III Divisione si riunisce al grosso della squadra italiana, partita da Brindisi e da Taranto, verso le 13 del 1° settembre.
La III Divisione forma con la I Divisione la 2a Squadra (che precede il grosso delle forze italiane).
Le due Squadre Navali italiane (la 1a Squadra è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a Squadra dal Pola, dalle Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII), riunite sotto il comando dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono però uscite in mare troppo tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro notturno ed hanno una velocità troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di cambiare rotta e raggiungere il centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in contatto con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16 Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla 2a Squadra, che si trova in posizione più avanzata della 1a, di proseguire verso le forze nemiche. L’ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante la 2a Squadra, ha chiesto alle 16.20 libertà di manovra per dirigere contro le forze britanniche, segnalate da ricognitori alle 15.35 a 120 miglia di distanza dalla 2a Squadra. Campioni gli ha dato l’autorizzazione alle 16.31, ma revoca l’autorizzazione alle 16.50 (comunque la 2a Squadra non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie), ed alle 17.27 ordina alla 2a Squadra di invertire la rotta ed assumere rotta 335° e velocità 20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle 22.30 del 31 la formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di portarsi per le sei dell’indomani, con rotta 150° e velocità 20 nodi, in un punto 36 miglia ad ovest di Santa Maria di Leuca, onde impegnare le forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante; dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la congiungente Malta-Zante.
Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da nordovest forza 9; le forze italiane si allontanano nuovamente dal Golfo di Taranto per cercare di nuovo quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con l’ordine di non oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la burrasca costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in formazione né usare l’armamento). A causa della burrasca, la III Divisione deve raggiungere Taranto, anziché la propria base abituale di Messina. Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare.
Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova occasione.
7 settembre 1940
La III Divisione, con Trento, Trieste e Bolzano, lascia Taranto alle 16 insieme al resto della 2a Squadra Navale (incrociatore pesante Pola, ammiraglia della squadra; incrociatori pesanti Zara e Gorizia della I Divisione; cacciatorpediniere CarabiniereAscari e Corazziere della XII Squadriglia, Alfieri della IX Squadriglia e Geniere della XI Squadriglia) ed alla 1a Squadra (corazzate Littorio e Vittorio Veneto della IX Divisione, Cesare e Cavour della V Divisione e Duilio della VI Divisione; cacciatorpediniere Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco della X Squadriglia, GranatiereBersagliereFuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia, FrecciaSaetta e Dardo della VII Squadriglia, FolgoreFulmine e Baleno dell’VIII Squadriglia). La flotta italiana, che procede a 24 nodi, è diretta a sud della Sardegna (in modo da trovarsi 50 miglia a sud di Cagliari entro le 16 del giorno seguente), per intercettare la Forza H britannica che si presume diretta verso Malta; in realtà tale formazione, salpata da Gibilterra alle 6, ha soltanto simulato un’incursione in Mediterraneo, per coprire il vero obiettivo per della propria uscita in mare: dirigersi in Atlantico e raggiungere Freetown, per poi attaccare le forze francesi a Dakar. Qualora non sia possibile ottenere il contatto con il nemico, gli ordini prevedono di dirigere per il Basso Tirreno a levante della congiungente Capo Carbonara-Marettimo, poi raggiungere il meridiano 8° Est per le ore 7 del 9 settembre.
8 settembre 1940
Le due squadre navali attraversano lo stretto di Messina nella notte tra il 7 e l’8 e raggiungono il punto prestabilito a sud della Sardegna alle 16 dell’8 settembre; però, dato che la ricognizione non ha avvistato alcuna nave nemica (visto che la Forza H, dopo la “finta”, si è diretta in Atlantico), la formazione italiana inverte la rotta e, per ordine di Supermarina, raggiunge le basi del Tirreno meridionale (Napoli per la 1a Squadra, Palermo e Messina per la I e III Divisione rispettivamente).
9 settembre 1940
La III Divisione giunge a Messina dopo essersi appoggiata a Napoli.
Le navi si riforniscono di carburante e rimangono pronte  a muovere, ma non ci sono novità sul nemico.
29 settembre-2 ottobre 1940
La III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano), con i quattro cacciatorpediniere della XI Squadriglia (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera), esce da Messina alle 20.28 del 29 settembre, mentre tra le 18.05 e le 19.30 prendono il mare da Taranto il Pola, le divisioni I (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia), V (corazzate Giulio Cesare, Duilio e Conte di Cavour), VII (incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, da Brindisi), VIII (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) e IX (corazzate Littorio e Vittorio Veneto) e 19 cacciatorpediniere (DardoSaettaStrale della VII Squadriglia; GiobertiAlfieriOriani e Carducci della IX; MaestraleGrecaleLibeccioScirocco della X; Ascari della XII; GranatiereBersagliere ed Alpino della XIII; Da MostoDa Verrazzano della XV; Pessagno ed Usodimare della XVI), per contrastare l’operazione britannica «MB. 5» (invio a Malta degli incrociatori Liverpool e Gloucester con 1200 uomini e rifornimenti, ed invio da Porto Said al Pireo del convoglio «AN. 4», il tutto con l’uscita in mare delle corazzate Valiant e Warspite, della portaerei Illustrious, degli incrociatori YorkOrion e Sydney e di undici cacciatorpediniere a copertura dell’operazione). Comandante superiore in mare è l’ammiraglio Campioni.
La III Divisione si riunisce alle navi partite da Taranto alle 7.30 del 30 settembre.
Alle 13.24 del 30 il sommergibile britannico Regent (capitano di corvetta Hugh Christopher Browne) avvista parte della formazione italiana (due corazzate, tre incrociatori e diversi cacciatorpediniere) in posizione 38°09’ N e 18°17’ E. Alle 13.39 il battello lancia cinque siluri (sei nelle intenzioni, ma uno si rivela difettoso) da una distanza di 820 metri, ma nel farlo perde il controllo della quota ed affiora accidentalmente in superficie; torna subito ad immergersi, scendendo a 90 metri. Nessun siluro va a segno; alle 14.05 segue il contrattacco della scorta con bombe di profondità, nessuna delle quali esplode vicina al Regent.
In mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da Scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.


Il Bolzano in uscita dal Golfo di La Spezia nel 1940 (g.c. STORIA militare)

6 ottobre 1940
Il Bolzano parte da Messina in mattinata insieme a Trento e Trieste ed alla XI Squadriglia Cacciatorpediniere (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera), in appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero delle due veloci e moderne motonavi Calitea e Sebastiano Venier, cariche di rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e scortate dalla XII Squadriglia Cacciatorpediniere. L’operazione (il convoglio è partito da Taranto la sera del 5, ed il 6 mattino, oltre al gruppo cui appartiene la III Divisione, sono salpate da Taranto anche il Pola, nave di bandiera della II Squadra Navale, la I Divisione con gli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere) viene però interrotta il mattino stesso del 6 ottobre, dopo che la ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate, due incrociatori e sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta Alessandria-Caso, ossia dove dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso. Tutte le unità italiane vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà più.
12 ottobre 1940
La III Divisione (Trento, Trieste e Bolzano), al comando dell’ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti, salpa da Messina alle otto del mattino per dare appoggio al cacciatorpediniere Camicia Nera, che sta rientrando alla base inseguito da navi ed aerei britannici dopo che, in un fallito attacco silurante nella notte precedente e nei suoi successivi sviluppi il mattino del 12 ottobre, sono stati affondati il cacciatorpediniere Artigliere (posto fuori uso dall’incrociatore leggero Ajax e finito dall’incrociatore pesante York) e le torpediniere Airone ed Ariel (entrambe dall’Ajax). L’ordine è di supportare il rientro del Camicia Nera (nonché dei cacciatorpediniere Aviere e Geniere, anch’essi scampati allo scontro, l’Aviere piuttosto danneggiato) e, se possibile, impegnare gli incrociatori britannici. La III Divisione, insieme alla XIV Squadriglia Cacciatorpediniere (Ugolino Vivaldi, Luca Tarigo, Antonio Da Noli), dirige per il punto in cui si sa essere il Camicia Nera e catapulta due degli idroricognitori in dotazione agli incrociatori. In base alle intercettazioni, l’ammiraglio Sansonetti capisce che Aviere, Geniere e Camicia Nera non necessitano più di protezione, dunque alle 10.15 fa ridurre la velocità da 30 a 25 nodi, continuando a navigare verso sud fino alle 12.15, quando giunge da Supermarina l’ordine di rientrare alla base. Durante la navigazione di ritorno la III Divisione avvista un ricognitore britannico Short Sunderland e diverse squadriglie di bombardieri della Squadra Aerea della Sicilia, scortati da caccia, inviati a cercare il nemico.
21 ottobre 1940
Pochi giorni prima dell’attacco alla Grecia, la III Divisione viene trasferita a Taranto.
11-12 novembre 1940
Il Bolzano è presente a Taranto (dov’è giunto da pochi giorni), alla boa in Mar Piccolo, durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (“notte di Taranto”).
Il Bolzano, alla boa sul lato meridionale del Mar Piccolo non lontano dal Trieste (che è alla sua sinistra) e poco a nord dei quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia (l’Alpino a poppavia del Bolzano, il Fuciliere a poppa dritta del Bolzano, il Bersagliere a poppa dritta del Trieste ed il Granatiere a poppa sinistra di quest’ultimo), a loro volta più a nord della fila di unità ormeggiate in banchina torpediniere (tra cui il Trento, il Pola, gli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi e la portaidrovolanti Giuseppe Miraglia, oltre a numerosi cacciatorpediniere), viene attaccato, come le altre unità presenti in Mar Piccolo, da cinque Fairey Swordfish impiegati come bombardieri, in azione diversiva volta a distogliere l’attenzione dall’attacco principale effettuato dagli aerosiluranti contro le corazzate in Mar Grande. Gli Swordfish sganciano una sessantina di bombe da 500-600 metri, ma meno di un terzo cadono vicine alle navi, in massima parte in acqua tra le navi od a proravia delle stesse; il Trieste non viene colpito (secondo una fonte britannica, ciò è dovuto al fatto che Trento, Trieste e Bolzano non aprono il fuoco col loro armamento contraereo e si affidano all’oscurità per proteggersi, non rivelando la propria posizione: così i piloti britannici, anziché attaccare questi bersagli principali, sono costretti a sganciare contro obiettivi secondari).
Tra le 14.30 e le 16.45 del 12 novembre la III Divisione, insieme alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere, lascia Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere Messina.
16-18 novembre 1940
La III Divisione lascia Messina alle 10.30 del 16, mentre da Taranto prendono il mare Vittorio Veneto e Cesare e la I Divisione (da Napoli) nonché le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (GiobertiAlfieriOrianiCarducci), XII (LanciereCarabiniereAscariCorazziere), XIII (Bersagliere,GranatiereFuciliereAlpino) e XIV (VivaldiDa NoliTarigoMalocello; questi ultimi da Palermo) per intercettare una formazione britannica diretta verso est. Una formazione britannica (la Forza H dell’ammiraglio James Somerville, con le portaerei Argus e Ark Royal, l’incrociatore da battaglia Renown, gli incrociatori leggeri Sheffield, Despatch e Newcastle ed otto cacciatorpediniere), salpata da Gibilterra e con rotta verso levante, è stata infatti avvistata nel Mediterraneo occidentale: è in corso l’operazione britannica «White», consistente nel lancio, da parte della portaerei Argus della Forza H, di 14 aerei destinati a rinforzare le modeste forze aeree di base a Malta, nonché un’azione di bombardamento di Alghero (velivoli dell’Ark Royal) ed il trasporto a Malta di uomini e materiali della RAF sul Newcastle.
La III Divisione e la XII e XIV Squadriglia Cacciatorpediniere (la prima da Messina, la seconda da Palermo) si uniscono al grosso della squadra, partito da Napoli, nel pomeriggio del 16.
La forza così riunita sotto il comando dell’ammiraglio Campioni assume quindi rotta verso est verso l’8° meridiano, a sudovest della Sardegna, procedendo a 18 nodi, ridotti a 14 nella notte del 17 per agevolare la navigazione dei cacciatorpediniere, resa difficoltosa da un vento da sudovest.
Per tutta la giornata del 16 non si ricevono informazioni sulle forze nemiche; solo alle 10.15 del 17 queste vengono avvistate da ricognitori, che però non precisano né la rotta né la velocità. Campioni dirige verso sud, in direzione di Bona, sperando di riuscire ad intercettare le unità britanniche nel pomeriggio, se esse proseguono verso est.
Raggiunto alle 16.30 un punto prestabilito 45 miglia a nord-nord-est di Ustica, la formazione italiana dirige poi verso ovest ed alle 17.30 arriva 35 miglia a sudovest di Sant’Antioco. Dopo aver navigato per un po’ in direzione dell’Algeria, nella totale mancanza su dove sia il nemico e dove esso sia diretto, la squadra italiana riceve l’ordine rientrare. Campioni rileverà che le condizioni del mare – onde molto lunghe da sudovest – hanno causato forte rollio e beccheggio in tutte le sue navi, corazzate comprese, tanto da impedire l’uso dei cannoni se dirette verso sud. Durante il ritorno le navi italiane eseguono esercitazioni di tiro contro la scogliera La Botte, a sud di Ponza.
Sebbene non vi sia stato contatto tra le opposte formazioni navali, l’uscita in mare delle forze italiane ha indirettamente causato il fallimento dell’operazione «White»: l’avvistamento della squadra italiana da parte dei ricognitori di Malta, infatti, ha indotto Somerville a far decollare gli aerei dall’Argus in anticipo, tenendo la portaerei quanto più ad ovest possibile, cioè più lontana da Malta di quanto inizialmente pianificato, prolungando di molto la distanza sulla quale gli aerei dovranno volare. Il risultato sarà che su quattordici aerei decollati dall’Argus (dodici Hawker Hurricane e due Blackburn Skua) solo cinque (quattro Hurricane ed uno Skua) giungeranno a Malta: gli altri nove esauriranno il carburante e precipiteranno in mare a seguito di errori di navigazione e stime sbagliate sugli effetti del vento, tranne uno che dovrà effettuare un atterraggio d’emergenza presso Siracusa, venendo catturato.
26-28 novembre 1940
Alle 12.30 del 26 il Bolzano lascia Messina insieme al resto della III Divisione (Trento e Trieste, nave ammiraglia dell’ammiraglio Luigi Sansonetti, comandante la III Divisione) ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari, Lanciere e Carabiniere), mentre da Napoli escono le corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare, l’incrociatore pesante Pola, la I Divisione con due unità e la IX e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere con otto unità.
La formazione italiana si riunisce nel punto 39°20’ N e 14°20’ E, 70 miglia a sud di Capri, alle 18.00 del 26 novembre, assumendo poi rotta 260° e velocità 16 nodi, per intercettare un convoglio britannico diretto a Malta.
Alle otto del mattino del 27 la III Divisione con la XII Squadriglia si trova a cinque miglia per 180° dal Pola, nave ammiraglia della 2a Squadra (che è formata dalla I e dalla III Divisione; il tutto sotto il comando dell’ammiraglio Iachino), con rotta 250° e velocità 16 nodi, mentre la I Divisone è insieme al Pola e la 1a Squadra (le due corazzate ed i cacciatorpediniere della VII e della XIII Squadriglia; ammiraglio Campioni) è più a poppavia.
Alle 7.55 il Bolzano, in base ad ordini ricevuti nella notte, catapulta un idrovolante da ricognizione che dovrà cercare eventuali forze nemiche lungo il percorso che, dalla nave che lo ha lanciato, porta a La Galite, Cap de Fer (all’estremo orientale del Golfo di Philippeville) e Cagliari.


Il Bolzano fotografato dal Trento il 27 novembre 1940 (g.c. STORIA militare)

La formazione italiana ha rotta 260°, verso la Sardegna, ed il mattino del 27 incrocia nove miglia a sud di Capo Spartivento Sardo, per intercettare uno dei due gruppi britannici in mare (uno partito da Alessandria ed uno da Gibilterra) prima che possano riunirsi: quello proveniente da Alessandria viene avvistato alle 9.45 dall’idroricognitore del Bolzano, che comunica che una corazzata, due incrociatori e quattro cacciatorpediniere si trovano a 26 miglia per 20° da Cap de Fer, con rotta 90° e velocità 16 nodi. Il messaggio del ricognitore viene ricevuto alle 10.05 dall’ammiraglio Iachino e dieci minuti dopo dall’ammiraglio Campioni. Poco dopo il velivolo aggiunge che si mantiene in contatto visivo con le navi nemiche; continuerà a tenere il contatto fino alle 10.40.
Sebbene la posizione indicata sia piuttosto lontana dal vero (troppo ad ovest), questo avvistamento è il primo concreto segnale, per il comandante superiore in mare, della presenza delle forze nemiche.
A questo punto, la formazione italiana dirige per sudest, in modo da intercettare il gruppo nemico e tagliargli la rotta.
Alle 11.01 la III Divisione riceve ordine da Iachino di portarsi a poppavia (a tre miglia per 270°) del resto della 2a Squadra, ed alle 11.28 l’intera formazione assume rotta 135°, per intercettare la formazione britannica che (dalle segnalazioni dei ricognitori) risulta avere posizione differente da quella prevista.
Durante l’inversione di rotta conseguente all’ordine delle 11.01, tuttavia, si verifica una certa confusione causata dall’errata interpretazione di un segnale da parte del Trento (che per invertire la rotta vira di contromarcia, mentre gli altri due incrociatori virano ad un tempo), così che il Trieste, nave ammiraglia, finisce al centro della formazione, invece che in testa, e la III Divisione si ritrova arretrata rispetto al resto della 2a Squadra: ultima della formazione, 8 km a poppavia della I Divisione.
Alle 11.35 la 2a Squadra riceve dall’ammiraglio Campioni di portarsi su rilevamento 195° rispetto alla sua nave ammiraglia (la Vittorio Veneto), in modo che la formazione divenga perpendicolare alla probabile direzione d’avvicinamento della squadra britannica. Alle 12.07, in seguito alla constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana (i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità), essendosi i due gruppi riuniti, l’ammiraglio Campioni ordina di assumere rotta 90° per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e tre minuti dopo ordina alla 2a Squadra di aumentare la velocità per riunirsi alle corazzate, pertanto la 2a Squadra accelera a 25 nodi, poi a 28.
Alle 12.15, tuttavia, le unità della 2a Squadra avvistano improvvisamente quattro cacciatorpediniere britannici, diretti verso gli incrociatori italiani: le siluranti nemiche spariscono subito, avendo apparentemente invertito la rotta, ma poco dopo vengono avvistati altri cacciatorpediniere, incrociatori, corazzate: è la squadra britannica, che comprende le corazzate Renown e Ramillies, la portaerei Ark Royal e gli incrociatori Berwick (pesante), Sheffield, Southampton, Newcastle e Manchester (leggeri), oltre a numerosi cacciatorpediniere. In questo momento la III Divisione si trova in linea di fila 8 km a poppa della I Divisione, con rotta 90° e velocità 25 nodi, in aumento (le corazzate sono invece a proravia della I Divisione). A seguito dell’avvistamento delle forze nemiche, l’ammiraglio Campioni ordina di incrementare ancora la velocità. Inizia così la battaglia di Capo Teulada.



 Il Bolzano durante la battaglia di Capo Teulada (da www.storiedelsud.altervista.org


Alle 12.20, prima che l’ammiraglio Campioni possa ordinare di non impegnarsi, gli incrociatori della I Divisione aprono il fuoco, seguiti in successione dal Pola e da quelli della III Divisione: questi ultimi sono i più vicini alle navi britanniche, ad una distanza di 21.500 metri (Pola e I Divisione sono invece a 22.000 metri di distanza). Subito gli incrociatori britannici (uno, il Manchester, viene mancato dalla prima salva italiana, sparata dal Trieste o dal Trento, scartata lateralmente di circa 90 metri) rispondono al fuoco; Berwick, Manchester, Sheffield e Newcastle concentrano il loro tiro contro le unità della III Divisione. Gli incrociatori italiani della 2a Squadra, in linea di fila, sono in posizione favorevole (da “taglio del T”) per sparare con tutte le artiglierie su quelli britannici, che si trovano invece in linea di fronte e possono usare solo le torri prodiere, ma per via dell’ordine di Campioni di disimpegnarsi devono accostare verso nordest. Durante lo scontro, le navi italiane continuano a ritirarsi verso nordest, sparando quasi esclusivamente con le torri poppiere, mentre quelle britanniche le inseguono tirando quasi solamente con le torri prodiere (la distanza media del combattimento è 22.500 metri, che per la III Divisione – segnatamente il Trento – scende ad un minimo di 18.000 metri). All’inizio dello scontro l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione (che è rimasta indietro ed aveva aumentato la propria velocità in ritardo rispetto al resto della Squadra, ed i cui apparati motori non hanno ancora raggiunto la massima andatura) di portare la velocità a 30 nodi e di allontanarsi dal nemico prima possibile, vedendo che essa sembra avere qualche difficoltà ad allontanarsi dalle unità britanniche, mentre salve da 152 degli incrociatori leggeri e qualche rara salva da 381 delle corazzate cade nella loro direzione. Il tiro degli incrociatori italiani è intenso dall’apertura del fuoco fino alle 12.42, poi diventa intermittente tra le 12.42 e le 12.49 a causa di ripetute accostate necessarie a disturbare l’attacco di aerosiluranti britannici frattanto apparsi, poi nuovamente intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi, a causa dell’aumento delle distanze e del fumo (causato soprattutto dalla combustione forzata delle caldaie, in particolare sulle navi della III Divisione), il ritmo di tiro deve di nuovo calare, fino a cessare alle 13.15, quando la distanza è diventata di 26.000 metri.
Due salve da 203 mm degli incrociatori italiani (probabilmente sparate dal Trieste o dal Trento; per altri sarebbe potuto essere stato anche il Bolzano) colpiscono, alle 12.22 ed alle 12.35, l’incrociatore pesante britannico Berwick: la prima uccide sette uomini, ne ferisce nove e mette fuori uso la terza torre da 203 dell’unità britannica, la seconda danneggia il quadrato ufficiali e locali adiacenti, ma il Berwick continua a fare fuoco.
Fino alle 12.40 le navi britanniche (soprattutto gli incrociatori) sparano intensamente contro la III Divisione, poi spostano il tiro sulla I Divisione, che è divenuta più vicina (ma il loro tiro è disturbato dal fumo prodotto dalle navi italiane); in questa fase la III Divisione, mentre la velocità aumenta progressivamente fino a 34 nodi, aumentando le distanze con le navi nemiche, di quando in quando accosta in modo da sparare con tutte le artiglierie invece che con le sole torri poppiere. Le corazzate britanniche intervengono solo sporadicamente, trovandosi più indietro rispetto agli incrociatori: alle 12.26 la Renown spara due salve contro il Bolzano, incrociatore centrale del gruppo occidentale, che ha fatto una fugace apparizione in mezzo al fumo. Presto, una volta che gli apparati motori funzionano a pieno regime, la III Divisione riuscirà ad aumentare le distanze con il nemico abbastanza da indurlo a cessare il fuoco.


Il Bolzano sotto il fuoco del Renown durante la battaglia di Capo Teulada (dal libro “Big Gun Battles”, di Robert C. Stern)

La III Divisione procede verso nord (in modo da allontanarsi più rapidamente), accostando per 30° a sinistra (rotta 330°) per sottrarsi più rapidamente al tiro delle corazzate, con rotta divergente rispetto alla I Divisione (che ha rotta 50°) ed alle corazzate di Campioni, poi, una volta giunta fuori tiro, accosta verso est per riavvicinarsi alla I Divisione, ma alle 12.52 riceve ordine dall’ammiraglio Iachino di disimpegnarsi e, se necessario, emettere cortine nebbiogene. Nel frattempo anche la 1a Squadra si è riavvicinata alla 2a Squadra, ed alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da poco meno di 29.000 metri, ma le unità britanniche subito accostano a dritta e la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare il fuoco già alle 13.10.
Quando viene cessato il tiro, il Bolzano risulta aver sparato in tutto 27 salve: è in assoluto l’incrociatore italiano che ha sparato di meno, di gran lunga (tutti gli altri hanno sparato tra le 92 e le 210 salve), perché, trovandosi di poppa al Trento, il fumo emesso da quest’ultimo gli ha ostruito quasi sempre la visuale, impedendogli di vedere le navi nemiche.
Il Berwick, però, non è stata l’unica nave ad essere colpita nello scontro: alle 12.35, infatti, il cacciatorpediniere Lanciere, caposquadriglia della XII Squadriglia (che, assegnata alla III Divisione, si trovava ad est di questa e più vicina alle unità nemiche), è stato colpito da una granata da 152 mm sparata dall’incrociatore leggero Southampton, che ha messo fuori uso la macchina di poppa, lasciando il cacciatorpediniere con una sola macchina funzionante. Alle 12.40, mentre la XII Squadriglia (il Lanciere riusciva a sviluppare 23 nodi di velocità) stava spostandosi verso ovest passando a poppavia della III Divisione, il Lanciere è stato colpito altre due volte, ed alle 13.15 comunica di essere rimasto immobilizzato per mancanza d’acqua. Alle 13.16 l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di dare assistenza al cacciatorpediniere colpito, ma Sansonetti, perplesso su cosa potrebbe fare tornando indietro con l’intera divisione, alle 13.26 chiede conferma a Iachino sul fatto di dover tornare indietro per assistere il Lanciere (che dev’essere preso a rimorchio, operazione che, secondo Iachino, richiede l’intervento di tutta la III Divisione), ricevendo subito risposta affermativa. (Un simile scambio di comunicazioni – tra Iachino e l’ammiraglio Carlo Cattaneo, comandante la I Divisione – si avrà, quattro mesi più tardi, nella tragica battaglia di Capo Matapan: questa volta con esito molto più funesto). La III Divisione ritorna perciò nel punto in cui si trova l’immobilizzato Lanciere, che viene preso a rimorchio dal gemello Ascari; alle 15.35, mentre i due cacciatorpediniere iniziano a porsi in moto, la III Divisione viene violentemente attaccata da sette bombardieri britannici Blackburn Skua (appartenenti all’800th Squadron della Fleet Air Arm, e guidati dal tenente di vascello R. M. Smeeton) decollati dalla portaerei Ark Royal. Gli Skua, senza attaccare i due cacciatorpediniere intenti nella delicata manovra di rimorchio, bombardano in picchiata (con bombe da 227 kg) gli incrociatori di Sansonetti, che reagiscono con pronte manovre e con intenso tiro contraereo (pur senza colpire alcun velivolo). Nessuna nave viene colpita, sebbene cinque delle bombe da 500 libbre cadono molto vicine al Bolzano ed al Trento. La III Divisione scorta poi, sino al tramonto, l’Ascari che rimorchia il Lanciere verso Cagliari, dove i due cacciatorpediniere giungeranno senza problemi.
Terminato questo compito, la III Divisione segue le rotte costiere ad est della Sardegna durante la notte, per poi ricongiungersi con la II Squadra il mattino successivo, al largo di Ponza.
L’intera 2a Squadra, senza ulteriori problemi, arriva a Napoli alle 14 del 28, dopo di che la III Divisione prosegue per Messina alle 20.35 del giorno stesso, insieme alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere.


Dettaglio di un’immagine del Bolzano a Capo Teulada.

8 gennaio 1941
Il Bolzano si trova a Napoli quando il porto viene attaccato da otto bombardieri britannici Vickers Wellington decollati da Malta, che danneggiano la corazzata Cesare.
8-11 febbraio 1941
Alle 7 dell’8 febbraio (dopo aver ricevuto l’ordine di accendere le caldaie già alle 14.15 del 7), per ordine di Supermarina, la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano), al comando dell’ammiraglio Sansonetti (imbarcato sul Trieste), ed i cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere salpano da Messina alla volta di La Spezia, mentre da La Spezia escono in mare le corazzate Vittorio Veneto, Giulio Cesare ed Andrea Doria e la X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco) e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Fuciliere, Alpino). Scopo dell’uscita è l’intercettazione dell’aliquota della Forza H britannica (incrociatore da battaglia Renown, corazzata Malaya, portaerei Ark Royal, incrociatore leggero Sheffield, cacciatorpediniere FuryFoxhoundForesightFearlessEncounterJerseyJupiterIsisDuncan e Firedrake) che sta facendo rotta su Genova con l’intento di bombardare il capoluogo ligure (ma l’obiettivo della Forza H non è noto ai comandi italiani). Al largo di Napoli anche un terzo cacciatorpediniere, il Camicia Nera, si unisce, come da ordini, alla scorta della III Divisione.
Poco dopo le otto del mattino del 9, come da disposizioni, la III Divisione si riunisce, 40 miglia ad ovest di Capo Testa sardo (a nord dell’Asinara), alle forze navali uscite da La Spezia, ed alle 8.25 l’intera formazione (sotto il comando dell’ammiraglio Iachino) assume rotta 230°, dirigendo per quella che è ritenuta la probabile zona ove si trovano le navi nemiche, nell’ipotesi, errata, che la loro azione sia diretta contro la Sardegna.
Tale rotta, controvento, permette anche di catapultare gli idroricognitori: per ordine dell’ammiraglio Iachino, il Bolzano catapulta il suo IMAM Ro. 43 alle 8.55, seguito dal Trento alle 9.35; i due aerei hanno il compito di cercare il nemico verso sud e sud-ovest, ma in realtà la Forza H si trova 170 miglia più a nord dell’aerea oggetto della ricerca.
La squadra italiana non riesce a raggiungere la Forza H prima che il bombardamento di Genova si compia (questo avviene dalle 8.14 alle 8.54, mentre la squadra italiana, del tutto ignara di quanto sta accadendo, si sta radunando al largo dell’Asinara, e la ricognizione aerea sta cercando inutilmente il nemico ad ovest della Sardegna: le navi britanniche sparano 273 colpi da 381 mm, 782 da 152 mm e 405 da 114 mm, distruggendo o danneggiando gravemente 254 edifici, uccidendo 144 civili e ferendone 272 ed affondando due mercantili), e viene inviata alla sua ricerca mentre questa rientra a Gibilterra: alle 9.35 le navi italiane assumono rotta 270° (verso ovest), ed alle dieci, in seguito alle informazioni pervenute con nuovi messaggi, fanno rotta verso nord, con la III Divisione in posizione avanzata 10 km a proravia delle corazzate. Procedendo verso nord la visibilità (20.000 metri) e le condizioni meteomarine vanno migliorando, sebbene il cielo rimanga coperto da nuvole alte. Alle 12.35 il Trieste catapulta il suo idrovolante con l’ordine che questi segua la rotta 330° fino a 20 miglia dalla costa francese, per poi dirigere verso Genova ed infine ammarare a La Spezia. Alle 12.44, dopo vari messaggi contraddittori su rotta e posizione delle forze britanniche ed in mancanza di notizie fresche, la formazione italiana assume rotta 330° in modo da poterle intercettare nel caso stiano navigando verso ovest seguendo rotte costiere, ma alle 13.07, dopo aver ricevuto nuovi messaggi (che fanno pensare a Iachino che le forze britanniche si siano riuniti poco dopo mezzogiorno a sud di Capo Corso e stiano ripiegando verso sud intenzionati a passare vicino alle coste occidentali della Corsica), Iachino ordina che la III Divisione accosti per 50° (le corazzate assumono invece rotta 30° alle 13.16), dopo di che, quando le navi di Sansonetti si vengono a trovare 15 km a proravia delle corazzate a seguito di tale manovra, Iachino dispone che la III Divisione assuma rotta 30° e porti la velocità a 24 nodi. Alle 13.21 viene diramato l’ordine a tutte le unità di prepararsi al combattimento, ritenendo prossimo l’incontro con il nemico (anche perché alle 13.27 l’aereo del Trieste ha comunicato di essere 20 miglia a sudest di Capo Camarat e di non aver incontrato navi nemiche, apparentemente confermando che queste non stiano seguendo le rotte costiere, bensì fuggendo verso sud costeggiando la Corsica occidentale: in realtà, si saprà solo in seguito che era passato prima a 40 e poi a 20 miglia dalla Forza H, senza vederla a causa della scarsa visibilità), ed alle 15.24 il Trieste (la III Divisione si trova 15 km a proravia delle corazzate) avvista delle alberature e segnala di aver avvistato il nemico su rilevamento 50°: viene ordinato il posto di combattimento su tutte le unità, ma alle 15.32 il Trieste annulla il segnale di avvistamento, spiegando che la nave avvistata è in realtà una petroliera. Alle 15.38 Trieste annuncia di nuovo navi sospette su rilevamento 50°, ed alle 15.40 anche dalle corazzate vengono avvistate le loro alberature: certe di aver finalmente trovato la formazione britannica, le navi italiane si preparano al fuoco, ma alle 15.48 un’osservazione più attenta rivela che le alberature sono quelle di sette mercantili francesi che navigano in convoglio verso sudest (un convoglio di cui le autorità italiane, come da clausole di armistizio con la Francia, erano state preavvertite).
Iachino comprende che la sua supposizione era errata, ed alle 15.50 la squadra italiana accosta verso ovest (la III Divisione, su ordine di Iachino, accelera a 30 nodi per portarsi prima possibile nella nuova direzione di probabile avvistamento del nemico) per intercettare la Forza H nel caso stia navigando verso ovest lungo la costa francese, ma alle 17.20 la velocità viene ridotta a 20 nodi, mentre vengono meno le speranze di trovare le navi britanniche. Alle 18 le navi accostano verso nord, ed alle 19 verso est, riducendo la velocità a 18 nodi e cessando il posto di combattimento. Durante la notte, in seguito ad un ordine ricevuto alle 22.50, la squadra italiana incrocia nel golfo di Genova a 15 nodi (accelerando poi a 20 nodi alle otto del mattino del 10), venendosi così a trovare, alle nove del mattino del 10, al centro del quadratino 19-61, come ordinato (la III Divisione è in quel momento 10 km a proravia delle corazzate). Alle 9.07 viene ricevuto l’ordine di rientrare alle basi, e la III Divisione fa pertanto rotta su Messina, dove giunge in giornata.
12-13 marzo 1941
La III Divisione (Bolzano, Trieste e Trento), unitamente ai cacciatorpediniere Aviere, Carabiniere e Corazziere, alla vecchia torpediniera Giuseppe Dezza ed a tre MAS, fornisce protezione strategica (procedendo a qualche miglio dal convoglio) ai trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria in navigazione da Napoli (da dove sono partiti all’1.30 del 12) a Tripoli (dove arrivano alle 15.30 del 13) con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Folgore, Geniere e Camicia Nera.
27 marzo 1941
Il Bolzano (capitano di vascello Franco Maugeri) esce da Messina alle 5.30 del 27 insieme a Trento e Trieste (con a bordo l’ammiraglio Sansonetti, comandante la III Divisione) ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari, Corazziere, Carabiniere), per partecipare, insieme alla corazzata Vittorio Veneto, alla I Divisione (Zara, Pola, Fiume), alla VIII Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci), XIII (Granatiere, Fuciliere, Bersagliere, Alpino) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno), all’operazione «Gaudo», un’incursione contro il naviglio britannico nel Mediterraneo orientale, a nord di Creta. Verso le 6.15, nello stretto di Messina, la III Divisione con la XIII Squadriglia si pone 7 miglia a proravia della Vittorio Veneto, scortata dalla XIII Squadriglia: queste unità formano il gruppo «Vittorio Veneto» al comando dell’ammiraglio Iachino.
La navigazione prosegue senza incidenti sino alle 12.25 del 27 marzo, quando il Trieste comunica a Iachino la presenza di un ricognitore britannico Short Sunderland a sud della III Divisione (e che continuerà a tenerla d’occhio per mezz’ora); in seguito a questo – alle 12.20 il Sunderland ha comunicato l’avvistamento di tre incrociatori ed un cacciatorpediniere a cinque miglia per 270°, al largo di Capo Passero, per poi precisare alle 12.35 che le navi avvistate hanno rotta 120° e velocità 15 nodi: entrambi i messaggi vengono intercettati dalla Vittorio Veneto –, la squadra italiana, poco dopo le 14, accosta per 150° (prima la rotta era 134°) per trarre in inganno il velivolo (il cui messaggio rischia di rivelare la destinazione, e dunque le intenzioni, della squadra italiana), e segue questa rotta sino alle 16, per poi riaccostare per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23 nodi, in modo da arrivare nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba del 28. Alle 22 del 27 Supermarina annulla l’attacco a nord di Creta, dato che dalla ricognizione risulta che non vi sono convogli da attaccare.
28 marzo 1941
Alle 6.05 del mattino del 28 il Bolzano catapulta un idrovolante da ricognizione, avente il compito di esplorare il mare tra Gaudo e Cerigotto in cerca di eventuali forze nemiche che si trovino a nord della squadra italiana, per poi ammarare a Lero. L’aereo non troverà nulla, ed ammarerà a Lero alle 10.20, comunicando che non vi sono navi nemiche nella zona da esso esplorata.
Alle 6.35 un idroricognitore catapultato dalla Vittorio Veneto avvista la Forza B britannica (composta dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex, il tutto sotto il comando del viceammiraglio Henry Daniel Pridham-Wippell), in navigazione con rotta stimata 135° e velocità 18 nodi una quarantina di miglia ad est-sud-est dall’ammiraglia italiana. Alle 6.57, pertanto, mentre la Vittorio Veneto (nonché il sopraggiungente gruppo «Zara», composto da I e VIII Divisione, che si riunisce al resto della squadra nelle prime ore del 28, 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro) aumenta la velocità a 28 nodi, la III Divisione riceve l’ordine di assumere rotta 135° e velocità 30 nodi: Iachino intende far raggiungere alla divisione di Sansonetti gli incrociatori britannici, poi farla dirigere verso la Vittorio Veneto ed attirarli così verso la corazzata, e di conseguenza alle 7.34 ordina alla III Divisione di ripiegare verso la Vittorio Veneto dopo aver avvistato le forze britanniche. Pochi minuti dopo, alle 7.39, la III Divisione viene avvistata da un ricognitore decollato dalla portaerei britannica Formidable.
Alle 7.55 la III Divisione inizia a scorgere su rilevamento 205° i primi segni della sopraggiungente Forza B, comunicandolo a Iachino, e nel giro di qualche minuto tutta la formazione di Pridham-Wippell è in vista.
Anche la Forza B, tuttavia, ha l’ordine di attirare le navi italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet, uscita in mare con le corazzate Barham, Valiant e Warspite e la portaerei Formidable, della cui presenza in mare i comandi italiani sono totalmente all’oscuro: di conseguenza, le navi di Pridham-Wippell ripiegano verso Alessandria, costringendo la III Divisione ad inseguirle anziché ripiegare, e facendo fallire la trappola pianificata dall’ammiraglio Iachino. Ha così inizio lo scontro di Gaudo.
Alle 8.12 le navi di Sansonetti aprono il fuoco sulla Forza B da 22.000 (fonti italiane) o 23.000 (fonti britanniche) metri, mentre le unità britanniche – i cui cannoni da 152 mm (essendo tutti incrociatori leggeri) hanno gittata minore dei 203 dei “Trento” – non aprono il fuoco per un quarto d’ora, tranne il Gloucester, il quale, essendo la nave in coda e dunque più vicina a quelle italiane, spara tre salve, che sono ben raccolte e dirette ma cadono corte, a partire dalle 8.27 o 8.29, da 21.000 metri di distanza.
È proprio il Gloucester, per via della sua posizione, a costituire il bersaglio principale dei cannoni della III Divisione, dovendo iniziare a zigzagare per evitare di essere colpito dall’accurato tiro delle navi di Sansonetti: a sparare contro di esso è soprattutto il Bolzano, serrafila, che alle 8.29 ritiene di aver messo un colpo a segno sulla poppa del Gloucester da oltre 24.000 metri di distanza. Secondo quanto attestato dalle storie ufficiali, il Gloucester non sarebbe stato colpito; per altra fonte, invece, il proiettilie del Bolzano avrebbe effettivamente colpito il Gloucester, ma avrebbe perforato tre ponti e sarebbe poi uscito a poppa sinistra, all’altezza della terza torre, senza esplodere e dunque senza causare danni di rilievo.
Poco dopo la III Divisione accosta in fuori di 25°, passando da rotta 160° a rotta 135° (così portandosi fuori portata dei cannoni della Forza B), per poi riassumere, verso le 8.36, rotta nuovamente parallela a quella della Forza B.
Gli apparati di punteria dei “Trento”, telemetri a coincidenza Zeiss ormai superati (già prima della guerra si era pensato di rimodernarli, ma non era ancora stato possibile farlo, avendo dato la priorità alle nuove costruzioni), non consentono una grande precisione ed attendibilità: complici anche condizioni atmosferiche sfavorevoli al telemetraggio a grandi distanze, non danno alcuna misurazione affidabile prima che sia aperto il fuoco, e, anche in seguito, danno informazioni imprecise e sporadiche. Il Bolzano, più moderno, è in condizioni migliori sotto questo aspetto: ma i suoi telemetri riescono a dare qualche battuta solo dopo l’apertura del fuoco, e misurano una distanza di 28.000 metri, molto superiore a quella apprezzata dai direttori di tiro.
Le salve delle unità italiane risultano troppo disperse.
Alle 8.36 Iachino ordina alla III Divisione di dirigere verso ovest ed interrompere il combattimento qualora non riesca a raggiungere le navi nemiche, ritenendo, a ragione, pericoloso spingersi troppo verso est, in zona dove il controllo dei cieli è in mano britannica.
Benché sulla carta la velocità dei “Trento” dovrebbe essere di tre nodi superiore a quella della classe “Leander”, cui appartengono Ajax ed Orion, le navi di Sansonetti non riescono a serrare le distanze in maniera significativa: ciò perché i “Trento” hanno apparati motori vecchi di dodici anni contro gli otto dei “Leander”, ma soprattutto perché era uso della Royal Navy di calcolare la velocità massima delle proprie navi in effettive condizioni operative, contro la consuetudine della Regia Marina di prendere per buona la velocità sviluppata durante le prove a mare, con le navi alleggerite, in carico ridotto e talvolta ancora prive di alcuni componenti, il che dava risultati del tutto falsati.
La III Divisione continua il tiro fino alle 8.55, ma non riesce a colpire nessuna nave: tutte le salve cadono corte, tranne un proiettile del Bolzano che colpisce il Gloucester senza esplodere, mentre Orion e Perth subiscono solo lievi danni da schegge. Il Bolzano ha sparato in tutto 189 granate perforanti da 203 mm. A quell’ora, non essendo riusciti né a colpire in modo apprezzabile le navi nemiche né a ridurre le distanze, gli incrociatori di Sansonetti (al pari della Vittorio Veneto) accostano per 270° ed assumono rotta 300° e velocità di 28 nodi, ma vengono seguiti a distanza dalla Forza B, che si mantiene fuori tiro e tiene informato il resto della Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane.
Essendosene reso conto, alle 10.17 l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di proseguire sulla sua rotta fino a nuovo ordine e tenersi pronta al combattimento (spiegando anche le sue intenzioni), mentre la Vittorio Veneto e le altre navi invertono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione da una parte, la Vittorio Veneto ed il resto della formazione italiana dall’altra) ed impedirne la ritirata.
Le unità della Forza B sono però più a nord di quanto ritenuto (e segnalato), e pertanto l’incontro avviene alle 10.50: sulle prime la Forza B, incerta se le navi avvistate siano amiche o nemiche, effettua il segnale di riconoscimento, ma alle 10.56 la Vittorio Veneto apre il fuoco da 23.000 metri, ed al contempo Iachino ordina alla III Divisione di invertire la rotta e riprendere il combattimento.
La Forza B subito accosta verso sud e si ritira inseguita dalle navi italiane (la III Divisione cerca di serrare le distanze ma non fa in tempo ad intervenire), coprendosi con cortine fumogene; le distanze vanno aumentando ed il tiro della Vittorio Veneto risulta inefficace.
Alle 11.18, a causa delle distanze in aumento e dell’arrivo di aerosiluranti britannici che attaccano la Vittorio Veneto, la III Divisione riceve l’ordine di riassumere rotta 300°.
Successivi messaggi e segnalazioni (compresa quella dell’idroricognitore del Bolzano), che confermano l’assenza di traffico convogliato britannico da attaccare, fanno decidere all’ammiraglio Iachino di proseguire nella navigazione di ritorno verso le basi italiane, ed alle 11.30 la formazione di Iachino si avvia sulla rotta di rientro.
Alle 12.07 anche la III Divisione viene attaccata da tre aerosiluranti Fairey Swordfish decollati dall’aeroporto cretese di Maleme (armati con siluri Mark 12), provenienti dalla direzione del sole, che lanciano contro il Bolzano (nave di coda della formazione) attaccando da prua, ma la Divisione riesce a sventare l’attacco contromanovrando ed aprendo un intenso tiro contraereo, pur non colpendo alcun velivolo.


Il Bolzano sotto attacco da parte di aerosiluranti Swordfish a Capo Matapan.

Alle 13.23 la III Divisione si trova a 57 miglia per 214° da Gaudo; alle 15.20 ed alle 16.58 tale divisione viene attaccata da bombardieri britannici Bristol Blenheim, che sganciano in quota in due ondate, la prima di quattro (alle 15.20) e la seconda di sei (alle 16.58): nessuna nave viene colpita, ma alcune bombe cadono molto vicine a Trento e Bolzano.
Alle 15.19 tre aerosiluranti attaccano la Vittorio Veneto, mentre dei caccia attaccano le unità della XIII Squadriglia che la scortano, in cooperazione con bombardieri in quota partecipano: l’aereo del capitano di corvetta John Dalyell-Stead, prima di essere abbattuto, riesce a ridurre le distanze con la Vittorio Veneto a meno di 1000 metri ed a lanciare un siluro, che colpisce la nave da battaglia a poppa, in posizione 35°00’ N e 22°01’ E. Alle 15.30 la Vittorio Veneto, che ha imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si immobilizza, ma dopo sei minuti rimette in moto, sebbene a fatica: solo alle 17.13 riesce a sviluppare una velocità di 19 nodi. La flotta italiana dirige su Taranto, ed alle 16.38 l’ammiraglio Iachino, in previsione di altri attacchi aerei in arrivo al tramonto, lascia libera l’VIII Divisione per il rientro a Brindisi ed ordina che le altre unità si dispongano intorno alla danneggiata Vittorio Veneto per proteggerla da altri attacchi. La formazione risulterà assunta alle 18.40, con cinque colonne di unità disposte in linea di fila: da sinistra a destra, la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Corazziere, Carabiniere, Ascari), la III Divisione (nell’ordine Trieste, in testa, Trento al centro e Bolzano in coda), la Vittorio Veneto preceduta da Granatiere (in testa) e Fuciliere (tra il Granatiere e la corazzata) e seguita da Bersagliere (tra la nave da battaglia e l’Alpino) ed Alpino (in coda), la I Divisione (Zara, Pola, Fiume) e la IX Squadriglia (Vittorio Alfieri, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci, Alfredo Oriani). Alle 18.23 (nel frattempo la velocità della Vittorio Veneto è scesa a 15 nodi) vengono avvistati nove aerosiluranti britannici, che si tengono a distanza, alle 18.51 tramonta il sole, ed alle 19.15 la formazione italiana accosta per conversione ed assume rotta 270° (in modo da essere meno illuminate possibile dal sole che tramonta) ed alle 19.24 i cacciatorpediniere in coda iniziano a stendere cortine fumogene. Alle 19.28 gli aerosiluranti si avvicinano – le navi più esterne accendono i proiettori –, alle 19.30 vi è una nuova accostata per conversione (rotta assunta 300°) e sei minuti dopo tutti i cacciatorpediniere emettono cortine fumogene ed aprono il fuoco, mentre gli aerei passano all’attacco: intorno alle 19.50 il Pola viene colpito ed immobilizzato da un siluro.
Cessato l’attacco, e calato il buio, alle 19.50 si spengono i proiettori ed alle 20.11 cessa l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05 l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di portarsi 5 km a proravia della Vittorio Veneto, alla XIII Squadriglia di assumere posizione di scorta ravvicinata ed alla I Divisione di posizionarsi 5 km a poppavia della nave ammiraglia. Proprio in quei minuti si scopre che il Pola è stato immobilizzato (dapprima si era ritenuto che l’attacco fosse stato respinto senza danni), ed alle 21.06 la I Divisione invertirà la rotta per andare al soccorso dell’incrociatore colpito. Questa decisione, molto discussa in seguito, porterà al disastro: la I Divisione verrà infatti sorpresa mentre raggiunge il Pola dalle corazzate britanniche Barham, Valiant e Warspite e sarà annientata, con la perdita di Zara, Pola, Fiume, Alfieri e Carducci oltre che dello stesso Pola (e di oltre 2300 uomini), in quella che rimarrà la peggior sconfitta mai subita dall’Italia sul mare. Dopo la separazione dalla I Divisione, il resto della squadra italiana prosegue con rotta 323° e velocità 19 nodi alla volta di Taranto: la navigazione prosegue senza incidenti (alle 21.35 Iachino fa trasmettere al Trieste una richiesta d’intervento della caccia aerea per l’alba dell’indomani, a 60 miglia per 140° da Capo Colonne, per non congestionare la stazione radiotelegrafica della Vittorio Veneto) sino alle 22.30 quando, in lontananza, vengono avvistate le vampate di artiglierie: le navi italiane assistono alla fine della I Divisione. Da bordo della Vittorio Veneto si vede la III Divisione, che si è frattanto portata alcuni km a poppavia della corazzata, stagliarsi nettamente sullo sfondo dei bagliori dei proiettili illuminanti. Lo scontro, benché avvenga a circa 50 miglia di distanza, sembra svolgersi così vicino che Iachino invia il messaggio “Dite se siete attaccato” anche alla III Divisione, oltre che alla I. Sansonetti, ovviamente, risponde di no, mentre alla I Divisione l’unica risposta è il silenzio. Il tiro che si osserva a distanza si svolge in più fasi, alle 22.30, 22.40 e 23.06, i bagliori delle ultime esplosioni vengono visti alle 23.55.


Il Bolzano a Venezia in tempo di pace (da www.history.navy.mil)

29 marzo 1941
Il resto della formazione italiana (compresa la III Divisione), inutilmente cercato dalla Forza B (che invece trova il Pola immobilizzato, scambiandolo per la Vittorio Veneto) e da una flottiglia di otto cacciatorpediniere britannici al comando del capitano di vascello Philip Mack fin dopo mezzanotte, alle otto del 29 marzo, a 60 miglia per 139° da Capo Colonne, viene raggiunto dall’VIII Divisione frattanto richiamata; la III Divisione si pone quindi a dritta della Vittorio Veneto, con la VIII Divisione a sinistra della corazzata (e la X Squadriglia Cacciatorpediniere, anch’essa inviata di rinforzo, a sinistra della VIII Divisione). A partire dalle 6.23 giungono sul cielo della formazione, per scortarla nella navigazione di rientro, aerei tedeschi ed italiani: la scorta aerea, mancata – elemento cruciale – durante tutta l’operazione, arriva solo ora, nel golfo di Taranto.
Alle 9.08 del 29 marzo la formazione italiana assume rotta 343°, mettendo la prua su Taranto, ed arriva a Taranto poco dopo le 15.30. La III Divisione non viene fatta rientrare subito a Messina, ma viene bensì trattenuta per qualche tempo a Taranto.
24-30 aprile 1941
Bolzano e Trieste, insieme ai cacciatorpediniere Gioberti, Ascari e Carabiniere ed ed all’incrociatore leggero Eugenio di Savoia della VII Divisione, scortano a distanza un convoglio (mercantili italiani RialtoBirmania, mercantili tedeschi MarburgReichenfels e Kybfels, con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Fulmine ed Euro e delle torpediniere Procione, Orione e Castore) in navigazione in convoglio da Napoli (da dove è partito alle 23 del 24) verso la Libia.
A causa del mare mosso e delle notizie sugli spostamenti delle forze navali britanniche, il convoglio viene fatto sostare a Palermo e Messina (diviso in due gruppi) finché, riunito al largo Augusta, può infine partire per la Libia solo tra il 29 ed il 30 aprile. Giungerà indenne a Tripoli ale 23 del 1° maggio.


Vista da poppa (da forum.valka.cz)

6 maggio 1941
Assume il comando del Bolzano il capitano di vascello Francesco Ruta, che sostituisce il parigrado Maugeri.
24 maggio 1941
Alle 16 del 24 maggio la III Divisione (Bolzano e Trieste), di cui ha da poco assunto il comando l’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi (imbarcato sul Trieste), salpa da Messina insieme ad Ascari, Lanciere e Corazziere della XII Squadriglia, per fornire scorta a distanza ad un convoglio per la Libia composto dai trasporti truppe Conte Rosso (capoconvoglio, contrammiraglio Francesco Canzoneri), Esperia, Victoria e Marco Polo scortati dal cacciatorpediniere Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè) e dalle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso (poi temporaneamente rinforzate con l’invio di Perseo, Calliope e Calatafimi), salpato da Napoli alle 4.40 e che ha appena superato lo stretto di Messina.
Alle 20.45 del 24 maggio, tuttavia, una decina di miglia ad est di Capo Murro di Porco, il Conte Rosso viene silurato dal sommergibile britannico Upholder ed affonda rapidamente nel punto 36°41’ N e 15°42’ E, portando con sé 1297 dei 2729 uomini a bordo.
La III Divisione, che al momento dell’attacco si trovava 3000 metri a poppa del convoglio (Trieste e Bolzano in linea di fila con l’ammiraglia in testa, preceduta dai tre cacciatorpediniere della XII Squadriglia in linea di fronte) e che nulla ha potuto – come qualsiasi scorta di navi maggiori – contro un attacco subacqueo, può soltanto distaccare Lanciere e Corazziere alle 20.55 per dare la caccia all’Upholder insieme al Freccia, senza risultato (vengono lanciate 37 bombe di profondità i 19 minuti), e per soccorrere i superstiti.
Bolzano e Trieste, insieme all’Ascari, continuano a fornire protezione al resto del convoglio, che prosegue per Tripoli.
25 maggio 1941
Il convoglio entra a Tripoli alle 17.30; le navi di Brivonesi rientrano a Messina alle 20.
27 maggio 1941
Bolzano e Trieste scortano Esperia, Victoria e Marco Polo di ritorno in Italia ed un altro convoglio anch’esso in navigazione in rientro da Tripoli.
8 giugno 1941
Bolzano e Trieste, insieme a Lanciere, Ascari e Corazziere, salpano da Messina alle 15 per fornire scorta a distanza al convoglio «Esperia» (trasporti truppe Esperia, Marco Polo e Victoria, con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Freccia, Strale e Gioberti), salpato da Napoli alle 2.50 e diretto a Tripoli.
9 giugno 1941
La III Divisone torna a Messina alle sei del mattino. Il convoglio «Esperia» giunge a Tripoli alle 15.


Il Bolzano (in primo piano) ed il Trieste a Messina nel luglio 1941 (g.c. STORIA militare)

16-18 luglio 1941
Bolzano, Trieste (per altra fonte anche il Trento), Ascari, Carabiniere e Corazziere forniscono scorta a distanza ad un convoglio veloce partito da Taranto alle 16 del 16 e diretto a Tripoli, formato dai trasporti truppe Marco Polo, Neptunia ed Oceania con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Lanciere, Geniere (caposcorta), Oriani e Gioberti e della torpediniera Centauro. Il convoglio raggiunge Tripoli alle 14.30 del 18, dopo aver eluso un attacco da parte del sommergibile britannico Unbeaten contro l’Oceania.
19 luglio 1941
Il convoglio e la scorta lasciano Tripoli per tornare in Italia.
21 luglio 1941
Bolzano, Trieste e Gorizia (che formano la III Divisione), in porto a Messina, vengono allertati, come altre navi maggiori a Taranto e Palermo, per una possibile operazione di contrasto all’operazione britannica «Substance», consistente nell’invio da Gibilterra a Malta di un convoglio di sei navi mercantili cariche di truppe e rifornimenti, ma Supermarina comprende quali sono gli obiettivi dell’operazione nemica solo quando è ormai troppo tardi per inviare le forze navali contro il convoglio.
30 luglio 1941
Il marinaio ventunenne Paolo Costanzo, di Augusta, muore sul Bolzano nel Mediterraneo Centrale.

Una bella immagine notturna del Bolzano illuminato, in tempo di pace (da www.sulleormedeinostripadri.it

Siluri e bombe

Alle 9.50 del 23 agosto 1941 il Bolzano (al comando del capitano di vascello Francesco Ruta), insieme a Trento, Trieste e Gorizia (coi quali formava la III Divisione), salpò da Messina unitamente a quattro cacciatorpediniere, cui alle 18 se ne aggiunsero altri due inviati da Palermo. Alle cinque del mattino del 24 agosto la III Divisione si unì al largo di Capo Carbonara al gruppo «Littorio» (corazzate Littorio e Vittorio Veneto della IX Divisione e sei cacciatorpediniere), formazione che fu poco dopo rinforzata da altri cinque cacciatorpediniere provenienti da Trapani. Le navi italiane assunsero una rotta che le conducesse al centro del Tirreno: erano uscite in mare per contrastare l’operazione britannica «Mincemeat», consistente nell’uscita da Gibilterra di parte della Forza H (la portaerei Ark Royal, la corazzata Nelson, l’incrociatore leggero Hermione e cinque cacciatorpediniere) per bombardare gli stabilimenti industriali ed i boschi di sughero nella Sardegna settentrionale (con gli aerei dell’Ark Royal), posare mine al largo di Livorno (con il posamine veloce Manxman) e dissuadere, con tale dimostrazione di forza, la Spagna dall’entrare in guerra a fianco dell’Asse.
Tra le 6.30 e le 6.40 Littorio, Vittorio Veneto e Trieste catapultarono i loro idrovolanti da ricognizione, che tuttavia non riuscirono a trovare nulla; alle 11.15 fu il Bolzano a catapultare il suo ricognitore, ma con risultati non migliori. La formazione italiana, al comando dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino, aveva l’ordine di trovarsi per le otto del 24 trenta miglia a sud di Capo Carbonara, dato che la Forza H era stata avvistata da un ricognitore alle 9.10 del 23, circa 90 miglia a sud di Maiorca (il ricognitore ne aveva stimato la composizione in una corazzata, una portaerei, un incrociatore e quattro cacciatorpediniere, con rotta 270° e velocità 14 nodi), ed alle 19.18 di quel giorno dei rilevamenti radiogoniometrici avevano collocato la Forza H 145 miglia ad ovest di Capo Teulada.
Intorno alle cinque del mattino del 24, gli aerei dell’Ark Royal attaccarono la zona di Coghinas e Tempio Pausania con bombe e spezzoni incendiari, causando però pochissimi danni (una casa distrutta ed un soldato ucciso) nonostante la zona fosse ricca di boschi di sughero, mentre alle 7.45 la squadra italiana venne avvistata a sud della Sardegna da un ricognitore britannico, proprio mentre anche la Forza H veniva a sua volta localizzata 30 miglia ad est di Minorca, con rotta 105° e velocità 20 nodi.
Sulla base di tale avvistamento, Supermarina (che aveva intercettato il segnale di scoperta del ricognitore nemico, informando subito l’ammiraglio Iachino), ritenendo improbabile che le forze italiane potessero incontrare quelle britanniche entro il 24, a meno di non uscire dal raggio di copertura della caccia aerea, ordinò a Iachino di tenersi ad est del meridiano 8° (salvo, per l’appunto, riuscire ad incontrare la Forza H di giorno ed entro la zona protetta dalla caccia italiana) e di rientrare nel Tirreno dopo aver appoggiato la ricognizione che l’VIII Divisione era stata mandata a svolgere nelle acque di Capo Serrat e dell’isola di La Galite; ordinò poi alla III ed alla IX Divisione di trovarsi alle dieci del mattino del 25 agosto a 28 miglia per 150° da Capo Carbonara, per ripetere la manovra del 24. Alle 17.20 le forze britanniche vennero avvistate da un altro ricognitore trenta miglia a sudest di Maiorca, il che confermava che un incontro per il 24 non sarebbe stato possibile, mentre sarebbe stato probabile il giorno seguente.
Il mattino del 25, dato che la ricognizione aerea (che si spinse fino al 3° meridiano) non trovava traccia della Forza H, ed il traffico radio britannico stava tornando ai ritmi usuali, Supermarina decise di far rientrare alle basi le proprie forze navali; alle 13.35, di conseguenza, l’ammiraglio Iachino ricevette ordine di rientrare a Napoli. La sera del 25 si venne a sapere che all’alba la Forza H era stata avvistata ormai già in acque spagnole, tra Sagunto e Valencia, prima con rotta nord e poi diretta verso sud, accompagnata da numerosi velivoli. Più tardi era stata vista a sud di Capo Sant’Antonio e si erano sentite molte cannonate, probabilmente dovute ad esercitazioni di tiro.
Nel corso dell’operazione, per due volte la III Divisione aveva avvistato sommergibili nemici: la seconda, purtroppo, non si risolse in un semplice incontro.
Alle 5.54 del mattino del 26 agosto il sommergibile britannico Triumph (capitano di fregata Wilfrid John Wentworth Woods), in agguato a nord di Messina, avvertì rumori piuttosto forti di scoppi di bombe di profondità, che sembravano avvicinarsi. Sei minuti dopo, in posizione 38°22’ N e 15°38’ E, il Triumph avvistò verso nordovest un folto gruppo di navi italiane: essendo la luce ancora insufficiente, ed il periscopio d’osservazione fuori uso, Woods ci mise qualche minuto prima di riuscire a discernere la tipologia di navi nel periscopio, “tre corazzate od incrociatori, scortati da circa dieci cacciatorpediniere”. Era la III Divisione, che si apprestava ad imboccare lo stretto di Messina, di rientro dalla missione.
Il Triumph iniziò la manovra di attacco alle 6.11, ed alle 6.38, poco a nord dello stretto, lanciò due siluri da 4850 metri di distanza, contro l’incrociatore di coda: cioè contro il Bolzano. Subito dopo il lancio, il sommergibile britannico scese a 24 metri di profondità ed assunse rotta nord, per allontanarsi dalla posizione del lancio.
Uno dei siluri, circa tre minuti dopo il lancio, raggiunse il bersaglio: avvistate le armi all’ultimo momento e riuscita vana una manovra d’emergenza, il Bolzano fu colpito a poppa dritta, subito a poppavia della paratia dell’ultimo locale macchine, aprendo una falla lunga 15 metri ed alta 10.
Lo scoppio del siluro uccise otto uomini e ne ferì 22 (altra fonte parla di 7 morti, tra cui 3 ufficiali, e 19 feriti); tra le vittime ci fu il giovane tenente del Genio Navale Carlo Bertolini, che si era appena imbarcato sul Bolzano, mentre tra i feriti, in modo grave, vi fu il capitano del Genio Navale Armando Traetta, sottordine del direttore di macchina.
Diversi compartimenti poppieri furono allagati da 2000 tonnellate d’acqua, determinando un forte appoppamento della nave; l’esplosione della carica di 340 kg di esplosivo aveva danneggiato in modo gravissimo le strutture dello scafo a poppa estrema, lesionando anche il lato opposto a quello d’impatto del siluro (quello sinistro) e deformando e sollevando tutti i ponti, al punto che il ponte di coperta rimase “ingobbato” a poppavia delle torri poppiere. A malapena la poppa rimase attaccata al resto della nave, grazie alla struttura delle lamiere del lato sinistro e dei ponti, sebbene molto deformati. Gli assi delle due eliche azionate dalla motrice di poppa furono gravemente danneggiati, risultando pressoché inutilizzabili; le caldaie rimasero invece tutte in funzione, mentre il locale timone a mano era allagato, ma risultò comunque possibile, seppur con difficoltà, sbloccare il timone. Il deposito munizioni della torre numero 4 venne subito allagato.
Il servizio di sicurezza agì tempestivamente, chiudendo immediatamente le paratie e prendendo altri provvedimenti d’emergenza. Il direttore di macchina, maggiore del Genio Navale Luigi Petrillo, diede subito gli ordini necessari per mantenere la nave in condizioni di galleggiabilità; si provvide a puntellare le paratie danneggiate ed effettuare intercettazioni e bilanciamenti. L’ammiraglio Brivonesi elogiò poi, nel suo rapporto, la condotta di Petrillo, del comandante Ruta e di tutto l’equipaggio del Bolzano, che rimase ai propri posti mantenendo calma e disciplina, permettendo il salvataggio della nave.
Il direttore di macchina Petrillo sarebbe stato in seguito insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: “Capo servizio G.N. di incrociatore, apportava con la sua opera professionale, inspirata ad elevatissimo senso del dovere, un valido contributo al potenziamento dell’unità e alla preparazione tecnica del personale dipendente. Colpita gravemente la nave da siluro di sommergibile nemico, si prodigava con slancio, ardimento e sicura competenza nella direzmne di ardue operazioni in locali pericolanti e con vie d’acqua, apportando un essenziale concorso al salvataggio dell'unità”.
La stessa decorazione fu conferita al comandante Ruta: “Comandante di incrociatore fatto segno al lancio di un siluro da parte di un sommergibile nemico, in condizioni che non consentivano di evitare l'offesa, affrontava con risolutezza la grave situazione e, manovrando rapidamente, riusciva a far sì che l’unità non venisse colpita in zone vitali. Conduceva subito dopo la navigazione per il rientro alla base con perizia e calma esemplari, e dirigeva le operazioni per garantire la sicurezza della nave colpita, infondendo in tutti i dipendenti serena fiducia e spirito di fattiva collaborazione.
Riusciva a portare in salvo alla base la sua nave, sfruttando con sagacia l’alto grado di preparazione a cui l’aveva condotta con tenace e fattiva opera.”


Due immagini del Bolzano in arrivo a Messina la mattina del 26 agosto 1941, dopo il siluramento da parte del Triumph: è vistoso l’“ingobbamento” della coperta, segno dei danni strutturali causati dal siluro (g.c. STORIA militare)


Assistito da due rimorchiatori, il Bolzano riuscì faticosamente a raggiungere Messina alle 10.55, mentre il cacciasommergibili Albatros e la vecchia torpediniera Giuseppe Missori venivano inviati a dare la caccia al sommergibile. Durante la caccia la Missori perse la propria torpedine da rimorchio, ed il suo comandante ritenne che questa fosse incappata nel battello nemico, affondandolo; in realtà il Triumph era indenne e si stava ritirando verso il mare aperto, per sottrarsi alla pesante caccia antisommergibili portata da unità sottili ed aerei antisom della scorta. Nella notte tra il 27 ed il 28, anzi, il sommergibile sbarcò sulla costa siciliana anche alcuni commandos britannici incaricati di distruggere un ponte sul torrente Furiano, una novantina di chilometri ad est di Palermo.

I caduti nel siluramento:

Francesco Alfiere, marinaio carpentiere, 21 anni, da Caronia
Carlo Bertolini, tenente del Genio Navale, 23 anni, da Reggio Emilia
Giovanni Cesale Ros, marinaio fuochista, 21 anni, da Torino
Sante Cinti, marinaio, 20 anni, da Comacchio
Giovanni Cutich, marinaio elettricista, 19 anni, da Pola
Gerlando (Dino) Liotta, sottotenente di vascello, 25 anni, da Licata
Emilio Mazzola, marinaio meccanico, 20 anni, da Zanica
Ettore Zanetto, sottotenente del Genio Navale, 25 anni, da Venezia


A Messina iniziarono subiti i primi e più urgenti lavori di riparazione, effettuati con i modesti mezzi disponibili nel piccolo arsenale della base siciliana (che disponeva di un unico bacino di carenaggi di lunghezza insufficiente, solo 105 metri), allo scopo di mettere il Bolzano in condizione di trasferirsi sul continente, dove avrebbe potuto ricevere riparazioni più estese in un arsenale maggiormente attrezzato.


Il siluramento del Bolzano nel giornale di bordo del Triumph (da Uboat.net):

“0554 hours - Heard fairly loud depth charging getting nearer.
0600 hours - In position 38°22'N, 15°38'E sighted a number of ships to the North-Westward. The light was still very poor, and as the high power periscope was out of action it was some minutes before these were seen to be three battleships or cruisers escorted by about ten destroyers.
0611 hours - Started attack.
0638 hours - Fired two torpedoes from 5300 yards at the rear cruiser. Immediately upon firing Triumph went to 80 feet and cleared the firing position by setting course to the Northward. One muffled explosion was heard approximately three minutes after firing. A second muffled explosion was heard eleven minutes after firing.
0647 hours - Returned to periscope depth. The visibility in the direction of Messina was still very poor, but as far as could be seen only two large ships were entering the Straits. Some way astern of them hardly visible against the land, was what appeared to be a stationary ship with a column of smoke rising from it. Several minutes later aircraft and destroyers appeared and started dropping depth charges. It seemed very likely that one of the torpedoes did hit the rear cruiser. Due to the very heavy A/S activity Cdr. Woods retired to seaward.”

Le disgrazie, per il Bolzano, non erano ancora finite: la nave rimase a Messina per gli iniziali lavori di riparazione, ma nella notte tra il 9 ed il 10 settembre 1941 la base siciliana fu oggetto di un’incursione aerea da parte di bombardieri Vickers Wellington della Royal Air Force di Malta. L’allarme fu dato alle 23.15 del 9 e si protrasse fino alle 3.20 del 10; la contraerea sparò in tutto 16.500 colpi di cannone ed oltre 72.000 di mitragliera, le navi della III Divisione spararono contro gli aerei 1786 colpi da 100 mm, 8783 da 37 mm, 15.560 da 20 mm, 21.980 da 13,2 mm e 3000 di calibri minori. Venne anche emessa tempestivamente nebbia artificiale, che insieme al furioso tiro contraereo (che però non abbatté alcun velivolo) impedì ai bombardieri di mettere molte bombe a segno.
Il Bolzano, ormeggiato al Molo Libia, fu l’unica nave ad essere colpita: intorno alle ore 20 (per altra fonte, subito dopo mezzanotte), una singola bomba semi perforante da 113 kg perforò il ponte di tuga, a dritta della catapulta (lasciando un foro di 20 cm sul ponte di coperta corazzato), ed esplose sul ponte di batteria, nel locale lanciasiluri prodiero, lanciando tutt’intorno fiamme e schegge e provocando una strage tra il personale che vi si trovava.
L’esplosione costrinse a spegnere i tre generatori elettrici, provocando un momentaneo blackout, e scatenò un violento incendio a poppa dritta (un medico dell’ospedale di Messina commentò che la nave “ardeva come una torcia”), che poté essere domato soltanto alle cinque del mattino.


Il foro d’entrata della bomba che colpì il Bolzano (g.c. STORIA militare)

Nondimeno, la nave continuò a fare fuoco con il proprio armamento contraereo, per ordine del comandante Ruta.
Le manichette erano prive di acqua, perché la pompa aveva smesso di funzionare dopo lo scoppio della bomba; il direttore di macchina Petrillo, ferito ed accecato ad un occhio dall’esplosione, diede ordine di portare sul posto gli estintori, poi perse i sensi a causa delle ferite. Portato in infermeria, quando si riprese tornò di nuovo a dirigere gli sforzi per arrestare l’incendio; mentre le vittime venivano portate fuori dai locali colpiti ed i feriti erano trasportati in infermeria, fece chiudere tutti gli osteriggi della tuga, per soffocare eventuali focolai d’incendio nei locali sottostanti. Un’autompompa arrivò sulla banchina e si portò sottobordo al Bolzano per contribuire a domare le fiamme, mentre si cercava di attingere acqua dalla cisterna che si trovava sotto l’altro fianco dell’incrociatore.
I feriti gravi vennero caricati sulle ambulanze che via via arrivavano sul molo, e portati all’ospedale di Messina; una volta domato l’incendio, fu condotto – controvoglia – in ospedale anche il direttore di macchina Petrillo, che ormai non ci vedeva quasi più neanche dall’altro occhio. Il trauma era solo temporaneo, e nel giro di qualche tempo Petrillo avrebbe riacquistato pienamente la vista da entrambi gli occhi; per il suo operato a seguito del bombardamento avrebbe ricevuto una Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione “Capo Servizio del G.N. di incrociatore, durante una incursione aerea del nemico, in seguito allo scoppio di una bomba, riportava, stando al suo posto di combattimento, una grave contusione alla testa con temporanea perdita della vista. Benché inviato a raggiungere il posto di medicazione insisteva per rimanere nella zona colpita ed esposta, mentre perdurava l’attacco, nell’intento di seguire le operazioni atte a far fronte ai danni causati dalla bomba. Soltanto allorché stremato di forze, si abbatteva esanime, poteva essere allontanato dal suo posto”.
Anche il comandante Ruta fu decorato di Medaglia di Bronzo, con la motivazione “Comandante di incrociatore colpito al centro da una grossa bomba aerea scoppiata in batteria, causando molti morti e feriti, provocando un violento incendio ed inutilizzando la centrale elettrica, si preoccupava prima di tutto di far continuare il tiro contraereo. Accorreva poi sul posto e coadiuvato dai pochi ufficiali che si trovavano a bordo della nave già precedentemente menomata, dirigeva l’opera di spegnimento dell’incendio e di soccorso ai feriti ed agli ustionati, dando chiaro esempio di calma, di forza d’animo e di altro sentimento del dovere”.
Le conseguenze del bombardamento, per l’equipaggio del Bolzano, furono ancora più funeste di quelle del siluramento di appena due settimane prima: dodici uomini rimasero uccisi ed una trentina furono feriti (uno dei quali, il sottocapo meccanico Tullio Moschen, morì in ospedale cinque giorni più tardi).

Le vittime:

Amerio Pietro, marinaio fuochista, 21 anni, da Villa S. Secondo
Luigi Colledan, marinaio fuochista, 23 anni, da Pasiano di Pordenone
Angelo Comparato, sottocapo carpentiere, 24 anni, da Licata
Giuseppe De Ceglie, marinaio fuochista, 21 anni, da Molfetta
Sante Deligia, sottocapo carpentiere, 23 anni, da La Maddalena
Vincenzo Di Martino, marinaio fuochista, 21 anni, da Castellammare di Stabia
Luigi Di Napoli, secondo capo meccanico, 29 anni, da San Severo
Placido Freni, marinaio fuochista, 20 anni, da Messina
Tullio Moschen, sottocapo meccanico, 20 anni, da Levico, caduto il 15/9/1941
Giuseppe Putignano, marinaio cannoniere, 21 anni, da Santeramo in Colle
Federico Savarese, tenente CREM, 51 anni, da Caggiano
Luigi Scagnetti, sottocapo carpentiere, 19 anni, da Treppo Grande
Roberto Zafarana, marinaio fuochista, 21 anni, da Catania


La notte successiva, il Bolzano fu nuovamente attaccato da aerei nemici: questa volta, però, la reazione delle difese contraeree a terra fu più efficace e nessuna nave venne colpita, mentre uno dei velivoli attaccanti venne abbattuto.
I gravi danni subiti nel bombardamento ritardarono la partenza del Bolzano da Messina per il continente: fu necessario rinforzare i locali danneggiati, prosciugare quelli allagati (nei limiti del possibile) ed anche realizzare una paratia stagna d’emergenza. Solo il 4 ottobre 1941, dopo una prova in mare effettuata il 29 settembre, l’incrociatore poté lasciare la base siciliana, propulso esclusivamente dalle motrici di prua (che azionavano le due eliche esterne). Aveva a bordo 1850 tonnellate di carburante, 266 di acqua e 31 di olio. Il deposito munizioni numero 3 venne svuotato, mentre quelli prodieri furono lasciati pieni (302 proiettili esplosivi e 414 perforanti); il deposito numero 4, contenente 140 proiettili esplosivi e 204 perforanti, non poté essere vuotato perché ancora allagato.
Navigando, scortato, ad una velocità media di 12 nodi, il Bolzano giunse a La Spezia il 6 ottobre, ed il 9 si trasferì a Genova, dove entrò nei cantieri Ansaldo-OARN (Officine Allestimento e Riparazioni Navi): qui sarebbe rimasto in riparazione fino al maggio 1942, impegnando un gran numero di uomini e mezzi nelle riparazioni (ancora il 20 aprile 1942, erano 995 gli uomini impiegati nei lavori sul Bolzano).
Fu praticamente necessario ricostruire l’intera zona poppiera; vennero eliminati i tubi lanciasiluri anteriori ed installate alcune mitragliere da 20 mm.

Durante i lavori di riparazione effettuati a Genova, il 14 dicembre 1941, il Bolzano fu oggetto di una “spiata” di Laura d’Oriano, spia al servizio dei britannici, che lo osservò nel bacino delle Grazie e ne segnalò la presenza, per lettera (una lettera in italiano dal contenuto “ordinario”, con le informazioni sensibili scritte tra le righe, in francese e con inchiostro simpatico), ad un agente segreto britannico attivo a Marsiglia. Il 26 dicembre la D’Oriano, già tenuta sotto osservazione dal controspionaggio italiano, sarebbe stata arrestata dalla polizia italiana; processata dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, fu condannata a morte e fucilata il 16 gennaio 1943.

I lavori di riparazione del Bolzano andarono per le lunghe: la nave tornò in servizio soltanto nella prima metà di maggio del 1942, a quasi dieci mesi dal siluramento.
Durante questo lungo periodo il comandante Ruta si ammalò improvvisamente di polmonite, ed il 1° maggio 1942 dovette essere sostituito al comando del Bolzano dal più anziano capitano di vascello Mario Mezzadra.
Proprio di polmonite contratta in servizio era improvvisamente deceduto a Genova il 7 gennaio 1942, dopo soli tre giorni di ricovero in ospedale, il capitano di fregata Leonardo Gramaglia, comandante in seconda del Bolzano nel 1940-1941 e poi nuovamente da fine 1941.


Due belle foto del Bolzano a La Spezia dopo la fine dei lavori, a inizio maggio 1942 (g.c. STORIA militare).


15 maggio 1942
Completati i lavori di riparazione, il Bolzano lascia Genova alle 5.20 e si trasferisce a La Spezia, dove giunge alle 15.30, per un periodo di addestramento dell’equipaggio, per poter tornare pienamente operativo.



Due foto del Bolzano nel 1942 (sopra: da www.youtube.com; sotto: da www.digilander.libero.it/planciacomando


12 giugno 1942
Il mattino del 12, mentre prende il via l’Operazione «Mezzo Giugno» per il contrasto a due convogli britannici inviati a rifornire Malta («Harpoon» e «Vigorous»), che darà vita ad una delle più grandi battaglie aeronavali della guerra del Mediterraneo, il Bolzano (ancora impegnato nell’addestramento dell’equipaggio a La Spezia, per tornare operativo), riceve ordine da Supermarina di prepararsi ad uscire in mare, per congiungersi a sud della Sardegna (il mattino del 14) con le forze navali (III, VII e IX Divisione Navale) che dovranno intercettare il convoglio britannico «Harpoon» partito da Gibilterra e diretto a Malta. La sera del 12, tuttavia, giungono a Supermarina i rapporti di altri ricognitori, che hanno avvistato il secondo convoglio («Vigorous», proveniente da Alessandria d’Egitto): ritenendo che questo sia il convoglio principale, Supermarina cancella gli ordini dati in precedenza ed invia il grosso delle forze navali contro di esso. Nonostante vi sia tempo di trasferire il Bolzano a sud per attaccare «Vigorous», si decide infine di lasciarlo fuori dall’operazione, e l’incrociatore rimane così a La Spezia.


La nave a La Spezia nel giugno 1942.

4 luglio 1942
Il Bolzano, insieme all’incrociatore leggero Duca degli Abruzzi, lascia La Spezia alle 23.30 diretto a Messina, con la scorta della torpediniera Calliope e del cacciatorpediniere Corsaro.
6 luglio 1942
Intorno alle 5, nello stretto di Messina, il Bolzano lascia la formazione e raggiunge Messina, mentre le altre navi proseguono per Navarino, destinazione del Duca degli Abruzzi.
17 luglio 1942
Il Bolzano viene visitato a Messina da Umberto di Savoia.


Altre due immagini del Bolzano a La Spezia nel 1942, con la colorazione mimetica ricevuta al termine dei lavori di riparazione (sopra: g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net; sotto: da www.forummarine.forumactif.com)


Mezzo Agosto: il secondo siluramento

Alle 9.40 del 12 agosto 1942 il Bolzano (al comando del capitano di vascello Mario Mezzadra, che era alla sua prima missione di guerra col Bolzano), insieme al Trieste (che però, secondo alcune fonti, non partì da Messina ma si aggregò a Bolzano e Gorizia in mare aperto, provenendo da un porto dell’Alto Tirreno) ed al Gorizia (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Angelo Parona, comandante della III Divisione), nonché ai cacciatorpediniere Grecale, Corsaro, Legionario, Aviere, Geniere, Ascari e Camicia Nera, salpò da Messina per attaccare il convoglio britannico diretto a Malta nell’ambito dell’operazione «Pedestal», nell’ambito della battaglia aeronavale di Mezzo Agosto.
L’intercettazione sarebbe dovuta avvenire sud di Pantelleria, quando la forza “pesante” di scorta (Forza Z), che includeva due corazzate e tre portaerei, avrebbe lasciato il convoglio, affidandolo ad una forza leggera formata da pochi incrociatori leggeri e da un decina di cacciatorpediniere (Forza X). Nel corso delle successive ventiquattr’ore, inoltre, convoglio e scorta sarebbero stati sottoposti ad incessanti attacchi di aerei, sommergibili e motosiluranti, che avrebbero inflitto loro gravi perdite.
Strada facendo, la III Divisione doveva congiungersi con la VII Divisione dell’ammiraglio di divisione Alberto Da Zara (incrociatori leggeri Eugenio di Savoia – nave ammiraglia –, Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, più i cacciatorpediniere Maestrale, Oriani, Gioberti e Fuciliere), proveniente da Cagliari (da dov’era partita alle 20 dell’11, tranne l’Attendolo, salpato da Napoli alle 9.30 del 12); insieme, le due Divisioni avrebbero potuto agevolmente distruggere quanto che restava del convoglio, i cui pochi mercantili superstiti arrancavano in disordine verso Malta con la sola scorta di sette cacciatorpediniere e due incrociatori leggeri, uno dei quali danneggiato, sotto continui attacchi aerei, subacquei e di mezzi insidiosi.
Sulle prime si era pensato di impiegare la squadra da battaglia, ma l’idea era stata scartata per vari motivi: la Luftwaffe non intendeva fornire copertura alla flotta italiana (si riteneva più utile mandare gli aerei ad attaccare il convoglo); c’era poco carburante; si credeva che ci fossero 12-15 sommergibili britannici in agguato lungo le rotte che dalle basi italiane portavano al luogo del probabile scontro (in realtà erano poco più della metà). La conclusione, non scorretta, era che una forza di soli incrociatori avrebbe corso meno rischi e sarebbe stata egualmente in grado di distruggere il convoglio già disperso e decimato; si sarebbe replicato l’attacco portato due mesi prima (battaglia di Mezzo Giugno) dalla VII Divisione contro il convoglio britannico «Harpoon», ma contando stavolta su una forza più potente, e facendo tesoro dell’esperienza accumulata per evitare di ripetere gli stessi errori che, allora, avevano permesso a due dei sei mercantili di sfuggire insieme con la loro scorta.
Memore delle perdite subite a Mezzo Giugno per mano degli aerosiluranti di Malta (siluramento della corazzata Littorio e dell’incrociatore pesante Trento, quest’ultimo poi affondato dal sommergibile HMS Umbra), Supermarina subordinava l’intervento degli incrociatori alla disponibilità di aerei da caccia, per la scorta aerea; nel Mediterraneo, però, non vi erano che cinque gruppi di caccia moderni (tre italiani e due tedeschi) per scortare 400 bombardieri ed aerosiluranti pronti ad attaccare il convoglio dalle basi siciliane e sarde. Il comando del Corpo Aereo Tedesco, che disponeva soltanto di 40 caccia, si rifiutò di assegnarli alla scorta delle navi, ritenendoli necessari alla scorta degli aerei inviati contro il convoglio; Superarereo offrì maggiore collaborazione, ma assegnò i caccia migliori alla scorta di bombardieri ed aerosiluranti, destinando il superfluo (modelli più vecchi come i Macchi Mc 200, i Reggiane Re 2000, e persino gli obsoleti biplani FIAT CR. 42; nonché alcuni dei pochi bimotori FIAT CR. 25 prodotti) alla scorta delle navi. L’11 ed il 12 agosto si discusse a lungo sia al Comando Supremo che a Palazzo Venezia, finché il maresciallo Ugo Cavallero, capo di Stato Maggiore generale delle forze armate italiane, convinse il generale di squadra aerea Rino Corso Fougier, capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, ad assegnare per il 13 agosto un buon numero di aerei da caccia, che si sarebbero alternati in turni di sei per volta, alla scorta degli incrociatori; rispetto ai 60 caccia inizialmente previsti (Supermarina ne aveva in principio chiesti 80), ne sarebbero stati sufficienti 45.

Alle 19 del 12 agosto, la III e la VII Divisione si riunirono nel Basso Tirreno; l’incontro con i resti del convoglio era previsto per la mattina del 13, a sud di Pantelleria, nel punto più stretto del Canale di Sicilia.
Alle 22 Supermarina ordinò agli incrociatori di ridurre la velocità (che era in quel momento di 20 nodi), in modo da arrivare al largo di Capo San Vito non prima di mezzanotte.
Alle 22.37, tuttavia, la formazione venne avvistata e segnalata, mentre procedeva con rotta sud un’ottantina di miglia a nord dell’estremità occidentale della Sicilia, da un ricognitore Vickers Wellington dotato di radar (che fu a sua volta rilevato dal radar del Legionario). Per altra fonte, la III Divisione era stata avvistata da un aereo nemico già alle 19.22.
Il comandante delle forze aeree di Malta, maresciallo dell’aria Keith Parks (un neozelandese che era stato tra i protagonisti della battaglia d’Inghilterra), resosi conto del rischio che gli incrociatori italiani rappresentano nei confronti del convoglio, ordinò prima al Wellington che li aveva avvistati, e poi anche ad un secondo Wellington da ricognizione inviato a seguire gli spostamenti della formazione italiana (entrambi appartenevano al 69th Squadron ed erano dotati di radar ASV, Air to Surface Vessel; li distinguevano le lettere identificative “O” e “Z”), di sganciare bombe e bengala, per indurre le unità italiane a ritenere di essere sotto ripetuti attacchi aerei, così da dissuaderle dal proseguire nella navigazione verso il convoglio. Per rafforzare l’inganno, Parks si spinse ad ordinare ripetutamente ai ricognitori – in chiaro, al preciso scopo di essere intercettato – di comunicare la posizione della forza italiana per consentire alle formazioni di bombardieri B-24 “Liberator” di attaccarli: formazioni di “Liberator” che, però, non esistevano (questo fu il messaggio ricevuto dal Wellington, con un certo stupore tra il suo equipaggio, non informato dello stratagemma «Report result your attack, latest enemy position for Liberators, most immediate»).
C’erano invece a Malta reparti di aerosiluranti Bristol Beaufort, che si tenevano pronti ad attaccare le navi italiane in caso di estrema necessità; ma per il momento, furono tenuti a terra.
Supermarina cadde nell’inganno. A Roma infuriarono discussioni sul da farsi: l’ammiraglio Arturo Riccardi, capo di Stato Maggiore della Regia Marina, richiese al feldmaresciallo Albert Kesselring l’invio di 80 caccia della Luftwaffe per fornire copertura aerea alle navi, che presto – si riteneva – sarebbero state attaccate dai bombardieri di Malta (Supermarina, sempre prudentissima, non intendeva inviare gli incrociatori più a sud di Pantelleria senza adeguata scorta aerea); l’ammiraglio Eberhard Weichold, ufficiale di collegamento con la Marina tedesca a Roma, appoggiò il suo collega italiano nella richiesta a Kesselring, ed anche il maresciallo Cavallero insisté in questo senso, temendo che l’operazione britannica potesse comprendere anche uno sbarco sulle coste della Libia. Ma Kesselring rispose che non aveva abbastanza caccia disponibili: quelli che c’erano sarebbero bastati solo per la scorta ai bombardieri tedeschi, oppure solo alle navi italiane. In considerazione anche delle deludenti prove date in precedenza dalle forze da battaglia italiane negli attacchi ai convogli britannici – il fallimento della seconda Sirte ed il successo solo parziale a Mezzo Giugno contro il convoglio «Harpoon» – Kesselring, poco convinto delle probabilità di successo degli incrociatori italiani, preferiva impiegare tutti gli aerei a sua disposizione negli attacchi diretti contro il convoglio, e quindi assegnare i caccia alla scorta dei bombardieri. (Kesselring aveva ragione di essere deluso per i precedenti attacchi navali italiani contro convogli britannici; è però il caso di notare che, contrariamente a quanto lui si aspettava, neppure gli aerei della Luftwaffe furono poi in grado di annientare il convoglio «Pedestal»).
Il comando della Seekriegsleitung, concordando con Weichold, supportò con tutti gli argomenti disponibili l’impiego degli incrociatori italiani, esprimendo l’opinione che, in caso contrario, si sarebbe perduta l’occasione di distruggere il più grande convoglio britannico mai visto nel Mediterraneo, in condizioni di superiorità numerica e di armamento. Ma Kesselring, cui spettava la decisione finale, non condivise tali conclusioni.
Dopo lunghe pressioni di Cavallero, il generale Corso Fougier acconsentì a destinare 40 caccia Macchi Mc 202 alla scorta delle navi; si trattava di un grosso sacrificio per le sue forze, che in Sicilia disponevano già di caccia appena sufficienti a scortare solo parte dei bombardieri e degli aerosiluranti. Ma Riccardi e Cavallero non li ritennero comunque adeguati; i sempre ansiosi vertici di Supermarina temevano inoltre, sulla base dell’interpretazione di alcuni segnali di scoperta (quelli dei sommergibili Bronzo ed Axum, che avevano avvistato unità navali dirette verso est a nord della costa tunisina; e quello di un idroricognitore CANT Z. 506, che aveva segnalato “tre grandi navi” – in realtà, l’incrociatore leggero Charybdis ed i cacciatorpediniere Eskimo e Somali – che seguivano il convoglio, al largo dell’Isola dei Cani), che potesse esserci anche una corazzata, o forse più di una, quale forza di sostegno al convoglio nel Canale di Sicilia.
A rincarare la dose, un U-Boot tedesco segnalò di aver avvistato quattro incrociatori e dieci cacciatorpediniere britannici nel Mediterraneo orientale, apparentemente diretti verso Malta. Era un altro inganno: si trattava di un convoglio “fittizio” (composto in realtà da due incrociatori, cinque cacciatorpediniere ed alcuni mercantili) che i britannici avevano inviato verso Malta al preciso scopo di distrarre l’attenzione dei comandi italiani dal vero convoglio.
Le discussioni finirono col giungere ad un punto morto, pertanto gli alti ufficiali deliberarono di interpellare Mussolini in persona. Svegliato il dittatore, Cavallero gli spiegò per telefono, a tinte alquanto fosche (intento suo e di Riccardi – appoggiato in questo dal suo vice, ammiraglio Luigi Sansonetti – era d’altra parte di strappare a Mussolini il consenso per il ritiro degli incrociatori: Cavallero disse a Mussolini che Riccardi riteneva la missione “troppo pericolosa per la Marina” e per giunta, giudizio più che discutibile, “un rischio non pagato da un rendimento corrispondente”), che senza copertura aerea sarebbero stati attaccati dai bombardieri di Malta subendo gravi danni, aggiungendo anche la notizia dell’avvistamento di navi britanniche nel Mediterraneo orientale; asserì che avrebbe incaricato l’Aeronautica di massimizzare gli sforzi contro il convoglio il giorno seguente.
Mussolini fu convinto da tanto eloquio: disse a Cavallero che non intendeva rischiare le sue navi se i tedeschi non erano disposti a proteggerle, e si dichiarò convinto che gli aerei e le motosiluranti italiane sarebbero riusciti comunque a distruggere il convoglio prima che raggiungesse Malta. Di conseguenza, la missione degli incrociatori fu annullata: la più grande occasione che si fosse mai presentata alla Regia Marina per trasformare un ottimo successo tattico (colto nelle ore precedenti da sommergibili, aerei e motosiluranti) in uno strepitoso successo strategico andò così in fumo, per l’eccessivo timore di perdite che si verificarono lo stesso, ma in condizioni ben più umilianti.
L’ammiraglio Burrough, comandante della Forza X di scorta al convoglio di «Pedestal», avrebbe commentato nel 1969 di essere molto grato a Mussolini per quella scelta, in quanto l’arrivo degli incrociatori italiani addosso al convoglio, il mattino seguente, sarebbe risultato in un massacro per le superstiti navi britanniche.

Alle 00.30 del 13 Supermarina ordinò alla III e VII Divisione, che in quel momento erano ad una ventina di miglia da Capo San Vito (ad ovest di Trapani), di virare verso est per tornare alle basi, paventando attacchi aerei nemici sulla base dell’intercettazione dei numerosi messaggi radio inviati da Malta ai propri ricognitori. Tre minuti più tardi, tutti gli incrociatori evoluirono per evitare siluri lanciati da aerei.
Supermarina decise di inviare la III Divisione nello Ionio, anziché nel Tirreno, per unirsi all’VIII Divisione (uscita da Navarino) allo scopo di attaccare le navi avvistate nel Mediterraneo orientale, mentre la VII Divisione sarebbe tornata in porto.
I finti attacchi aerei e messaggi continuarono ad ogni modo anche nelle ore successive, per evitare che i comandi italiani potessero cambiare idea ed ordinare agli incrociatori di riprendere la navigazione verso ovest per attaccare il convoglio.
Per buona parte della navigazione, “ULTRA” tenne sotto controllo gli spostamenti degli incrociatori italiani, decrittando le trasmissioni radio compilate con la macchina cifrante Enigma: dapprima apprese della partenza del Trieste da un porto dell’Alto Tirreno (La Spezia) nella notte tra 11 e 12 agosto, diretto verso sud, e poi che tra le 8.40 e le 11 del 12 Bolzano e Gorizia, con quattro cacciatorpediniere, erano partiti da Messina diretti verso nord; ancora, che alle 9.30 del 12 l’Attendolo e due cacciatorpediniere erano partiti da Napoli. Altre intercettazioni rivelarono che una forza navale italiana, di consistenza sconosciuta, aveva ricevuto alle 18.35 del 12 l’ordine di assumere rotta sud e velocità 20 nodi, passando 90 km a nord di Trapani, e poi (19.45) di trovarsi entro le 5.30 del 13 dieci miglia a levante di Pantelleria. Supermarina avvisò anche gli incrociatori che torpediniere italiane (Climene e Centauro) erano in pattugliamento a ponente della longitudine 11°40’ E, con l’ordine di lasciare tale area all’alba del 13 e dirigere per Pantelleria.
All’1.39, “ULTRA” intercettò l’ordine PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute) delle 23.50 in cui Supermarina ordinava «EUGENIO, MONTECUCCOLI, MAESTRALE, GIOBERTI, ORIANI dirigete subito Napoli: 3a Divisione con ATTENDOLO e rimanenti cacciatorpediniere dirigano Messina». All’1.56, il ripiegamento verso sudest venne confermato anche da una comunicazione da parte del Wellington “O”, subito riconfermato dal Wellington “Z”.

Alle 00.30, in esecuzione dell’ordine di Supermarina, la III Divisione (cui per ordine di Supermarina furono aggregati Attendolo e Grecale, distaccati dalla VII Divisione) fece rotta su Messina, mentre la VII Divisione diresse per Napoli. L’Attendolo avvistò la III Divisione alle 2.55, ma riuscì ad entrare in formazione solo alle quattro del mattino, in quanto tutte le navi avevano preso a zigzagare ad alta velocità, illuminate dalla luce di bengala lanciati dagli aerei britannici.
Procedendo a 22 nodi, la III Divisione superò Alicudi, dopo di che passò dalla linea di fila alla doppia linea, con Trieste e Gorizia davanti ed Attendolo e Bolzano dietro (il Bolzano era nella colonna sinistra, più verso il largo; l’Attendolo in quella di dritta, più vicina alla costa, pressoché parallelo al Bolzano, il quale però era in posizione leggermente più arretrata dell’Attendolo). Due degli otto cacciatorpediniere di scorta erano dotati di ecogoniometro; nel cielo della formazione volavano due idrovolanti CANT Z. 506 quale scorta aerea. Il mare era calmo, la visibilità ottimale; una radiosa giornata estiva.
Tra gli equipaggi regnava una certa frustrazione, a causa dell’ordine di ritirarsi senza nemmeno aver tentato di attaccare un nemico che già si trovava alle strette.
L’esagerata prudenza di Supermarina non avrebbe tardato a produrre i propri funesti frutti: ciò che non si era voluto rischiare di perdere con un’azione più risoluta, sarebbe andato perduto proprio a causa della rinuncia all’attacco. Dopo tanti attacchi aerei fasulli, un attacco vero, quello di un sommergibile, si verificò sulla rotta di ritorno.
Furono due i sommergibili britannici che avvistarono la III Divisione: il primo fu il Safari, a nord di Palermo, che però non fu in grado di attaccare.
Diversamente andò all’Unbroken, al comando del tenente di vascello Alastair Campbell Gillespie Mars, che già alle quattro del mattino era stato informato da Malta che degli incrociatori italiani stavano dirigendosi verso di lui. Alle 7.30 del 13 agosto – a bordo era appena finita la colazione –, mentre si trovava in posizione 38°43’ N e 14°57’ E (al largo della costa settentrionale della Sicilia, a nordovest dell’imbocco dello Stretto di Messina), il sommergibile britannico avvertì rumori prodotti dagli apparati motori di navi, su rilevamento 230°; alle 7.43 avvistò sullo stesso rilevamento numerose navi italiane, che gli stavano proprio venendo incontro. Mars identificò correttamente la colonna centrale come composta da due incrociatori pesanti e probabilmente due incrociatori leggeri, che procedevano in linea di fila; li scortavano otto cacciatorpediniere di tipo moderno. La distanza era di 11.000 metri, e Mars stimò la velocità delle navi italiane in circa 25 nodi, cinque nodi in più di quella reale. Le navi stavano passando tra Filicudi e Panarea; erano al traverso di Salina, Stromboli era otto miglia alla loro sinistra, Panarea cinque miglia a prora dritta (cioè a sudovest).
Iniziata la manovra d’attacco, e penetrato lo schermo dei cacciatorpediniere (secondo Mars, tre di essi passarono vicinissimi al periscopio del sommergibile, ma senza notarlo), alle 8.04 l’Unbroken lanciò quattro siluri contro il più vicino dei due incrociatori pesanti; al di là di questa nave c’erano i due incrociatori “leggeri”, e Mars riteneva – a ragione – che se i siluri avessero mancato il bersaglio designato, avrebbero avuto una buona possibilità di colpire uno dei due incrociatori leggeri. Per via della formazione italiana a due colonne affiancate (assunta proprio mentre l’Unbroken si preparava ad attaccare), i bersagli si “sovrapponevano” nel periscopio di Mars; l’incrociatore più vicino era a 25° di prora dritta, distanza 2740 metri.
Subito dopo il lancio, l’Unbroken scese in profondità, virò di 90° a dritta ed aumentò la velocità per cinque minuti. Quando sentì le detonazioni, Mars stimò che due siluri avessero centrato l’incrociatore pesante, e che forse gli altri avevano colpito uno degli altri.
Il comandante britannico aveva apprezzato correttamente gli esiti del proprio lancio: alle 8.05, mentre l’Unbroken stava lanciando i siluri, gli incrociatori italiani avevano ridotto la velocità a 18 nodi, per consentire al Gorizia di lanciare un idrovolante; poco dopo il cacciatorpediniere Fuciliere aveva avvistato un sommergibile sulla sinistra, ed aveva aperto il fuoco con una mitragliera contro il periscopio, distante solo 410 metri. Gorizia e Bolzano avvistarono le scie dei siluri; il Gorizia li evitò con una brusca accostata, ma il Bolzano non fece in tempo, e venne centrato da un siluro proprio mentre stava iniziando a virare. Poco dopo anche l’Attendolo fu colpito, subendo l’asportazione della prua.
Il siluro colpì il Bolzano a centro nave sul lato sinistro (subito a poppavia del torrione), in corrispondenza del locale caldaia 1-2 e del relativo serbatoio di nafta, aprendo una falla di 16 metri per 8. Le sale caldaie 1-2 e 3-4 vennero immediatamente allagate, dopo di che, per cedimento delle paratie, l’allagamento si estese anche alla sala caldaie 5-6; in tutto la nave imbarcò almeno 4500 tonnellate d’acqua.
Come se non bastasse, 500 tonnellate di nafta fuoriuscirono dalle casse squarciate, in gran parte riversandosi nei locali adiacenti e prendendo fuoco. Subito si scatenò un furioso incendio, che coinvolse alcuni locali caldaie (tra cui appunto l’1-2) ed il ponte di batteria, per poi estendersi dalle casse di nafta al torrione.

Il direttore di macchina del Bolzano, che era sempre il maggiore del Genio Navale Petrillo (ormai divenuto, per anzianità, anche Capo Servizio Genio Navale della III Divisione), registrò l’ora d’impatto del siluro come le 8.07.
Vincenzo Costantino, sottocapo trombettiere di poco più di vent’anni, aveva da poco finito il proprio turno di guardia in plancia del Bolzano quando l’incrociatore fu colpito dal siluro. Si era recato nel locale numero 6, come d’abitudine, per prendere la sua razione di caffè e gallette, ma non aveva fatto in tempo a bere il caffè prima che la nave venisse scossa dall’esplosione del siluro.
Costantino si diresse a prua, cercando di attraversare il locale numero uno, ma trovò la strada sbarrata dal fumo dell’incendio; tornò allora nel locale numero 6, dal quale cercò di uscire svitando le “farfallette” di un boccaporto. Sollevò il portello e mise la testa fuori, solo per vedere l’Attendolo a sua volta colpito.
Costantino non riusciva a sollevare del tutto il portello per uscire; era rimasto incastrato nell’apertura, con il busto all’esterno e le gambe che pendevano all’interno. Gridò il nome di Beato, suo capo trombettiere, chiedendo aiuto; intanto vedeva morti e feriti che venivano trasportati a poppa, gli ustionati coperti di una crema nera in dotazione per la cura delle ustioni. Infine sopraggiunse anche il capo trombettiere Beato, che aiutò Costantino ad uscire; poi quest’ultimo si diresse a sua volta verso poppa.
L’elettricista Daniele Frattini, bergamasco, scampò la morte per uno scherzo del destino: era di guardia nel locale dinamo, proprio nella zona colpita, ma dovendo andare in bagno, aveva chiesto ad un collega di sostituirlo per cinque minuti mentre lui andava al gabinetto. Il siluro colpì proprio in quei cinque minuti, uccidendo il commilitone.
Il capo elettricista Ditrè, al momento del siluramento, stava facendo colazione in mensa sottufficiali, assieme a dei colleghi; di lì a pochi minuti sarebbe iniziato il suo turno di servizio nella centrale elettrica. Ditrè e colleghi avvertirono un boato, e la nave sembrò sobbalzare sotto i loro piedi; capirono subito che il Bolzano era stato silurato. Alcuni di essi si alzarono e si diressero verso la porta poppiera della mensa, che permetteva di uscire rapidamente in coperta (nei pressi del fumaiolo), ma si trovarono già di fronte alle fiamme dell’incendio. Coprendosi alla meglio, si fecero strada tra le fiamme e riuscirono ad uscire, ma rimasero ustionati. Ditrè, invece, uscì dalla porta prodiera, che conduceva in un corridoio che portava sottocastello: lì le fiamme non erano ancora arrivate. Il fuoco impediva però di uscire dalla porta che dal sottocastello conduceva a sinistra, obbligando a proseguire verso prua; dai ponti inferiori accorrevano altri marinai che fuggivano dall’incendio. Uno di essi aveva gli abiti in fiamme, il volto sfigurato: camminava alla cieca, e dopo pochi passi si accasciò a terra. Alla fine Ditrè si ritrovò nel sottocastello, all’estrema prua, insieme ad un’altra trentina di uomini; c’era una scala che portava in coperta, ma il relativo portello era chiuso. Era però apribile dall’interno, con dei dadi a farfalla; il primo uomo che salì sulla scaletta lo aprì ed uscì in coperta, mentre gli altri gli si accalcarono dietro per salire a loro volta e finirono con l’intralciarsi a vicenda. Ditrè, che si era tenuto in disparte dalla massa, notò che vi era anche un altro portello, privo di scala (era usato per calare i viveri nella cambusa, che si trovava proprio lì), che conduceva in coperta, ma doveva essere aperto dall’esterno; riuscì a fare richiamare l’attenzione di altri uomini che si trovavano in coperta, e fece aprire il portello. La pressione della calca, al contempo, diminuì, e fu finalmente possibile salire sulla scala ed in coperta.
Una volta sul castello, Ditrè e compagni si ritrovarono comunque isolati dal resto della nave: l’immenso incendio, infatti, avvolgeva tutte le strutture attorno al fumaiolo, ed impediva così di andare verso poppa. In coperta a prua si trovavano anche gli uomini che si erano trovati sul ponte di comando, che erano scesi in coperta passando per i finestrini e poi i tetti delle torri 1 e 2 da 203; parlavano di com’era avvenuto il siluramento.
Solo più tardi, quando il vento fece cambiare posizione al Bolzano, facendo spostare le fiamme su un lato solo, Ditrè e gli altri poterono recarsi verso poppa e riunirsi al resto dell’equipaggio. Tutto il personale non addetto ai servizi di sicurezza stava infatti venendo radunato in coperta a poppa.
La zona centrale del Bolzano era divenuta un vero inferno: le riservetta dei cannoni da 100 mm e delle mitragliere avevano iniziato ad esplodere, ed anche la temperatura nei depositi munizioni prodieri da 203 mm stava salendo pericolosamente. Il torrione aveva dovuto essere evacuato, come detto, facendo scendere il personale in coperta a prua, passando sopra la torre n. 2.

Il Bolzano, in secondo piano (in fiamme), e l’Attendolo (senza prua) fotografati poco dopo il siluramento, verso le 8.15 del 13 agosto (g.c. STORIA militare).
Il Bolzano fotografato verso le 9 del 13 agosto. La nave si sta progressivamente appruando, a causa dell’acqua imbarcata dallo squarcio aperto dal siluro sotto il torrione, oltre che per effetto dell’allagamento dei depositi munizioni prodieri, che è in corso; è visibile l’equipaggio radunato in coperta a poppa (g.c. STORIA militare)

Due immagini delle sovrastrutture prodiere del Bolzano in preda alle fiamme (sopra, ANMI; sotto, da www.marina.difesa.it


In sala macchine, il direttore di macchina Petrillo ed i suoi uomini lavoravano alacremente per rimettere in funzione le macchine: alle 8.20, a causa dell’inquinamento della nafta da parte dell’acqua imbarcata, si verificò una prima perdita di pressione della motrice poppiera; alle 8.45, essendo nuovamente aumentata la pressione, fu possibile rimettere in moto le macchine, ma un’ora più tardi si ebbe una nuova caduta di pressione a causa della mancanza di alimento in caldaia: le pompe di alimento della caldaia 9-10 erano andate in avaria, costringendo al suo spegnimento. Il fermo delle macchine comportò anche l’interruzione dell’erogazione dell’acqua alle manichette, e la temporanea inutilizzazione dei mezzi antincendio.
Alle 10.15 fu possibile rimettere nuovamente in moto le motrici e compiere alcune manovre, ma dopo poco giunse l’ordine del comandante Mezzadra di non manovrare le macchine per alcun motivo per circa mezz’ora, durante la quale furono ordinate varie manovre dalla plancia. In mancanza di comunicazioni dirette tra motrice poppiera e caldaia, risultò difficile alla sala macchine di intendersi col personale delle caldaie; per questo, si verificarono rapide cadute di pressione ad ogni manovra. L’ultima manovra ordinata fu “macchine di sinistra indietro adagio”, ma non fu possibile eseguirla. Per mancanza di acqua nelle casse di alimento, si dovette spegnere anche la caldaia 8.

Il Bolzano in preda agli incendi (da www.histarmar.com.ar

Una vista da prua della nave danneggiata.

Intanto, come detto, il comandante Mezzadra ed i suoi ufficiali avevano dovuto abbandonare la plancia, invasa anch’essa dal fumo dell’incendio. Mezzadra non si perse però d’animo: diede ordine di allagare i depositi munizioni prodieri per evitare che, raggiunti dalle fiamme, potessero esplodere con conseguenze catastrofiche per la nave; agì con risolutezza e cercò in ogni modo di tenere l’equipaggio a bordo e portare la nave ad incagliarsi.
Furono il capitano del Genio Navale Armando Traetta ed il capo meccanico di terza classe Crescenzio Magliocca ad eseguire l’ordine di allagare i depositi munizioni: Magliocca, un trentenne di Caserta, attraversò i locali invasi dal fumo e lambiti dalle fiamme per cercare di raggiungere i maneggi degli allagamenti, ma non poté fare nulla perché le trasmissioni si erano inceppate; allora si calò nell’intercapedine adiacente il deposito munizioni e provvide manualmente all’allagamento. Ricevette poi la Medaglia d’Argento al Valor Militare (con motivazione: “Imbarcato su incrociatore in missione di guerra, colpito da offesa nemica che provocava un grave incendio in alcuni locali caldaie e nella zona di batteria sovrastante ai depositi munizioni prodieri, assicuratosi, nella sua zona di sicurezza, del regolare funzionamento della timoneria, accorreva con sereno coraggio ed audacia per prestare la sua opera laddove maggiore era il pericolo. Venuto a conoscenza dell’urgente necessita di allagare i depositi munizioni minacciati dal fuoco, si prodigava ripetutamente per effettuare l’operazione e arditamente si portava attraverso locali già invasi dal fumo e lambiti dalle fiamme per raggiungere i maneggi degli allagamenti.
Riuscito vano il tentativo a causa dell’inceppamento delle trasmissioni, non abbandonava l’impresa e, calatosi con sagacia e sangue freddo
nell’intercapedine adiacente al deposito in pericolo, eseguiva sul posto con
grande abilità professionale la manovra voluta”).
Traetta, indossata una tuta ignifuga, entrò più volte nei locali invasi dalle fiamme, provvedendo all’allagamento dei depositi. Quasi soffocato dal fumo nel compiere questa operazione, non appena si riprese si unì ad altri membri dell’equipaggio intenti a rimuovere le riservette dei complessi secondari da 100/47, ormai raggiunte dalle fiamme, prima che esplodessero.
Due degli uomini impegnati in questo pericoloso lavoro, il guardiamarina Franco Masante ed il secondo capo cannoniere puntatore scelto Pierino Lusani, persero la vita, uccisi dallo scoppio delle munizioni che stavano cercando di gettare in mare. Furono entrambi decorati alla memoria con la Medaglia d’Argento al Valor Militare (la motivazione fu, per Masante: “Imbarcato su unità colpita da offesa nemica che causava gravissime avarie e un violenta incendio presso la riservetta delle munizioni da 100 mm, si slanciava per spegnere le fiamme con l’annaffiamento. Interrotta poi la tubatura d'acqua, con un dipendente apriva una riservetta più minacciata e già rovente, per togliere le munizioni a gettarle a mare. Quasi al termine della eroica e generosa fatica, una delle ultime cartucce esplodeva nella loro mani, uccidendoli insieme” e per Lusani: “Imbarcato su unità colpita da raffica nemica, che causava gravissime avarie e un violento incendio presso la riservetta delle munizioni da 100 mm, al seguito di un ufficiale si slanciava per spegnere le fiamme con l’innaffiamento. Interrotta poi la tubatura d’acqua, con l’ufficiale stesso apriva una riservetta già rovente per togliere le munizioni e gettarle a mare. Una delle ultime cartucce esplodendo, uccideva assieme i due generosi”).
Per contrastare lo sbandamento, il direttore di macchina Petrillo dispose un’operazione di bilanciamento con lo spostamento di nafta e lo scarico di acqua di riserva laterale per le caldaie; tali provvedimenti riuscirono, sulle prime, ad azzerare quasi del tutto lo sbandamento, ma l’aggravarsi degli allagamenti a prua, con l’inondazione di altri locali (in tutto furono almeno cinque i compartimenti prodieri allagati), comportò un nuovo aumento dello sbandamento.
Il Bolzano aveva quattro compartimenti contigui allagati, uno in più del numero di compartimenti adiacenti allagati a cui la nave sarebbe potuta sopravvivere secondo le specifiche di progetto.

Il Bolzano fotografato verso le 10 del mattino del 13 agosto: la nave è appena stata presa a rimorchio dal Geniere (da prua, visibile in foto) e dall’Aviere (da poppa, dal quale è scattata la foto). L’appruamento si è notevolmente accentuato (g.c. STORIA militare)
Dettaglio della foto precedente.

Nel mentre i cacciatorpediniere della Squadriglia «Aviere», incaricati di dare assistenza e protezione alle navi colpite, iniziarono a stendere cortine fumogene e bombardare l’attaccante con bombe di profondità: dalle 8.09 alle 16.40 vennero lanciate ben 105 bombe di profondità, anche se l’Unbroken, allontanandosi lentamente alla profondità di 39 metri, riuscì a far perdere le proprie tracce già alle nove (la caccia vera e propria durò tre quarti d’ora, dopo di che i cacciatorpediniere si limitarono a gettare bombe di profondità di tanto in tanto, a scopo precauzionale). Il sommergibile se la cavò con danni superficiali, subiti durante i primi 40 minuti di caccia, che Mars ritenne piuttosto accurata.
L’Aviere ed il Geniere cercarono di prestare assistenza al Bolzano e di prenderlo a rimorchio; per tre volte, nel ricordo di Vincenzo Costantino, un cacciatorpediniere lanciò all’incrociatore colpito un sacchetto con cui recuperare lo spesso cavo d’acciaio che passava al Bolzano per rimorchiarlo, ma ogni volta il cavo si spezzò. La nave era fortemente appruata, e l’incendio divampava furioso: tra l’acqua che entrava dalla grossa falla aperta dal siluro sotto il torrione, e quella giocoforza immessa nei depositi munizioni per scongiurarne l’esplosione, la galleggiabilità del Bolzano appariva sempre più compromessa.
Verso le dieci, i due cacciatorpediniere riuscirono finalmente a prendere il Bolzano a rimorchio: l’Aviere da prua, il Geniere da poppa. La nave continuava progressivamente ad appruarsi e sbandare sulla sinistra, ormai in serio pericolo di affondamento, inducendo il comandante Mezzadra a decidere di tentare di raggiungere un basso fondale e qui portarla ad adagiarsi.
Nel tentativo di far accostare il Bolzano, uno dei cavi di rimorchio si spezzò, e lo sbandamento dell’incrociatore aumentò ancora di più (circa 15°): parve allora che il Bolzano, sempre più basso sull’acqua, stesse per affondare da un momento all’altro. Il comandante Mezzadra si recò a poppa e, nel ricordo del trombettiere Costantino, gridò ai suoi uomini: “Marinai del Bolzano, a chi il Bolzano?” cui i marinai risposero in coro “A noi”; poi lo scambio proseguì con “Saluto al re” e la risposta “Viva il re”, “Saluto al duce” e la risposta “A noi”, finché Mezzadra concluse con l’ordine: “Abbandonate la nave”. Erano le 10.55.
L’ordine fu eseguito; nella confusione che poteva regnare in un momento del genere, dove non si sapeva chi fosse morto, ferito, illeso o intrappolato, parte dell’equipaggio salì su zattere e zatterini o si gettò semplicemente in acqua, cercando di allontanarsi il più rapidamente possibile dal Bolzano, perché la nafta fuoriuscita dai serbatoi colpiti ricopriva la superficie del mare tutt’intorno alla nave, e poteva prendere fuoco da un momento all’altro. La maggior parte di questi naufraghi venne recuperata dall’Aviere.
Il Geniere, intanto, manovrò per affiancarsi al Bolzano e trasbordare il personale che era ancora a bordo: in questo modo, la maggior parte dell’equipaggio dell’incrociatore poté essere trasferita sul Geniere. Tra di essi vi erano il comandante Mezzadra, il comandante in seconda Fe’ d’Ostiani, il direttore di macchina Petrillo ed il capitano G.N. Traetta. Anche il capo elettricista Ditrè fu tra quanti trasbordarono sul Geniere.
Dalla sua zattera, Vincenzo Costantino avvistò improvvisamente il commilitone ed amico Vincenzo Barbera, che annaspava smarrito tra le onde, alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi. Costantino si tuffò immediatamente in mare, raggiunse Barbera e lo sospinse verso l’alto, aiutandolo ad aggrapparsi alla zattera.

Inizia l’abbandono della nave: qualcuno è già in acqua (dal saggio di Francesco Mattesini sulla battaglia di Mezzo Agosto, su www.societaitalianastoriamilitare.org).

L’equipaggio ha abbandonato la nave: ora non c’è più nessuno sul Bolzano (g.c. STORIA militare).


Il Bolzano, intanto, aveva arrestato il suo apparentemente affondamento, e si era stabilizzato, al punto che risultò nuovamente possibile, al Geniere (capitano di fregata Marco Notarbartolo), tentare di prenderlo a rimorchio.
Il capitano del Genio Navale Traetta insisté dapprima con il comandante in seconda, capitano di fregata Andrea Fe’ d’Ostiani (che era rimasto ferito nel siluramento), e poi con il comandante Mezzadra allo scopo di ottenere il permesso di tornare sul Bolzano con una decina di volontari, per verificare che tutti i locali fossero stati chiusi prima dell’abbandono e per filare a mare i cavi di rimorchio, che il tenente di vascello Bozzo aveva in precedenza preparato a poppa, in modo da poterli poi recuperare dal Geniere e prendere così a rimorchio il Bolzano, per portarlo all’incaglio.
Il permesso gli venne accordato; tra i volontari che tornarono a bordo, si offrì anche il capo elettricista Ditrè. Il gruppetto si avvicinò al Bolzano con una lancia, portandosi a poppa (la prua era già semisommersa: il ponte di coperta era al di sopra del livello del mare fino a centro nave, mentre era a pelo d’acqua verso proravia, e già sott’acqua a prora estrema), e risalì a bordo, dove riucì finalmente a tendere il cavo di rimorchio.
Per la sua parte nel salvataggio della nave, il capitano Traetta avrebbe ricevuto una Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: “Imbarcato su incrociatore, in missione di guerra, colpito da sommergibile nemice con siluro che provocava un grave incendio in alcuni locali caldaie e nella zona di batteria sovrasrante ai depositi munizioni prodierl, dopo aver personalmente eseguto le prime operazieni per l’intercettazione e lo spegnimento delle caldaie, indossava con sereno coraggio ed audacia un vestito antifiamme e penetrava ripetutamente nel locale in preda all’incendio per allagare i depositi munizioni. Tratto in salvo semiasfissiato, non appena rimessosi, accorreva con rischio della vita, in aiuto ad altri animosi che prodigarono per scaricare le riservette dei complessi da 100 violentemente investite dalle amme. Impeccabile ed ardito, scendeva successivamente nei locali inferiori, in momenti critici per la sicurezza della nave, per controllare la chiusura della portelleria ed evitare il propagarsi dell’incendio effettuando il taglio dei cavi elettrici”.
Il Geniere rimorchiò l’incrociatore – sbandato di circa 5°-6° – verso la vicinissima isola di Panarea, dove lo portò ad incagliare su un banco sabbioso dinanzi alla spiaggia Lisca Bianca, presso Punta Peppemaria (sulla costa settentrionale dell’isola), alle 13.30. Qui l’acqua era profonda solo dodici metri; quando la carena del Bolzano toccò il fondale per la prima volta, l’incrociatore sbandò paurosamente di ben 45° sulla sinistra: sembrando che la nave stesse per rovesciarsi da un momento all’altro, Traetta ed i volontari saliti a bordo dovettero di nuovo abbandonarla. Successivamente, però, lo sbandamento tornò a diminuire, e ci si poté finalmente mettere all’opera per domare l’incendio.


Il Bolzano fortemente sbandato subito dopo l’incaglio.


Il Bolzano poco dopo l’incaglio sui fondali di Panarea, nel pomeriggio del 13 agosto; sulla destra si vede il Geniere (g.c. STORIA militare).
Un’altra immagine del Bolzano incagliato, con gli incendi ancora in corso.

La popolazione di Panarea, ottocento anime, era meno numerosa dell’equipaggio del Bolzano, che contava oltre un migliaio di uomini; gli abitanti dell’isola, svegliati dalle esplosioni dei siluri, assisterono a distanza al dramma dei due incrociatori. Alcune barche di pescatori, con a bordo perlopiù anziani, donne e bambini – gli uomini validi erano al fronte – si recarono in soccorso dei naufraghi.
Tra l’equipaggio del Bolzano si lamentarono tre morti, due dispersi e 32 feriti (altra fonte parla invece di nove morti e 20 feriti). Considerando la devastazione causata dal siluramento e dall’incendio, il bilancio fu relativamente contenuto; ciò perché la sala caldaie colpita dal siluro, la 1-2, era spenta al momento dell’impatto del siluro, e nelle altre sale caldaie era in corso il cambio di personale quando la nave fu silurata.
Le ossa di uno dei dispersi sarebbero state rinvenute a bordo durante i successivi lavori di riparazione effettuati a Napoli.


Le vittime del Bolzano a Mezzo Agosto:

Emilio Busato, marinaio fuochista, 21 anni, da Martellago, deceduto il 13/8/1942
Pierino Lusani, secondo capo cannoniere, 27 anni, da Saluggia, deceduto il 13/8/1942
Francesco Masante, guardiamarina, 25 anni, deceduto il 13/8/1942
Luigi Volpati, marinaio S.D.T., 21 anni, da Milano, deceduto il 12/8/1942
Vescovo Antonio, secondo capo elettricista, 28 anni, da Gorizia, deceduto il 21/10/1942 nel Sanatorio di Arco per le ferite riportate


Gorizia, Trieste ed il Camicia Nera, unico cacciatorpediniere non distaccato per assistere le navi silurate, entrarono a Messina alle 11.45; sette ore più tardi riuscì a raggiungere il porto siciliano anche l’Attendolo, gravemente danneggiato ma ancora in grado di navigare con i suoi mezzi, dopo una travagliata navigazione, assistito e protetto da alcuni cacciatorpediniere e da altro naviglio inviatogli incontro da Messina.

Il Bolzano completamente adagiato sui fondali di Panarea, con uno sbandamento di circa 10° sulla sinistra, dopo lo spegnimento degli incendi, nel pomeriggio del 15 agosto 1942. Sullo sfondo, a destra, è visibile il cacciatorpediniere Camicia Nera impegnato in vigilanza antiaerea ed antisommergibili, mentre in primo piano a sinistra si può vedere la prua del rimorchiatore Salvatore I (g.c. STORIA militare).
Il Bolzano a Panarea; dietro si riconosce il Salvatore I (da www.forummarine.forumactif.com

 Altre due immagini del Bolzano a Panarea, affiancato da una torpediniera tipo “tre pipe” e da altre unità (da www.digilander.libero.it/planciacomando).


Dopo l’incaglio, ci vollero quasi due giorni per riuscire ad estinguere l’incendio del Bolzano; allo scopo giunsero a Panarea dei mezzi di soccorso inviati appositamente da Messina (tra cui anche il rimorchiatore di salvataggio Salvatore I), ma solo nel pomeriggio del 14 agosto le fiamme iniziarono a diminuire d’intensità, venendo finalmente soffocate solo alle 8.30 del mattino del 15 agosto. La nave, intanto, si era del tutto adagiata sul fondale, assestandosi su uno sbandamento di circa 10° a sinistra.
Il Camicia Nera fu lasciato a sorvegliare la zona e proteggere l’incrociatore da eventuali attacchi di aerei e sommergibili.
Una parte dell’equipaggio rimase a Panarea per provvedere alla sorveglianza ed al recupero della nave, mentre il resto del personale fu sbarcato a Messina; quelli che avevano famiglia nella città siciliana furono mandati a casa. Dato che il corredo era rimasto a bordo del Bolzano, gli uomini erano rimasti con la sola divisa che indossavano al momento del siluramento.
I feriti, tra cui molti ustionati, furono ricoverati nell’ospedale Margherita di Messina; fu mandato in ospedale anche il capo elettricista Ditrè, avendo una leggera ferita sul piede destro. Fu ricoverato nella stessa stanza di un marinaio che aveva gravi ustioni sulla parte superiore delle mani, e che gli spiegò cosa gli era capitato: al momento del siluramento, si trovava in coperta vicino alla torre numero 1, e vedendo la scia del primo siluro (quello che poi colpì l’Attendolo) passare a proravia, aveva creduto che avrebbe colpito il Bolzano, e si era diretto verso poppa; nel mentre il secondo siluro aveva colpito la nave per davvero, scatenando l’incendio. Le fiamme avevano subito cominciato ad uscire dalle feritoie del locale caldaie, poste alla base del fumaiolo; il marinaio, coprendosi il volto con le mani, aveva proseguito verso poppa, facendosi strada nell’incendio. Il fuoco aveva così risparmiato la sua faccia, ma le sue mani erano rimaste gravemente ustionate.

Una serie di immagini che mostrano il Bolzano a Panarea nell’agosto del 1942.








Dietro il Bolzano è riconoscibile il Salvatore I (dal saggio di Francesco Mattesini, su www.societaitalianastoriamilitare.org). 

I lavori per rimettere il Bolzano in condizioni di galleggiabilità iniziarono da subito, e richiesero 29 giorni; durante le operazioni di recupero, parte dell’equipaggio del Bolzano, che non poteva alloggiare sulla nave semiaffondata, trovò posto sulle navi cisterna “polivalenti” (erano anche posamine e navi da sbarco) Tirso e Scrivia, appositamente inviate a Panarea per dare vitto e alloggio a parte dell’equipaggio dell’incrociatore. Per proteggere la nave da ulteriori attacchi siluranti, venne steso uno sbarramento retale tutt’intorno allo scafo.
Per rimettere la nave in condizione di galleggiare, si rese necessario alleggerirla, rimuovendo i pezzi da 100/47 mm, i due obici illuminanti da 120 mm, le mitragliere da 20 mm ed i sistemi di direzione del tiro.
La falla aperta dal siluro venne tamponata, ed i locali allagati vennero prosciugati.
L’11 settembre il Bolzano fu di nuovo in condizioni tali da poter tenere a bordo tutto l’equipaggio, così che Tirso e Scrivia poterono lasciare Panarea per Trapani, dov’erano richieste per un’operazione di posa di mine.
Alle 19 del 15 settembre il Bolzano lasciò Panarea, fortemente scortato e rimorchiato da due rimorchiatori, diretto a Napoli, dove giunse il mattino seguente e fu sottoposto ad un primo periodo di lavori di riparazione necessari a consentirgli di navigare con i propri mezzi fino a La Spezia. La nave fu immessa in bacino di carenaggio, dopo di che la falla venne riparata, le macchine ed i locali allagati vennero ripuliti, e si rimise così il Bolzano in grado di navigare. Tali lavori richiesero ben tre mesi e mezzo, a causa della situazione sempre più grave in cui versava l’organizzazione logistica e cantieristica a Napoli, martellata dai bombardamenti, sovraccarica di lavoro e sempre più a corto di risorse.


Il Bolzano a Napoli in attesa di entrate in bacino di carenaggio, intorno al 18 settembre 1942. Si nota il fumaiolo prodiero collassato sotto l’effetto del calore degli incendi, il marcato appruamento ancora esistente ed il segno lasciato sullo scafo dalla nafta, a indicare il livello della superficie del mare durante l’incaglio (g.c. STORIA militare).

Completata questa prima fase di riparazioni urgenti il 10 dicembre 1942, furono condotte delle prove per verificare che la nave potesse navigare, dopo di che il 21 dicembre il Bolzano lasciò Napoli diretto a La Spezia, per essere sottoposto a lavori più estesi in un cantiere ligure. Il viaggio di trasferimento durò un giorno e fu svolto alla velocità di 14 nodi, utilizzando soltanto la motrice di poppa.
La vastità dei danni (il fumaiolo prodiero era letteralmente collassato per il calore dell’incendio, e la sovrastruttura della plancia era pressoché distrutta), e quindi l’entità del lavoro necessario a ripristinare l’unità, era tale che si pensò perfino di ricostruire radicalmente il Bolzano dalla coperta in su, demolendo e sostituendo le sovrastrutture, eliminando i cannoni del calibro principale e trasformando l’incrociatore in “nave lancia-aerei”. Il “nuovo” Bolzano avrebbe avuto un ponte di volo che si estendeva da prora estrema fino al fumaiolo poppiero, con due catapulte Heinkel ai lati della sua estremità prodiera; la sovrastruttura prodiera con la plancia sarebbe stata rimossa, così come il fumaiolo prodiero, che sarebbe stato sostituito da due fumaioli gemelli, posti a lati del ponte di volo.
Due caldaie sarebbero state eliminate, e la disposizione delle altre otto modificata in modo tale da ricavare spazio per quattro stive di carico.
L’armamento, interamente sistemato a poppa, sarebbe consistito in dieci cannoni contraerei da 90/50 mm e venti mitragliere binate da 37 mm (o 20/65 mm). Il dislocamento sarebbe divenuto di 9000 tonnellate standard e 11.000 a pieno carico.



 I piani per la conversione del Bolzano in nave “lancia-aerei”.


Quale nave “lancia-aerei”, non si sarebbe trattato di una portaerei propriamente detta: gli aerei, infatti, non avrebbero potuto atterrare a bordo. Il ponte di volo sarebbe stato utilizzato solamente per far decollare gli aerei (di qui il termine “lancia-aerei”), che, dopo aver portato a termine la loro missione, sarebbero dovuti atterrare in una base aerea a terra. Non era previsto un hangar; gli aerei sarebbero stati sistemati sul ponte di volo, pronti al lancio.
In questa forma, il Bolzano sarebbe stato impiegato per fornire un minimo di copertura aerea alla squadra da battaglia ed ai convogli, nonché in missioni veloci di trasporto verso il Nordafrica, per trasportare e lanciare aerei da trasferire in Africa Settentrionale. La dotazione di aerei sarebbe consistita in dodici caccia Reggiane Re 2001 di tipo “ultra alleggerito” OR (ma si pensò anche ai Fiat G50 Bis 0R ed ai Fiat G50B).
Ma non se ne fece nulla: il progetto di trasformazione venne scartato nel febbraio 1943. Stessa sorte toccò pure ad un’altra idea di trasformazione, partorita dal nuovo comandante del Bolzano: la nave sarebbe rimasta un incrociatore, ma le sovrastrutture sarebbero state ricostruite in modo analogo a quelle degli incrociatori leggeri delle ultime serie della classe Condottieri; le caldaie 1 e 2 sarebbero state eliminate (il che sarebbe avvenuto anche con il progetto di trasformazione in lanciaerei), riducendo la velocità di mezzo nodo ma ricavando un terzo doppio fondo che avrebbe permesso di imbarcare maggiori quantità di carburante, ed installando un generatore diesel.
La proposta fu approvata, ma il 24 febbraio 1943 i lavori furono rinviati a tempi migliori e la nave rimase in attesa di lavori di ripristino (da effettuarsi probabilmente nei cantieri Ansaldo di Genova) che non presero mai il via: la carenza di materiali e manodopera ed il sovraccarico di lavoro della cantieristica italiana, che doveva dare la priorità a costruzioni e riparazioni più urgenti – in primis navi scorta e sommergibili –, diedero il colpo di grazia al malconcio incrociatore, che fu lasciato all’ormeggio a tempo indefinito nella base di La Spezia.
Il grosso dell’equipaggio venne assegnato a nuove destinazioni su altre navi (il capitano Traetta, ad esempio, fu trasferito sul Gorizia) od in incarichi a terra (fu questo il caso, ad esempio, del direttore di macchina Petrillo, destinato ad un incarico a terra a Roma). Sul Bolzano, ormeggiato prima alla banchina scali e poi alla fonda presso la diga foranea, circondato da recinti parasiluri, rimase soltanto un equipaggio ridotto, incaricato soltanto della manutenzione dei macchinari. (Secondo altra fonte, agli inizi del 1943 vennero effettuate alcuni saltuari lavori di riparazione via via che i materiali diventavano disponibili, ma poi furono sospesi del tutto).


Sopra: una foto scattata a La Spezia nell’estate del 1943 (dal saggio di Francesco Mattesini sulla battaglia di Mezzo Agosto, da www.societaitalianastoriamilitare.org): in primo piano, il sommergibile tedesco U 73; sullo sfondo, a sinistra, si riconosce il Bolzano. Sotto: in primo piano, di nuovo l’U 73 (in riparazione a La Spezia, 1943), con a fianco un’unità ex francese; sullo sfondo, si riconoscono le sovrastrutture del Bolzano (da www.hazegray.org).



L’attacco dell’Unbroken agli incrociatori italiani, nel giornale di bordo del sommergibile (da Uboat.net):

“0730 hours - When in position 38°43'N, 14°57'E HE was heard bering 230°.
0743 hours - Sighted a large number of ships bearing 230° steering straight towards. The centre coloumn consisted of four large ships, two 8" cruisers and possibly two 6" cruisers. The escort consisted of 8 modern destroyers. Started attack.
0804 hours - Fired four torpedoes from yards at the nearest 8" cruiser. Two 6" cruisers were beyond the target and if torpedoes missed there was a good possiblity of hitting the other ships beyond. P 42 went deep on firing and altered course 90° to starboard and increased speed for 5 minutes. It was thought two hits were obtained on the nearest 8" cruiser, and with luch the 'overs' may have hit one of the other cruisers.
0809 hours - Intensive depth charging started, went to 120 feet and crept away.
0900 hours - The 40th charge was dropped. By this time the enemy seemed to have lost contact, and to be drawing astern. However depth charging continued for 8 hours and 31 minutes, the explosions becoming more distant and less frequent as time drew on.
1640 hours - The last depth charge was dropped at a considerable distance. The day's total came to 105. Only some superficial damage was sustained.
1900 hours - Returned to periscope depth. Nothing in sight.”


Il siluramento del Bolzano a Mezzo Agosto nelle memorie del capo elettricista Ditrè (da un articolo del figlio Renato sul sito dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia – www.marinaiditalia.com):

“Si rientrava alla base dopo l’ennesima missione. Di solito la formazione naviga in linea di fila per un preciso motivo, perchè i sommergibili che agiscono immersi, appena lanciano il siluro, questi, lascia una scia sul mare per cui se ne può dedurre la posizione di lancio ed attaccare i sommergibili con i caccia di scorta. 24 Marinai d’Italia Marinai d’Italia 25 Per questo motivo, il loro bersaglio preferito è sempre la nave di coda della formazione in modo da sottrarsi più facilmente alla ricerca. Mancavano pochi minuti alle ore 8 del giorno 13/8/1942, per me orario di inizio del turno di servizio nella centrale elettrica. Mi trovavo nella mensa sottufficiali per consumare la prima colazione assieme ad altri colleghi. Sentiamo un boato con un sobbalzo della nave. Si intuisce che deve trattarsi di un siluramento. La mensa aveva due uscite una, verso poppa prossima all’aperto sulla coperta ma, vicina al fumaiolo, l’altra verso prora immetteva nel sottocastello. I primi colleghi cercando di uscire all’aperto, si sono diretti verso la porta di poppa che appena aperta ha mostrato subito la consistenza delle fiamme e la gravità dell’incendio. Coprendosi alla meglio, hanno affrontato le fiamme rimandendo però ustionati. Non ricordo bene però, credo io solo, invece di affrontare le fiamme, sono andato ad aprire l’altra porta constatando che l’incendio ancora non si era propagato in quel corridoio che immetteva nel sottocastello. Nel sottocastello, la porta sulla sinistra era bloccata dalle fiamme, non mi rimaneva che proseguire verso prora. Dai locali sottostanti salivano altri marinai in cerca di scampo tra cui uno con gli abiti in fiamme ed il viso già sfigurato che camminava per istinto, infatti, dopo pochi altri passi è crollato. Nel sottocastello a prora estrema, eravamo una trentina. Vi era una scala che immetteva sopra coperta. Il portello era chiuso ma si poteva aprire dall’interno essendo fornito di dadi a farfalla. Il primo che salì lo ha aperto ed è uscito. Non fu altrettanto facile per gli altri che ammassatisi all’imbocco della scala, facendo pressione uno contro l’altro, impedivano di riuscire a svincolarsi e salire. Il locale aveva un altro portello ma senza scala, serviva per l’imbarco dei viveri nella sottostante cambusa e si poteva aprire da sopra coperta. Io che non ero tra gli ammassati, sono riuscito a richiamare l’attenzione di altri superstiti che erano in coperta e feci aprire quest’altro portello. Con questa apertura, sarà stato per l’illusione di un’altro passaggio, la pressione si allentò e così abbiamo potuto salire la scala. Sul castello, eravamo ancora isolati dalla poppa perchè le strutture attorno al fumaiolo erano avvolte dalle fiamme. Quelli che erano sul ponte di comando, passando attraverso i finestrini ed i tetti delle torri 1 e 2 erano arrivati in coperta e commentavano le fasi del siluramento. Superata Alicudi, la formazione dalla linea di fila era passata alla doppia linea. Trieste e Gorizia avanti, Bolzano e Attendolo, dietro. L’Attendolo sul lato destro verso la costa siciliana. Il Bolzano sulla sinistra verso il largo, quasi parallelo all’Attendolo. Il sommergibile avrebbe lanciato una coppia di siluri (in realtà 4 evidentemente non si erano accorti degli altri due. NdR) e, poichè l’Attendolo si trovava in quel momento un poco più avanti del Bolzano, il primo siluro lo aveva colpito proprio sotto il castello oltre la paratia rinforzata a protezione dei depositi di munizioni delle due torri di prora troncando di netto la prora stessa. Fortunosa circostanza, che non siano esplosi i depositi munizioni con le immaginabili conseguenze. La nave rimase a galla e potè rientrare in porto con i propri mezzi. Il secondo siluro, aveva colpito il Bolzano in corrispondenza del locale caldaie 1 e 2 e del relativo deposito di nafta che prendendo fuoco aveva creato un colossale incendio in parte sfogato dal fumaiolo ma, attaccando anche tutti i locali adiacenti. Anche per il Bolzano, bisogna sottolineare che la buona sorte ha risparmiato alla nave e all’equipaggio rovinose conseguenze se il siluro avesse colpito i depositi munizioni e se le fiamme avessero raggiunto i depositi che tuttavia furono fatti allagare immediatamente. La nave, malgrado l’acqua imbarcata per lo squarcio nello scafo, mantenne il galleggiamento sia pur dando l’impressione che stesse per affondare. Quanti eravamo sopra il castello, non sapevamo la sorte del rimanente equipaggio nè potevamo andare verso poppa. Soltanto quando il vento aveva fatto cambiare posizione al Bolzano ed aveva fatto spostare le fiamme verso un solo lato abbiamo potuto avviarci verso poppa e riunirci agli altri superstiti. A causa dell’inquinamento della nafta con l’acqua di mare, si erano fermate anche le macchine non interessate dallo scoppio e quindi i mezzi antincendio. Dopo l’azione del siluro, le altre navi hanno proseguito verso Messina. A darci assistenza era rimasto un caccia sul quale trasbordammo quando la nave ancora una volta sembrava dovesse affondare.
Invece, si era trattato soltanto di un assestamento spontaneo del galleggiamento. A questo punto, il comandante in seconda del Bolzano, d’accordo col comandante del caccia, decisero di tentare il rimorchio su un basso fondale di Panarea. Bisognava tornare a bordo per predisporre le funi di rimorchio. Raccolse alcuni volontari, me compreso, con un battello ci avvicinammo alla nave e risalimmo a bordo. Il rimorchio fu effettuato da poppa essendo la prora già immersa quasi per metà. L’operazione riuscì, la poppa rimase fuori fino al centro nave e la rimanente parte a pelo d’acqua fino a prora. L’incendio continuò fin quando l’acqua del mare non ebbe il sopravvento sul fuoco. Sull’isola fu sistemata una parte dell’equipaggio per la sorveglianza della nave, gli altri furono portati a Messina. Quelli che come me avevano famiglia in città, furono mandati a casa. Con l’allagamento perdemmo tutto quello che avevamo a bordo rimanendo col solo vestiario che avevamo addosso al momento del siluramento. I feriti furono portati all’ospedale Margherita di Messina e la maggior parte aveva ferite da ustioni. Anch’io avevo una piccola ferita al collo del piede destro e fui ricoverato. Ero nella stessa stanza di un collega con la parte superiore delle mani gravemente ustionata. Raccontò che si trovava in coperta vicino la torre 1, vide la scia del siluro che passando davanti alla propra era destinato all’1. Credendo che colpisse il Bolzano, si avviò verso poppa, nel frattempo però, il secondo siluro colpì la nave e provocò l’incendio le cui fiamme fuoruscivano dalle feritoie del locale caldaie alla base del fumaiolo. Coprendosi la faccia con le mani sfidò le fiamme proseguendo verso poppa. Salvò la faccia, ma le mani subirono profonde scottature. La Marina decise il recupero dello scafo. Vennero mezzi speciali che prosciugando i locali sani e tamponando lo squarcio ripristinarono il galleggiamento. I lavori durarono fino al 16 settembre 1942 e alle 19, il, trainato da due rimorchiatori e sotto forte scorta (comprensiva tra l’altro della torpediniera di scorta Ardito) fu trasferito a Napoli dove arrivammo nella mattinata del giorno dopo. In bacino fu riparata la falla, ripulite le macchine ed i locali allagati, fu ripristinata la possibilità di navigare con i propri mezzi. A Napoli restammo fino al 12 dicembre 1942 da dove partimmo diretti alla Spezia. La nave fu messa in disarmo e l’equipaggio inviato in altre destinazioni.”

La Spezia sotto bombardamento aereo, il 5 maggio 1943: in primo piano la corazzata Littorio, a destra della quale, più lontano, è riconoscibile il Bolzano (g.c. STORIA militare).

Epilogo

Se l’abbandono di ogni lavoro per riparare il Bolzano, dopo tanti sforzi fatti per salvarlo, non poteva che destare amarezza tra gli ormai ex membri del suo equipaggio, altrettanto penosa fu la diatriba che insorse, a posteriori, tra il comandante Mezzadra ed alcuni dei suoi ufficiali. Secondo quanto lasciato scritto dal capitano del Genio Navale Traetta, al rientro a Messina Mezzadra mostrò una certa freddezza sia verso i caduti che verso gli uomini che tanto si erano sforzati per salvare la nave. Alcuni degli ordini dati da Mezzadra nei momenti successivi al siluramento destavano forti perplessità tra gli ufficiali, i quali ritenevano che tali disposizioni avessero influito negativamente sul salvataggio dell’unità: in particolare, si riteneva che Mezzadra fosse stato troppo precipitoso nell’ordinare l’abbandono della nave alla considerevole parte dell’equipaggio che si era radunata a poppa, mentre erano ancora in corso i tentativi di circoscrivere l’incendio, che, se proseguiti, avrebbero forse potuto dare qualche risultato. Altrettanto discusso era stato il suo ordine di non manovrare le macchine poppiere, che il maggiore Petrillo aveva rimesso in piena efficienza entro 40 minuti dal siluramento, nonostante ripetute insistenze da parte di alcuni ufficiali. Si ritenne che incertezze ed inefficienze nel comando avessero portato alla perdita della nave, che si sarebbe invece potuta ancora salvare.
La relazione del comando della III Divisione sull’accaduto, inviata al Ministero della Marina, parlava di mancanza di comprensione tra gli ufficiali ed il comandante, la quale aveva impedito una efficace collaborazione per salvare quanto si sarebbe potuto; inoltre criticava l’operato di alcuni ufficiali, che – secondo l’ammiraglio Parona – non avrebbero agito con la dovuta freddezza e non avrebbero utilizzato al meglio tutti i mezzi a loro disposizione.
Gli sforzi di diversi ufficiali per il salvataggio del Bolzano non furono riconosciuti, ed anzi tali ufficiali furono colpiti da veri e propri provvedimenti punitivi: il già pluridecorato maggiore Petrillo, che una volta di più aveva dato il massimo per salvare la sua nave, venne escluso dal quadro di avanzamento a tenente colonnello del Genio Navale; il comandante in seconda Fe’ d’Ostiani, che si era prodigato nelle operazioni di salvataggio, non ebbe alcun riconoscimento; un altro ufficiale, Modena, subì una revisione negativa delle sue note caratteristiche perché incolpato di aver dato non meglio precisati suggerimenti erronei al comandante Mezzadra. Mezzadra, nel suo rapporto, affermava tra l’altro che “più volte il capo servizio G.N., ufficiali e personale di macchina sono venuti a riferirmi che le motrici erano in moto, ma in realtà le eliche erano ferme”. Nonostante le molte testimonianze raccolte da Petrillo, i comandi decisero di dare credito a Mezzadra.

Quando l’8 settembre 1943 fu annunciata la notizia dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, il Bolzano si trovava ancora in riparazione (o piuttosto, in attesa che i lavori di riparazione riprendessero) nell’Arsenale di La Spezia.
Il comandante in capo del Dipartimento di La Spezia, ammiraglio Giotto Maraghini, provvide a dare esecuzione alle disposizioni impartite da Supermarina circa il naviglio presente in porto (tranne la squadra da battaglia, partita per ordini di Roma nelle prime ore del 9 settembre) e le installazioni a terra: le navi minori in grado di muovere vennero fatte partire per porti saldamente sotto controllo italiano od Alleato, quelle impossibilitate a partire si autoaffondarono; lo stessero fecero le navi mercantili (partenza od inutilizzazione, ma in alcuni casi gli armamenti tedeschi delle mitragliere imbarcate impedirono di attuare tali provvedimenti). Gli impianti, i bacini e le attrezzature dell’Arsenale furono resi inutilizzabili, ma solo per 15 giorni, nell’ottimistica – ed irrealistica – speranza che gli Alleati avrebbero cacciato le forze tedesche dall’Italia nel giro di qualche settimana.
Nonostante un tentativo di resistenza da parte del XVI Corpo d’Armata italiano (Divisione Fanteria "Rovigo" e Divisione Alpina "Alpi Graie"), La Spezia fu occupata da quattro divisioni tedesche entro il 10 settembre, senza particolari difficoltà. Le due Divisioni italiane furono sciolte e l’ammiraglio Maraghini lasciò La Spezia il 10 settembre, dopo aver dato esecuzione agli ordini di Supermarina.
Il 9 settembre 1943 si svolse a La Spezia il più grande autoaffondamento in massa di navi militari italiane per impedirne la cattura da parte tedesca: si autoaffondarono nel porto il vecchio incrociatore Taranto, i cacciatorpediniere Nicolò Zeno, FR 21 e FR 22, le torpediniere Generale Antonino Cascino, Generale Carlo Montanari, Ghibli, Lira e Procione, i sommergibili Antonio Bajamonti, Ambra, Sirena, Sparide, Volframio e Murena, le corvette Euterpe, Persefone e FR 51, il posamine Buccari, il trasporto munizioni Vallelunga, le cisterne militari Scrivia e Pagano, le motozattere MZ 736 e MZ 748, i rimorchiatori militari Mesco, Capri, Capodistria, Robusto e Porto Sdobba, il MAS 525, la motosilurante MS 36.
Caddero invece in mano tedesca il Bolzano, il Gorizia (che si trovava in condizioni analoghe), il posamine Crotone, il trasporto munizioni Panigaglia, la nave bersaglio San Marco, la nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, la nave salvataggio sommergibili Anteo, la cannoniera Rimini, le cisterne militari Bormida, Dalmazia, Leno, Sprugola, Volturno, Stura e Timavo, il piccolo trasporto Monte Cengio, il dragamine RD 49, il MAS 556, le Bette N. 5 e N. 16, i rimorchiatori Atlante, Brava, Carbonara, Linaro, Santo Stefano, Senigallia, Taormina, Torre Annunziata, N 9, N 10, N 37, N 53 e N 55. Gran parte di tali unità furono sabotate dagli equipaggi; il Gorizia aveva anche iniziato ad autoaffondarsi, ma tale provvedimento era stato poi sospeso.

Il Bolzano ed il Gorizia, essendo praticamente in disarmo, avevano un unico comandante in comune, il capitano di fregata Dessì. Questi mantenne i ridotti equipaggi a bordo degli incrociatori fino alla sera del 9 settembre; poi, stante il precipitare della situazione, si consultò con il Comando del Dipartimento e fece abbandonare le unità, mandando il personale nella caserma di San Bartolomeo. Qui gli uomini furono lasciati liberi; le loro sorti si divisero.
Non tutti avrebbero visto la fine della guerra: il marinaio cannoniere Antonino Maio, di Milazzo, ventitreenne, morì in Italia appena tre giorni dopo, il 12 settembre 1943.
Il sergente meccanico Gustavo Costa, ventiquattrenne, da Alano di Piave, sarebbe anch’egli morto in Italia, il 12 novembre 1944.
Altri membri dell’equipaggio furono catturati dai tedeschi ed avviati alla prigionia in Germania: tra di essi non sopravvissero il marinaio fuochista Egidio Guazzetti, di La Spezia, ed il sottocapo cannoniere Smeraldo Macor, di Trieste. Avevano entrambi ventiquattro anni; il primo morì nel campo di Gusen-Perg (Austria, un sottocampo del più famoso lager di Mauthausen) il 29 dicembre 1944, il secondo morì nel campo di Halbertstadt il 5 marzo 1945.

Il Bolzano non fu autoaffondato né sabotato, perché si trovava già in condizioni tali da risultare inutilizzabile almeno per parecchi mesi, e quindi non sarebbe stato di alcuna utilità ai tedeschi. (Per altra fonte, prima dell’abbandono vennero rimosse parti vitali dell’apparato motore).
Il 10 settembre il relitto abbandonato di quello che era stato uno dei più magnifici incrociatori della Regia Marina venne saccheggiato dagli occupanti tedeschi ed anche dalla popolazione civile, venendo spogliato di qualsiasi cosa potesse essere riutilizzata. Poi fu abbandonato a sé stesso (per altra fonte fu mantenuta a bordo una piccola guardia tedesca).

La storia del Bolzano non era però ancora giunta alla fine.
Dopo l’armistizio il grosso del personale e dei materiali della X Flottiglia MAS, la celebre unità della Regia Marina specializzata in azioni con mezzi insidiosi, era rimasto al Nord (la sua base principale era proprio a La Spezia) ed aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana, riunendosi sotto la guida del capitano di fregata Junio Valerio Borghese. Un’altra parte, più ridotta, dei mezzi e degli uomini della X MAS si era però trovata al Sud al momento dell’armistizio; pochi mesi dopo l’8 settembre, durante la cobelligeranza con gli Alleati, i comandi della Regia Marina nel Sud decisero di ricostituire un’unità per azioni insidiose analoga alla X MAS, cui fu dato il nome di Mariassalto. Al suo comando fu destinato il capitano di fregata Ernesto Forza, che aveva in passato comandato per un periodo la X Flottiglia MAS.
L’attività di Mariassalto languì per diversi mesi, per vari motivi: mancavano mezzi d’assalto subacquei come gli SLC (al Sud erano rimasti solo mezzi di superficie, quali barchini esplosivi e siluranti) per forzare i porti nemici, né vi erano, nell’Italia meridionale, le necessarie risorse e capacità progettuali e cantieristiche; mancavano bersagli di particolare rilievo (le forze navali della Kriegsmarine nel Mediterraneo consistevano principalmente in cacciatorpediniere, torpediniere e corvette ex italiane, la cui attività era già limitata di fronte allo strapotere aeronavale angloamericano); mancavano operatori esperti (alcuni, catturati dagli Alleati durante il periodo 1940-1943, come Luigi Durand De La Penne, Antonio Marceglia, Vincenzo Martellotta e Gino Birindelli, accettarono di tornare a combattere nella Marina del Sud e furono liberati dalla prigionia, ma per non dover combattere contro gli ex commilitoni rimasti al Nord con Borghese chiesero l’assegnazione od altri reparti o l’esenzione da missioni contro obiettivi italiani od in presenza di personale italiano) ed occorreva del tempo per addestrarne degli altri.
Nondimeno, il Ministro della Marina del Sud, ammiraglio Raffaele De Courten, riponeva grande importanza in qualche vittoriosa iniziativa di Mariassalto: iniziava infatti a profilarsi la possibilità di dure condizioni di pace verso la Marina italiana a guerra finita – consegna di alcune navi ai vincitori, disarmo forzato di altre, limitazioni sulle nuove costruzioni – e De Courten riteneva che, se la Marina si fosse guadagnata delle benemerenze presso gli Alleati nel corso della cobelligeranza, le condizioni del trattato di pace sarebbero potute essere meno dure.
Fu così che prese forma l’operazione «QWZ», il forzamento della rada di La Spezia da parte di un gruppo misto di mezzi d’assalto di superficie e subacquei. Mancando questi ultimi presso la Regia Marina, fu necessario coinvolgere nell’operazione anche la Royal Navy, che avrebber fornito alcuni “chariots”, mezzi d’assalto subacqueo sviluppati dai britannici sulla base di alcuni SLC italiani catturati intatti negli anni precedenti. Si riuscì a convincere i britannici che questa sarebbe stata una buona occasione per addestrare e far fare esperienza ai loro operatori di “chariots”; in questo modo, però, la parte subacquea – e principale – della missione finì con l’essere svolta dai britannici, anziché dagli italiani.
Obiettivo della missione «QWZ» erano proprio il Bolzano ed il Gorizia, che giacevano abbandonati ed inutilizzati nella rada di La Spezia, poco più che relitti galleggianti, ulteriormente danneggiati dai continui bombardamenti angloamericani su La Spezia.
La Kriegsmarine non aveva mai fatto alcun tentativo di rimettere in efficienza i due incrociatori, sia per la mancanza di materiali, sia perché conscia del fatto che le due navi non avrebbero mai avuto sensate possibilità d’impiego di fronte al dominio angloamericano del mare e del cielo (per altra fonte, ci fu un tentativo di riparazione, ma fu abbandonato a seguito degli ulteriori danni inflitti dalle incursioni aeree Alleate e da sabotaggi da parte di partigiani delle S.A.P. in collaborazione con operai antifascisti; per altra fonte, di converso, i tedeschi avevano iniziato a smantellare il Bolzano). Loro sorte sarebbe stata l’autoaffondamento, al momento dell’offensiva finale Alleata verso il Nord Italia, agli imbocchi del porto di La Spezia, per bloccarne l’accesso: il Bolzano sarebbe stato rimorchiato fino alla diga foranea, messo di traverso e qui affondato per bloccare l’accesso ad eventuali mezzi da sbarco Alleati.
La valenza della missione, pertanto, era soprattutto simbolica.

I mezzi destinati all’operazione furono imbarcati sul cacciatorpediniere Grecale (capitano di fregata Benedetto Ponza di San Martino) e sulla motosilurante MS 74, che furono concentrati a Bastia (Corsica) da dove salparono il 21 giugno 1944 diretti a La Spezia. Per il forzamento della base era previsto l’impiego di due Motoscafi da Turismo Siluranti Modificati (tenente di vascello Luigi Durand de la Penne, capo meccanico di seconda classe Luigi Zoppis; tenente vascello Luigi Cugia di Sant’Orsola e sottocapo motorista Luigi Gattorno; guardiamarina Girolamo Manisco e sottocapo palombaro Evelino Marcolini), tre «uomini gamma» (sommozzatori d’assalto: erano il guardiamarina Francesco Berlingieri, l’aspirante Andrea De Angeli ed il sottocapo nocchiere Corrado Giani; sarebbero stati trasportati dai MTSM) e due “chariots” britannici, i numeri LVIII e LX, con i relativi quattro operatori della Royal Navy. MTSM e «gamma» erano imbarcati sul Grecale, gli “chariots” sulla MS 74. Al largo della Gorgona, il Grecale mise in mare gli MTSM, che proseguirono verso La Spezia insieme alla MS 74; le tre piccole unità oltrepassarono senza difficoltà gli ingressi della rada, mettendo poi in mare gli “chariots”. Uno dei due mezzi subacquei (sergente Conrad Leonard Berey e marinaio M. Lawrence) non riuscì a trovare l’imboccatura del porto (per altra versione, si guastò) e dovette essere autoaffondato quando giunse l’alba; l’altro (sottotenente di vascello Malcolm Richard Causer e marinaio scelto Harry Smith), invece, riuscì a portarsi sotto la chiglia del Bolzano senza essere visto, alle 4.10. Dopo aver collocato sulla carena la loro carica esplosiva, Causer e Smith si allontanarono alle 4.30 col loro mezzo. La carica esplose nei tempi previsti, ed il Bolzano, malridotto già prima dell’attacco, si capovolse ed affondò nelle acque della rada.
Terminato il suo compito, anche il secondo “chariot” fu autoaffondato; nessuno dei quattro operatori britannici riuscì a giungere nel punto stabilito per il loro recupero da parte della motosilurante, così dovettero raggiungere la riva a nuoto.
Tutti e quattro vennero soccorsi ed ospitati da un gruppo partigiano dello spezzino (secondo una fonte, la IV Zona S.A.P. del tenente Francesco Mazzolini, appartenente alle formazioni “Giustizia e Libertà”); soltanto Berey riuscì a raggiungere le linee Alleate nell’agosto 1944, attraversando l’Arno, mentre gli altri tre vennero successivamente catturati dai tedeschi.
Causer e Smith furono catturati dai tedeschi dopo sei settimane; questi ultimi sospettavano che i due britannici avessero qualcosa a che fare con l’affondamento del Bolzano, ma Causer e Smith negarono sempre, sostenendo di essere due naufraghi di un sommergibile britannico affondato nel Mar Ligure. Smith fu lungamente imprigionato in isolamento e sottoposto a forti pressioni per farlo confessare di essere coinvolto nell’affondamento del Bolzano, ma continuò a ribadire la versione dell’affondamento di un sommergibile.
Per l’affondamento del Bolzano, Causer fu insignito del Distinguished Service Order, Smith della Conspicuous Gallantry Medal; Berey ricevette la Distinguished Service Medal.
Sulla contestuale missione dei «gamma» italiani esistono varie versioni; secondo alcune fonti essa non portò ad alcun risultato, mentre per altre il guardiamarina Berlingieri affondò con una carica esplosiva il sommergibile Volframio, che giaceva nel porto in condizioni non molto diverse da quelle del Bolzano (autoaffondatosi all’armistizio, era stato recuperato dai tedeschi, ma mai riparato). Tutti i «gamma», così come gli MTSM, riuscirono a rientrare senza incidenti alla “nave madre” (per altra fonte, uno o più «gamma» avrebbero invece raggiunto anch’essi la riva a nuoto e sarebbero stati assistiti dai partigiani, riuscendo poi a tornare alle linee Alleate).
Secondo lo storico Giorgio Giorgerini (autore del libro “Attacco dal mare” sulla storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana), la missione «QWZ» fu concordata preventivamente, mediante canali di contatto segreti, tra il comandante Forza di Mariassalto ed il comandante Borghese della X MAS. Secondo Giorgerini, Forza, spiegando l’importanza (presunta) della riuscita della missione per il futuro della Marina nel dopoguerra, convinse Borghese – conscio che i risultati concreti dell’attacco non sarebbero stati di rilievo, avendo per obiettivo delle navi già inutilizzabili – ad allentare la sorveglianza, per permettere agli incursori di attaccare indisturbati. A ciò si dovrebbe il fatto che i mezzi di Mariassalto e gli “chariots” britannici non trovarono ostacoli o segni di attenta sorveglianza quando penetrarono nella rada spezzina. Addirittura, la sera del 21 giugno 1944 Borghese avrebbe ordinato che una squadriglia di quattro MTSMA (Motoscafi da Turismo Siluranti Modificati e Allargati), al comando del tenente di vascello Sergio Nesi, si recasse ad effettuare un pendolamento poco al largo della costa per verificare che le ostruzioni della bocca di levante della rada fossero aperte (lo erano da mesi) e, qualora non lo fossero state, di aprirle. Informato da Nesi che le ostruzioni erano aperte, Borghese avrebbe poi ordinato alla squadriglia di rientrare entro l’una di notte (gli incursori italiani e britannici iniziarono ad entrare nella rada alle 00.30). Non solo: Borghese avrebbe ordinato a Nesi che, qualora i MTSMA avessero avvertito rumori di motori o notato altre stranezze nella zona del pendolamento, non sarebbero dovuti intervenire; tanto che quando, alle 23.30, uno dei piloti degli MTSMA disse a Nesi di sentire rumori di motori simili a quelli dei MAS, quest’ultimo gli ordinò di limitarsi a registrarlo sul rapporto di missione.


Due immagini del relitto del Bolzano nel 1946 (Coll. Giuseppe Celeste, da www.associazione-venus.it)


Nell’aprile 1945, alla liberazione di La Spezia, il relitto capovolto (per una fonte, con la sola carena emergente; per altra fonte, rovesciato su un fianco e parzialmente emergente) del Bolzano venne trovato affondato nella rada della base spezzina.
Nel settembre 1949 (per altra fonte, nel 1947), la carcassa dell’“errore splendidamente riuscito” fu riportata a galla, senza nemmeno essere raddrizzata, e speditamente demolita.

Vale la pena di riportare un ultimo aneddoto: nel dopoguerra l’ex direttore di macchina del Bolzano, Luigi Petrillo, lasciò la Marina e divenne un dirigente della Magneti Marelli di Milano. Nel 1951, inviato a Londra per gestire i rapporti con un’azienda britannica, fu inviato ad un pranzo dove poté incontrare due ospiti d’eccezione: Wilfrid John Wentworth Woods ed Alastair Campbell Gillespie Mars, i comandanti del Triumph e dell’Unbroken, i due siluratori del Bolzano quando lui ne era direttore di macchina.


Due immagini del Bolzano a Genova nel 1933 (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)