sabato 25 marzo 2017

Ondina

L’Ondina (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net

Sommergibile di piccola crociera della classe Sirena (dislocamento di 678 tonnellate in superficie, 842 in immersione).
Durante la seconda guerra mondiale effettuò complessivamente 15 missioni offensive/esplorative e 6 di trasferimento, percorrendo in tutto 11.556 miglia in superficie e 2861 in immersione.

Breve e parziale cronologia.

25 luglio 1931
Impostazione nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di costruzione 260).
2 dicembre 1931
Varo nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone.


Sopra, l’Ondina pronto al varo (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net); sotto, il varo (Archivio Fincantieri, via Rivista Marittima n. 8-9, agosto-settembre 2009, e www.betasom.it



19 settembre 1934
Entrata in servizio, ultima unità della classe ad essere completata.
Dislocato a Brindisi, in seno alla X Squadriglia Sommergibili (alle dipendenze del Comando Divisione Sommergibili), che forma insieme ai gemelli SirenaAnfitrite, Galatea, Naiade e Nereide.
1935-1936
Compie crociere addestrative nel Mediterraneo, facendo scalo in porti italiani.
1937
Anno di intensa attività addestrativa e prolungate crociere, soprattutto nel Dodecaneso. Opera alle dipendenze del IV Gruppo Sommergibili di Taranto.
15 agosto 1937
Al comando del tenente di vascello Stefano Nurra, l’Ondina salpa da Napoli per effettuare una missione clandestina nell’ambito della guerra civile spagnola, un pattugliamento a nord di Barcellona.
1° settembre 1937
Conclude la missione rientrando a Napoli, senza aver avvistato navi sospette.
1938
Dislocato a Brindisi, assegnato alla XLII Squadriglia Sommergibili insieme a Sirena, Naiade, Nereide, Anfitrite e Galatea.
Trasferito a Tobruk nello stesso anno, vi rimane fino alla fine del 1939.



Due immagini scattate a bordo dell’Ondina, a Tobruk nel 1939. A cavallo del cannone è il marinaio cannoniere Corrado Giusto, che prestò servizio sull'Ondina dall'ottobre 1939 agli inizi del 1941 (foto Giuliano Giusto, da www.naviearmatori.net)


25 ottobre 1939
Il marinaio elettricista Pietro Cozzarin, diciottenne, di Pordenone, muore a bordo dell’Ondina al largo di Tobruk.


Membri dell’equipaggio dell’Ondina in posa durante le operazioni di carico delle munizioni (foto Giuliano Giusto, da www.naviearmatori.net).

1939-1940
Nuovamente trasferito a Brindisi poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
10 giugno 1940
All’ingresso in guerra dell’Italia, l’Ondina fa parte della XLVIII Squadriglia Sommergibili, di base a Brindisi (alle dipendenze del IV Grupsom di Taranto).
27 giugno 1940
L’Ondina (tenente di vascello Vincenzo D’Amato) salpa da Brindisi (per altra fonte Taranto) in mattinata diretto a sud di Creta, per la prima missione di guerra.
29 giugno 1940
In mattinata l’Ondina, in navigazione a circa 65 miglia da Capo Matapan (54 miglia ad ovest della zona assegnata, che non riuscirà a raggiungere), viene sottoposto a lunghe ricerche da parte di navi nemiche, riuscendo infine a sfuggire con manovre evasive.
L’attacco non è avvenuto per caso: due giorni prima, infatti, alcuni cacciatorpediniere britannici hanno affondato il sommergibile Uebi Scebeli, ed in quell’occasione hanno catturato alcuni documenti segreti tra cui un ordine di operazioni che indicava le posizioni assegnate per gli agguati dell’Ondina e di un altro sommergibile, il Salpa (che devono formare una linea di pattugliamento, con altri sommergibili, tra Creta e l’Africa Settentrionale).

Il tenente di vascello Vincenzo D’Amato, comandante dell’Ondina dal 5 aprile al 18 novembre 1940 (g.c. Giovanni Pinna)

1° luglio 1940
In serata, il sommergibile rileva all’idrofono rumori prodotti da motrici a vapore; emerge ed avvista due piroscafi che avanzano ad elevata velocità, a considerevole distanza (tale da impedire di avvicinarsi a sufficienza da poter lanciare i siluri, stando in immersione). L’Ondina pertanto si pone all’inseguimento dei piroscafi, procedendo a tutta forza, ed apre il fuoco col cannone, ma il mare molto burrascoso rende quasi impossibile mirare con precisione, e la velocità dei mercantili, superiore a quella del sommergibile, impedisce di ridurre la distanza. L’Ondina deve così rinunciare all’attacco.
Successivamente trasferito nella base di Lero.
6 settembre 1940
Inizia una nuova missione, al comando del tenente di vascello D’Amato.


Una foto della torretta dell’Ondina dopo i lavori di ridimensionamento eseguiti durante il conflitto (g.c. STORIA militare)

12 settembre 1940
Alle tre di notte il sommergibile britannico Proteus (capitano di corvetta Randall Thomas Gordon-Duff) avvista un sommergibile italiano emerso in posizione 32°21’ N e 24°39’ E, su rilevamento 150°, ma quest’ultimo s’immerge prima che il Proteus possa attaccare; alle 4.16 il battello britannico avvista un altro sommergibile italiano (40 miglia ad est-nord-est di Tobruk), cui lancia infruttuosamente un siluro da 1370 metri, immergendosi subito dopo. È probabile che il bersaglio di questo attacco fosse l’Ondina, oppure un altro sommergibile italiano operante in zona, l’Uarsciek.
19 settembre 1940
Attacca infruttuosamente due cacciatorpediniere britannici al largo di Tobruk. Elude successivamente la violenta caccia nemica, non senza riportare serie avarie, che però non gli impediranno di proseguire nella missione.
25 settembre 1940
Rientra alla base. Il comandante D’Amato riceverà la Medaglia di Bronzo al Valor Militare per la sua condotta durante questa missione.
Novembre 1940-Gennaio 1941
Compie una serie di agguati difensivi nel Golfo di Taranto, con funzione antisommergibili. Non avvista nessuna unità avversaria.
23-27 gennaio 1941
L’Ondina effettua una missione di trasporto portando rifornimenti all’isola di Lero, a corto di viveri, come tutto il Dodecaneso, a causa del blocco navale britannico e greco.
Marzo 1941
Inviato al largo di Creta per insidiare i convogli che trasportano truppe britanniche in Grecia, non coglie successi.


L’Ondina a Monfalcone poco dopo il completamento (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)

17 giugno 1941
L’Ondina (tenente di vascello Corrado Dal Pozzo) salpa diretto in un’area di agguato sita sulla congiungente Capo Andreas (Cipro)-Alessandretta (Turchia).
L’8 giugno le forze britanniche hanno invaso la Siria, controllata dalle forze della Francia di Vichy; di conseguenza Maricosom (il Comando della flotta subacquea della Regia Marina), ritenendo che numerose navi britanniche od Alleate siano presenti nel Mediterraneo orientale a supporto dell’operazione, ha deciso di inviare in zona alcuni sommergibili, tra cui l’Ondina.
23 giugno 1941
Intorno alle 20, nelle acque tra Cipro e la Siria, l’Ondina avvista il piroscafo turco Refah di 3805 tsl (che pare al comandante Dal Pozzo “un grosso piroscafo”), con rotta apparente verso Cipro.
Secondo alcune fonti anche ufficiali italiane, la nave sarebbe stata oscurata e sprovvista dei contrassegni di neutralità, inducendo il comandante Dal Pozzo a ritenere che essa fosse al servizio degli Alleati; ma dal rapporto dell’Ondina (consultato presso gli archivi dell’Ufficio Storico della Marina Militare dal ricercatore Platon Alexiades) risulta invece che il Refah era illuminato, come prescritto per le navi neutrali, e che la bandiera turca risultava chiaramente visibile. Dal Pozzo ritenne che si trattasse di uno stratagemma nemico e che il piroscafo fosse britannico, camuffato da nave turca, così decise di attaccare lo stesso.
Alle 21.30, in posizione 36°08’ N e 34°44’ E, l’Ondina lancia due siluri dai tubi 3 e 4 di prua; i siluri passano a proravia del Refah, mancandolo, perciò il sommergibile si gira ed alle 21.33, da una distanza inferiore al migliaio di metri, lancia un terzo siluro dal tubo n. 7 di poppa. Dopo 47 secondi il siluro va a segno: colpito a centro nave, il Refah viene scosso dallo scoppio delle caldaie, e successivamente affonda, 40 miglia a sud di Mersina.
Il Refah aveva a bordo ben 200 persone: 28 membri dell’equipaggio, al comando del capitano İzzet Dalgakıran, e 171 passeggeri (19 ufficiali, 72 sottufficiali e 58 marinai della Marina turca, 20 cadetti dell’Aeronautica turca e due civili, nonché un ufficiale di collegamento britannico), membri di una missione militare turca diretta nel Regno Unito per prendere in consegna un lotto di aerei e sommergibili costruiti in cantieri britannici per l’Aeronautica e la Marina turca (le forze armate turche, pur restando il Paese neutrale, avevano ordinato tali mezzi per potenziarsi ed essere pronte ad affrontare un’eventuale invasione da parte di una delle potenze belligeranti), e per addestrarsi con tali unità prima di portarle in Turchia. Allo scopo, il piroscafo era stato noleggiato dal governo turco ed aveva lasciato Istanbul il 16 giugno, raggiungendo Mersina il 21 giugno e ripartendone due giorni dopo; si sarebbe dovuto unire ad un convoglio britannico in partenza da Port Said entro il 25.
Il capitano di fregata Zeki Işın, comandante della missione militare turca, aveva ispezionato il Refah e riferito alle autorità di Ankara che la nave era inadatta ad un viaggio del genere, mancando cabine, letti e servizi igienici in numero sufficiente, e disponendo soltanto di due scialuppe da 24 posti l’una; prima della partenza si erano pertanto frettolosamente compiute alcune modifiche, quali l’aggiunta di servizi igienici e letti portati dall’accademia navale di Mersina. Per rendere la nave identificabile come neutrale a sommergibili ed aerei di Paesi belligeranti, erano state verniciate bandiere turche sulle murate e sul ponte di castello.
Il Refah aveva lasciato Mersina alle 17.30 del 23 giugno, ma alle 22.30 (ora di bordo, discordante di un’ora rispetto all’orario dell’Ondina per via del fuso orario), mentre i passeggeri stavano cenando, uno dei siluri lanciati dall’Ondina lo aveva colpito, una decina di miglia ad est di Cipro. Una delle scialuppe era subito caduta in mare, piena di passeggeri che vi si erano sistemati per dormire; era mancata la corrente e la radio era stata messa fuori uso, così non fu possibile lanciare una richiesta d’aiuto. Diversi passeggeri si erano tuffati in acqua (alcuni erano poi tornati a bordo, perché la nave non era affondata subito), altri avevano smontato le porte in legno dei bagni e le coperture delle stive per usarle come zattere; un ufficiale della Marina turca, pistola alla mano, aveva organizzato l’imbarco di 24 passeggeri nella scialuppa superstite, ma non la si era potuta calare per malfunzionamento delle gruette. Dopo quattro ore di agonia, il Refah era affondato spezzandosi in due.
La scialuppa rimasta intatta era riuscita a liberarsi mentre la nave affondava, e si era allontanata con 28 persone a bordo (i 24 occupanti originari, ed altri quattro naufraghi recuperati dal mare); aveva issato una vela di fortuna, ma il vento l’aveva allontanata dalla vicina Cipro, sospingendola invece verso la costa dell’Anatolia. Solo quando la scialuppa toccò terra, venti ore dopo l’affondamento, le autorità turche seppero dell’accaduto: mezzi navali ed aerei vennero inviati a setacciare per tutto il giorno le acque dove il Refah era affondato, ma trovarono soltanto quattro ulteriori sopravvissuti. La tragedia del Refah costò la vita a 168 persone: di gran lunga il più pesante tributo umano pagato dalla neutrale Turchia alla seconda guerra mondiale.
L’identità del responsabile dell’affondamento del Refah rimase per lunghissimo tempo avvolta nel mistero: giornali britannici incolparono immediatamente un sommergibile italiano, senza però indicare il suo nome o la fonte, e lo stesso fece, più genericamente (sommergibile italiano o tedesco), l’ambasciatore britannico in Turchia, Hughe Knatchbull-Hugessen (subito smentito dall’agenzia stampa tedesca DNB). È interessante notare che i britannici, grazie alle intercettazioni di comunicazioni italiane decifrate mediante “ULTRA”, seppero subito che l’affondatore del Refah era italiano (ed anche che il governo italiano era pronto a negare ogni coinvolgimento), ma non poterono rivelare la loro fonte, ovviamente, per non rivelare l’esistenza di “ULTRA”, così l’accusa rivolta da giornali britannici all’Italia sembrò soltanto una delle tante reciproche accuse che fioccavano sempre dopo episodi del genere.
Si ipotizzò anche che l’affondatore fosse un’unità della Francia di Vichy (probabilmente un sommergibile), che aveva forse scambiato il Refah per una nave egiziana (alcuni naufraghi avevano visto ricognitori francesi sorvolare la scena del disastro il mattino successivo, senza riferire l’accaduto alle autorità turche); si accusò anche lo stesso Regno Unito, che avrebbe affondato il Refah perché non intenzionato a consegnare aerei e sommergibili alla Turchia, oppure per “incastrare” l’Asse e spingere la Turchia all’entrata in guerra a fianco degli Alleati. Ancora, qualche autore turco ha ipotizzato che la nave sia stata stata un’altra vittima di Luigi Ferraro, membro della X Flottiglia MAS, il quale, fingendosi funzionario diplomatico al locale consolato italiano, aveva piazzato cariche esplosive su quattro navi mercantili nei porti di Alessandretta e, appunto, Mersina. Ma nel 1941 Ferraro non era nemmeno nella X MAS: vi entrò solo successivamente, e fu inviato in Turchia solo nel maggio 1943. Una ulteriore ipotesi fu quella di una mina.
Per lungo tempo l’ipotesi più accreditata fu quella di un sommergibile della Francia di Vichy, data la presenza di molte unità francesi in acque turche, la campagna di Siria in corso in quei giorni, e voci circolanti intorno ad ufficiali francesi che avrebbero “ammesso” l’affondamento; solo molti anni più tardi ci si rese conto che luogo ed ora dell’affondamento del Refah combaciavano con quelli dell’attacco compiuto dall’Ondina.
Anche all’epoca, l’affondamento del Refah fu imbarazzante per il governo italiano: era appena iniziata la campagna contro l’Unione Sovietica, e l’Italia stava cercando di persuadere la Turchia a scendere in guerra a fianco dell’Asse.

La notizia dell’affondamento del Refah su un giornale turco (da tr.wikipedia.org)

24 giugno 1941
Rientra alla base.
18 marzo 1942
Alle 15.36 l’Ondina (tenente di vascello Gabriele Andolfi), che sta rientrando a Brindisi in superficie dopo un’esercitazione mattutina, viene avvistato in posizione 40°41’ N e 17°57’ E dal sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn). Quest’ultimo manovra per attaccare, ma non riesce a ridurre le distanze a meno di 4600 metri, così rinuncia all’attacco. Poche ore dopo, l’Upholder silurerà ed affonderà invece un altro sommergibile italiano, il Tricheco, anch’esso in fase di entrata a Brindisi.
4-16 giugno 1942
L’Ondina viene inviato a pattugliare le acque al largo della Palestina, unitamente ai sommergibili Sirena, Beilul e Galatea.
 

L’Ondina nel 1942 (g.c. STORIA militare
L’affondamento

Il 3 luglio 1942 l’Ondina, al comando del tenente di vascello Gabriele Andolfi, salpò da Lero diretto nelle acque tra Cipro e la Siria (precisamente, a sud di Cipro), per compiervi un agguato ai danni dell’intenso traffico britannico tra i porti del Medio Oriente e quelli dell’Egitto. Per insidiare tale traffico, ben cinque sommergibili erano stati inviati nel Mediterraneo orientale: oltre all’Ondina, anche il Perla, l’Alagi, il Nereide e l’Asteria.
Intorno alle ore 14 dell’11 luglio, l’Ondina avvistò al largo di Beirut quello che al comandante Andolfi parve un piccolo mercantile: secondo fonti sudafricane (basate sul successivo interrogatorio degli ufficiali prigionieri) il sommergibile, dopo aver vanamente tentato un attacco in immersione –  impraticabile per via della sua posizione sfavorevole al lancio dei siluri –, emerse per attaccare il bastimento con il cannone. Secondo fonti italiane, invece, l’avvistamento iniziale avvenne mentre il sommergibile era in superficie, e l’Ondina s’immerse per attaccare con il siluro.
L’unità avvistata non era però un mercantile, bensì il peschereccio antisommergibili Southern Maid, della Marina del Sudafrica: al comando del tenente di vascello Leonard John Bangley, era salpato da Beirut insieme ad un altro peschereccio antisom, il Protea (tenente di vascello G. Burn-Wood), anch’esso sudafricano, per condurre un rastrello antisommergibili tra il porto di partenza e Famagosta (Cipro). Le due piccole unità procedevano in linea di fronte ad una distanza di circa 2,5 chilometri l’una dall’altra, per non perdersi di vista ma al contempo aumentare le probabilità di rilevare un contatto sonar.
Alle 15, l’ufficiale di guardia sul Protea avvistò un oggetto in superficie circa 2,5 miglia a poppa dritta: se fosse stata una nave di superficie, il Southern Maid, che distava da essa non più di mezzo miglio, avrebbe dovuto giocoforza avvistarla. Si concluse pertanto che era la torretta di un sommergibile, impressione confermata quando, poco dopo, il sommergibile tornò ad immergersi.
L’Ondina, infatti, si era reso conto del proprio errore, e si era pertanto immerso nuovamente; manovrò per potarsi in posizione idonea al lancio e tentare l’attacco con i siluri, ma non ne ebbe il tempo. Il Protea accostò subito in direzione del punto dove aveva avvistato la torretta, ed ordinò al Southern Maid di fare altrettanto; i due cacciasommergibili diressero verso il punto in cui si era immerso l’Ondina alla massima velocità.
Al primo passaggio, né il Protea né il Southern Maid ottennero un contatto sonar, pertanto ne compirono un secondo. Alle 16.10 il Southern Maid ottenne un contatto, ma così vicino che passò sulla sua verticale prima di avere il tempo di aumentare la velocità per effettuare in sicurezza un attacco con bombe di profondità. Il contatto fu così perso; cinque minuti più tardi, tuttavia, il Protea localizzò nuovamente al sonar il sommergibile italiano, e gettò sei bombe di profondità regolate per scoppiare a quote comprese tra i 76 ed i 106 metri di profondità.
Questo primo attacco non produsse risultati apparenti, ed il contatto fu nuovamente perso. Riottenutolo alle 16.25, il Protea lanciò un secondo pacchetto di bombe di profondità dieci minuti più tardi. Questa volta le bombe erano regolate per esplodere a profondità comprese tra i 106 ed i 152 metri, e l’Ondina venne danneggiato; se ne accorsero anche le unità sudafricane, che videro del carburante affiorare in superficie.
Stavolta il Protea mantenne il contatto ed alle 16.50 lanciò una terza scarica di bombe di profondità, anch’esse regolate per quote tra i 106 ed i 152 metri, provvedendo inoltre a gettare in mare un segnale luminoso al calcio, per contrassegnare il punto in cui doveva trovarsi il sommergibile.
A questo punto, l’entità dei danni divenne tale da impedire all’Ondina di restare immerso ulteriormente, ed il battello dovette emergere per non affondare con tutto l’equipaggio. Fonti italiane indicano l’ora come le 16.35, mentre fonti sudafricane indicano che ciò avvenne un minuto dopo l’ultimo attacco del Protea (cioè, alle 16.51 o poco dopo).
L’Ondina emerse fortemente sbandato sulla dritta, oltre che immobile; mentre tornava lentamente in assetto, venne aperto il portello della torretta e gli uomini dell’equipaggio iniziarono ad uscire all’esterno, alcuni di essi tuffandosi in mare.
Subito il Protea ed il Southern Maid si avvicinarono a tutta forza al sommergibile italiano, aprendo il fuoco con i cannoni da 100 mm e con le mitragliere Oerlikon da 915 metri di distanza; diversi colpi andarono a segno fin da subito.
(Alcune fonti italiane parlano di intervento, a questo punto, di altre due navi in aggiunta alle prime due, ma si tratta di un errore: "Navi militari perdute" menziona i nomi delle unità attaccanti come "Protea, Sothern, Maid e Walrus", evidentemente per grossolano errore nella consultazione della documentazione britannica. Il Southern Maid, il cui nome viene storpiato e spezzato in due, "diventa" due unità navali, e l’idrovolante tipo Walrus – si veda più oltre – viene "scambiato" anch’esso per una nave dal nome Walrus).
Come se non bastasse, si unì all’attacco anche un idrovolante Supermarine Walrus, il W2709 (tenente di vascello D. J. Cook, dal sottotenente di vascello P. E. Jordan e dal sottufficiale P. Garrett-Reed) del 700th Naval Air Squadron della Fleet Air Arm, dislocato a Beirut con funzioni di vigilanza antisommergibili al largo della costa levantina.
Questi, giunto sul posto da pochi minuti a seguito di una comunicazione radio del Protea a Beirut, col quale si comunicava la presenza del sommergibile, sganciò due bombe di profondità, che colpirono l’Ondina facendo esplodere la riservetta di munizioni del cannone di coperta (composta da sette proiettili per il pronto impiego), con alcune vittime e diversi feriti tra l’equipaggio.
(Fonti sudafricane attribuiscono invece l’esplosione della riservetta al tiro d’artiglieria dei due cacciasommergibili, mentre il Walrus avrebbe sganciato le sue bombe subito dopo, ed esse sarebbero esplose ai lati del sommergibile).
La distruzione della riservetta impediva l’utilizzo del cannone per difendersi in superficie: a quel punto, non rimase che l’autoaffondamento. Alle 16.55, mentre le due navi sudafricane cessavano il fuoco, gli ultimi uomini dell’Ondina, avviate le procedure per l’autoaffondamento, abbandonarono il battello.
Un minuto più tardi (fonti italiane indicano invece le 16.45) l’Ondina s’inabissò nel punto 34°35’ N e 34°56’ E, a sud di Cipro, 60 miglia a ponente di Beirut ed a sei miglia dalla posizione in cui era stato inizialmente avvistato.
I naufraghi, 5 ufficiali e 36 tra sottufficiali e marinai (tra questi ultimi vi erano due feriti gravi), vennero raccolti dalle navi avversarie. Un marinaio, gettato in mare dall’esplosione della riservetta, aveva perso entrambe le gambe; fu portato a Cipro, nell’ospedale di Famagosta, e riuscì a sopravvivere.
I morti tra l’equipaggio dell’Ondina furono cinque:


Prospero Bentivenga, marinaio fuochista, 21 anni, da Castelsaraceno

Ercole Mardero, sottocapo motorista, 20 anni, da San Daniele del Friuli

Elio Martinelli, secondo capo motorista, 29 anni, da Terni

Alfio Patanè, secondo capo radiotelegrafista, 27 anni, da Piedimonte Etneo

Amedeo Ricciardolo, sottocapo silurista, 20 anni, da Domodossola


I sopravvissuti, sbarcati a Beirut, furono inizialmente sistemati in due scuole italiane requisite dalle autorità britanniche, la Scuola Principessa di Piemonte e la Scuola Padre Reginaldo Giuliani. Nella prima delle due si trovava già prigioniero l’equipaggio del sommergibile Perla, catturato in circostanze simili appena due giorni prima: quel pomeriggio, prendendo aria sulla terrazza, gli uomini del Perla avevano sentito e riconosciuto le esplosioni di bombe di profondità, l’epitaffio dell’Ondina.
Dopo una settimana, i naufraghi di Ondina e Perla furono caricati su due camion e trasferiti nel campo di prigionia di Latrun, vicino a Gerusalemme.
Il comandante Bangley, del Southern Maid, ricevette la Distinguished Service Cross per l’affondamento dell’Ondina; analoga decorazione fu conferita al sottotenente di vascello Edward John Raymond Walker, direttore del tiro della stessa nave.

L’Ondina prima del varo (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana”, di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it


domenica 19 marzo 2017

Capo Faro

Il Capo Faro con il precedente nome di Patani (da www.photoship.co.uk

Piroscafo da carico da 3476 tsl e 2137 tsn, lungo 117,3 metri, largo 15 e pescante 6,6, con velocità di 10 nodi. Appartenente alla Compagnia Generale di Navigazione a Vapore, avente sede a Genova, ed iscritto con matricola 1639 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

6 maggio 1905
Varato nei cantieri Workman, Clark & Co. Ltd. di Belfast come britannico Patani (numero di costruzione 219).
4 agosto 1905
Completato come piroscafo frigorifero (nave bananiera) Patani per la Elder Dempster Shipping Ltd. di Liverpool (dal 1911 Elder Line Ltd.). Stazza lorda originaria 3465 tsl.
18 maggio 1912
In mattinata il Patani, proveniente da Singapore e diretto a Koh-si-Chang (Thailandia) con posta dalla Francia, s’incaglia lungo il corso del fiume che deve risalire per raggiungere Koh-si-Chang. Il Patani ed un altro piroscafo, partito tre ore più tardi, iniziano una sorta di “gara” per avviare primi in porto; in questo frangente, nel superare “testa a testa” un banco di sabbia, l’altro piroscafo passa ma il Patani, più carico e dunque con pescaggio maggiore, s’incaglia. Potrà in seguito essere disincagliato.
1918
Trasferito alla African Steamship Company di Liverpool, una controllata della Elder Dempster.
1930
Acquistato dalla Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore, con sede a Genova, e ribattezzato Capo Faro.
1931
Assegnato, assieme ai piroscafi Capo Rino e Capo Vado della stessa compagnia, al servizio sulla prima e nuova linea regolare Spagna-Romania.
Febbraio 1937
Durante la guerra civile spagnola, il Capo Faro effettua un viaggio "contrabbandando" merci per le forze repubblicane spagnole, benché l’Italia stia combattendo (sebbene non "ufficialmente", ma con l’invio di reparti terrestri ed aerei "volontari" e con missioni clandestine contro il naviglio repubblicano) contro i repubblicani. Il carico del Capo Faro, acquistato dalla società Gattorno S. A. Romena ed imbarcato a Costanza (Romania, Mar Nero), consiste in 99 tonnellate di orzo (per la S.A.R. Sodcac), 100 tonnellate di grano per pane (per la S.A.R. Furajul) e 500 tonnellate di grano (per la S.A.R. Bunge).
Lasciata Costanza il 10 febbraio, il Capo Faro raggiunge Marsiglia, in Francia, dove il carico destinato ai repubblicani viene scaricato a terra e successivamente trasferito in Spagna con altri mezzi.
27 agosto 1941
Requisito a Trieste dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
22 settembre 1941
Il Capo Faro salpa da Brindisi per Bengasi alle 14 insieme al piroscafo Iseo, con la scorta della torpediniera Orione.
25 settembre 1941
Alle 00.30 il sommergibile britannico Thrasher (capitano di corvetta Patrick James Cowell) avvista delle unità di scorta in posizione 32°17’ N e 19°44’ E e, presumendo che siano dirette incontro ad un convoglio, dirige ad alta velocità prima verso ovest e poi verso nord per intercettarlo. All’1.32, in posizione 32°27’ N e 19°41’ E, il Thrasher avvista dapprima fumo su rilevamento 280° e poco dopo (avendo accostato per avvicinarsi) il convoglio che comprende il Capo Faro, circa un miglio e mezzo a poppavia. All’1.50, dopo essere passato a sinistra del convoglio, il Thrasher vira; dodici minuti dopo, vedendo un "cacciatorpediniere" avvicinarsi, il sommergibile lancia quattro siluri, poi vira a sinistra e – alle 2.05 – ne lancia un quinto, tutti contro il mercantile più vicino; alle 2.06 s’immerge. Nessuno dei siluri va a segno, e l’attacco non viene neanche notato; alle 2.28 il Thrasher riemerge e si pone all’inseguimento del convoglio, ma alle 3.04 avvista di nuovo delle unità di scorta che gli si dirigono incontro, così s’immerge di nuovo alle 3.11 ed abbandona l’inseguimento.
Le tre navi arrivano a Bengasi alle 6.
2 ottobre 1941
Capo Faro ed Iseo lasciano Bengasi alle 18.10 (o 18.50), diretti a Brindisi con la scorta della torpediniera Pegaso.
3 ottobre 1941
Alle 2.10 il sommergibile britannico Perseus (capitano di corvetta Edward Christian Frederic Nicolay) avvista due torpediniere a 4,5 miglia per 225° (evidentemente uno dei due piroscafi viene scambiato da Nicolay per una torpediniera), su rotta 330°, e poco dopo anche una nave mercantile a poppavia di esse: si tratta di Capo Faro, Iseo e Pegaso. Avvicinatosi per attaccare (la posizione del convoglio è 32°50’ N e 19°18’ E, una cinquantina di miglia a nordovest di Bengasi), alle 2.39 il Perseus lancia due siluri da 4570 metri, ma senza successo; il Capo Faro avvista una scia di siluro alle 2.55. Dato che le navi sono dirette in Italia, dunque scariche, Nicolay decide di non perseverare nell’attacco.
5 ottobre 1941
Il convoglio giunge a Brindisi alle 13.
29 ottobre 1941
Il Capo Faro ed il piroscafo Capo Arma salpano da Brindisi per Bengasi alle 10. I due bastimenti, scortati dalla torpediniera Procione, trasportano complessivamente 6466 tonnellate di rifornimenti per le forze italo-tedesche in Libia (760 tonnellate di munizioni, 408 tonnellate di viveri per gli enti civili, 1289 tonnellate di carburante in fusti, 4009 tonnellate di materiali vari tra cui carbone e materiali del Commissariato e del Genio).
1° novembre 1941
Nella notte tra il 31 ottobre ed il 1° novembre il piccolo convoglio subisce per un’ora e mezza continui attacchi di bombardieri, che causano lievi danni ed infiltrazioni d’acqua sul Capo Arma, provocati dalla concussione di bombe esplose vicine allo scafo. Il tiro contraereo delle navi danneggia alcuni degli aerei, forse ne abbatte anche qualcuno.
Alle 4.21 il convoglietto, in posizione 32°32” N e 19°55’5” E, viene avvistato dal sommergibile britannico Thrasher (capitano di corvetta Patrick James Cowell), che alle 4.27 lancia quattro siluri contro il mercantile di poppa. L’attacco non ha successo, e non viene nemmeno notato dalle navi italiane.
Tutte le navi giungono a Bengasi alle 9.
12 novembre 1941
Capo Faro e Capo Arma rientrano a Brindisi scortati dalla torpediniera Pegaso. “ULTRA” intercetta alcuni messaggi relativi a questo convoglio.


Un’altra immagine della nave come Patani (da www.photoship.co.uk) 

L’affondamento

Il novembre 1941 fu il periodo più nero della battaglia dei convogli per la Libia.
L’arrivo a Malta della Forza K, alla fine di ottobre, aveva aggiunto una nuova minaccia a quelle, già aumentate, dell’isola-fortezza britannica: questa piccola ma efficiente forza navale, composta da due incrociatori leggeri (Aurora e Penelope) e due cacciatorpediniere (Lance e Lively), aveva fatto strage, il 9 novembre, del grosso convoglio «Duisburg» (sette mercantili, tutti affondati), nonostante la poderosa scorta, ed il 24 novembre aveva ripetuto il colpo distruggendo il convoglio «Maritza» (piroscafi tedeschi Maritza e Procida, ambedue affondati, nonostante la difesa delle torpediniere Lupo e Cassiopea). Anche aerei e sommergibili di base a Malta mostravano sempre maggiore abilità ed aggressività.
La distruzione del convoglio «Maritza» provocò l’interruzione, per alcuni giorni, di ogni traffico con la Libia; si volle infatti accertare quali errori fossero stati commessi in quell’occasione.
Ma questa pausa non poteva durare a lungo, perché il 18 novembre le forze del Commonwealth avevano lanciato in Nordafrica l’operazione «Crusader», una controffensiva appoggiata da una notevole superiorità in aerei e mezzi corazzati, che di lì alla fine di dicembre avrebbe costretto le forze italo-tedesche ad abbandonare l’assedio di Tobruk ed a ritirarsi dalla Cirenaica, perdendo quasi 40.000 uomini.
A fine novembre, «Crusader» era in pieno svolgimento, e le truppe dell’Asse stavano opponendo un’accanita resistenza all’avanzata britannica; in Libia vi era urgente necessità di rifornimenti, pertanto Supermarina dovette ordinare, tra il 28 ed il 30 novembre, la partenza di tutte le navi cariche e pronte al viaggio ma ferme nei porti della Grecia e dell’Italia meridionale, dove avevano dovuto prolungare la loro sosta per via della succitata sospensione delle partenze per la Libia.
Alle 16 del 28 novembre 1941, di conseguenza, il Capo Faro ed il piroscafo Iseo partirono dalla Brindisi alla volta di Bengasi, scortati dalla torpediniera Procione (capitano di corvetta Villa). Sul Capo Faro si trovava un carico di 521 tonnellate di carburante in fusti, 408 di munizionamento e materiale d’artiglieria, 50 di cemento, 21 tra veicoli e rimorchi (del peso complessivo di 72 tonnellate) e 2191 tonnellate di materiale di commissariato e materiali vari. Comandante del piroscafo era il capitano di lungo corso Galliano Merlo.

La velocità prevista per la navigazione era già poco elevata – 9 nodi –, ma il vento ed il mare avversi (forza 6 da levante scirocco) provocarono ulteriori rallentamenti, costringendo i due piroscafi a ridurre l’andatura alla miserevole velocità di cinque nodi, poi ulteriormente ridotti a quattro.
Nel pomeriggio del 29 novembre il convoglio viene avvistato da un sommergibile, ed il mattino del 30 – trovandosi ancora molto arretrato sulla rotta, in forte ritardo sulla tabella di marcia per via dei problemi sopra menzionati – fu localizzato anche da ricognitori britannici, che comunicarono la sua posizione all’ammiraglio Henry Bernard Hughes Rawlings, comandante della Forza B britannica (unità analoga alla Forza K, e composta dagli incrociatori leggeri Ajax e Neptune e dai cacciatorpediniere Kingston e Kimberley), ed al Comando di Malta.
Per proteggere questo e gli altri convogli in mare (ce n’erano quattro, più quattro cacciatorpediniere ed un sommergibile in missione di trasporto) da attacchi da parte di forze di superficie britanniche, uscite da Malta il mattino del 30 (erano partite sia la Forza B che la Forza K, a seguito di segnalazioni della ricognizione e di decrittazioni di “ULTRA”), era in mare una considerevole forza di sostegno, composta dalla corazzata Duilio (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Guido Porzio Giovanola, comandante superiore in mare), dalla VII Divisione Navale (incrociatori leggeri Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, sotto il comando dell’ammiraglio di divisione Raffaele De Courten), dall’incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi della VIII Divisione e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere XI (Aviere, Geniere e Camicia Nera) e XIII. Ad ogni modo, il convoglio del Capo Faro, protetto dalla VII Divisione, si trovava in posizione tale che le navi britanniche non tentarono nemmeno d’intercettarlo.
Ma le navi di superficie non erano l’unica arma che poteva essere mandata contro il convoglio: da Malta decollarono quattro bombardieri Bristol Blenheim del 18th Squadron della Royal Air Force (per altra fonte cinque Blenheim, del 18th e 107th Squadron del Coastal Command RAF), che piombarono sulle navi italiane alle dieci del mattino del 30, attaccando a volo radente. È interessante notare che, secondo i rapporti italiani, le navi sarebbero state attaccate contemporaneamente da quattro bombardieri (i Blenheim di Malta) ed anche da due aerosiluranti, che avrebbero attaccato il convoglio provenendo dai due lati, agendo con perfetta sincronia; nella documentazione britannica, però, non c’è traccia di questi due aerosiluranti. È più che possibile una stima errata da parte italiana sul tipo e numero degli aerei attaccanti, molto comune in circostanze del genere.
Le navi italiane non avevano alcune scorta aerea, quindi poterono difendersi soltanto con le armi di bordo: ma il tiro contraereo delle navi non fu molto efficace (specie quello di Capo Faro ed Iseo, armati solo con alcune mitragliere), ed il Capo Faro venne colpito ripetutamente.
Il comandante del piroscafo riferì in seguito che la sua nave era stata colpita in pieno da tre bombe e da un siluro; come detto, secondo fonti britanniche di siluri non dovrebbero esservene stati.
Quale che fosse la tipologia degli ordigni che lo colpì, il Capo Faro si capovolse ed affondò rapidamente (alle 10) nel punto 37°28’ N e 19°20’ E (al centro del Mar Ionio, a 70 miglia per 260° da Zante).
Mentre l’Iseo, allontanatisi i Blenheim, dirigeva per Argostoli su ordine del caposcorta, la Procione provvide al soccorso dei naufraghi, terminato il quale si ricongiunse con l’Iseo, vi trasbordò i superstiti e giunse ad Argostoli insieme ad esso alle 22.30.

Vennero recuperati, a seconda delle fonti, 111 o 113 sopravvissuti del Capo Faro, che furono sbarcati ad Argostoli. Secondo alcuni documenti conservati all'U.S.M.M., i morti furono quattro, due membri italiani dell’equipaggio e due tedeschi; tuttavia il superstite Ivo Pianigiani, in una lettera scritta ad una cugina il 30 dicembre 1941, afferma che sul Capo Faro si trovassero in tutto 121 uomini, dei quali sette non risposero all'appello dopo il salvataggio da parte della torpediniera di scorta.
Il comandante Merlo fu tra i sopravvissuti; per il comportamento tenuto durante l’attacco e l’affondamento venne decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare ("Comandante di piroscafo requisito, navigante in convoglio, colpito da siluro durante un attacco di aerei nemici, affrontava con sereno coraggio e presenza di spirito la difficile situazione, infondendo fiducia ai suoi uomini ed adoperandosi con tutte le sue energie e con ferma volontà nei tentativi di salvare la nave. Solo allorché qualsiasi ulteriore sforzo veniva reso vano e l’unità era in procinto di affondare, dirigeva le operazioni di salvataggio della sua gente, dimostrando abnegazione e vivo senso del dovere").
Tra le vittime vi furono l’artigliere ventiseienne Giuseppe Semprini, di Verucchio, ed il marittimo civile Bruno Ball, di Trieste. Alla memoria di Giuseppe Semprini venne conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: "Destinato alla difesa c.a. di piroscafo attaccato e gravemente colpito da aerosiluranti nemici, rimaneva con sereno coraggio al suo posto di combattimento anche dopo l’ordine di abbandonare la nave. Benché lambito dalle fiamme, che alte si levavano dall’unità, e malgrado la possibilità di esplosione del carico, proseguiva impavidamente con ferrea decisione nella vivace reazione di fuoco, incurante della propria salvezza, e scompariva con la nave nell’adempimento incondizionato del dovere. (Mediterraneo Orientale, 30 novembre 1941)".


Sopra, una fotografia del soldato Giuseppe Semprini, dell’814a Batteria del 3° Reggimento Artiglieria, nato a Verucchio l’8 luglio 1915, disperso nell’affondamento del Capo Faro. Sotto, il suo verbale di irreperibilità. Per g.c. della pronipote Giuliana Corbelli.


Una lettera di Ivo Pianigiani (nato a Siena nel 1921, deceduto nel 2006), militare imbarcato sul Capo Faro nel viaggio in cui questo fu affondato, nella quale viene descritto l’affondamento (si ringrazia la famiglia ed in particolare la nipote Tamara Dombrovschi):





Trascrizione della lettera:

"Trieste – 30-12-1941 XX
carissima Rita, in occasione della signora Fiorini ho pensato di scriverti questa letterina per raccontarti liberamente le mie ultime avventure. Come ricorderai ero destinato ad andare in Africa, infatti il giorno 20 novembre partii da Varese verso Brindisi con un tren0 merci che era carico di autocarri sui quali erano montate delle bellissime stazioni radio, roba che apparteneva alla mia compagnia. Così io ed altri sette eravamo di scorta a questi materiali. Dopo 48 ore di viaggio arrivai a Brindisi e lì cominciammo a scaricare le macchine e a caricarle sul piroscafo. Quando una metà ossia 10 furono caricate il piroscafo partì ed io ed altri 3 con lui. Questo avvenne il giorno 28 novembre alle ore 3 del pomeriggio. Non appena usciti dal porto mi levai le fasce e mi slacciai le scarpe, operazione che viene ordinata in modo da essere più leggeri in caso di dover finire in acqua, e quindi indossai il salvagente, anche questo obbligatorio. La prima mezza giornata di navigazione andò benissimo, mare calmo, costa italiana vicina, ecc… Ma poi la costa non si vedeva più e il mare cominciò a farsi grosso e così cominciò ad arrivare il mal di mare. La mattina seguente giorno 29 idem con patatine e così tutto il giorno disteso a terra perché sennò c’è il rischio di mettere fuori tutto quello che poco prima si è mangiato. Passa anche questo giorno, arriva la notte, si dorme poco ma passa. La mattina seguente (30) sempre mare molto agitato, tempo nuvoloso, spiaggia e nebbia bassa. Nebbia provocata dall’acqua alzata dal vento. Dopo aver preso il caffè dato che era domenica io, un tenente ed un sergente entrammo in una stazione Radio ed io che ero l’unico a saperla adoperare l’accesi e non trovando nulla domandai che ora fosse: mi fu risposto le 10. In quello stesso attimo trovai della musica, musica alla quale nessuno di noi tre ebbe il tempo di fare attenzione perché sentimmo un rombo cupo passare sopra di noi e quindi una violenta esplosione. Immaginerai già di cosa si trattava. Così uscimmo in fretta e furia ed in quello stesso attimo che mettevamo piede all’aria aperta, arrivò un secondo apparecchio che ci colpì con una bomba la quale cadde a circa 5 o 6 metri da noi. Fortuna volle che sfondò il boccaporto ed entrò nella stiva così che l’esplosione non poté colpirci. Visto questo scappammo verso il ponte di comando. Ma ancora non era finita, arriva ancora un apparecchio il quale ci mitraglia e sgancia ancora delle bombe, così fummo tutti e tre sfiorati alla testa da diverse pallottole di mitraglia e per fortuna nessuno fu colpito, all’infuori di un marinaio tedesco che si trovava dietro di noi, una pallottola bucò uno stivale senza però toccarlo minimamente. Tanto per tagliare corto ti dirò che dopo aver incassato due siluri lanciati dal primo apparecchio e tre bombe lanciate dagli altri, venne l’ordine di gettarsi a mare. Gettammo via le scarpe e dopo aver messo a mare le scialuppe di salvataggio e le zattere non facemmo altro che gettarci a mare belli vestiti pure noi. Stetti nell’acqua circa mezz’ora e poi dopo lunghi sforzi dato il mare cattivo riuscii a montare su una zattera ove finalmente si stava discretamente. Dico discretamente per non dire male, capirai, bagnato (di novembre) con un vento che era tutt’altro che caldo e con un patente mal di mare non c’era certamente da stare allegri. Questa scomoda posizione dura circa 4 ore, dopo finalmente la torpediniera che avevamo di scorta ci levò su ed allora andò meglio. Appena su, fui preso da un marinaio il quale pur di far presto, mi spogliò a coltellate, capirai in quei momenti non si guarda certamente a non sciupare i vestiti. Quindi bello nudo mi distese sopra di un materassino e mi coprì con quante coperte e stracci asciutti gli capitarono fra le mani. Pertanto fra il calore del locale e tutta questa roba sopra di me, il caldo ritornò. Dirai te, come a 20 anni ti sei fatto spogliare e ti sei fatto mettere a letto?! Mi sembra impossibile pure a me ma con tanto freddo addosso credi ero duro che sembravo una tavola stagionata. Stetti così coperto per circa 3 ore, poi arrivarono con il mangiare che consisteva in una scatoletta di carne e pane. Intanto la nave si dirigeva verso il porto più vicino che lì era l’isola di Cefalonia (Grecia). Quando poi furono circa le otto di sera, arrivò una magnifica ed abbondantissima pastasciutta e così ci rifacemmo del mangiare perduto. Il trattamento che avemmo su questa nave fu davvero grandioso, ci fu dato dai marinai stessi tutto ciò che possedevano, specialmente sigarette rimasero tutti senza, per darle a noi. Fra l’equipaggio, più noi e più gli artiglieri di difesa alla nave in tutto si faceva il numero di 121 persone e all’appello ne risultarono 114. 7 avevano lasciato la loro vita in questa brutta avventura. In ogni modo non c’è da lagnarsi perché se invece di prenderci nei punti ove fummo presi, una sola bomba avesse preso sugli esplosivi che noi avevamo a bordo (2 mila tonnellate), di noi non se ne sarebbe salvato neanche uno, perciò non possiamo che ringraziare Iddio ed io devo ringraziare tanto anche te che hai pregato per me e, come vedi, le tue preghiere sono servite.
Continuando il racconto ti dirò che verso le 10.30 la sera arrivammo a quest’isola dove fummo per mezzo della croce rossa trasportati all’ospedale. Lì ci fecero bere tanti cognach che se ne fece una bellissima sbornia. La mattina seguente fummo trasportati in una caserma dato che si stava bene lì fummo vestiti e nuovamente rifocillati, dico vestiti perché Adamo era certamente più vestito di noi. In quest’isola ci stetti una settimana circa ossia fino al giorno 6, giorno che si partì con un posamine il quale ci portò a Patrasso ove fummo imbarcati sul piroscafo Piemonte. Lì si stette fermi nel porto di Patrasso fino al giorno 12. Ma però non era ancora finita perché l’ultima sera ecco che suona l’allarme e viene presa di mira per più di un’ora la nave nella quale ci trovavamo noi e ci vengono lanciate circa una trentina di bombe che per nostra fortuna non ci colpirono. Così la nave rimase illesa, e poi anche se fosse stata colpita eravamo attaccati al porto ma in ogni modo dopo quello che ci era toccato la paura non mancò certamente. Finalmente il giorno dopo la nave fu caricata di truppe che venivano in licenza e si partì e dopo una ottima navigazione e con bellissimo tempo, la mattina del 14 potei rimettere piede (a Bari) nella solida terra italiana. Il giorno seguente (15) fui mandato a Brindisi e di lì nuovamente a Varese ove si credeva di trovare ancora la compagnia ma invece non c’era più e così andammo a Roma all’ottavo Reggimento Genio. Qui vi stetti una giornata e quindi potei andare a trovare Piero che trovai in ottima salute. Al Reggimento sapevano ove si trovava la compagnia e perciò ci inviarono a raggiungerla a Napoli, da dove il giorno 23 fui mandato in licenza speciale con giorni 10+3 in attesa di proroga di un mese, credo. Che è arrivata dopo un anno [annotazione apparentemente successiva]. Termino perché il mio povero braccio non ne può più, e poi credo di averti raccontato tutto o quasi tutto. Ora farai il piacere di raccontare ciò se te ne capita l’occasione a Milena ed agli altri parenti perché capirai e cosa dato che la signora censura non posso scriverlo a tutti. Dice la mia mamma che Sandro non ha risposto alla nostra e neppure si è visto per Natale, ciò ci è dispiaciuto. Ora termino sul serio inviando a te e tutti i tuoi tanti affettuosi saluti e baci con un bel pizzicottane particolare pure dai miei.
Tuo aff.mo
Saluti pure a Giulio e sua famiglia, a Vera, Mariolina ecc."