L’Albano (Coll. Giorgio Spazzapan) |
Piroscafo da carico
di 2364 tsl, 1381 tsn e 2990 tpl, lungo 86,86-89,3 metri, largo 12,72-12,8 e
pescante 5,8, con velocità di 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di
Navigazione Adriatica, con sede a Venezia, ed iscritto con matricola 305 al
Compartimento Marittimo di Venezia; nominativo di chiamata IBLA.
Aveva quattro stive
della capienza complessiva di 3449 metri cubi, e cabine per quattro passeggeri.
Breve e parziale cronologia.
22 agosto 1918
Varato come War Arrow (numero di costruzione 297)
nei cantieri Samuel Peter Austin & Son Ltd. di Sunderland (Wear Dock).
14 ottobre 1918
Completato come War Arrow per lo Shipping Controller di
Londra; in gestione a Donald & Taylor di Londra. Stazza lorda e netta 2358
tsl e 1342 tsn.
Si tratta di un piroscafo
da carico standard tipo "D", uno dei numerosi tipo di navi da carico
standardizzate messi in costruzione dal Regno Unito durante la prima guerra
mondiale per rimpiazzare il naviglio mercantile distrutto dagli U-Boote
tedeschi. La decisione di mettere in costruzione centinaia di nuove navi
mercantili è stata presa dalle autorità britanniche nel 1916, dopo un 1914 ed
un 1915 che avevano visto il Regno Unito perdere 1.600.000 tonnellate di
naviglio mercantile; alla fine del 1916 è stato creato a Londra lo Shipping
Controller, autorità governativa incaricata dell’organizzazione e gestione del
naviglio mercantile requisito per le esigenze belliche, che nel dicembre 1917
ha dato il via all’Emergency Shipbuilding Programme, un piano per la
costruzione di 3.100.000 tonnellate di naviglio mercantile (in aggiunta alle
navi messe in costruzione già nel 1916). Piano tanto vasto da impegnare la
totalità dei cantieri navali britannici e da richiedere anche la realizzazione
di nuovi cantieri “ad hoc” nel Canale di Bristol, ed a far costruire una parte
delle nuove navi in Canada (135 navi), negli Stati Uniti (160 navi per circa
700.000 tsl) ed in Giappone. Le navi costruite nel quadro dell’Emergency
Shipbuilding Programme sono collettivamente chiamate “navi tipo War” (pur non
appartenendo ad un unico tipo): tutti i loro nomi, infatti, sono composti da
una parola preceduta dal prefisso “War”, come nel caso del War Arrow. Il piano prevede nove diversi tipi di navi mercantili
standardizzate, denominati A (con la variante "AO", nave cisterna), B
(e la variante "BO", cisterna), C, D, E, F, G, H e N. Tutti sono
accomunati da un progetto semplificato e dalla ricerca della massima portata
lorda al minimo costo, dalla massimizzazione dell’efficienza e dalla riduzione
delle esigenze di manutenzione. Il tipo "D", di cui fa parte il War Arrow, è una versione ridotta dei
tipi "A" e "B", progettato per la costruzione su scali di
dimensioni limitate.
1919
Acquistato dalla
Società Italiana di Servizi Marittimi (SITMAR), con sede a Genova (o Venezia),
e ribattezzato Albano; iscritto con
matricola 972 al Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di chiamata
NCEA.
La cessione del War Arrow, poi Albano, alla SITMAR rientra nel quadro di un vasto accordo
raggiunto il 1° marzo 1919 tra Italia e Regno Unito, ed avente il fine di
rimpinguare la flotta mercantile italiana dopo le gravi perdite subite durante
la Grande Guerra per opera degli U-Boote (1.004.139 tsl, quasi metà della
flotta mercantile italiana d’anteguerra) tramite l’acquisto di naviglio
mercantile britannico “in surplus”, costruito durante la guerra per le esigenze
belliche ma risultante in eccesso rispetto alle necessità dei commerci
britannici in tempo di pace. Le richieste italiane sono state avanzate tramite
l’Allied Maritime Council, organismo interalleato istituito nel novembre 1917
per coordinare l’utilizzo del naviglio mercantile dell’Intesa; il Ministry of
Shipping britannico, venutosi a trovare con un marcato surplus di naviglio
mercantile, è abbastanza propenso ad accettare la cessione ad armatori italiani
di un buon numero di navi “War”, ma soltanto a condizione che il pagamento da
parte degli armatori sia garantito dallo stesso Governo italiano. Viene poi
deciso da parte britannica di concedere il differimento del pagamento del 60 %
del prezzo stabilito, a patto di ottenere una adeguata garanzia da una banca
britannica; quest’ultima viene individuata nella British Italian Banking
Corporation di Londra, che tuttavia chiede anch’essa una fideiussione da parte
delle banche italiane, dalle quali alcuni armatori hanno già ottenuto un
anticipo del 40 %. Non potendo il Governo italiano finanziare o garantire
direttamente questa operazione, intervengono al suo posto le principali banche
italiane (direttamente interessate, perché molte di esse hanno importanti
partecipazioni in molte compagnie di navigazione italiane), facenti parte del
Consorzio Finanziamento Valori Industriali (creato nel 1914 per agevolare
operazioni di credito a sostegno dell’industria italiana); nell’aprile 1919
viene costituito, specificamente per questa operazione, il Consorzio per il
Finanziamento dell’Acquisto dei Vapori Inglesi (CFAVI), partecipato dalla Banca
Commerciale, dalla Banca Italiana di Sconto, dal Banco di Roma e dal Credito
Italiano. Le banche del CFAVI dovranno garantire per gli armatori presso la
British Italian Banking Corporation, impegnandosi a fornirle immediatamente le
somme da pagare al Governo britannico qualora gli armatori non fossero più in
grado di farlo.
L’accordo
italo-britannico prevede la cessione di ottanta piroscafi “tipo War” per
complessive 500.000 tsl (si tratta del più numeroso gruppo di navi mercantili
ceduti dal Regno Unito ad una nazione alleata dopo la Grande Guerra), in tre
lotti di 50, 10 e 20 navi (rispettivamente 327.000 tpl, 84.510 tpl, 59.000
tpl). Tra le 80 navi cedute ve ne sono anche 25 appartenenti ad un tipo
sperimentale di bastimenti in legno, rivelatosi un vero disastro sia dal punto
di vista nautico che da quello economico: gli armatori italiani, ben conoscendone
le pessime qualità, si oppongono alla cessione di queste navi, ma le autorità
britanniche la impongono quale condizione vincolante per la cessione delle
altre 55 navi di altro tipo. Nondimeno, la maggior parte degli armatori
aderenti all’operazione considerano il risultato finale come conveniente, anche
se il prezzo pattuito per la vendita dei piroscafi è piuttosto alto: in media
27,30 sterline per tonnellata di portata lorda, con un tasso di cambio della
sterlina di circa 35 lire, per un valore complessivo di 13.000.000 di sterline.
Il vantaggio è anche dovuto ad un ulteriore incentivo da parte del Governo
italiano, che permette agli armatori di investire nell’acquisto dei piroscafi
britannici i sovrapprofitti di guerra in giacenza presso la Cassa Depositi e
Prestiti, che verrebbero altrimenti incamerati dallo Stato. Tra i pochi pareri
contrari quello della rivista “La vita marittima e commerciale”, controllata
dal gruppo Ansaldo, che accusa i britannici di aver sopravvalutato il valore
delle navi “War” da cedere agli armatori italiani (ed infatti le società di
navigazione del gruppo Ansaldo non partecipano all’operazione). Con questa
importante eccezione, partecipano al programma di acquisto dei “vapori inglesi”
pressoché tutti i principali armatori e compagnie di navigazione italiane, tra
cui la SITMAR, che acquistano complessivamente 4 piroscafi tipo "A",
8 tipo "AO", 6 tipo "B", 3 tipo "C", 8 tipo
"D" (tra cui il War Arrow),
12 tipo "N", 25 navi in legno e 16 navi di tipo non standardizzato.
Le compagnie più importanti acquistano i bastimenti a loro assegnati
direttamente dallo Shipping Controller, senza ricorrere al finanziamento del
CFAVI; gli altri si avvalgono dei finanziamenti del CFAVI e s’indebitano per il
60 % del valore dei piroscafi, da rimborsare in otto anni con rate semestrali.
La spartizione delle navi è caratterizzata da conflitti tra i diversi armatori
e compagnie; le navi ex britanniche devono essere ripartite in base alle
perdite subite in guerra, e nessuno vuole le navi in legno. La maggior parte di
queste ultime finisce con l’essere rifilata agli armatori liberi (non
sussidiati), anche se qualcuno viene fatto comprare anche alle grandi
compagnie; 9 su 25 vengono comprate da una delle banche finanziatrici, la Banca
Commerciale Italiana, che le assegna ad una sua controllata.
Al momento degli
accordi per l’acquisto i prezzi dei noli sono molto alti, il che spinge molti
armatori ad esercitare liberamente le navi comprate; tuttavia i noli, dopo aver
raggiunto il picco nel primo trimestre del 1920, iniziano a scendere dapprima
in modo graduale e poi (dal luglio 1920) ben più marcatamente, un vero crollo
che si fermerà soltanto agli inizi del 1921. Al tempo stesso diviene fortemente
sfavorevole anche il cambio lira-sterlina, che vede il valore della sterlina
triplicarsi (e dunque si triplica anche il prezzo in lire da pagare), con
conseguente deprezzamento del valore delle navi di quasi sette volte: da 27,30
sterline per tonnellata di portata lorda, il valore dei piroscafi acquistati
crolla ad appena quattro sterline per tonnellata di portata lorda. Entro la
fine del 1921 quasi metà della flotta mercantile italiana si trova in disarmo,
perché in seguito al crollo dei noli non è più conveniente far navigare le navi
(i prezzi dei noli non coprono più le spese): è questa anche la sorte della
maggior parte dei piroscafi “War”, i cui armatori, non traendo pertanto alcun
guadagno dal loro impiego, non possono ripagare il debito contratto per
l’acquisto; il CFAVI è costretto ad intervenire per pagare le rate scadute, ma
una delle banche che lo compongono, la Banca Italiana di Sconto, viene travolta
dalla crisi del gruppo Ansaldo (suo principale debitore) e viene posta in
liquidazione, peggiorando la situazione. Nell’agosto 1921 la Federazione
Armatori Liberi, appoggiata dal CFAVI e dal Governo italiano, avvia trattative
con lo Shipping Controller per tentare di ottenere un allungamento della
rateazione (sperando in un miglioramento dei tassi di cambio) ed una riduzione
nel prezzo di vendita delle navi; ma riesce soltanto nel primo intento,
ottenendo una proroga del termine del pagamento dal 1924 al 1929, con
dimezzamento della quota capitale delle rate rimaste da pagare. Inoltre, da
parte britannica viene imposto come condizione l’acquisto di un altro piroscafo
“tipo War”, pagato 100.000 sterline. Il CFAVI fa pressione sul governo Giolitti
perché avvii trattative dirette col governo britannico per una revisione del
contratto originario, facendo perequare le somme ancora da pagare al tasso di
cambio in vigore nel marzo 1919. Invano; nel novembre 1922 la situazione è
ormai divenuta disastrosa, con la quasi totalità dei piroscafi in disarmo per
via dei bassi prezzi dei noli, e le banche italiane garanti, costrette a pagare
al posto degli armatori, che hanno iniziato procedure coattive contro questi
ultimi. Dietro sollecitazione del sottosegretario agli Esteri, Ernesto
Vassallo, e del ministro delle comunicazioni, Costanzo Ciano, il nuovo capo del
governo italiano – Benito Mussolini – intavola col governo britannico nuove
trattative volte ad ottenere la temporanea sospensione dei pagamenti ed un
successivo prolungamento con agevolazione degli interessi delle rate ancora da
pagare, per “evitare disastro Marina Mercantile italiana”. I britannici, però,
ne approfittano per far presente che hanno già rinunciato a favore dell’Italia
(con l’accordo Hipwood-Salvago Raggi del giugno 1922) alla quota di naviglio
mercantile ex austroungarico loro assegnato dal trattato di Versailles, e per
cercare di ottenere da parte italiana un allentamento delle restrizioni
recentemente imposte dal Commissariato all’Emigrazione italiano sulle "patenti
di emigrazione" concesse alle compagnie di navigazione britanniche (dopo
che il "Quota Act" del 1921 ha fortemente limitato l’accesso di emigranti
italiani negli Stati Uniti, con conseguente riduzione del flusso migratorio, il
Commissariato all’Emigrazione ha deciso di rendere più restrittivi i criteri
per la concessione della “patente” – necessaria per trasportare emigranti
italiani verso l’America – alle società straniere, per favorire le compagnie di
navigazione italiane). Alcune compagnie di navigazione italiane, gravate dai
debiti accumulati per l’operazione, iniziano ad essere poste in liquidazione;
nell’estate del 1923 la Federazione Armatori Liberi, appoggiata dalla Banca
Commerciale Italiana, tenta nuovamente di intavolare trattative col governo
britannico per ridurre il debito ed estendere la rateazione, senza successo;
soltanto l’8 agosto 1924 verrà raggiunto un parziale, intempestivo,
insufficiente accordo con cui i britannici rinunceranno al pagamento di 136.149
sterline relative alla vendita di 20 piroscafi in legno. Un anno dopo il
governo italiano, su iniziativa di Costanzo Ciano, varerà una legge con cui
saranno concessi mutui a favore degli armatori che hanno acquistato navi “War”,
con un interesse del 5% annuo e durata massima 15 anni. Ormai troppo tardi per
molti degli interessati: tutto considerato, l’“affare dei vapori inglesi”
(titolo anche di un articolo di Paolo Piccione sul Bollettino AIDMEN n. 32 del
2018, nel quale la vicenda è ben descritta) ha provocato il fallimento di una
decina tra armatori e società di navigazione italiane, e causato ingenti
perdite a molte altre, con una perdita di capitale complessiva stimata in oltre
300.000.000 di lire.
1932
Trasferito alla
Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino, con sede a Trieste, che ha
assorbito la SITMAR.
1937
Trasferito alla
Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia, che lo pone in
servizio sulla linea 60 (Adriatico-Istanbul-Mar Nero). Iscritto con matricola
305 al Compartimento Marittimo di Venezia.
Fanno parte della
flotta dell’Adriatica altri due piroscafi del tipo "D", Iseo e Bolsena (anch’essi destinati ad affondare in guerra).
Giugno 1939
Effettua alcuni
viaggi straordinari per conto del Ministero delle Comunicazioni, forse verso il
Dodecaneso.
20 dicembre 1939
Durante il periodo
della “non belligeranza” italiana mentre già sono in corso le ostilità tra
Germania, Francia e Regno Unito, l’Albano,
proveniente da Istanbul e diretto in Adriatico, viene fermato da navi
britanniche e dirottato a Malta per un controllo. Viene poi lasciato proseguire
una volta accertato che a bordo tutto è in regola.
15 febbraio 1940
Posto in parziale
disarmo a Trieste.
22 novembre 1940
Requisito a Trieste dalla
Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello
Stato.
30 novembre 1940
L’Albano compie un viaggio a Brindisi, in
convoglio con i piroscafi Veloce e Ninuccia e la scorta dell’incrociatore
ausiliario Città di Tunisi. Le
condizioni meteomarine sono pessime; alle 6.13 il Veloce, ultima nave del convoglio, viene investito da un’esplosione
subacquea e lancia un SOS, venendo poi abbandonato dall’equipaggio. Non è
chiaro se l’esplosione sia stata causata da una mina (vi sono talvolta mine
alla deriva nel Canale d’Otranto) oppure da un siluro (nessuna unità britannica
riferirà di attacchi in posizione e data compatibili col danneggiamento del Veloce, ma proprio in quei giorni
scompare senza lasciare tracce, proprio in questa zona, il sommergibile
britannico Regulus: potrebbe essere
stata tale unità a silurare il Veloce).
Mentre Albano e Ninuccia proseguono verso Brindisi, il Città di Tunisi prende il Veloce
a rimorchio; il piroscafo andrà ad incagliarsi in costa, ma potrà in seguito
essere disincagliato e riparato.
14 dicembre 1940
L’Albano salpa da Brindisi alle 3.45 diretto
a Valona, dove giunge alle 17, in convoglio con il piroscafo Neghelli e la nave cisterna Strombo e con la scorta della torpediniera
Calatafimi.
Mine
Alle 6.30 del 1°
gennaio 1941 l’Albano salpò da Valona
diretto a Durazzo, al comando del capitano di lungo corso Edoardo Di Seneca ed
in convoglio con il piroscafo scarico Caterina
(sull’Albano sembrano invece esserci
notizie discordanti, con alcune che affermano che fosse anch’esso scarico ed
altre che parlano di un carico di 30.000 proiettili d’artiglieria); la scorta
era assicurata dalla torpediniera Aretusa.
Il convoglio incontrò mare burrascoso, tanto da essere costretto ad invertire
la rotta dopo poche ore, rientrando a Valona alle 11.30 ed attendendovi che il
tempo migliorasse.
Migliorato almeno un
poco lo stato del mare, le tre navi ripartirono da Valona alle sette del
mattino del 2 gennaio, procedendo in linea di fila: Aretusa in testa, Albano
al centro, Caterina in coda. Il mare
era ancora grosso, con vento teso da ostro-libeccio, ma non tale da precludere
la navigazione.
La navigazione
procedette senza intoppi fino alle 15.49, quando l’Albano urtò una mina a dieci miglia da Durazzo: lo scoppio,
percepito a bordo come uno schianto forte e sordo seguito da una colonna
d’acqua nerastra, avvenne sul lato sinistro in corrispondenza del carbonile
localizzato a mezza nave, scagliò violentemente uomini ed oggetti (il primo
ufficiale Eugenio Wengersin, che si trovava al tavolo da carteggio, fu lanciato
contro il soffitto) e devastò la zona della plancia. L’equipaggio si precipitò
alle lance, ed il comandante Di Seneca impartì gli ordini per l’immediato
abbandono della nave; la lancia di sinistra, nel tentativo di calarla, si
sganciò dai paranchi e si capovolse, mentre quella di dritta poté essere calata,
e vi presero posto 19 uomini, tra cui il primo ufficiale Wengersin. Il
comandante Di Seneca abbandonò per ultimo la nave, ma nel calarsi dal paranco
sulla scialuppa di sinistra perse la presa e cadde in acqua tra essa e la nave,
battendo violentemente la testa contro la lancia e rimanendo immediatamente
ucciso. Gli uomini sull’imbarcazione non poterono che tirarne a bordo la salma,
poi tentarono inutilmente di trovare altri naufraghi in acqua. Dalla sua
scialuppa, il primo ufficiale Wengersin notò che l’Albano si era spezzato in due tronconi, la prua ed il troncone
costituito da centro nave e poppa, dove l’elica stava ancora girando qualche
tempo dopo che l’equipaggio aveva abbandonato la nave. I due tronconi
affondarono lentamente.
Si fece notte,
pertanto i superstiti sulla lancia accesero due razzi per rendersi visibili
all’Aretusa, che dopo un po’,
infatti, sopraggiunse e li prese a bordo. Delle 40 persone a bordo dell’Albano (35 di equipaggio civile e 5
militari di scorta) cinque risultavano morte o disperse e quattro ferite; la
torpediniera recuperò tutti i 35 superstiti e prese a rimorchio la scialuppa
avente a bordo la salma del comandante Di Seneca, che finì però alla deriva a
causa della rottura del cavo. L’Aretusa
sbarcò i naufraghi a Durazzo, dove vennero portati nell’ospedale militare del
locale Comando Marina. Il mattino successivo anche la scialuppa con il corpo
del comandante Di Seneca giunse a riva a Durazzo, dove venne portata in secca.
(Questa è la sequenza
degli eventi per come fu descritta nel resoconto del primo ufficiale Wengersin
alla commissione d’inchiesta. I volumi USMM "Navi Mercantili Perdute"
e "La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo"
affermano che l’Albano affondò alle
15.45 in posizione 41°10’ N e 19°24’ E, circa un miglio ad ovest Capo Laghi, ad
una quarantina di miglia da Valona).
La mina urtata dall’Albano non era nemica: apparteneva ad
uno sbarramento difensivo italiano, su cui il convoglio era capitato per un
errore di rotta e per la mancata conoscenza della posizione del campo minato da
parte dell’Aretusa.
Le vittime:
Francesco Delernia, marconista, 47 anni, da
Barletta
Edoardo Di Seneca, comandante, 63 anni, da
Terstenico
Ferdinando Mozina (o Mozin), marinaio, 30
anni, da Trieste
Antonio Sulcich, meccanico, 58 anni, da
Trieste
Giuseppe Velicogna, primo macchinista, 51
anni, da Trieste
Il relitto dell’Albano, che giace al largo di Durazzo ad
una profondità compresa tra i 15 e i 23 metri, è stato identificato
nell’ottobre 2017 da una squadra di subacquei albanesi, in collaborazione con
l’Istituto di Archeologia di Tirana.
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