martedì 22 ottobre 2013

Albano

L’Albano (Coll. Giorgio Spazzapan)

Piroscafo da carico di 2364 tsl, 1381 tsn e 2990 tpl, lungo 86,86-89,3 metri, largo 12,72-12,8 e pescante 5,8, con velocità di 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia, ed iscritto con matricola 305 al Compartimento Marittimo di Venezia; nominativo di chiamata IBLA.
Aveva quattro stive della capienza complessiva di 3449 metri cubi, e cabine per quattro passeggeri.
 
Breve e parziale cronologia.
 
22 agosto 1918
Varato come War Arrow (numero di costruzione 297) nei cantieri Samuel Peter Austin & Son Ltd. di Sunderland (Wear Dock).
14 ottobre 1918
Completato come War Arrow per lo Shipping Controller di Londra; in gestione a Donald & Taylor di Londra. Stazza lorda e netta 2358 tsl e 1342 tsn.
Si tratta di un piroscafo da carico standard tipo "D", uno dei numerosi tipo di navi da carico standardizzate messi in costruzione dal Regno Unito durante la prima guerra mondiale per rimpiazzare il naviglio mercantile distrutto dagli U-Boote tedeschi. La decisione di mettere in costruzione centinaia di nuove navi mercantili è stata presa dalle autorità britanniche nel 1916, dopo un 1914 ed un 1915 che avevano visto il Regno Unito perdere 1.600.000 tonnellate di naviglio mercantile; alla fine del 1916 è stato creato a Londra lo Shipping Controller, autorità governativa incaricata dell’organizzazione e gestione del naviglio mercantile requisito per le esigenze belliche, che nel dicembre 1917 ha dato il via all’Emergency Shipbuilding Programme, un piano per la costruzione di 3.100.000 tonnellate di naviglio mercantile (in aggiunta alle navi messe in costruzione già nel 1916). Piano tanto vasto da impegnare la totalità dei cantieri navali britannici e da richiedere anche la realizzazione di nuovi cantieri “ad hoc” nel Canale di Bristol, ed a far costruire una parte delle nuove navi in Canada (135 navi), negli Stati Uniti (160 navi per circa 700.000 tsl) ed in Giappone. Le navi costruite nel quadro dell’Emergency Shipbuilding Programme sono collettivamente chiamate “navi tipo War” (pur non appartenendo ad un unico tipo): tutti i loro nomi, infatti, sono composti da una parola preceduta dal prefisso “War”, come nel caso del War Arrow. Il piano prevede nove diversi tipi di navi mercantili standardizzate, denominati A (con la variante "AO", nave cisterna), B (e la variante "BO", cisterna), C, D, E, F, G, H e N. Tutti sono accomunati da un progetto semplificato e dalla ricerca della massima portata lorda al minimo costo, dalla massimizzazione dell’efficienza e dalla riduzione delle esigenze di manutenzione. Il tipo "D", di cui fa parte il War Arrow, è una versione ridotta dei tipi "A" e "B", progettato per la costruzione su scali di dimensioni limitate.
1919
Acquistato dalla Società Italiana di Servizi Marittimi (SITMAR), con sede a Genova (o Venezia), e ribattezzato Albano; iscritto con matricola 972 al Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di chiamata NCEA.
La cessione del War Arrow, poi Albano, alla SITMAR rientra nel quadro di un vasto accordo raggiunto il 1° marzo 1919 tra Italia e Regno Unito, ed avente il fine di rimpinguare la flotta mercantile italiana dopo le gravi perdite subite durante la Grande Guerra per opera degli U-Boote (1.004.139 tsl, quasi metà della flotta mercantile italiana d’anteguerra) tramite l’acquisto di naviglio mercantile britannico “in surplus”, costruito durante la guerra per le esigenze belliche ma risultante in eccesso rispetto alle necessità dei commerci britannici in tempo di pace. Le richieste italiane sono state avanzate tramite l’Allied Maritime Council, organismo interalleato istituito nel novembre 1917 per coordinare l’utilizzo del naviglio mercantile dell’Intesa; il Ministry of Shipping britannico, venutosi a trovare con un marcato surplus di naviglio mercantile, è abbastanza propenso ad accettare la cessione ad armatori italiani di un buon numero di navi “War”, ma soltanto a condizione che il pagamento da parte degli armatori sia garantito dallo stesso Governo italiano. Viene poi deciso da parte britannica di concedere il differimento del pagamento del 60 % del prezzo stabilito, a patto di ottenere una adeguata garanzia da una banca britannica; quest’ultima viene individuata nella British Italian Banking Corporation di Londra, che tuttavia chiede anch’essa una fideiussione da parte delle banche italiane, dalle quali alcuni armatori hanno già ottenuto un anticipo del 40 %. Non potendo il Governo italiano finanziare o garantire direttamente questa operazione, intervengono al suo posto le principali banche italiane (direttamente interessate, perché molte di esse hanno importanti partecipazioni in molte compagnie di navigazione italiane), facenti parte del Consorzio Finanziamento Valori Industriali (creato nel 1914 per agevolare operazioni di credito a sostegno dell’industria italiana); nell’aprile 1919 viene costituito, specificamente per questa operazione, il Consorzio per il Finanziamento dell’Acquisto dei Vapori Inglesi (CFAVI), partecipato dalla Banca Commerciale, dalla Banca Italiana di Sconto, dal Banco di Roma e dal Credito Italiano. Le banche del CFAVI dovranno garantire per gli armatori presso la British Italian Banking Corporation, impegnandosi a fornirle immediatamente le somme da pagare al Governo britannico qualora gli armatori non fossero più in grado di farlo.
L’accordo italo-britannico prevede la cessione di ottanta piroscafi “tipo War” per complessive 500.000 tsl (si tratta del più numeroso gruppo di navi mercantili ceduti dal Regno Unito ad una nazione alleata dopo la Grande Guerra), in tre lotti di 50, 10 e 20 navi (rispettivamente 327.000 tpl, 84.510 tpl, 59.000 tpl). Tra le 80 navi cedute ve ne sono anche 25 appartenenti ad un tipo sperimentale di bastimenti in legno, rivelatosi un vero disastro sia dal punto di vista nautico che da quello economico: gli armatori italiani, ben conoscendone le pessime qualità, si oppongono alla cessione di queste navi, ma le autorità britanniche la impongono quale condizione vincolante per la cessione delle altre 55 navi di altro tipo. Nondimeno, la maggior parte degli armatori aderenti all’operazione considerano il risultato finale come conveniente, anche se il prezzo pattuito per la vendita dei piroscafi è piuttosto alto: in media 27,30 sterline per tonnellata di portata lorda, con un tasso di cambio della sterlina di circa 35 lire, per un valore complessivo di 13.000.000 di sterline. Il vantaggio è anche dovuto ad un ulteriore incentivo da parte del Governo italiano, che permette agli armatori di investire nell’acquisto dei piroscafi britannici i sovrapprofitti di guerra in giacenza presso la Cassa Depositi e Prestiti, che verrebbero altrimenti incamerati dallo Stato. Tra i pochi pareri contrari quello della rivista “La vita marittima e commerciale”, controllata dal gruppo Ansaldo, che accusa i britannici di aver sopravvalutato il valore delle navi “War” da cedere agli armatori italiani (ed infatti le società di navigazione del gruppo Ansaldo non partecipano all’operazione). Con questa importante eccezione, partecipano al programma di acquisto dei “vapori inglesi” pressoché tutti i principali armatori e compagnie di navigazione italiane, tra cui la SITMAR, che acquistano complessivamente 4 piroscafi tipo "A", 8 tipo "AO", 6 tipo "B", 3 tipo "C", 8 tipo "D" (tra cui il War Arrow), 12 tipo "N", 25 navi in legno e 16 navi di tipo non standardizzato. Le compagnie più importanti acquistano i bastimenti a loro assegnati direttamente dallo Shipping Controller, senza ricorrere al finanziamento del CFAVI; gli altri si avvalgono dei finanziamenti del CFAVI e s’indebitano per il 60 % del valore dei piroscafi, da rimborsare in otto anni con rate semestrali. La spartizione delle navi è caratterizzata da conflitti tra i diversi armatori e compagnie; le navi ex britanniche devono essere ripartite in base alle perdite subite in guerra, e nessuno vuole le navi in legno. La maggior parte di queste ultime finisce con l’essere rifilata agli armatori liberi (non sussidiati), anche se qualcuno viene fatto comprare anche alle grandi compagnie; 9 su 25 vengono comprate da una delle banche finanziatrici, la Banca Commerciale Italiana, che le assegna ad una sua controllata.
Al momento degli accordi per l’acquisto i prezzi dei noli sono molto alti, il che spinge molti armatori ad esercitare liberamente le navi comprate; tuttavia i noli, dopo aver raggiunto il picco nel primo trimestre del 1920, iniziano a scendere dapprima in modo graduale e poi (dal luglio 1920) ben più marcatamente, un vero crollo che si fermerà soltanto agli inizi del 1921. Al tempo stesso diviene fortemente sfavorevole anche il cambio lira-sterlina, che vede il valore della sterlina triplicarsi (e dunque si triplica anche il prezzo in lire da pagare), con conseguente deprezzamento del valore delle navi di quasi sette volte: da 27,30 sterline per tonnellata di portata lorda, il valore dei piroscafi acquistati crolla ad appena quattro sterline per tonnellata di portata lorda. Entro la fine del 1921 quasi metà della flotta mercantile italiana si trova in disarmo, perché in seguito al crollo dei noli non è più conveniente far navigare le navi (i prezzi dei noli non coprono più le spese): è questa anche la sorte della maggior parte dei piroscafi “War”, i cui armatori, non traendo pertanto alcun guadagno dal loro impiego, non possono ripagare il debito contratto per l’acquisto; il CFAVI è costretto ad intervenire per pagare le rate scadute, ma una delle banche che lo compongono, la Banca Italiana di Sconto, viene travolta dalla crisi del gruppo Ansaldo (suo principale debitore) e viene posta in liquidazione, peggiorando la situazione. Nell’agosto 1921 la Federazione Armatori Liberi, appoggiata dal CFAVI e dal Governo italiano, avvia trattative con lo Shipping Controller per tentare di ottenere un allungamento della rateazione (sperando in un miglioramento dei tassi di cambio) ed una riduzione nel prezzo di vendita delle navi; ma riesce soltanto nel primo intento, ottenendo una proroga del termine del pagamento dal 1924 al 1929, con dimezzamento della quota capitale delle rate rimaste da pagare. Inoltre, da parte britannica viene imposto come condizione l’acquisto di un altro piroscafo “tipo War”, pagato 100.000 sterline. Il CFAVI fa pressione sul governo Giolitti perché avvii trattative dirette col governo britannico per una revisione del contratto originario, facendo perequare le somme ancora da pagare al tasso di cambio in vigore nel marzo 1919. Invano; nel novembre 1922 la situazione è ormai divenuta disastrosa, con la quasi totalità dei piroscafi in disarmo per via dei bassi prezzi dei noli, e le banche italiane garanti, costrette a pagare al posto degli armatori, che hanno iniziato procedure coattive contro questi ultimi. Dietro sollecitazione del sottosegretario agli Esteri, Ernesto Vassallo, e del ministro delle comunicazioni, Costanzo Ciano, il nuovo capo del governo italiano – Benito Mussolini – intavola col governo britannico nuove trattative volte ad ottenere la temporanea sospensione dei pagamenti ed un successivo prolungamento con agevolazione degli interessi delle rate ancora da pagare, per “evitare disastro Marina Mercantile italiana”. I britannici, però, ne approfittano per far presente che hanno già rinunciato a favore dell’Italia (con l’accordo Hipwood-Salvago Raggi del giugno 1922) alla quota di naviglio mercantile ex austroungarico loro assegnato dal trattato di Versailles, e per cercare di ottenere da parte italiana un allentamento delle restrizioni recentemente imposte dal Commissariato all’Emigrazione italiano sulle "patenti di emigrazione" concesse alle compagnie di navigazione britanniche (dopo che il "Quota Act" del 1921 ha fortemente limitato l’accesso di emigranti italiani negli Stati Uniti, con conseguente riduzione del flusso migratorio, il Commissariato all’Emigrazione ha deciso di rendere più restrittivi i criteri per la concessione della “patente” – necessaria per trasportare emigranti italiani verso l’America – alle società straniere, per favorire le compagnie di navigazione italiane). Alcune compagnie di navigazione italiane, gravate dai debiti accumulati per l’operazione, iniziano ad essere poste in liquidazione; nell’estate del 1923 la Federazione Armatori Liberi, appoggiata dalla Banca Commerciale Italiana, tenta nuovamente di intavolare trattative col governo britannico per ridurre il debito ed estendere la rateazione, senza successo; soltanto l’8 agosto 1924 verrà raggiunto un parziale, intempestivo, insufficiente accordo con cui i britannici rinunceranno al pagamento di 136.149 sterline relative alla vendita di 20 piroscafi in legno. Un anno dopo il governo italiano, su iniziativa di Costanzo Ciano, varerà una legge con cui saranno concessi mutui a favore degli armatori che hanno acquistato navi “War”, con un interesse del 5% annuo e durata massima 15 anni. Ormai troppo tardi per molti degli interessati: tutto considerato, l’“affare dei vapori inglesi” (titolo anche di un articolo di Paolo Piccione sul Bollettino AIDMEN n. 32 del 2018, nel quale la vicenda è ben descritta) ha provocato il fallimento di una decina tra armatori e società di navigazione italiane, e causato ingenti perdite a molte altre, con una perdita di capitale complessiva stimata in oltre 300.000.000 di lire.
1932
Trasferito alla Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino, con sede a Trieste, che ha assorbito la SITMAR.
1937
Trasferito alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia, che lo pone in servizio sulla linea 60 (Adriatico-Istanbul-Mar Nero). Iscritto con matricola 305 al Compartimento Marittimo di Venezia.
Fanno parte della flotta dell’Adriatica altri due piroscafi del tipo "D", Iseo e Bolsena (anch’essi destinati ad affondare in guerra).
Giugno 1939
Effettua alcuni viaggi straordinari per conto del Ministero delle Comunicazioni, forse verso il Dodecaneso.
20 dicembre 1939
Durante il periodo della “non belligeranza” italiana mentre già sono in corso le ostilità tra Germania, Francia e Regno Unito, l’Albano, proveniente da Istanbul e diretto in Adriatico, viene fermato da navi britanniche e dirottato a Malta per un controllo. Viene poi lasciato proseguire una volta accertato che a bordo tutto è in regola.
15 febbraio 1940
Posto in parziale disarmo a Trieste.
22 novembre 1940
Requisito a Trieste dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
30 novembre 1940
L’Albano compie un viaggio a Brindisi, in convoglio con i piroscafi Veloce e Ninuccia e la scorta dell’incrociatore ausiliario Città di Tunisi. Le condizioni meteomarine sono pessime; alle 6.13 il Veloce, ultima nave del convoglio, viene investito da un’esplosione subacquea e lancia un SOS, venendo poi abbandonato dall’equipaggio. Non è chiaro se l’esplosione sia stata causata da una mina (vi sono talvolta mine alla deriva nel Canale d’Otranto) oppure da un siluro (nessuna unità britannica riferirà di attacchi in posizione e data compatibili col danneggiamento del Veloce, ma proprio in quei giorni scompare senza lasciare tracce, proprio in questa zona, il sommergibile britannico Regulus: potrebbe essere stata tale unità a silurare il Veloce).
Mentre Albano e Ninuccia proseguono verso Brindisi, il Città di Tunisi prende il Veloce a rimorchio; il piroscafo andrà ad incagliarsi in costa, ma potrà in seguito essere disincagliato e riparato.
14 dicembre 1940
L’Albano salpa da Brindisi alle 3.45 diretto a Valona, dove giunge alle 17, in convoglio con il piroscafo Neghelli e la nave cisterna Strombo e con la scorta della torpediniera Calatafimi.
 
Mine
 
Alle 6.30 del 1° gennaio 1941 l’Albano salpò da Valona diretto a Durazzo, al comando del capitano di lungo corso Edoardo Di Seneca ed in convoglio con il piroscafo scarico Caterina (sull’Albano sembrano invece esserci notizie discordanti, con alcune che affermano che fosse anch’esso scarico ed altre che parlano di un carico di 30.000 proiettili d’artiglieria); la scorta era assicurata dalla torpediniera Aretusa. Il convoglio incontrò mare burrascoso, tanto da essere costretto ad invertire la rotta dopo poche ore, rientrando a Valona alle 11.30 ed attendendovi che il tempo migliorasse.
Migliorato almeno un poco lo stato del mare, le tre navi ripartirono da Valona alle sette del mattino del 2 gennaio, procedendo in linea di fila: Aretusa in testa, Albano al centro, Caterina in coda. Il mare era ancora grosso, con vento teso da ostro-libeccio, ma non tale da precludere la navigazione.
 
La navigazione procedette senza intoppi fino alle 15.49, quando l’Albano urtò una mina a dieci miglia da Durazzo: lo scoppio, percepito a bordo come uno schianto forte e sordo seguito da una colonna d’acqua nerastra, avvenne sul lato sinistro in corrispondenza del carbonile localizzato a mezza nave, scagliò violentemente uomini ed oggetti (il primo ufficiale Eugenio Wengersin, che si trovava al tavolo da carteggio, fu lanciato contro il soffitto) e devastò la zona della plancia. L’equipaggio si precipitò alle lance, ed il comandante Di Seneca impartì gli ordini per l’immediato abbandono della nave; la lancia di sinistra, nel tentativo di calarla, si sganciò dai paranchi e si capovolse, mentre quella di dritta poté essere calata, e vi presero posto 19 uomini, tra cui il primo ufficiale Wengersin. Il comandante Di Seneca abbandonò per ultimo la nave, ma nel calarsi dal paranco sulla scialuppa di sinistra perse la presa e cadde in acqua tra essa e la nave, battendo violentemente la testa contro la lancia e rimanendo immediatamente ucciso. Gli uomini sull’imbarcazione non poterono che tirarne a bordo la salma, poi tentarono inutilmente di trovare altri naufraghi in acqua. Dalla sua scialuppa, il primo ufficiale Wengersin notò che l’Albano si era spezzato in due tronconi, la prua ed il troncone costituito da centro nave e poppa, dove l’elica stava ancora girando qualche tempo dopo che l’equipaggio aveva abbandonato la nave. I due tronconi affondarono lentamente.
 
Si fece notte, pertanto i superstiti sulla lancia accesero due razzi per rendersi visibili all’Aretusa, che dopo un po’, infatti, sopraggiunse e li prese a bordo. Delle 40 persone a bordo dell’Albano (35 di equipaggio civile e 5 militari di scorta) cinque risultavano morte o disperse e quattro ferite; la torpediniera recuperò tutti i 35 superstiti e prese a rimorchio la scialuppa avente a bordo la salma del comandante Di Seneca, che finì però alla deriva a causa della rottura del cavo. L’Aretusa sbarcò i naufraghi a Durazzo, dove vennero portati nell’ospedale militare del locale Comando Marina. Il mattino successivo anche la scialuppa con il corpo del comandante Di Seneca giunse a riva a Durazzo, dove venne portata in secca.
(Questa è la sequenza degli eventi per come fu descritta nel resoconto del primo ufficiale Wengersin alla commissione d’inchiesta. I volumi USMM "Navi Mercantili Perdute" e "La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo" affermano che l’Albano affondò alle 15.45 in posizione 41°10’ N e 19°24’ E, circa un miglio ad ovest Capo Laghi, ad una quarantina di miglia da Valona).
 
La mina urtata dall’Albano non era nemica: apparteneva ad uno sbarramento difensivo italiano, su cui il convoglio era capitato per un errore di rotta e per la mancata conoscenza della posizione del campo minato da parte dell’Aretusa.
 
Le vittime:
 
Francesco Delernia, marconista, 47 anni, da Barletta
Edoardo Di Seneca, comandante, 63 anni, da Terstenico
Ferdinando Mozina (o Mozin), marinaio, 30 anni, da Trieste
Antonio Sulcich, meccanico, 58 anni, da Trieste
Giuseppe Velicogna, primo macchinista, 51 anni, da Trieste
 

Il relitto dell’Albano, che giace al largo di Durazzo ad una profondità compresa tra i 15 e i 23 metri, è stato identificato nell’ottobre 2017 da una squadra di subacquei albanesi, in collaborazione con l’Istituto di Archeologia di Tirana.


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