giovedì 31 luglio 2014

Trieste

Il Trieste in navigazione a fine anni ’30 (g.c. Coll. Priv. Carlo Di Nitto, via www.naviearmatori.net)
 
Incrociatore pesante della classe Trento (10.339 tonnellate di dislocamento standard, 13.326 a pieno carico). Durante il conflitto svolse 23 missioni di guerra (12 di ricerca del nemico ed 11 di scorta e protezione), percorrendo 24.134 miglia e passando 1271 ore in moto.

Breve e parziale cronologia.

22 giugno 1925
Impostazione nello Stabilimento Tecnico Triestino (l’ordinazione allo STT risale all’11 aprile 1924; autore del progetto è il generale del Genio Navale Filippo Bonfiglietti).
24 ottobre 1926
Varo nello Stabilimento Tecnico Triestino. Presenzia al varo la principessa Giovanna di Savoia.
21 dicembre 1928
Entrata in servizio: è la prima unità della classe Trento ad entrare in servizio, prima della capoclasse, ed il primo incrociatore pesante italiano ad essere completato; è inoltre la prima nave da guerra italiana ad essere dotata di un sistema gimetrico per la punteria.
Rarissima eccezione alla tradizione per cui le navi da guerra italiane portano sul dritto di prua la Stella d’Italia, il Trieste reca invece sulla propria prua lo stemma policromo della città eponima. Lo stesso stemma appare anche sui tappi delle volate dei cannoni da 203/50 mm del calibro principale.
Primo comandante del Trieste (dal 2 maggio 1927, prima ancora dell’entrata in servizio, al 31 marzo 1930) è il capitano di vascello Luigi Aiello.
Maggio 1929
Riceve a Trieste la bandiera di combattimento, consegnata dalle donne di Trieste.
Prestano servizio in questo periodo, sul Trieste, il futuro ammiraglio e capo dell’USMM Giuseppe Fioravanzo, quale ufficiale subalterno, ed il futuro comandante in capo delle forze da battaglia Inigo Campioni, quale capitano di vascello e capo di Stato Maggiore della I Squadra Navale.

Il Trieste nel 1929 (da www.world-war.co.uk)

11 maggio 1929
Forma, insieme al Trento, la Divisione Incrociatori dell’ammiraglio di divisione Ferdinando di Savoia.
16 maggio 1929
Salpa da La Spezia insieme al Trento e raggiunge Barcellona, dove resta sino al 1° giugno.
5 giugno 1929
Trieste e Trento tornano a La Spezia; la Divisione viene sciolta.
1° ottobre 1929
Il Trieste diventa nave ammiraglia della I Squadra Navale.
1° aprile 1930
Il comandante Aiello viene rilevato dal CV Pietro Starita, che manterrà il comando del Trieste sino al 14 febbraio 1931.
Dicembre 1930
Il Trieste viene visitato a La Spezia dai principi Takamatsu del Giappone.
15 febbraio 1931
Assume il comando del Trieste (per poi mantenerlo sino al 28 febbraio 1932) il CV Vittorio Turr.
Novembre 1931
Il Trieste si reca a Malta, dove viene visitato dal governatore dell’isola.

La nave nei primi anni Trenta (da www.marina.difesa.it)

12 dicembre 1931
Il Trieste, con a bordo l’ammiraglio Burzagli, comandante della I Squadra Navale, lascia La Spezia per recarsi a soccorrere il rimorchiatore militare Teseo, il quale, in navigazione da La Maddalena a Civitavecchia con 67 marinai in licenza di passaggio oltre agli 81 uomini dell’equipaggio, è incappato in una tempesta e si trova ora in procinto di affondare. Partecipano alle operazioni di soccorso anche il piroscafo Piave, la motonave Caralis, il piroscafo tedesco Trapani e l’incrociatore leggero Ancona. Quando il Trieste giunge sul posto, alle 3.10 del 13 dicembre, già alcuni tentativi da parte di Caralis e Trapani di recuperare alcuni uomini del Teseo hanno avuto luogo, ma con scarsi risultati: un solo uomo è stato salvato dal Trapani, che poi si è allontanato, altri due sono annegati e sette sono dovuti tornare sul Teseo. Il Trieste illumina il rimorchiatore – che è al buio e perciò, prima di allora, non si riusciva a vedere, tanto che la Caralis ha dovuto comunicare all’incrociatore che “fino alla sera prima” il Teseo era a galla – con un proiettore; poi dal Trieste si riesce a far arrivare una fune sulla prua del Teseo ed il barbiere del rimorchiatore tenta di raggiungere l’incrociatore a nuoto, ma scompare. Dal Trieste, a questo punto, viene tagliato il cavo, ed il contraccolpo fa di nuovo allontanare le due navi. Alle 5.30 l’incrociatore tenta per due volte di prendere a rimorchio il Teseo, servendosi del cannone lanciasagole, ma le pericolose manovre dell’incrociatore rischiano di causare una collisione. Alla fine, non essendo possibile mettere a mare delle imbarcazioni a causa delle forti sbandate (in precedenza, prima dell’arrivo del Trieste, anche il Teseo aveva calato una delle sue scialuppe, che è però subito stata capovolta e scagliata contro la Caralis, andando distrutta), i comandanti delle navi soccorritrici si accordano per “fare bonaccia” attorno al Teseo, avvicinarsi a poche decine di metri di distanza, calare cavi e scalette lungo le murate e gettare su di esso tutti i salvagente disponibili, per raccogliere i naufraghi che si gettano in mare. Alle sette del mattino gli uomini del rimorchiatore iniziano a buttarsi in acqua; molti vengono recuperati, ma Piave e Caralis scarrocciano, molti naufraghi non riescono ad aggrapparsi alle biscagline e finiscono sotto gli scafi, altri vengono risucchiati dalle eliche del Trieste, con tragiche conseguenze. Da bordo del Trieste, ufficiali e marinai aiutano a tirare le corde per issare a bordo quanti vi si sono aggrappati, che vengono poi portati in un salone dove sono stati sistemati decine di materassi e vestiti asciutti per tutti i naufraghi.
Un passeggero del Teseo, giunto quasi in cima alla murata della Caralis, viene trascinato via da un’onda che lo porta fin sotto al Trieste, dal quale viene tratto in salvo.
Alle 8.40 del 13 anche gli ultimi uomini del Teseo si gettano in mare. In tutto, vengono salvati 62 uomini dell’equipaggio del Teseo e 50 marinai di passaggio sul rimorchiatore: scompaiono invece 19 membri dell’equipaggio e 17 marinai di passaggio. 47 dei superstiti sono stati salvati dal Trieste, 44 dalla Caralis, 20 dal Piave, più l’unico recuperato in precedenza dal Trapani.
Poi, Trieste, Caralis e Piave rimangono attorno al rimorchiatore abbandonato, che sembra dover affondare da un momento all’altro, per aspettare che affondi. Un maresciallo del Teseo, nel salone del Trieste, continua a ripetere “Voi urlate ma il Teseo rimarrà a galla ancora per almeno due giorni”. Il Teseo aspetterà sino alle 9.30, dopo aver raggiunto 70 gradi di sbandamento, prima di affondare nel punto 40°51’30” N e 10°04’00” E, a 15,7 miglia per 281° dal faro di Punta Timone.
Nel salone del Trieste i superstiti del Teseo, che non mangiano da due giorni, chiedono cibo e bevande, ma un colonnello medico spiega loro che è rischioso mettersi subito a mangiare senza freno. Ricevono dapprima un po’ di caffè, più tardi una tazza di brodo e prima di sera una decina di maccheroni poco conditi (l’indomani mattina, invece, le cambuse del Trieste si apriranno liberamente, distribuendo ai naufraghi gallette, cioccolato, latte, caffè ed altro in abbondanza). Non vi sono feriti; solo piccoli tagli che vengono subito medicati.
Dopo l’affondamento le tre navi soccorritrici, verificato che non vi siano altri naufraghi in mare (sul posto viene comunque lasciato per maggior sicurezza l’Ancona) raggiungono Golfo Aranci, dove sbarcano i naufraghi (il Trieste vi arriva intorno alle 23). Il mattino successivo tutti i sopravvissuti vengono trasferiti sul Trieste, che riparte per La Spezia, dove i naufraghi saranno a disposizione dell’autorità giudiziaria per l’inchiesta aperta sulle cause del naufragio.
1° marzo 1932
Il CV Amelio Amadasi diviene il nuovo comandante del Trieste (lo sarà fino al 15 giugno 1934).

La nave nel 1932 (g.c. Giorgio Parodi)

17 luglio 1932
La prematura esplosione di un proiettile a bordo del Trieste uccide tre uomini e ne ferisce altri tredici.
In questo periodo presta servizio sull’incrociatore, come guardiamarina, la futura MOVM Mario Arillo (che tornerà ancora sul Trieste, come sottotenente di vascello, nel luglio 1933).
Agosto 1933
Trieste, Trento ed il nuovo incrociatore pesante Bolzano formano la II Divisione della I Squadra Navale (al comando, dal 2 dicembre 1933, dell’ammiraglio di divisione Vincenzo De Feo).
In questo periodo presta servizio sul Trieste l’allora TV Francesco Mimbelli, futura Medaglia d’oro al Valor Militare.

Il Trieste nel 1933 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

16 giugno 1934
Assume il comando del Trieste il CV Euclide Culiolo, che lo manterrà fino al 20 agosto dell’anno successivo.
Luglio 1934
La II Divisione diventa III Divisione, con base a Messina. Il porto siciliano diventerà la base storica della III Divisione: tra gli equipaggi acquisterà un particolare significato la statua della Madonnina presente all’imboccatura del porto, le cui tre dita benedicenti saranno associate alla III Divisione.
18 giugno 1935
Il Trieste (in luogo del Trento che ha finora ricoperto questo ruolo) diventa temporaneamente nave di bandiera dell’ammiraglio Vladimiro Pini, che da gennaio 1935 è diventato comandante della III Divisione.
21 agosto 1935
Diviene comandante dell’incrociatore il CV Angelo Parona (il quale poi in guerra, con il grado di ammiraglio di divisione, comanderà anche la III Divisione della quale il Trieste fa parte).

Il Trieste nel 1936 (da www.world-war.co.uk)

1935-1940
La III Divisione partecipa all’addestramento di squadra e compie crociere di breve durata nel Mediterraneo orientale, in Grecia ed in Libia.
La Divisione prende inoltre parte alle operazioni connesse alla guerra civile spagnola, fornendo copertura ai convogli che trasportano in Spagna le truppe volontarie inviate a supporto dei falangisti di Francisco Franco, ed agendo come forza dissuasiva per impedire l’intervento della Marina spagnola repubblicana.
Nel 1936 presta servizio sul Trieste, come guardiamarina, il futuro asso dei sommergibilisti Gianfranco Gazzana Priaroggia.

L’unità alla fonda in Mar Grande a Taranto nell’agosto 1936 (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)

31 agosto 1937
Il CV Luigi Bianchieri viene nominato nuovo comandante del Trieste.
1937-1938
Lavori di rimodernamento dell’armamento; i due più poppieri degli otto impianti binati da 100/47 mm, le quattro mitragliere singole da 40/39 mm e le quattro pure singole da 12,7/62 mm vengono eliminate, sostituite da quattro mitragliere binate Breda 1932 da 37/54 mm ed altrettante da 13,2/76 mm. Nel 1939, dato che i fumi delle 12 caldaie causano l’annerimento delle sovrastrutture e delle centrali di direzione del tiro, verranno aggiunte delle “unghie” (cappe) sui fumaioli.
15 febbraio 1938
Il Trieste diventa nave ammiraglia dell’ammiraglio Vladimiro Pini, comandante della II Squadra Navale.

Il Trieste a Napoli ad inizio maggio 1938, poco prima della rivista “H”, in una foto a colori (da Agfachrome, via Maurizio Brescia e www.betasom.it)

5 maggio 1938
Partecipa alla rivista navale “H” organizzata in occasione della visita in Italia di Adolf Hitler: nella rivista, il Trieste è la nave di bandiera dell’ammiraglio Vladimiro Pini, comandante della I Squadra Navale, formata, oltre che dal Trieste, dal Trento, dal Bolzano, dalle Divisioni di incrociatori leggeri degli ammiragli Minghetti (Muzio Attendolo, Eugenio di Savoia, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta), Barone (Alberto Di Giussano, Giovanni delle Bande Nere, Bartolomeo Colleoni) e Romagna (Alberico Da Barbiano, Luigi Cadorna ed Armando Diaz), da due squadriglie di esploratori classe Navigatori (Antonio Da Noli, Antoniotto Usodimare, Luca Tarigo, Ugolino Vivaldi, Nicolò Zeno, Giovanni Da Verrazzano, Alvise Da Mosto ed Antonio Pigafetta) e da una squadriglia di cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco).
14 giugno 1938
Il comando dell’incrociatore passa al CV Giuseppe Bertoli.
Il Trieste alla fonda a Gaeta nell’agosto 1938; sulla destra la porta idrovolanti Giuseppe Miraglia (Collez. Privata Carlo Di Nitto – Gaeta)

28 ottobre 1938
Il Trieste, salpato da Gaeta scortato da quattro cacciatorpediniere, trasporta Benito Mussolini che presso Ponza e Ventotene passa in rassegna il convoglio (organizzato dal governatore della Libia Italo Balbo) di 15 piroscafi e motonavi (tra cui i piroscafi Tembien, Semien, Liguria, Sardegna, Sannio, Piemonte, Umbria e Calabria e le motonavi Vulcania, Città di Napoli, Città di Savona, Città di Bastia ed Olbia) che trasporta da Genova e Napoli a Tripoli e Bengasi i 20.000 coloni italiani (1290 famiglie contadine del nord e 520 del sud) inviati a colonizzare la Libia.
1939
La III Divisione viene momentaneamente ampliata con l’assegnazione degli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Bartolomeo Colleoni ed Armando Diaz (nonché delle Squadriglie Cacciatorpediniere XI e XII, composte rispettivamente da Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera e da Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere), che vanno poi a formare la IV Divisione.


La III Divisione Navale: da sinistra Trieste, Trento e Bolzano a Napoli nel 1937-1939 (Coll. Ermogene Zannini via Associazione Venus)

11 maggio 1939
Il Trieste partecipa, avendo a bordo le autorità, alla rivista navale organizzata in onore del reggente Paolo di Jugoslavia.
23 maggio 1940
Assume temporaneamente il comando del Trieste il CF Umberto Del Grande, che resterà in tale incarico solo sino al 6 luglio.
Giugno-luglio 1940
Il Trieste, benché formalmente parte della III Divisione di base a Messina (ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo) insieme a Trento e Bolzano, non si trova in realtà operativo e non partecipa così alle prime azioni di guerra della Divisione, tra cui la battaglia di Punta Stilo.
Presta in servizio in questo periodo sul Trieste, come allievo ufficiale e poi (dal settembre 1941) come guardiamarina, la futura MOVM Anselmo Marchi; in precedenza era stato imbarcato sul Trieste anche il guardiamarina Franco Mezzadra, anch’egli poi MOVM.
7 luglio 1940
Diviene comandante del Trieste il CV Umberto Rouselle, che ricoprirà tale ruolo sino al 14 dicembre 1942, ossia pressoché per l’intero servizio bellico della nave.
31 agosto-1 settembre 1940
Il 31 settembre la III Divisione (Trento, Bolzano, Trieste) salpa da Messina insieme ad otto cacciatorpediniere, per partecipare alle operazioni di contrasto all’operazione britannica «Hats». Complessivamente, all’alba del 31, prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina 4 corazzate della V (Cesare, Duilio e Cavour) e IX (Littorio e Vittorio Veneto) Divisione, 13 incrociatori della I (Pola, Zara, Fiume, Gorizia), III, VII (Eugenio di Savoia, Duca d’Aosta, Montecuccoli ed Attendolo) e VIII (Duca degli Abruzzi e Garibaldi) Divisione e 39 cacciatorpediniere. La III Divisione si riunisce al grosso della squadra italiana, partita da Brindisi e da Taranto, verso le 13 del 1° settembre.
La III Divisione forma con la I Divisione la II Squadra (che precede il grosso delle forze italiane), il cui comandante, ammiraglio di squadra Angelo Iachino, alle 16.20 chiede l’autorizzazione al comandante superiore in mare, ammiraglio di squadra Inigo Campioni, ad avere libertà di manovra per dirigere incontro alle forze navali britanniche avvistate da ricognitori alle 15.35, a 120 miglia dalla II Squadra. Campioni glielo concede alle 16.31, ma revoca l’autorizzazione alle 16.50, ed alle 17.27 ordina alla II Squadra di invertire la rotta ed assumere rotta 335° e velocità 20 nodi.
Alle 22.30 la formazione italiana riceve l’ordine di portarsi per le sei dell’indomani, con rotta 150° e velocità 20 nodi, in un punto 36 miglia ad ovest di Santa Maria di Leuca, onde impegnare le forze nemiche a nord della congiungente Malta-Zante, dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca, che costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative. A causa della burrasca, la III Divisione viene fatta rientrare a Taranto, invece che alla propria base di Messina. Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare.

(foto MMI via Giorgio Motto e www.naviearmatori.net)

7 settembre 1940
Il Trieste diventa nave di bandiera dell’ammiraglio comandante della III Divisione, ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti, al posto del Trento che aveva sinora rivestito tale ruolo.
7-9 settembre 1940
La flotta italiana (5 corazzate, 6 incrociatori e 19 cacciatorpediniere), III Divisione compresa, lascia Taranto alle 16 del 7 diretta a sud della Sardegna, per intercettare la Forza H britannica che, segnalata come uscita da Gibilterra, si presume diretta verso Malta. La ricognizione aerea, tuttavia, non avvista nessuna nave nemica (la Forza H, infatti, aveva lasciato Gibilterra per un’operazione da svolgersi non nel Mediterraneo ma nell’Atlantico), dunque alle 16 dell’8 settembre la formazione italiana, arrivata a sud della Sardegna, inverte la rotta e raggiunge le basi del Tirreno meridionale, da dove il 10 tornerà nelle basi di dislocazione normale (Taranto e Messina, base quest’ultima dove la III Divisione giunge il 9 dopo essersi appoggiata a Napoli).
29 settembre-2 ottobre 1940
La III Divisione, con quattro cacciatorpediniere, esce da Messina alle 20.28 del 29 settembre, mentre prendono il mare da Taranto il Pola, le divisioni I (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia), V (corazzate Giulio Cesare, Duilio e Conte di Cavour), VII (incrociatori leggeri Eugenio di Savoia ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta), VIII (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) e IX (corazzate Littorio e Vittorio Veneto) e 19 cacciatorpediniere (il Pola con la I Divisione e 4 cacciatorpediniere alle 18.05 e le altre unità alle 19.30), per contrastare un’operazione britannica in corso. La III Divisione si riunisce alle navi partite da Taranto alle 7.30 del 30 settembre. In mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.
6 ottobre 1940
Parte da Messina in mattinata insieme a Trento e Bolzano ed alla XI Squadriglia Cacciatorpediniere (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera), in appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero delle due veloci e moderne motonavi Calitea e Sebastiano Venier, cariche di rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e scortate dalla XII Squadriglia Cacciatorpediniere. L’operazione (il convoglio è partito da Taranto la sera del 5, ed il 6 mattino, oltre al gruppo cui appartiene la III Divisione, sono salpate da Taranto anche il Pola, nave di bandiera della II Squadra Navale, la I Divisione con gli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere) viene però interrotta il mattino stesso del 6 ottobre, dopo che la ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate, due incrociatori e sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta Alessandria-Caso, ossia dove dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso. Tutte le unità italiane vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà più.

Il Trieste (da “Treaty Cruisers”)

12 ottobre 1940
La III Divisione (Trieste, Trento e Bolzano), al comando dell’ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti, salpa da Messina alle otto del mattino per dare appoggio al cacciatorpediniere Camicia Nera, che sta rientrando alla base inseguito da navi ed aerei britannici dopo che, in un fallito attacco silurante nella notte precedente e nei suoi successivi sviluppi il mattino del 12 ottobre, sono stati affondati il cacciatorpediniere Artigliere (posto fuori uso dall’incrociatore leggero Ajax e finito dall’incrociatore pesante York) e le torpediniere Airone ed Ariel (entrambe dall’Ajax). L’ordine è di supportare il rientro del Camicia Nera (nonché dei cacciatorpediniere Aviere e Geniere, anch’essi scampati allo scontro, l’Aviere piuttosto danneggiato) e, se possibile, impegnare gli incrociatori britannici. La III Divisione, insieme alla XIV Squadriglia Cacciatorpediniere (Ugolino Vivaldi, Luca Tarigo, Antonio Da Noli), dirige per il punto in cui si sa essere il Camicia Nera e catapulta due degli idroricognitori in dotazione agli incrociatori. In base alle intercettazioni, l’ammiraglio Sansonetti capisce che Aviere, Geniere e Camicia Nera non necessitano più di protezione, dunque alle 10.15 fa ridurre la velocità da 30 a 25 nodi, continuando a navigare verso sud fino alle 12.15, quando giunge da Supermarina l’ordine di rientrare alla base.
21 ottobre 1940
Pochi giorni prima dell’attacco alla Grecia, la III Divisione viene trasferita a Taranto.
11-12 novembre 1940
Il Trieste è presente a Taranto, alla boa in Mar Piccolo, durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (“notte di Taranto”). Il Trieste, alla boa sul lato meridionale del Mar Piccolo non lontano dal Bolzano (che è alla sua dritta) e poco a nord dei quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia (il Granatiere a poppa sinistra del Trieste stesso, il Bersagliere a poppa dritta del Trieste, l’Alpino a poppa del Bolzano ed il Fuciliere a dritta del Bolzano), a loro volta più a nord della fila di unità ormeggiate in banchina torpediniere (tra cui il Trento, il Pola, gli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi e la porta idrovolanti Giuseppe Miraglia, oltre a numerosi cacciatorpediniere), viene attaccato, come le altre unità presenti in Mar Piccolo, da cinque Fairey Swordfish impiegati come bombardieri, in azione diversiva volta a distogliere l’attenzione dall’attacco principale effettuato dagli aerosiluranti contro le corazzate in Mar Grande. Gli Swordfish sganciano una sessantina di bombe da 500-600 metri, ma meno di un terzo cadono vicine alle navi, in massima parte in acqua tra le navi od a proravia delle stesse; il Trieste non viene colpito.
Tra le 14.30 e le 16.45 del 12 novembre la III Divisione, insieme alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere, lascia Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere Messina.

(da www.forummarine.forumactif.com)

16-18 novembre 1940
La III Divisione lascia Messina alle 10.30 del 16, mentre da Taranto prendono il mare Vittorio Veneto e Cesare e la I Divisione (da Napoli) nonché le Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XII, XIII e XIV. Una formazione britannica (la Forza H dell’ammiraglio James Somerville, con le portaerei Argus ed Ark Royal, l’incrociatore da battaglia Renown, gli incrociatori Sheffield e Norfolk e 7 cacciatorpediniere), salpata da Gibilterra e con rotta verso levante, è stata infatti avvistata nel Mediterraneo occidentale: è in corso l’operazione britannica «White», consistente nel lancio, da parte della portaerei Argus della Forza H, di 14 aerei destinati a rinforzare le modeste forze aeree di base a Malta. Raggiunto alle 16.30 un punto prestabilito 45 miglia a nord-nord-est di Ustica, dove avviene la riunione delle forze navali, la formazione italiana dirige poi verso ovest ed alle 7.30 del 17 arriva 35 miglia a sudovest di Sant’Antioco. Dopo aver navigato per un po’ in direzione dell’Algeria, la squadra italiana riceve l’ordine rientrare.
Sebbene non vi sia stato contatto tra le opposte formazioni navali, l’avvistamento della flotta italiana induce l’ammiraglio Somerville a far decollare in anticipo gli aerei diretti a Malta: il risultato è che, a causa anche del maltempo, ben 9 dei 14 aerei esauriscono il carburante e precipitano in mare (tranne uno che deve effettuare un atterraggio d’emergenza presso Siracusa, venendo catturato), e solo cinque arrivano a Malta, così sancendo il fallimento dell’operazione britannica.
26-28 novembre 1940
Alle 12.30 del 26 il Trieste, al comando del capitano di vascello Umberto Rouselle e con a bordo l’ammiraglio Sansonetti, lascia Messina insieme al resto della III Divisione (Trento e Bolzano) ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (tre unità), mentre da Napoli escono le corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare, l’incrociatore pesante Pola, la I Divisione con due unità e la IX e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere con otto unità. La formazione italiana si riunisce nel punto 39°20’ N e 14°20’ E, 70 miglia a sud di Capri, alle 18.00 del 26 novembre, assumendo poi rotta 260° e velocità 16 nodi, per intercettare un convoglio britannico diretto a Malta. Alle otto del mattino del 27 la III Divisione con la XII Squadriglia si trova a cinque miglia per 180° dal Pola, nave ammiraglia della II Squadra (che è formata dalla I e dalla III Divisione), con rotta 250° e velocità 16 nodi, mentre la I Divisone è insieme al Pola e la I Squadra (le due corazzate ed i cacciatorpediniere della VII e della XIII Squadriglia) è più a poppavia. La formazione italiana ha rotta 260°, verso la Sardegna, ed il mattino del 27 incrocia nove miglia a sud di Capo Spartivento Sardo, per intercettare uno dei due gruppi britannici in mare (uno partito da Alessandria ed uno da Gibilterra) prima che possano riunirsi: quello proveniente da Alessandria viene avvistato alle 10 da un idroricognitore lanciato dal Bolzano, perciò la formazione italiana dirige per sudest in modo da intercettarlo e tagliargli la rotta. Alle 11.01 la III Divisione riceve ordine di portarsi a poppavia (a tre miglia per 270°) del resto della II Squadra, ed alle 11.28 l’intera formazione assume rotta 135°, per intercettare la formazione britannica che (dalle segnalazioni dei ricognitori) risulta avere posizione differente da quella prevista. Durante l’inversione di rotta conseguente all’ordine delle 11.01, tuttavia, si verifica una certa confusione causata dall’errata interpretazione di un segnale da parte del Trento (che per invertire la rotta vira di contromarcia, mentre gli altri due incrociatori virano ad un tempo), così che il Trieste, nave ammiraglia, finisce al centro della formazione, invece che in testa, e la III Divisione si ritrova arretrata rispetto al resto della II Squadra. Alle 11.35 la II Squadra riceve dall’ammiraglio Inigo Campioni, al comando della flotta italiana, di portarsi su rilevamento 195° rispetto alla sua nave ammiraglia (la Vittorio Veneto), in modo che la formazione divenga perpendicolare alla probabile direzione d’avvicinamento della squadra britannica. Alle 12.07, in seguito alla constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana (i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità), essendosi i due gruppi riuniti, l’ammiraglio Campioni ordina di assumere rotta 90° per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e tre minuti dopo ordina alla II Squadra di aumentare la velocità per riunirsi alle corazzate, pertanto la II Squadra accelera a 25 nodi, poi a 28. Alle 12.15, tuttavia, le unità della II Squadra avvistano improvvisamente quattro cacciatorpediniere britannici, diretti verso gli incrociatori italiani: le siluranti nemiche spariscono subito, avendo apparentemente invertito la rotta, ma poco dopo vengono avvistati altri cacciatorpediniere, incrociatori, corazzate: è la squadra britannica, che comprende le corazzate Renown e Ramillies, la portaerei Ark Royal e gli incrociatori Berwick (pesante), Sheffield, Southampton, Newcastle e Manchester (leggeri), oltre a numerosi cacciatorpediniere. In questo momento la III Divisione si trova in linea di fila 8 km a poppa della I Divisione, con rotta 90° e velocità 25 nodi, in aumento (le corazzate sono invece a proravia della I Divisione). A seguito dell’avvistamento delle forze nemiche, l’ammiraglio Campioni ordina di incrementare ancora la velocità.
Alle 12.20, prima che l’ammiraglio Campioni possa ordinare di non impegnarsi, gli incrociatori della I Divisione aprono il fuoco, seguiti in successione dal Pola e da quelli della III Divisione: questi ultimi sono i più vicini alle navi britanniche, ad una distanza di 21.500 metri (Pola e I Divisione sono invece a 22.000 metri di distanza). Subito gli incrociatori britannici (uno, il Manchester, viene mancato dalla prima salva italiana, sparata dal Trieste o dal Trento, scartata lateralmente di circa 90 metri) rispondono al fuoco; Berwick, Manchester, Sheffield e Newcastle concentrano il loro tiro contro le unità della III Divisione. Gli incrociatori italiani della II Squadra, in linea di fila, sono in posizione favorevole (da “taglio del T”) per sparare con tutte le artiglierie su quelli britannici, che si trovano invece in linea di fronte e possono usare solo le torri prodiere, ma per via dell’ordine di Campioni di disimpegnarsi devono accostare verso nordest. Durante lo scontro, le navi italiane continuano a ritirarsi verso nordest, sparando quasi esclusivamente con le torri poppiere, mentre quelle britanniche le inseguono tirando quasi solamente con le torri prodiere (la distanza media del combattimento è 22.500 metri, che per la III Divisione – segnatamente il Trento – scende ad un minimo di 18.000 metri). All’inizio dello scontro l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione (che è rimasta indietro ed aveva aumentato la propria velocità in ritardo rispetto al resto della Squadra, ed i cui apparati motori non hanno ancora raggiunto la massima andatura) di portare la velocità a 30 nodi e di allontanarsi dal nemico prima possibile, vedendo che essa sembra avere qualche difficoltà ad allontanarsi dalle unità britanniche, mentre salve da 152 degli incrociatori leggeri e qualche rara salva da 381 delle corazzate cade nella loro direzione. Il tiro degli incrociatori italiani è intenso dall’apertura del fuoco fino alle 12.42, poi diventa intermittente tra le 12.42 e le 12.49 a causa di ripetute accostate necessarie a disturbare l’attacco di aerosiluranti britannici frattanto apparsi, poi nuovamente intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi, a causa dell’aumento delle distanze e del fumo (causato soprattutto dalla combustione forzata delle caldaie, in particolare sulle navi della III Divisione), il ritmo di tiro deve di nuovo calare, fino a cessare alle 13.15, quando la distanza è diventata di 26.000 metri. Due salve da 203 mm degli incrociatori italiani (probabilmente sparate dal Trieste o dal gemello Trento) colpiscono, alle 12.22 ed alle 12.35, l’incrociatore pesante britannico Berwick: la prima uccide sette uomini, ne ferisce nove e mette fuori uso la terza torre da 203 dell’unità britannica, la seconda danneggia il quadrato ufficiali e locali adiacenti, ma il Berwick continua a fare fuoco. Fino alle 12.40 le navi britanniche (soprattutto gli incrociatori) sparano intensamente contro la III Divisione, poi spostano il tiro sulla I Divisione, che è divenuta più vicina (ma il loro tiro è disturbato dal fumo prodotto dalle navi italiane); in questa fase la III Divisione, mentre la velocità aumenta progressivamente fino a 34 nodi, aumentando le distanze con le navi nemiche, di quando in quando accosta in modo da sparare con tutte le artiglierie invece che con le sole torri poppiere. Le corazzate britanniche intervengono solo sporadicamente, trovandosi più indietro rispetto agli incrociatori: alle 12.24 la Renown apre il fuoco da 23.800 metri contro il Trieste, sparando sei salve prima che l’incrociatore italiano sparisca nel fumo, mentre la Ramillies tira poche salve contro Trento e Bolzano. Presto, una volta che gli apparati motori funzionano a pieno regime, la III Divisione riuscirà ad aumentare le distanze con il nemico abbastanza da indurlo a cessare il fuoco. 

Il Trieste, a Capo Telauda, si disimpegna dopo l’apertura del fuoco da parte del Renown, facendo fuoco con tutte le torri in ritirata. Sulla destra la colonna d’acqua prodotta da un colpo di grosso calibro (g.c. STORIA militare)

La III Divisione procede verso nord (in modo da allontanarsi più rapidamente), accostando per 30° a sinistra (rotta 330°) per sottrarsi più rapidamente al tiro delle corazzate, con rotta divergente rispetto alla I Divisione (che ha rotta 50°) ed alle corazzate di Campioni, poi, una volta giunta fuori tiro, accosta verso est per riavvicinarsi alla I Divisione, ma alle 12.52 riceve ordine dall’ammiraglio Iachino di disimpegnarsi e, se necessario, emettere cortine nebbiogene. Nel frattempo anche la I Squadra si è riavvicinata alla II Squadra, ed alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da poco meno di 29.000 metri, ma le unità britanniche subito accostano a dritta e la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare il fuoco già alle 13.10.
Quando viene cessato il tiro, il Trieste risulta aver sparato in tutto 96 salve, più di Trento e Bolzano ma meno delle navi della I Divisione.
Il Berwick, però, non è stata l’unica nave ad essere colpita nello scontro: alle 12.35, infatti, il cacciatorpediniere Lanciere, caposquadriglia della XII Squadriglia (che, assegnata alla III Divisione, si trovava ad est di questa e più vicina alle unità nemiche), è stato colpito da una granata da 152 mm sparata dall’incrociatore leggero Southampton, che ha messo fuori uso la macchina di poppa, lasciando il cacciatorpediniere con una sola macchina funzionante. Alle 12.40, mentre la XII Squadriglia (il Lanciere riusciva a sviluppare 23 nodi di velocità) stava spostandosi verso ovest passando a poppavia della III Divisione, il Lanciere è stato colpito altre due volte, ed alle 13.15 comunica di essere rimasto immobilizzato per mancanza d’acqua. Alle 13.16 l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di dare assistenza al cacciatorpediniere colpito, ma Sansonetti, perplesso su cosa potrebbe fare tornando indietro con l’intera divisione, alle 13.26 chiede conferma a Iachino sul fatto di dover tornare indietro per assistere il Lanciere (che dev’essere preso a rimorchio, operazione che, secondo Iachino, richiede l’intervento di tutta la III Divisione), ricevendo subito risposta affermativa. (Un simile scambio di comunicazioni – tra Iachino e l’ammiraglio Carlo Cattaneo, comandante la I Divisione – si avrà, quattro mesi più tardi, nella tragica battaglia di Capo Matapan: questa volta con esito molto più funesto). La III Divisione ritorna perciò nel punto in cui si trova l’immobilizzato Lanciere, che viene preso a rimorchio dal gemello Ascari; alle 15.35, mentre i due cacciatorpediniere iniziano a porsi in moto, la III Divisione viene violentemente attaccata da sette bombardieri britannici Blackburn Skua decollati dalla portaerei Ark Royal, che, senza attaccare i due cacciatorpediniere intenti nella delicata manovra di rimorchio, bombardano in picchiata gli incrociatori di Sansonetti, che reagiscono con pronte manovre e con intenso tiro contraereo (pur senza colpire alcun velivolo). Nessuna nave viene colpita, sebbene cinque delle bombe da 500 libbre cadono molto vicine al Trento. La III Divisione scorta poi, sino al tramonto, l’Ascari che rimorchia il Lanciere verso Cagliari, dove i due cacciatorpediniere giungeranno senza problemi.
Terminato questo compito, la III Divisione segue le rotte costiere ad est della Sardegna durante la notte, per poi ricongiungersi con la II Squadra il mattino successivo, al largo di Ponza.
L’intera II Squadra, senza ulteriori problemi, arriva a Napoli alle 14 del 28, dopo di che la III Divisione prosegue per Messina alle 20.35 del giorno stesso, insieme alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere.
15 dicembre 1940
Intorno alle 17 Trieste e Trento, insieme alla XI Squadriglia Caccciatorpediniere (inviata da Napoli), lasciano Messina alla volta di Cagliari, per ordine di Supermarina, onde sottrarli ad eventuali attacchi aerei britannici provenienti da Malta dopo che, nelle settimane precedenti, alcuni bombardamenti hanno causato vari danni alle navi ormeggiate a Napoli.
22 dicembre 1940
Trieste e Trento vengono fatti rientrare a Messina, dopo che la base è stata dotata di impianti nebbiogeni.
10-11 gennaio 1941
Alle 19 del 10 la III Divisione, insieme a tre cacciatorpediniere, lascia Messina per contrastare l’operazione britannica «Excess» ed attaccare la portaerei britannica Illustrious, già pesantemente danneggiata da bombardieri in picchiata del X Corpo Aereo Tedesco. Poche ore dopo salpano da La Spezia le corazzate Vittorio Veneto ed Andrea Doria con otto cacciatorpediniere; la III Divisione ha l’ordine di dirigersi verso il Tirreno, per unirsi alle corazzate. Non risultando però possibile raggiungere in tempo l’Illustrious prima che questa possa rifugiarsi a Malta, l’operazione viene interrotta, e la III Divisione torna a Messina alle 10.30 dell’11 gennaio. 

Il Trieste a Messina durante un’esercitazione di annebbiamento artificiale del porto nel gennaio 1941 (g.c. STORIA militare)

8-11 febbraio 1941
Alle 7 dell’8 febbraio (dopo aver ricevuto l’ordine di accendere le caldaie già alle 14.15 del 7) la III Divisione (Trieste, Trento, Bolzano), al comando dell’ammiraglio Sansonetti (imbarcato sul Trieste), ed i cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere salpano da Messina alla volta di La Spezia, mentre da La Spezia escono in mare le corazzate Vittorio Veneto, Giulio Cesare ed Andrea Doria e la X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco) e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Fuciliere, Alpino) per intercettare l’aliquota della Forza H britannica che sta facendo rotta su Genova con l’intento di bombardare il capoluogo ligure (ma l’obiettivo della Forza H non è noto ai comandi italiani). Al largo di Napoli anche un terzo cacciatorpediniere, il Camicia Nera, si unisce, come da ordini, alla scorta della III Divisione.
Poco dopo le otto del mattino del 9, come da disposizioni, la III Divisione si riunisce, 40 miglia ad ovest di Capo Testa sardo (a nord dell’Asinara), alle forze navali uscite da La Spezia, ed alle 8.25 l’intera formazione (sotto il comando dell’ammiraglio Iachino) assume rotta 230°, dirigendo per quella che è ritenuta la probabile zona ove si trovano le navi nemiche, nell’ipotesi, errata, che la loro azione sia diretta contro la Sardegna. Tale rotta, controvento, permette anche di catapultare gli idroricognitori di Trento e Bolzano: dato che la catapulta della Vittorio Veneto è in avaria ed impedisce così il lancio dei propri idrovolanti, il Trieste rimane l’unica nave della formazione ad avere ancora un idrovolante da ricognizione disponibile.
La squadra italiana non riesce a raggiungere la Forza H prima che il bombardamento di Genova si compia, e viene inviata alla sua ricerca mentre questa rientra a Gibilterra: alle 9.35 le navi italiane assumono rotta 270° (verso ovest), ed alle dieci, in seguito alle informazioni pervenute con nuovi messaggi, fanno rotta verso nord, con la III Divisione in posizione avanzata 10 km a proravia delle corazzate. Procedendo verso nord la visibilità (20.000 metri) e le condizioni meteomarine vanno migliorando, sebbene il cielo rimanga coperto da nuvole alte. Alle 12.35 il Trieste, a seguito di un ordine delle 12 dell’ammiraglio Iachino, che ripone nell’idroricognitore la sua ultima speranza di trovare la formazione nemica (che pensa si possa stare allontanando seguendo verso ovest la rotta costiera), catapulta il suo idrovolante con l’ordine che questi segua la rotta 330° fino a 20 miglia dalla costa francese, per poi dirigere verso Genova ed infine ammarare a La Spezia. Alle 12.44, dopo vari messaggi contraddittori su rotta e posizione delle forze britanniche ed in mancanza di notizie fresche, la formazione italiana assume rotta 330° in modo da poterle intercettare nel caso stiano navigando verso ovest seguendo rotte costiere, ma alle 13.07, dopo aver ricevuto nuovi messaggi (che fanno pensare a Iachino che le forze britanniche si siano riuniti poco dopo mezzogiorno a sud di Capo Corso e stiano ripiegando verso sud intenzionati a passare vicino alle coste occidentali della Corsica), Iachino ordina che la III Divisione accosti per 50° (le corazzate assumono invece rotta 30° alle 13.16), dopo di che, quando le navi di Sansonetti si vengono a trovare 15 km a proravia delle corazzate a seguito di tale manovra, Iachino dispone che la III Divisione assuma rotta 30° e porti la velocità a 24 nodi. Alle 13.21 viene diramato l’ordine a tutte le unità di prepararsi al combattimento, ritenendo prossimo l’incontro con il nemico (anche perché alle 13.27 l’aereo del Trieste ha comunicato di essere 20 miglia a sudest di Capo Camarat e di non aver incontrato navi nemiche, apparentemente confermando che queste non stiano seguendo le rotte costiere, bensì fuggendo verso sud costeggiando la Corsica occidentale: in realtà, si saprà solo in seguito che era passato prima a 40 e poi a 20 miglia dalla Forza H, senza vederla a causa della scarsa visibilità), ed alle 15.24 è il Trieste (che si trova 15 km a proravia delle corazzate, come il resto della III Divisione) ad avvistare alberature ed a segnalare di aver avvistato il nemico su rilevamento 50°: viene ordinato il posto di combattimento su tutte le unità, ma alle 15.32 il Trieste annulla il segnale di avvistamento, spiegando che la nave avvistata è in realtà una petroliera. Alle 15.38 è sempre il Trieste ad annunciare di nuovo navi sospette su rilevamento 50°, ed alle 15.40 anche dalle corazzate vengono avvistate le loro alberature: certe di aver finalmente trovato la formazione britannica, le navi italiane si preparano al fuoco, ma alle 15.48 un’osservazione più attenta rivela che le alberature sono quelle di sette mercantili francesi che navigano in convoglio verso sudest (un convoglio di cui le autorità italiane, come da clausole di armistizio con la Francia, erano state preavvertite).
Iachino comprende che la sua supposizione era errata, ed alle 15.50 la squadra italiana accosta verso ovest (la III Divisione, su ordine di Iachino, accelera a 30 nodi per portarsi prima possibile nella nuova direzione di probabile avvistamento del nemico) per intercettare la Forza H nel caso stia navigando verso ovest lungo la costa francese, ma alle 17.20 la velocità viene ridotta a 20 nodi, mentre vengono meno le speranze di trovare le navi britanniche. Alle 18 le navi accostano verso nord, ed alle 19 verso est, riducendo la velocità a 18 nodi e cessando il posto di combattimento. Durante la notte, in seguito ad un ordine ricevuto alle 22.50, la squadra italiana incrocia nel golfo di Genova a 15 nodi (accelerando poi a 20 nodi alle otto del mattino del 10), venendosi così a trovare, alle nove del mattino del 10, al centro del quadratino 19-61, come ordinato (la III Divisione è in quel momento 10 km a proravia delle corazzate). Alle 9.07 viene ricevuto l’ordine di rientrare alle basi, e la III Divisione fa pertanto rotta su Messina, dove giunge in giornata.
12-13 marzo 1941
La III Divisione (Trieste, Trento e Bolzano), unitamente ai cacciatorpediniere Aviere, Carabiniere e Corazziere, alla vecchia torpediniera Giuseppe Dezza ed a tre MAS, fornisce protezione strategica (procedendo a qualche miglio dal convoglio) ai trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria in navigazione da Napoli (da dove sono partiti il 12) a Tripoli (dove arrivano il 13) con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Folgore, Geniere e Camicia Nera.

Il Trieste ormeggiato a Messina nella prima metà di marzo 1941 (g.c. STORIA militare)

27-29 marzo 1941
Il Trieste, ancora una volta nave di bandiera dell’ammiraglio Sansonetti, esce da Messina alle 5.30 del 27 insieme a Trento e Bolzano ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari, Corazziere, Carabiniere), per partecipare, insieme alla corazzata Vittorio Veneto, alla I Divisione (Zara, Pola, Fiume), alla VIII Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci), XIII (Granatiere, Fuciliere, Bersagliere, Alpino) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno), all’operazione «Gaudo», un’incursione contro il naviglio britannico nel Mediterraneo orientale, a nord di Creta. Verso le 6.15, nello stretto di Messina, la III Divisione con la XIII Squadriglia si pone 7 miglia a proravia della Vittorio Veneto, scortata dalla XIII Squadriglia: queste unità formano il gruppo «Vittorio Veneto» al comando dell’ammiraglio Iachino.
La navigazione prosegue senza incidenti sino alle 12.25 del 27 marzo, quando è proprio il Trieste a comunicare a Iachino la presenza di un ricognitore britannico Short Sunderland a sud della III Divisione (e che continuerà a tenerla d’occhio per mezz’ora); in seguito a questo – alle 12.20 il Sunderland ha comunicato l’avvistamento di tre incrociatori ed un cacciatorpediniere a cinque miglia per 270°, al largo di Capo Passero, per poi precisare alle 12.35 che le navi avvistate hanno rotta 120° e velocità 15 nodi: entrambi i messaggi vengono intercettati dalla Vittorio Veneto –, la squadra italiana, poco dopo le 14, accosta per 150° (prima la rotta era 134°) per trarre in inganno il velivolo (il cui messaggio rischia di rivelare la destinazione, e dunque le intenzioni, della squadra italiana), e segue questa rotta sino alle 16, per poi riaccostare per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23 nodi, in modo da arrivare nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba del 28. Alle 22 del 27 Supermarina annulla l’attacco a nord di Creta, dato che dalla ricognizione risulta che non vi sono convogli da attaccare.
Alle 6.35 del mattino del 28 un idroricognitore catapultato dalla Vittorio Veneto avvista la Forza B britannica (composta dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex, il tutto sotto il comando del viceammiraglio Henry Daniel Pridham-Wippell), in navigazione con rotta stimata 135° e velocità 18 nodi una quarantina di miglia ad est-sud-est dall’ammiraglia italiana. Alle 6.57, pertanto, mentre la Vittorio Veneto (nonché il sopraggiungente gruppo «Zara», composto da I e VIII Divisione, che si riunisce al resto della squadra nelle prime ore del 28, 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro) aumenta la velocità a 28 nodi, la III Divisione riceve l’ordine di assumere rotta 135° e velocità 30 nodi: Iachino intende far raggiungere alla divisione di Sansonetti gli incrociatori britannici, poi farla dirigere verso la Vittorio Veneto ed attirarli così verso la corazzata, e di conseguenza alle 7.34 ordina alla III Divisione di ripiegare verso la Vittorio Veneto dopo aver avvistato le forze britanniche. Pochi minuti dopo, alle 7.39, la III Divisione viene avvistata da un ricognitore decollato dalla portaerei britannica Formidable.
Alle 7.55 la III Divisione inizia a scorgere su rilevamento 205° i primi segni della sopraggiungente Forza B, comunicandolo a Iachino, e nel giro di qualche minuto tutta la formazione di Pridham-Wippell è in vista.
Anche la Forza B, tuttavia, ha l’ordine di attirare le navi italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet, uscita in mare con le corazzate Barham, Valiant e Warspite e la portaerei Formidable, della cui presenza in mare i comandi italiani sono totalmente all’oscuro: di conseguenza, le navi di Pridham-Wippell ripiegano verso Alessandria, costringendo la III Divisione ad inseguirle e facendo fallire la trappola pianificata dall’ammiraglio Iachino. Ha così inizio lo scontro di Gaudo.
Alle 8.12 le navi di Sansonetti aprono il fuoco sulla Forza B da 22.000 (fonti italiane)-23.000 (fonti britanniche) metri, mentre le unità britanniche, i cui cannoni da 152 mm (essendo tutti incrociatori leggeri) hanno gittata minore dei 203 dei “Trento”, non aprono il fuoco per un quarto d’ora, tranne il Gloucester, il quale, essendo la nave in coda e dunque più vicina a quelle italiane, spara tre salve, che cadono corte, a partire dalle 8.27-8.29, da 21.000 metri di distanza. È proprio il Gloucester, per via della sua posizione, a costituire il bersaglio principale dei cannoni della III Divisione, dovendo iniziare a zigzagare per evitare di essere colpito dall’accurato tiro delle navi di Sansonetti, che poco dopo accostano in fuori di 25°, passando da rotta 160° a rotta 135° (così portandosi fuori portata dei cannoni della Forza B), per poi riassumere, verso le 8.36, rotta nuovamente parallela a quella della Forza B.
Gli apparati di punteria dei “Trento”, telemetri a coincidenza Zeiss ormai superati (già prima della guerra si era pensato di rimodernarli, ma non era ancora stato possibile farlo, avendo dato la priorità alle nuove costruzioni), non consentono una grande precisione ed attendibilità: complici anche condizioni atmosferiche sfavorevoli al telemetraggio a grandi distanze, non danno alcuna misurazione affidabile prima che sia aperto il fuoco, e, anche in seguito, danno informazioni imprecise e sporadiche.
Alle 8.36 Iachino ordina alla III Divisione di dirigere verso ovest ed interrompere il combattimento qualora non riesca a raggiungere le navi nemiche, ritenendo, a ragione, pericoloso spingersi troppo verso est, in zona dove il controllo dei cieli è in mano britannica.
Benché sulla carta la velocità dei “Trento” dovrebbe essere di tre nodi superiore a quella della classe “Leander”, cui appartengono Ajax ed Orion, le navi di Sansonetti non riescono a serrare le distanze in maniera significativa: ciò perché i “Trento” hanno apparati motori vecchi di dodici anni contro gli otto dei “Leander”, ma soprattutto perché era uso della Royal Navy di calcolare la velocità massima delle proprie navi in effettive condizioni operative, contro la consuetudine della Regia Marina di prendere per buona la velocità sviluppata durante le prove a mare, con le navi alleggerite, in carico ridotto e talvolta ancora prive di alcuni componenti, il che dava risultati del tutto falsati.
La III Divisione continua il tiro fino alle 8.55, ma non riesce a colpire nessuna nave: tutte le salve cadono corte tranne un proiettile del Bolzano che colpisce il Gloucester senza esplodere, mentre Orion e Perth subiscono solo lievi danni da schegge. A quell’ora gli incrociatori di Sansonetti (al pari della Vittorio Veneto) accostano per 270° ed assumono rotta 300° e velocità di 28 nodi, venendo seguiti a distanza dalla Forza B, che si mantiene fuori tiro e tiene informato il resto della Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Il Trieste ha sparato in tutto 132 granate perforanti da 132 mm.
Essendosene reso conto, alle 10.17 l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di proseguire sulla sua rotta fino a nuovo ordine e tenersi pronta al combattimento (spiegando anche le sue intenzioni), mentre la Vittorio Veneto e le altre navi invertono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione italiana) ed impedirne la ritirata. Le unità della Forza B sono però più a nord di quanto ritenuto (e segnalato) e pertanto l’incontro avviene alle 10.50: sulle prime la Forza B, incerta se le navi avvistate siano amiche o nemiche, effettua il segnale di riconoscimento, ma alle 10.56, mentre la Vittorio Veneto apre il fuoco da 23.000 metri, Iachino ordina alla III Divisione di invertire la rotta e riprendere il combattimento. La Forza B subito accosta verso sud e si ritira inseguita dalle navi italiane (la III Divisione cerca di serrare le distanze ma non fa in tempo ad intervenire), coprendosi con cortine fumogene, ma le distanze vanno aumentando ed il tiro della Vittorio Veneto risulta inefficace.
Alle 11.18, a causa delle distanze in aumento e dell’arrivo di aerosiluranti britannici che attaccano la Vittorio Veneto, la III Divisione riceve l’ordine di riassumere rotta 300°. 

Il Trieste dopo la conclsusione dello scontro di Gaudo (g.c. STORIA militare)

Successivi messaggi e segnalazioni, che confermano l’assenza di traffico convogliato britannico da attaccare, fanno decidere all’ammiraglio Iachino di proseguire nella navigazione di ritorno verso le basi italiane, ed alle 11.30 la formazione di Iachino si avvia sulla rotta di rientro.
Alle 12.07 anche la III Divisione viene attaccata da tre aerosiluranti britannici, che lanciano contro il Bolzano, ma riesce a sventare l’attacco contromanovrando ed aprendo un intenso tiro contraereo.
Alle 13.23 la III Divisione si trova a 57 miglia per 214° da Gaudo; alle 15.20 ed alle 16.58 tale divisione viene attaccata da bombardieri in quota britannici: nessuna nave viene colpita, ma alcune bombe cadono molto vicine a Trento e Bolzano.
Alle 15.19 tre aerosiluranti attaccano la Vittorio Veneto, mentre dei caccia attaccano le unità della XIII Squadriglia che la scortano, in cooperazione con bombardieri in quota partecipano: l’aereo del capitano di corvetta John Dalyell-Stead, prima di essere abbattuto, riesce a ridurre le distanze con la Vittorio Veneto a meno di 1000 metri ed a lanciare un siluro, che colpisce la nave da battaglia a poppa, in posizione 35°00’ N e 22°01’ E. Alle 15.30 la Vittorio Veneto, che ha imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si immobilizza, ma dopo sei minuti rimette in moto, sebbene a fatica: solo alle 17.13 riesce a sviluppare una velocità di 19 nodi. La flotta italiana dirige su Taranto, ed alle 16.38 l’ammiraglio Iachino, in previsione di altri attacchi aerei in arrivo al tramonto, lascia libera l’VIII Divisione per il rientro a Brindisi ed ordina che le altre unità si dispongano intorno alla danneggiata Vittorio Veneto per proteggerla da altri attacchi. La formazione risulterà assunta alle 18.40, con cinque colonne di unità disposte in linea di fila: da sinistra a destra, la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Corazziere, Carabiniere, Ascari), la III Divisione (nell’ordine Trieste, in testa, Trento al centro e Bolzano in coda), la Vittorio Veneto preceduta da Granatiere (in testa) e Fuciliere (tra il Granatiere e la corazzata) e seguita da Bersagliere (tra la nave da battaglia e l’Alpino) ed Alpino (in coda), la I Divisione (Zara, Pola, Fiume) e la IX Squadriglia (Vittorio Alfieri, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci, Alfredo Oriani). Alle 18.23 (nel frattempo la velocità della Vittorio Veneto è scesa a 15 nodi) vengono avvistati nove aerosiluranti britannici, che si tengono a distanza, alle 18.51 tramonta il sole, ed alle 19.15 la formazione italiana accosta per conversione ed assume rotta 270° (in modo da essere meno illuminate possibile dal sole che tramonta) ed alle 19.24 i cacciatorpediniere in coda iniziano a stendere cortine fumogene. Alle 19.28 gli aerosiluranti si avvicinano – le navi più esterne accendono i proiettori –, alle 19.30 vi è una nuova accostata per conversione (rotta assunta 300°) e sei minuti dopo tutti i cacciatorpediniere emettono cortine fumogene ed aprono il fuoco, mentre gli aerei passano all’attacco: intorno alle 19.50 il Pola viene colpito ed immobilizzato da un siluro. Cessato l’attacco, e calato il buio, alle 19.50 si spengono i proiettori ed alle 20.11 cessa l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05 l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di portarsi 5 km a proravia della Vittorio Veneto, alla XIII Squadriglia di assumere posizione di scorta ravvicinata ed alla I Divisione di posizionarsi 5 km a poppavia della nave ammiraglia. Proprio in quei minuti si scopre che il Pola è stato immobilizzato (dapprima si era ritenuto che l’attacco fosse stato respinto senza danni), ed alle 21.06 la I Divisione invertirà la rotta per andare al soccorso dell’incrociatore colpito. Questa decisione, molto discussa in seguito, porterà al disastro: la I Divisione verrà infatti sorpresa mentre raggiunge il Pola dalle corazzate britanniche Barham, Valiant e Warspite e sarà annientata, con la perdita di Zara, Pola, Fiume, Alfieri e Carducci oltre che dello stesso Pola (e di oltre 2300 uomini), in quella che rimarrà la peggior sconfitta mai subita dall’Italia sul mare. Dopo la separazione dalla I Divisione, il resto della squadra italiana prosegue con rotta 323° e velocità 19 nodi alla volta di Taranto: la navigazione prosegue senza incidenti (alle 21.35 Iachino fa trasmettere al Trieste una richiesta d’intervento della caccia aerea per l’alba dell’indomani, a 60 miglia per 140° da Capo Colonne, per non congestionare la stazione radiotelegrafica della Vittorio Veneto) sino alle 22.30 quando, in lontananza, vengono avvistate le vampate di artiglierie: le navi italiane assistono alla fine della I Divisione. Da bordo della Vittorio Veneto si vede la III Divisione, che si è frattanto portata alcuni km a poppavia della corazzata, stagliarsi nettamente sullo sfondo dei bagliori dei proiettili illuminanti. Lo scontro, benché avvenga a circa 50 miglia di distanza, sembra svolgersi così vicino che Iachino invia il messaggio “Dite se siete attaccato” anche alla III Divisione, oltre che alla I. Sansonetti, ovviamente, risponde di no, mentre alla I Divisione l’unica risposta è il silenzio. Il tiro che si osserva a distanza si svolge in più fasi, alle 22.30, 22.40 e 23.06, i bagliori delle ultime esplosioni vengono visti alle 23.55.
Sono in molti, dal Trieste, ad assistere angosciati al cannoneggiamento: l’ammiraglio Sansonetti ha un figlio, Vito, imbarcato sull’Alfieri come sottotenente di vascello (l’ammiraglio non può saperlo, ma suo figlio sarà tra i pochi superstiti dell’Alfieri, recuperato dal cacciatorpediniere greco Hydra e fatto prigioniero).
I marinai dell’incrociatore vedono alle loro spalle, verso est, dei bagliori: il cielo lontano si illumina a più riprese, ed ogni volta segue, a distanza di diversi secondi, il rimbombo dei colpi di cannone. Non c’è dubbio su cosa stia accadendo.
Sul Trieste è imbarcato da mesi, quale corrispondente di guerra per il “Corriere della Sera”, anche il giornalista e scrittore Dino Buzzati, che, uscito in coperta poco prima delle 22.30, scriverà in seguito: “Vedemmo allontanarsi dietro a noi queste navi, una delle quali a noi grandemente cara perché ci aveva dischiuso mesi or sono le vie della guerra sul mare. Le intravvedemmo per l'ultima volta, strisce di nero opaco nel nero lucido della notte. Le ultime parole che troviamo sui nostri fogli di note sono le seguenti: ‘Ore 22.28. Lampeggiamenti all'orizzonte’. Come formule di un drammatico enigma, questi fuochi lontani il cui riverbero sorgeva al di là dell'ultimo mare accesero nei cuori di tutti un'ansia che non si può dire. Poi, andando la nostra nave nella notte, sempre più rari e lontani si fecero i misteriosi lampi. Finché il buio e una cupa tranquillità regnarono sul mare (…)” e “Vidi lampi lontani di poppa. Salii in plancia. Anche di qui si scorgevano i lampi e altre luci più lente. "Quello è fuoco navale, non c'è dubbio, diceva l'ammiraglio, straordinariamente tranquillo" (...). Verso est, al limite dell'orizzonte, era cominciata una battaglia.
Come formule di un pauroso enigma quei fuochi lontani, il cui riverbero sorgeva al di là dell'ultimo mare, accesero nei cuori un'ansia che non si può dire (...). Che cosa significavano quelle luci? Laggiù certo nostri compagni stavano combattendo, difendevano con determinazione la nave colpita (...). E così, andando noi nella notte, sempre più rari e lontani si fecero i misteriosi lampi. Finché il buio e una cupa tranquillità regnarono sul mare, chiudendo il segreto di tanto eroismo”.
Il resto della formazione italiana (compresa la III Divisione), inutilmente cercato dalla Forza B (che invece trova il Pola immobilizzato, scambiandolo per la Vittorio Veneto) e da una flottiglia di otto cacciatorpediniere britannici al comando del capitano di vascello Philip Mack fin dopo mezzanotte, alle otto del 29 marzo, a 60 miglia per 139° da Capo Colonne, viene raggiunto dall’VIII Divisione frattanto richiamata; la III Divisione si pone quindi a dritta della Vittorio Veneto, con la VIII Divisione a sinistra della corazzata (e la X Squadriglia Cacciatorpediniere, anch’essa inviata di rinforzo, a sinistra della VIII Divisione). A partire dalle 6.23 giungono sul cielo della formazione, per scortarla nella navigazione di rientro, aerei tedeschi ed italiani: la scorta aerea, mancata – elemento cruciale – durante tutta l’operazione, arriva solo ora, nel golfo di Taranto.
Alle 9.08 del 29 marzo la formazione italiana assume rotta 343°, mettendo la prua su Taranto, ed arriva a Taranto poco dopo le 15.30. La III Divisione non viene fatta rientrare subito a Messina, ma viene bensì trattenuta per qualche tempo a Taranto.

Il Trieste fotografato intorno al 28 marzo 1941.

24 aprile 1941
Trieste e Bolzano, insieme ad Ascari e Carabiniere ed alla VII Divisione, scortano a distanza i piroscafi italiani e tedeschi Rialto, Birmania, Marburg, Reichenfels e Kybfels in navigazione in convoglio da Napoli verso la Libia. A causa del mare mosso e delle notizie sugli spostamenti delle forze britanniche, il convoglio viene dapprima fatto sostare a Palermo, poi a Messina e quindi ad Augusta, e può infine partire per la Libia solo tra il 29 ed il 30 aprile.

Il Trieste in navigazione a lento moto (da www.marina.difesa.it)

24-25 maggio 1941
Alle 16 del 24 maggio la III Divisione (Trieste e Bolzano), di cui ha da poco assunto il comando l’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi (del quale il Trieste è la nave di bandiera), salpa da Messina insieme ad Ascari, Lanciere e Carabiniere, per fornire scorta a distanza ad un convoglio per la Libia composto dai trasporti truppe Conte Rosso, Esperia, Victoria e Marco Polo scortati dal cacciatorpediniere Freccia e dalle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso (poi temporaneamente rinforzate con l’invio di Perseo, Calliope e Calatafimi), salpato da Napoli alle 4.40 e che ha appena superato lo stretto di Messina. Alle 20.45 del 24 maggio, tuttavia, una decina di miglia ad est di Capo Murro di Porco, il Conte Rosso viene silurato dal sommergibile britannico Upholder ed affonda rapidamente nel punto 36°41’ N e 15°42’ E, portando con sé 1297 dei 2729 uomini a bordo. La III Divisione, che al momento dell’attacco si trovava 3000 metri a poppa del convoglio e che nulla ha potuto – come qualsiasi scorta di navi maggiori – contro un attacco subacqueo, può soltanto distaccare Lanciere e Corazziere per dare la caccia all’Upholder insieme al Freccia, senza risultato (vengono lanciate 37 bombe di profondità i 19 minuti), e per soccorrere i superstiti. Le navi di Brivonesi rientrano a Messina alle 20 del 25 maggio.
27 maggio 1941
Trieste e Bolzano scortano Esperia, Victoria e Marco Polo di ritorno in Italia ed un altro convoglio anch’esso in navigazione in rientro da Tripoli.
8-9 giugno 1941
Trieste e Bolzano scortano il convoglio «Esperia» insieme a Lanciere, Ascari e Corazziere, per poi tornare a Messina alle sei del mattino del 9.
 

Il Trieste visto da bordo del Fiume (foto del maresciallo capo cannoniere stereotelemetrista Antonio Miccoli, per g.c. del figlio Marino)
25-26 giugno 1941
Trieste, Gorizia (aggregato alla III Divisione a seguito dell’annientamento a Matapan della I Divisione, di cui faceva parte) e XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Corazziere e Carabiniere, più l’Ascari partito anch’esso da Messina il 25, ma in un secondo momento) vengono inviati a scortare a distanza, la sera del 25 giugno, un convoglio veloce partito da Napoli alle 4.30 del 25 e formato dai trasporti truppe Esperia, Marco Polo, Neptunia ed Oceania con scorta diretta dei cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Gioberti e Da Noli. Non appena cala il buio, però, iniziano violenti attacchi aerei contro il convoglio, nei quali un aerosilurante Fairey Swordfish viene abbattuto e l’Esperia rimane lievemente danneggiato, che inducono Supermarina, nel timore che altri possano seguire nella notte, ad ordinare a tutta la formazione di rientrare a Taranto.
27-29 giugno 1941
Il convoglio e la III Divisione lasciano di nuovo Taranto il 27, arrivando a Tripoli alle 10.30 (o 11.15) del 29.
Alle 8.56 del 29 Trieste e Gorizia, insieme a Carabiniere, Ascari e Corazziere, vengono avvistati nel punto 37°55' N e 15°35' E (ad est della Sicilia) dal sommergibile britannico Urge (tenente di vascello E. P. Tomkinson) a sei miglia per 195°, mentre procedono su rotta 360° a 24 nodi di velocità. Alle 9.14 l’Urge lancia quattro siluri da 4600 metri contro l’incrociatore di testa, ma nessuna nave viene colpita ed il battello britannico viene poi sottoposto, dalle 9.21 alle 11.30, al lancio di 64 cariche di profondità, nessuna delle quali esplode tanto vicino da causare danni.
30 giugno-1° luglio 1941
La formazione, dopo essere stata pesantemente bombardata dall’aria durante la sosta a Tripoli, ne riparte per l’Italia alle sei di sera del 30 giugno.
16-18 luglio 1941
Trieste, Bolzano, Ascari, Carabiniere e Corazziere forniscono scorta a distanza ad un convoglio veloce partito il 16 da Taranto diretto a Tripoli, formato dai trasporti truppe Marco Polo, Neptunia ed Oceania con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Lanciere, Geniere, Oriani e Gioberti e della torpediniera Centauro. Il convoglio raggiunge Tripoli il 18, dopo aver eluso un attacco da parte del sommergibile britannico Unbeaten contro l’Oceania.

La nave a Tripoli (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

19 luglio 1941
Il convoglio e la scorta lasciano Tripoli per tornare in Italia.
21 luglio 1941
Trieste, Gorizia e Bolzano, in porto a Messina, vengono allertati, come altre navi maggiori a Taranto e Palermo, per una possibile operazione di contrasto all’operazione britannica «Substance», consistente nell’invio a Malta di un convoglio, ma Supermarina comprende quali sono gli obiettivi dell’operazione nemica solo quando è ormai troppo tardi per inviare le forze navali contro il convoglio.
23-26 agosto 1941
Alle 9.50 del 23 Trieste, Trento, Bolzano e Gorizia, che formano la III Divisione, salpano da Messina insieme a quattro cacciatorpediniere, cui alle 18 se ne aggiungono altri due inviati da Palermo, ed alle cinque del mattino del 24 si uniscono al largo di Capo Carbonara al gruppo «Littorio» (corazzate Littorio e Vittorio Veneto e sei cacciatorpediniere), formazione che viene poco dopo rinforzata da altri cinque cacciatorpediniere. Le navi italiane sono in mare, dirette al centro del Tirreno, per contrastare l’operazione britannica «Mincemeat», che vede l’uscita da Gibilterra di parte della Forza H (comprese la portaerei Ark Royal e la corazzata Nelson) per bombardare gli stabilimenti industriali ed i boschi di sughero nella Sardegna settentrionale (con gli aerei dell’Ark Royal), posare mine al largo di Livorno (con il posamine veloce Manxman) e dissuadere, con tale dimostrazione di forza, la Spagna dall’entrare in guerra a fianco dell’Asse.
Tra le 6.30 e le 6.40 il Trieste catapulta il proprio idrovolante da ricognizione, che tuttavia non riesce a trovare nulla.
La formazione italiana, al comando dell’ammiraglio Iachino, ha l’ordine di trovarsi per le otto del 24 trenta miglia a sud di Capo Carbonara, essendo la Forza H stata avvistata da un ricognitore alle 9.10 del 23, una novantina di miglia a sud di Maiorca. Verso le 5 gli aerei dell’Ark Royal attaccano la zona di Coghinas e Tempio Pausania, causando però pochissimi danni, ed alle 7.45 la squadra italiana viene avvistata da un ricognitore britannico, proprio mentre anche la Forza H viene localizzata 30 miglia ad est di Minorca, con rotta 105° e velocità 20 nodi.
In base a quest’ultimo dato, Supermarina, ritenendo improbabile che le forze italiane possano incontrare quelle britanniche entro il 24, a meno di non uscire dal raggio di copertura della caccia aerea, ordina a Iachino di tenersi ad est del meridiano 8° (a meno, appunto, di non riuscire ad incontrare la Forza H di giorno ed entro la zona protetta dalla caccia italiana) e di rientrare nel Tirreno dopo aver appoggiato la ricognizione che l’VIII Divisione è stata inviata ad effettuare nelle acque di Capo Serrat e dell’isola di La Galite; ordina poi alla III ed alla IX Divisione di trovarsi alle dieci del mattino del 25 a 28 miglia per 150° da Capo Carbonara, onde replicare la manovra del 24.
Il mattino del 25, dato che la ricognizione aerea non trova traccia della Forza H, ed il traffico radio britannico sta tornando ai ritmi usuali, Supermarina decide di far rientrare alle basi le proprie forze navali, ordinando pertanto a Iachino, alle 13.35, di rientrare a Napoli.
Nel corso dell’operazione, per due volte la III Divisione ha avvistato sommergibili nemici: la seconda, purtroppo, quando alle sei del mattino del 26 agosto il sommergibile britannico Triumph avvista a nordovest la Divisione nel punto 38°22’ N e 15°38’ E, mentre questa si accinge ad imboccare lo stretto di Messina, di rientro dalla missione. Alle 6.38, poco a nord dello stretto, il Triumph lancia due siluri da 4850 iarde contro l’incrociatore di coda, il Bolzano: colpito a poppa da una delle armi e gravemente danneggiato, questi riuscirà comunque a raggiungere Messina assistito da due rimorchiatori, restando però fuori combattimento per diversi mesi. I cacciatorpediniere e gli aerei antisommergibile della scorta contrattaccano subito, ritenendo, a torto, di aver affondato il Triumph.


Il Trieste, a destra, ed il gemello Trento (g.c. Evgenij Zelikov via www.naviearmatori.net)
26-29 settembre 1941
Trento (nave ammiraglia dell’ammiraglio Bruno Brivonesi), Trieste e Gorizia partono alle 22 del 26 da Messina insieme alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Lanciere, Carabiniere, Corazziere, Ascari) e fa rotta dapprima verso nord e poi verso ovest, per raggiungere ed attaccare un convoglio britannico diretto a Malta e scortato dalla Forza H britannica con tre corazzate ed una portaerei, oltre a cinque incrociatori e 18 cacciatorpediniere (operazione britannica «Halberd»).
Sono in mare anche la IX (Littorio, Vittorio Veneto) e la VIII Divisione (Duca degli Abruzzi, Attendolo) rispettivamente da Napoli e La Maddalena, accompagnate rispettivamente dalla XIII (Granatiere, Fuciliere, Bersagliere, Gioberti) e XVI (Folgore, Da Recco, Pessagno) e dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Scirocco). A mezzogiorno del 27 la III, la VIII e la IX Divisione, con le rispettive squadriglie di cacciatorpediniere, si riuniscono una cinquantina di miglia ad est di Capo Carbonara, per intercettare il convoglio, poi dirigono verso sud a 24 nodi per l’intercettazione; la III Divisione viene posizionata a 10.000 metri per 210° dalla IX Divisione (dalla quale, a causa della scarsa visibilità verso sudovest, risulta appena visibile, mentre la III Divisione vede bene le corazzate di Iachino, riferendo però che la visibilità verso sud è cattiva, dunque in caso d’incontro la Forza H vedrà la squadra italiana prima che quest’ultima la possa vedere a sua volta), mentre l’VIII prende posto a 10.000 metri per 240 da quest’ultima. Inizialmente viene seguita rotta 244° a 22 nodi, poi mutata in 210° (in modo da dirigere verso il nemico) alle 12.30, dopo che Supermarina ha lasciato libertà d’azione a Iachino; alle 13 le navi italiane accostano per 180° ed accelerano a 24 nodi, per tagliare la rotta alle forze britanniche. Dalle 13.40 ricognitori britannici, non visti, pedinano la formazione, riferendo continuamente su posizione, rotta e composizione delle forze italiane. Alle 14 viene ordinato il posto di combattimento generale.
Risultando però – in seguito alle segnalazioni dei ricognitori – in inferiorità rispetto alla forza britannica (che dista in quel momento 55 miglia, sebbene Iachino pensi che siano 40), e per giunta sprovvista di copertura aerea, la squadra italiana alle 14.30 inverte la rotta per portarsi fuori dal raggio degli aerosiluranti nemici, ma alle 17.18, avendo ricevuto comunicazioni secondo cui la squadra britannica avrebbe subito pesanti danni a causa degli attacchi aerei, dirige nuovamente verso sud (prima stava procedendo verso nord), salvo invertire nuovamente la rotta alle 18.14, portandosi al centro del Mar Tirreno. Alle otto del mattino del 28 le navi italiane, come ordinato, raggiungono un punto 80 miglia ad est di Capo Carbonara, poi fa rotta per ovest-sud-ovest ma infine, alle 14.00, dato che i ricognitori non trovano più alcuna nave nemica a sud ed ad ovest della Sardegna (il convoglio è infatti passato) viene ordinato il rientro alle basi. La III Divisione viene fatta dirigere su La Maddalena, dove giunge il mattino del 29, per poi successivamente tornare a Messina.

In navigazione (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

8-9 novembre 1941
Alle 12.35 dell’8 il Trieste, nave ammiraglia della III Divisione (ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi), il Trento e la XIII Squadriglia (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino) lasciano Messina per assumere la scorta indiretta del convoglio «Beta» (poi divenuto più noto come convoglio «Duisburg», e composto dalle navi da carico Duisburg, San Marco, Sagitta, Maria e Rina Corrado, navi cisterna Minatitlan e Conte di Misurata, con un carico complessivo di 34.473 t di materiali, 389 autoveicoli e 243 militari), in navigazione da Napoli e Messina a Tripoli con la scorta diretta dei cacciatorpediniere Maestrale, Grecale, Fulmine, Euro, Libeccio ed Alfredo Oriani.
Il convoglio è stato organizzato per consentire una maggior sicurezza a fronte della dislocazione a Malta di una formazione navale, la Forza K, destinata ad attaccare i convogli italiani per la Libia; inizialmente si era deciso di far seguire alle navi la rotta canale di Sicilia-Pantelleria-Tripoli (passando ad ovest di Malta) con la scorta dell’VIII Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Garibaldi), ma successivamente si è stabilito che la rotta che transita ad est di Malta sia più sicura, e si è assegnata alla scorta indiretta la più potente III Divisione.
La III Divisione si riunisce al convoglio a sud dello Stretto di Messina, ponendosi a poppa dei trasporti e della loro scorta diretta, ed alle 16.30 dell’8 novembre la formazione è completa; la III Divisione ha l’ordine di tenersi cinque miglia a poppavia del convoglio nelle ore diurne, ed in contatto visivo con esso nelle ore notturne: giunta la sera, le navi di Brivonesi, pertanto, per via della bassa velocità del convoglio (9 nodi), per non perderlo di vista ed al contempo mantenere una velocità adeguata a lasciare una manovrabilità accettabile, devono pendolare lungo la sua rotta sul lato verso Malta, procedendo alternativamente su rotta sud-sud-est e nord-nord-ovest (con gli incrociatori in linea di fila, due cacciatorpediniere a proravia e due a poppavia), a 12 nodi, invertendo la rotta ogni volta che la distanza dal convoglio giunge a cinque miglia. Queste manovre provocheranno però confusione con i cacciatorpediniere della scorta diretta, come l’Euro, per il quale il fatto di aver visto due volte la III Divisione al proprio traverso a dritta durante la serata sarà cruciale in un errore di identificazione che pregiudicherà il suo ruolo nel successivo scontro. Per la scorta aerea (nelle sole ore diurne) vengono utilizzati in tutto 64 aerei, mantenendo sempre otto velivoli costantemente in volo sul cielo del convoglio.
Superato lo stretto di Messina, il convoglio dirige verso est e poi accosta a sud, seguendo la rotta che passa ad est di Malta, transitando al largo della costa occidentale greca (in modo da tenersi fuori dal raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta, stimato in 190 miglia). Nonostante questo (e nonostante l’esecuzione, durante la navigazione verso est, di diverse accostate verso ovest per confondere le idee ad eventuali ricognitori circa la loro rotta), nel pomeriggio dell’8 novembre, alle 16.45, il convoglio viene egualmete individuato, in posizione 37°38’ N e 17°16’ E (una quarantina di miglia ad est di Capo Spartivento), da un ricognitore Martin Maryland della Royal Air Force (69th Reconnaissance Squadron), decollato da Malta e pilotato dal tenente colonnello J. N. Dowland. Nonostante le segnalazioni luminose da parte dei cacciatorpediniere della scorta diretta, la scorta aerea non interviene per attaccare il ricognitore nemico. (Contrariamente a molte altre occasioni, il servizio di intercettazione e decrittazione britannico “ULTRA” non ha alcun ruolo nelle vicende del convoglio «Beta»). Il ricognitore non ha, tuttavia, avvistato la III Divisione, della cui presenza gli inglesi saranno all’oscuro per l’intera durata dell’operazine.
Alle 17.30 parte pertanto da Malta la Forza K britannica, composta dagli incrociatori leggeri Aurora e Penelope e dai cacciatorpediniere Lance e Lively e destinata specificamente all’intercettazione dei convogli italiani diretti in Libia. Una forza nettamente inferiore alla III Divisione, ma appositamente preparata al combattimento notturno, a differenza degli incrociatori italiani, sprovvisti di adeguati telemetri, binocoli a grande luminosità e granate a vampa ridotta, e con equipaggi non specificamente addestrati per combattere di notte.
Le navi italiane, ignare di tutto questo, procedono regolarmente per la loro rotta, con buon tempo (mare calmo, solo nubi leggere nel cielo ed un debole vento forza 3). La visibilità è scarsa quando le nuvole nascondono la luna, mentre torna ad essere eccellente quando le nuvole si allontanano da essa. La scorta aerea viene ritirata al tramonto, ed alle 19.30, dopo aver sino ad allora navigato con rotta 090°, il convoglio «Beta» accosta per 122°, ed alle 19.55 accosta per 161°, sempre per tenersi al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti.
La III Divisione, dalla sua posizione a poppa dritta del convoglio, rimonta il convoglio stesso sul suo lato di dritta tra le 22 e le 24, poi accosta ad un tempo e defila di controbordo ai trasporti; alle 00.30 accosta a dritta, per riassumere rotta di conserva al convoglio (che ha rotta sud) ed iniziare un altro pendolamento, restando sulla dritta, probabile direzione di provenienza di eventuali attacchi nemici. Il Trieste dista 4000 metri dall’ultimo cacciatorpediniere della scorta diretta.
Alle 00.39 del 9 novembre il convoglio viene avvistato otticamente (il radar non avrà alcun ruolo di rilievo, se non nel puntamento dei cannoni durante il combattimento: le navi italiane – non la III Divisione – vengono avvistate perché illuminate dalla luce lunare) dalla Forza K in posizione 36°55’ N e 17°58’ E (135 miglia a sud di Siracusa, 100 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento e 180 miglia ad est di Malta), da una distanza di 5 miglia e su rilevamento 30°. Qualcuna delle unità della scorta diretta, grazie alla luna piena, avvista anche la Forza K, 3-5 km a poppavia, ma ritiene si tratti della III Divisione.
Nel frattempo, pochi minuti dopo l’ultima accostata a dritta delle 00.30, il Trieste intercetta dei segnali radio sconosciuti, trasmessi all’aria e privi di nominativo, che dicono solo “NO30-NO30-NO30-NO30”, la cui intensità sta aumentando rapidamente, indicando il rapido avvicinamento della loro sorgente. Ciò allarma l’ammiraglio Brivonesi, che compila ed ordina di lanciare un messaggio d’allerta a tutte le unità. Ma è troppo tardi.
Dopo aver ridotto la velocità da 28 a 20 nodi ed aver aggirato il convoglio con una manovra che richiede 17 minuti, portandosi a poppa dritta rispetto ad esso (in modo che i bersagli si stagliassero contro la luce lunare), alle 00.57 la Forza K, giunta circa 5 km a sudest del convoglio, apre il fuoco sulle ignare navi italiane da una distanza di 5200 metri, orientando il tiro con l’ausilio dei radar tipo 284. La scorta su quel lato del convoglio viene immediatamente scompaginata: il Fulmine affonda dopo pochi minuti, il Grecale viene immobilizzato e messo fuori combattimento, l’Euro – che ha tentato di contrattaccare con i siluri per poi interrompere il contrattacco nel timore di stare per lanciare contro la III Divisione – viene colpito, pur senza riportare danni gravi. Poi, fino alle 2.06, la Forza K gira intorno al convoglio in senso antiorario, facendo fuoco contro i trasporti: uno dopo l’altro, tutti e sette i mercantili vengono ridotti a dei relitti in fiamme, alcuni dei quali affondano subito, mentre altri bruceranno per ore (la Minatitlan affonderà solo il mattino successivo).
La III Divisione, con i relativi cacciatorpediniere, al momento dell’attacco sta pendolando alla velocità di dodici nodi a poppavia ed ad est (sulla dritta) del convoglio, sulla stessa rotta ed ad una distanza di tre miglia (4-5 km), ed il Trieste sta per lanciare il suo messaggio d’allerta, quando alle 00.59 la III Divisione avvista quasi di prora delle vampe di artiglierie ed identifica le unità la Forza K, a 7000 metri di distanza e su rilevamento 155°. Il Bersagliere ha avvistato gli incrociatori nemici appena prima che questi aprano il fuoco, ma il suo segnale di scoperta arriverà nelle mani di Brivonesi ad attacco già in corso. Trieste e Trento aprono il fuoco all’1.03 (negli stessi minuti anche il Bersagliere va all’attacco senza risultato): la nave ammiraglia di Brivonesi inizia il tiro contro un incrociatore britannico da una distanza che viene valutata in 8000 metri ma che risulterà poi essere in realtà di 9800 metri. Entro questo momento, però, i mercantili del convoglio sono già stati pressoché tutti colpiti e ridotti a dei relitti.
All’1.01 la III Divisione, su ordine di Brivonesi, invece che dirigere verso sudest (ove si trova la Forza K) per ridurre le distanze ed attaccare subito il nemico, accosta (allarga) a dritta in modo da dispiegare la formazione in linea di combattimento e permettere agli incrociatori di puntare sul nemico tutti i cannoni del calibro principale; ma così si perdono diversi minuti. Si tenta di guadagnare velocità, ma con fatica, anche perché gli apparati motori dei “Trento”, ormai anziani, non rispondono abbastanza rapidamente. L’accostata del Trieste è superiore a 50°, onde permettere miglior visione della situazione e lasciare il campo di tiro del Trento libero dai cacciatorpediniere di scorta, ma ciò fa prolungare ulteriormente la manovra, che porta le navi di Brivonesi ad assumere una rotta verso sud che le allontana dalla Forza K, dopo di che la III Divisione assume per poco tempo rotta 240° e subito dopo Brivonesi ordina di accostare di sinistra, poi – l’apertura del fuoco da parte della III Divisione avviene tra l’1.03 e l’1.05, contro un incrociatore della Forza K, ma le unità britanniche hanno buon gioco ad occultarsi nelle cortine fumogene e dietro i mercantili in fiamme –, all’1.08-1.09 i due incrociatori accostano a dritta, assumono rotta 180° e ricostituiscono la linea di fila, avvistando la Forza K a proravia del traverso a sinistra. Mentre la Forza K procede verso sud a 20 nodi, Trieste e Trento procedono a soli 15-16 nodi, nonostante siano i più veloci incrociatori pesanti italiani, capaci di sviluppare una velocità più che doppia. Ne consegue che la distanza con il nemico aumenta. Alcuni colpi tirati dalla Forza K cadono nelle vicinanze del Trieste.
All’1.12 la velocità viene portata a 18 nodi, ed il Trieste ritiene di aver colpito con una salva un (inesistente) incrociatore classe “Southampton” (in realtà, in base alla posizione indicata, è il Penelope), che sembra scadere rispetto all’Aurora ed interrompere per qualche tempo il tiro con i suoi pezzi da 152 mm, ma è un’impressione errata: nessuna nave nemica è stata colpita, e la Forza K non accenna a fermare il massacro del convoglio.
All’1.25 la III Divisione raggiunge una velocità di 24 nodi, ma proprio a quest’ora il Trieste cessa il fuoco, avendo i cannoni alzo per 17.000 metri, dal momento che il tiro illuminante è ormai divenuto inutile a fronte dell’enorme distanza venutasi a creare con il nemico.
All’1.26 la Forza K appare nascosta dal fumo dei mercantili in fiamme, ed all’1.29 (1.26 per altra fonte) la III Divisione inverte la rotta ad un tempo verso nord, a 24 nodi. L’ammiraglio Brivonesi, infatti, ha correttamente intuito che la Forza K sta circumnavigando il convoglio in senso antiorario, verso est e poi verso nord, e con l’accostata verso nord intende intercettare le navi britanniche a poppavia del convoglio stesso, tagliando loro la rotta, quando queste, finito di aggirare e distruggere il convoglio ormai perduto, dirigeranno per rientrare a Malta. L’idea non è sbagliata, dato che tra la III Divisione e la Forza K c’è il convoglio, ma per tutta la durata dell’azione la III Divisione – a dispetto della grande velocità che Trieste e Trento sono stati concepiti per avere – mantiene un’insufficiente velocità che varia tra i 16 ed i 20 nodi, ben al di sotto di quella che si potrebbe sviluppare; per giunta, all’1.13 Brivonesi viene informato da Supermarina – sulla base di intercettazioni radiogoniometriche – del rischio di un attacco di aerosiluranti, per quanto si sia al di fuori del raggio d’azione di quelli di base a Malta, e di conseguenza l’ammiraglio pensa, erroneamente, che sia in mare nelle vicinanze una portaerei britannica (tipo di nave di cui la Mediterranean Fleet, al contrario, non dispone più da sei mesi); al contempo, vedendo le sue navi illuminate dagli incendi dei mercantili in fiamme, l’ammiraglio teme anche di essere divenuto troppo facimente avvistabile da eventuali sommergibili oltre che dagli aerosiluranti. Il risultato è che, tre minuti dopo l’inversione di rotta verso nord, la III Divisione cessa il fuoco e si allontana sia dal convoglio che dal previsto punto d’incontro con la Forza K, mentre quest’ultima prosegue nel suo tiro contro il convoglio ormai indifeso per altri 37 minuti.
La III Divisione e la Forza K si sono essenzialmente scambiate di posizione rispetto al convoglio, con la III Divisione che finisce a sudovest e la Forza K a nordest.
Complessivamente il Trieste ha sparato 119 proiettili perforanti da 203 mm (in tutto gli incrociatori della III Divisione hanno sparato 207 colpi da 203 mm) ed 82 proiettili illuminanti da 100 mm, ma la Forza K non solo non viene colpita da nessun proiettile, ma nemmeno si accorge di essere sotto tiro da parte di incrociatori nemici: solo alle 00.52, infatti, prima ancora di iniziare l’attacco, le unità britanniche hanno avvistato la III Divisione nel buio, ma hanno pensato che si trattasse di un secondo convoglio che seguisse il primo, forse una sua sezione in ritardo sul grosso, e che hanno stimato essere formato da due mercantili e due cacciatorpediniere. Durante tutta l’azione contro il convoglio la Forza K non noterà traccia alcuna del blando contrattacco della III Divisione, ed alla fine riterrà di aver affondato anche i due “mercantili” del “secondo” convoglio, indicando nel rapporto in nove, anziché in sette, il numero dei trasporti affondati. (Per altra versione, il contrattacco fu notato ma si ritenne che si trattasse proiettili da 120, invece che da 203, sparati da altri due cacciatorpediniere, avvistati verso nord, cui rispose solo l’Aurora con i cannoni secondari da 102 mm, senza ovviamente colpire data la grande distanza).
All’1.35, come l’ammiraglio Brivonesi comunica a Supermarina (aggiungendo che il convoglio è stato distrutto), la III Divisione assume rotta d’evasione verso nordovest, allontanandosi rapidamente e rinunciando definitivamente ad intercettare la Forza K, per porsi, all’alba, sotto la protezione della caccia aerea di base in Sicilia.
Terminata la distruzione del convoglio, la III Divisione ritorna sul posto per proteggere le operazioni di soccorso, ed Alpino, Bersagliere e Fuciliere vengono distaccati per recuperare i 764 naufraghi insieme a Maestrale, Oriani, Euro e Libeccio. In mattinata, alle 6.40, il sommergibile britannico Upholder silura e danneggia gravemente il Libeccio impegnato nel recupero dei naufraghi, e più tardi, alle 10.26, avvista su rilevamento 120° anche la III Divisione in posizione 37°10’ N e 18°37’E. Gli incrociatori escono presto al di fuori del raggio d’attacco dell’Upholder, che però li avvista di nuovo alle 10.55, su rilevamento 250°, quando ritornano sul posto (mentre ancora è in corso il vano tentativo di rimorchio del Libeccio da parte dell’Euro), ed alle 11.08, nel punto 37°12’ N e 18°33’ E, lancia gli ultimi tre siluri rimasti contro l’incrociatore di coda, il Trento, da 2300 metri, ma una delle armi si guasta e gira in cerchio mentre le altre due mancano il bersaglio, una delle quali evitata di stretta misura dal Trento. Nel frattempo, il Libeccio affonda.
L’ammiraglio Brivonesi invia due radiocifrati a Supermarina alle 5.15 ed alle 17, annunciando che Fulmine e Libeccio sono affondati, che il Grecale è danneggiato ed è stato preso a rimorchio dall’Oriani, quanti proiettili ha sparato la III Divisione, che ritiene di aver colpito un incrociatore tipo “Southampton”, che le navi ospedale Arno e Virgilio sono state inviate sul posto. Al Comando Navale della Libia viene comunicato che il convoglio «Beta» non arriverà più a destinazione. La III Divisione rientra a Messina alle 22.30 del 9.
Attendono l’ammiraglio Bruno Brivonesi, principale responsabile del più umiliante disastro della battaglia dei convogli, lo sbarco, la perdita del comando della III Divisione, un’inchiesta sul disastro ed il tribunale militare. L’accusa: “perdita colposa di nave militare, perché nella notte sul 9 novembre 1941, nelle acque dello Jonio, quale comandante delle forze navali incaricate della scorta di un convoglio, attaccato da forze navali nemiche, cagionava, per non aver osservato le prescrizioni regolamentari e le comuni regole della tattica navale per la direzione e la condotta del combattimento, oltre alla distruzione del convoglio ed alle gravi avarie di alcune navi della scorta, la perdita di due cacciatorpediniere direttamente dipendenti dal suo comando”. Il comandante della Squadra Navale, ammiraglio di squadra Angelo Iachino, interpellato sull’accaduto, giustificherà gli errori di Brivonesi con la confusione creata nella mente dell’ammiraglio a causa delle cortine fumogene, dei bagliori degli incendi e della luce lunare, che avrebbero impedito a Brivonesi di valutare correttamente la situazione tattica, portandolo così a commettere diversi errori tattici che, secondo Iachino, non sarebbero “dovuti a imperizia e negligenza” (il comandante della Forza K, capitano di vascello Agnew, per contro indicherà nel suo rapporto, tra i fattori decisivi per la vittoria riportata, “la grossolana negligenza da parte italiana”). Probabilmente anche per coprire le pesanti responsabilità di altri, come le gravi carenze addestrative nel combattimento notturno, Brivonesi verrà discutibilmente assolto da ogni responsabilità il 5 luglio 1942, con sentenza del Tribunale militare territoriale di guerra di Roma (“Non riscontrandosi negli errori anzidetti, in relazione agli eventi che vi sono connessi, alcuno degli elementi della colpa penale, è d’uopo pronunziare in confronto dell’Ammiraglio Brivonesi, relativamente al fatto che gli è addebitato, decisione di proscioglimento, perché il fatto stesso non costituisce reato”), ricevendo poi l’incarico di sottocapo di Stato Maggiore aggiunto a Supermarina e successivamente il comando del Dipartimento Militare Marittimo della Sardegna (nelle cui acque, per una delle tante coincidenze della Storia, passerà i suoi ultimi giorni la sua ultima nave ammiraglia, il Trieste).
(g.c. Giorgio Parodi)

Siluramento

La distruzione del convoglio “Duisburg” aveva aggravato la già precaria situazione delle forze italo-tedesche in Nordafrica, ed il 19 novembre l’VIII Armata britannica iniziò la propria offensiva «Crusader», strappando rapidamente terreno alle armate dell’Asse indebolite dalla carenza di materiali. Era disperatamente necessario inviare in Libia i rifornimenti necessari, che vennero imbarcati su vari mercantili a Napoli, Taranto e Brindisi: venne così organizzato, il 20 novembre, l’invio in Africa Settentrionale di quattro convogli, che avrebbe fruito della scorta della III Divisione e della VIII Divisione (Duca degli Abruzzi e Garibaldi). Due convogli (il «C», formato dalle motonavi Napoli e Vettor Pisani scortate dal cacciatorpediniere Turbine e dalla torpediniera Perseo, ed un secondo composto dalla nave cisterna Iridio Mantovani e dalla motonave Monginevro scortate dal cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco e dalla torpediniera Enrico Cosenz) sarebbero partiti da Napoli diretti a Tripoli, un terzo (incrociatori ausiliari Città di Palermo e Città di Napoli con la scorta dei cacciatorpediniere Nicolò Zeno e Lanzerotto Malocello e della torpediniera Partenope) da Taranto per Bengasi, e l’ultimo (nave cisterna Berbera e torpediniera Pegaso) da Brindisi per Bengasi. La III e VIII Divisione, in mare con complessivi cinque incrociatori e sette cacciatorpediniere, avrebbero fornito protezione all’intera operazione, che prevedeva anche l’invio di un urgente carico di benzina sull’incrociatore leggero Luigi Cadorna.
Dopo la rimozione dal comando dell’ammiraglio Brivonesi, il comando della III Divisione era passato all’ammiraglio di divisione Angelo Parona (che divenne l’ultimo comandante di tale Divisione), con bandiera sull’incrociatore pesante Gorizia, che formava la III Divisione insieme a Trieste e Trento. Per evitare che il nuovo convoglio facesse la stessa fine del “Duisburg”, fu deciso che le due Divisioni non avrebbero navigato a qualche chilometro dal convoglio, ma insieme al convoglio stesso, dissuadendo la Forza K dall’attaccare; con l’invio di più convogli, si sperava di disorientare la ricognizione britannica. A completamento dell’operazione erano previste ricognizioni e scorta aerea da parte della Regia Aeronautica, nonché bombardamenti su Malta.
La III Divisione (Gorizia, Trieste e Trento) salpò da Messina (Napoli per altra fonte, secondo la quale il Gorizia vi avrebbe subito danni da schegge, poco prima di partire, durante un bombardamento britannico) alle 19.30 del 21 novembre 1941, insieme alla XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Aviere, Geniere, Corazziere, Carabiniere e Camicia Nera), poco dopo che il convoglio era transitato nello stretto di Messina. Al comando del Trieste era il capitano di vascello Umberto Rouselle.
(Per altra versione, i cacciatorpediniere erano usciti da Napoli già alle 8.10 di quel mattino, insieme a Duca degli Abruzzi e Garibaldi).
Già prima di allora, però, a nord della Sicilia, il convoglio era stato individuato dalla ricognizione britannica (un Sunderland della RAF, decollato da Malta), e fu da allora tallonato per tutta la notte: calato il buio, dapprima i ricognitori britannici presero a volare con i fari accesi per causare la reazione degli armamenti contraerei, che avrebbero così involontariamente rivelato la posizione delle navi, poi (erano le 21.30), poco a sud delle acque tra Sicilia e Calabria (poco prima di uscire dallo stretto di Messina), ebbero inizio gli attacchi aerei veri e propri, da parte di aerosiluranti Fairey Albacore dell’828th Squadron e Fairey Swordfish dell’830th Squadron della Fleet Air Arm e da bombardieri Vickers Wellington della RAF, di base a Malta.
I mercantili sbandarono sotto la violenza e prolungata azione aerea, e nella confusione dell’attacco anche il sommergibile britannico Utmost (che, al comando del tenente di vascello Richard Douglas Cayley, si trovava in pattugliamento a sud di Messina quando era stato informato da Malta del convoglio in arrivo e si era preparato all’attacco), avvistata la III Divisione a circa cinque miglia per 275° dal battello, con rotta 110° e velocità 20 nodi poco dopo le 23 (avendone a quell’ora sentito il rumore prodotto dai motori nel punto 37°48’ N e 15°32’ E), manovrò – restando in superficie – per avvicinarsi abbastanza da poter lanciare, poi, da circa un miglio di distanza, lanciò quattro siluri contro l’incrociatore di coda: era proprio il Trieste.
Sull’incrociatore erano imbarcati, tra gli altri, anche i fratelli Giovanni e Giuseppe Rosiello, di San Giovanni a Teduccio. Giuseppe Rosiello, un acquaiolo (addetto al rifornimento idrico), sentendo il rumore degli aerei, vide aerosiluranti ovunque, ed anche un sommergibile. Andò allora nelle sale caldaie di prua, per avvertire il fratello Giovanni, sottocapo fuochista addetto alle caldaie di prora, del pericolo che correvano: questi gli disse in risposta “Corri in coperta, uno di noi si salverà”. Sarebbe stato profetico.
Alle 23.10 (23.12 per l’orario britannico), ad est di Catania, il Trieste venne colpito da uno dei siluri poco a poppavia della plancia, in corrispondenza della caldaia 3: quest’ultima esplose, aumentando i già gravi danni provocati dall’esplosione del siluro, e riducendo l’incrociatore in condizioni critiche. Una enorme fiammata rossa si levò nel cielo per oltre sessanta metri, illuminando il mare tutt’attorno in un raggio notevole, tanto che l’Utmost – che ebbe l’impressione di aver affondato il proprio bersaglio – si dovette immergere per ritirarsi verso sudest (fu bombardato con 86 cariche di profondità, ma ne uscì indenne).
Dino Buzzati, ancora a bordo del Trieste come corrispondente di guerra, stava dormendo su una sdraio con in grembo le opere di Leopardi quando fu svegliato di soprassalto dallo scoppio del siluro, che così descrisse in seguito: "Fu come un triplice orrendo scuotimento verticale; e mentre si spegneva la luce intravidi tutto quanto a me attorno selvaggiamente sballottato, il tavolino, gli elmetti, le porte. (...) Il colpo fu di una incredibile brutalità, contraddistinto dall'elasticità del movimento, come se la plancia fosse stata sospesa a un sistema di molle. Lo schianto il quale era misterioso e paurosissimo, nello stesso tempo aveva una grande eloquenza. Diceva: una faccenda così non vi è mai capitata. Voi avete letto molte storie di catastrofi, come fossero assurde leggende. Quello che pensavate fosse una sinistra teoria, toccasse soltanto agli altri, vi avrebbe sempre risparmiato, ora è successo a voi. (...) Tutto questo si pensò in un attimo".
L’esplosione fu tanto violenta da provocare vittime e feriti non solo nel locale caldaie colpito, ma persino in coperta, dove rimasero uccisi il sottocapo cannoniere Pietro Coppola ed i cannonieri Ciro Balzano e Giuseppe Pillisio e fu gravemente ferito il marinaio Francesco Stufano, servente di uno dei complessi da 100/47 mm dell’armamento secondario. In tutto, 22 uomini del Trieste persero la vita, ed altri 6 furono feriti.
Giuseppe Rosiello aveva appena aperto il boccaporto per uscire in coperta quando il siluro aveva colpito: lui ne uscì illeso, suo fratello Giovanni fu tra le vittime.
La nafta iniziò a prendere fuoco, ma, nella disgrazia, vi fu una piccola fortuna, ed il vapore che fuoriusciva liberamente dopo lo scoppio della caldaia 3 ebbe almeno l’effetto di spegnere l’incendio che stava sviluppandosi. Cionondimeno la situazione restava gravissima: i locali prodieri ed a centro nave erano allagati, le macchine ferme, nonostante le paratie si andavano sviluppando pericolose vie d’acqua; mancava anche la corrente elettrica. Solo grazie all’opera dei servizi di sicurezza della nave il Trieste poté restare a galla.
Il direttore di macchina del Trieste, maggiore del Genio Navale Giovanni Lambiase, il quale, pure imbarcato da poco, già conosceva bene l’apparato motore della sua nave, si recò subito nell’area colpita ed entrò nei compartimenti allagati ed al buio, dirigendo dapprima le operazioni per contenere i danni, poi quelle per rimettere in funzione macchine e caldaie, incoraggiando i suoi uomini con l’esempio. Ricevette la Medaglia d’argento al Valor Militare.
Le operazioni per puntellare e mettere in sicurezza i locali colpiti furono dirette dal comandante in seconda, capitano di fregata Tommaso Ferrieri Caputi, che fu poi decorato con la Medaglia di bronzo al Valor Militare. La stessa decorazione fu conferita anche al tenente di vascello Piero Pedemonti, capo servizio elettrico, che dopo aver dato le disposizioni agli uomini delle centrali elettriche e dei gruppi di riparazione, partecipò personalmente alle operazioni per mantenere l’illuminazione nei locali interni e continuare a fornire corrente ai mezzi che tentavano di prosciugare l’acqua, od almeno impedire che ne entrasse altra, nei locali allagati.
Il capitano del Genio Navale Roberto Schiroli (uno degli ufficiali addetti al servizio di sicurezza), raggiunta subito la zona colpita, fece contenere i danni e prestare i primi soccorsi ai feriti. Anch’egli ricevette la Medaglia di bronzo al Valor Militare, così come il tenente CREM Raffaele Boccuni, addetto al servizio munizioni, che fece rapidamente rimuovere il munizionamento in modo da permettere di puntellare il prima possibile una paratia del locale colpito, che minacciava di cedere, ed il secondo capo carpentiere Gino Silvestrini, che puntellò la paratia lavorando al buio in un locale allagato. A quest’ultimo lavoro, così come al prosciugamento dei locali invasi dall’acqua, partecipò anche il tenente del Genio Navale Giuseppe Donato, precipitatosi sul posto durante il siluramento, al quale fu in seguito conferita la Croce di Guerra al Valor Militare. Il capo elettricista di prima classe Vincenzo Bresmes, il capo elettricista di terza classe Antonio Rispoli ed i secondi capi elettricisti Albino Rotaris e Carmine Fiore lavorarono alacremente per ripristinare i circuiti elettrici, mentre il sottotenente CREM Eugenio Barberis, sottordine del Capo Servizio Elettrico, realizzò degli allacciamenti di fortuna nei locali danneggiati; furono tutti decorati con la Croce di Guerra al Valor Militare, che toccò anche al capo meccanico di seconda classe Armando Lopez, che si distinse nel lavoro per eliminare le perdite di vapore per permettere di rimettere in funzione le caldaie. Il nocchiere Luciano Uggeri, dopo aver portato i feriti in infermeria, si mise al lavoro preparando i mezzi di salvataggio ed il materiale necessario a prosciugare i locali inondati; anch’egli ebbe la Croce di Guerra al Valor Militare.
Bruno Godeas, un elettricista, rimase per tutta la notte nella camera d’ordini in progressivo allagamento e circondata da altri locali completamente allagati, mantenendo i collegamenti telefonici tra la plancia e gli altri locali interni; solo il mattino successivo, dopo l’arrivo a Messina, si poté aprire un varco tra le lamiere per raggiungerlo e liberarlo.
Anche il sottocapo meccanico Angelo Cerutti rimase per tutta la navigazione di ritorno, sino all’arrivo in porto, in un locale inondato, per contenere l’allagamento ed impedire che questo potesse danneggiare il centralino telefonico; fu decorato con la Croce di Guerra al Valor Militare.
Il capo meccanico Fernando Giambastiani, capo guardia del gruppo di caldaie coinvolto dall’esplosione, pur gravemente ustionato, rimase al suo posto e proseguì nei suoi compiti fino a che il locale, privo di luce, non fu completamente invaso dall’acqua; portato nell’infermeria di bordo ormai morente, vi spirò dopo poche ore, dichiarandosi soddisfatto di aver fatto il proprio dovere fino alla fine. Fu decorato con la Medaglia di bronzo al Valor Militare.
Ricevettero la Croce di Guerra al Valor Militare, oltre a tutti gli uomini caduti nel siluramento (alla memoria), anche il marinaio Francesco Stufano, rimasto gravemente ferito al suo posto di combattimento; il sottocapo elettricista Celestino Bonetti, capo guardia della centrale elettrogena, che proseguì nel suo lavoro dopo il siluramento; il capo elettricista di seconda classe Armando Tordella, che partecipò attivamente alla localizzazione dei danni ed al prosciugamento dei locali allagati; il capo meccanico di seconda classe Salvatore Ibba, che si distinse nei lavori di esaurimento dell’acqua nei compartimenti colpiti; il capo radiotelegrafista di prima classe Antonio Papagallo, che rimise celermente in efficienza gli apparati radiotelegrafici danneggiati dall’esplosione; il capitano CREM Giuseppe Maiorana, che collaborò a rimettere in funzione l’apparato motore ed evaporatore.
Anche Dino Buzzati ebbe modo di rendersi utile, ponendosi a disposizione del comandante Rouselle e mettendosi così a trasmettere ordini ed informazioni sullo stato dei locali danneggiati ed allagati (e per la sua opera anch’egli sarebbe stato insignito anche lui della Croce di Guerra al Valor Militare: l’estensore della Gazzetta Ufficiale, peraltro, ne avrebbe storpiato il nome in Gino): mentre gli interni del Trieste precipitavano nell’oscurità e le macchine si fermavano, dopo il siluramento, lo scrittore-corrispondente di guerra scese sottocoperta in mezzo agli altri uomini che correvano freneticamente in mezzo al fumo, e raggiunse la zona dove la nave era stata colpita. Sentì le voci dei fuochisti intrapPolati dietro le paratie, che non si poteva fare nulla per soccorrere.
Per correggere almeno in parte l’appruamento, causato dagli allagamenti a prua, si fece spostare a poppa anche parte dell’equipaggio.
Dopo il siluramento, il Trieste rimase immobilizzato per un’ora e mezza, dopo di che riuscì a rimettere in funzione le caldaie poppiere ed a riprendere la navigazione a bassa velocità, dapprima 1-2 nodi, poi di più, scortato dai cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere (per altra fonte dal Garibaldi e dal  Bersagliere, mentre i due succitati cacciatorpediniere, con altri, avrebbero scortato il Duca degli Abruzzi danneggiato), raggiungendo infine Messina alle 7.30 del 22 novembre. Anche il comandante Rouselle fu decorato con la Medaglia d’argento al Valor Militare per essere riuscito a riportare la nave alla base con mezzi propri.
Qualche ora dopo, alle 11.40, giunse a Messina anche il Duca degli Abruzzi, che era stato a sua volta colpito da aerosiluranti alle 00.38, mentre i mercantili partiti da Napoli, sebbene illesi, rientrarono alla spicciolata a Taranto (con due incrociatori fuori uso Supermarina, ritenendo che la scorta fosse divenuta inadeguata a fronteggiare un eventuale attacco da parte di forze di superficie, ed in considerazione dei continui attacchi aerei, aveva deciso di ordinare il rientro del convoglio). Giunsero invece a Bengasi il Cadorna ed il Città di Palermo (il Città di Tunisi era dovuto riparare a Suda per avaria, mentre la Berbera aveva dovuto ripiegare su Navarino dopo essere stata danneggiata dal sommergibile polacco Sokol).


Morirono nel siluramento del Trieste:

Pasquale Ainis, 24 anni, sottocapo fuochista ordinario, da Napoli (deceduto)
Ciro Balzano, 22 anni, cannoniere ordinario, da Napoli (disperso)
Dante Barani, 21 anni, fuochista ordinario, da Rio Maggiore (deceduto)
Antonio Calogero, 25 anni, fuochista ordinario, da Nicotera (disperso)
Sergio Casanova, 21 anni, fuochista a., da Sampierdarena (deceduto)
Giuseppe Cattani, 29 anni, capo meccanico di terza classe, da Bosco di Corniglio
Nicola Cellini, 21 anni, fuochista ordinario, da Bari (disperso)
Pietro Coppola, 24 anni, sottocapo cannoniere ordinario, da Napoli (disperso)
Romolo Corti, 22 anni, fuochista a., da Gessate (deceduto)
Pietro Deiana, 20 anni, fuochista ordinario, da Cagliari (deceduto)
Alfonso Di Gerlando, 23 anni, fuochista ordinario, da Porto Empedocle (deceduto)
Armando Di Maggio, 19 anni, sottocapo meccanico, da Tunisi (deceduto)
Masito Emanuel, 25 anni, secondo capo meccanico, da Reggio Calabria (disperso)
Fernando Giambastiani, 30 anni, capo meccanico di terza classe, da La Spezia (deceduto)
Vincenzo Giuliano, 20 anni, fuochista c.m., da Palermo (deceduto)
Antonio Grimaldi, 26 anni, secondo capo meccanico, da Mondovì (deceduto)
Luigi Manganiello, 21 anni, fuochista ordinario, da Ariano Irpino (disperso)
Giovanni Pillisio, 25 anni, cannoniere ordinario, da Sant’Antioco (disperso)
Guido Pinton, 30 anni, sottocapo meccanico, da Villafranca (disperso)
Guerrino Rosa, 22 anni, fuochista ordinario, da Trieste (disperso)
Giovanni Rosiello, 25 anni, sottocapo fuochista a., da San Giovanni a Teduccio (deceduto)
Michele Sorrentino, 20 anni, fuochista ordinario, da Torre del Greco (deceduto)


La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capo meccanico di terza classe Fernando Giambastiani, nato a La Spezia il 9 aprile 1911:

“Capo guardia di un gruppo di caldaie su incrociatore che, in missione di scorta a convoglio, era colpito da arma subacquea nemica, benché gravemente ustionato per effetto dello scoppio, adempiva con sereno coraggio ed elevato senso di abnegazione il suo compito delicato, allontanandosi dal locale, solo allorquando esso veniva completamente allagato e rimaneva senza luce. Ricoverato in disperate condizioni all'infermeria di bordo, si dichiarava pago di aver assolto fino al supremo sacrificio il suo dovere dimostrando, pur nelle brevi ore che ne precedettero il trapasso, stoica forza d'animo e superbe virtù militari.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del secondo capo meccanico Aloisio, dei sottocapi meccanici Di Maggio, Ainis e Rosiello e dei fuochisti Barani, Corti, Di Gerlando, Sorrentino, Deiana, Casanova e Giuliano:

“Imbarcato su incrociatore, in missione di scorta a convoglio, colpito da offesa subacquea nemica, assolveva il suo compito con sereno coraggio ed elevato senso del dovere, nell'adempimento del quale cadeva generosa vittima al suo posto di combattimento.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del capo meccanico Cattani, del secondo capo Emanuel, del sotocapo Pinton e dei fuochisti Manganiello, Calogero, Cellini e Rosa:

“Imbarcato su incrociatore, in missione di scorta a convoglio, e destinato al locali colpiti da arma subacquea nemica, assolveva con sereno coraggio ed elevata presenza di spirito il compito affidatogli, scomparendo nell'adempimento generoso del dovere.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del sottocapo Coppola e dei cannonieri Pillisio e Balzano:

“Imbarcato su incrociatore, in missione di scorta a convoglio, colpito da arma subacquea nemica, assolveva con sereno coraggio e abnegazione il suo compito, scomparendo nell'adempimento generoso del dovere.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Medaglia d’argento al Valor Militare conferita al capitano di vascello Umberto Rouselle, nato a La Spezia il 28 febbraio 1898:

“Comandante di incrociatore, in missione di scorta a convoglio, nel corso di un attacco notturno di aerosiluranti nemici, che colpivano l'unità e provocavano vittime a bordo, affrontava con serena fermezza d'animo la difficile situazione, organizzando tempestivamente e proficuamente le misure atte a garantire la sicurezza della nave. Coadiuvato dalla pronta e incondizionata collaborazione dei suoi dipendenti, effettuava con mezzi propri la navigazione di rientro alla base e, superando aspre difficoltà, riusciva a condurre in salvo l'unità al suo comando. Nell'ardua circostanza confermava superbe doti di carattere e preclari virtù militari.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.” (Si noti l’errore riferito ad aerosiluranti, invece che ad un sommergibile, come agli autori del danneggiamento).

La motivazione della Medaglia d’argento al Valor Militare conferita al maggiore del Genio Navale Giovanni Lambiase, nato a Napoli il 22 ottobre 1901:

“Capo servizio di G. N. di incrociatore, colpito da arma subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, accorreva prontamente presso la zona danneggiata e, penetrando nel locali privi di luce e già invasi dalle acque, si prodigava con estrema noncuranza del pericolo e sicura competenza, nelle operazioni di delimitazione del danni subiti. Perfettamente edotto, benchè da poco imbarcato sull'unità, dell'impianto evaporatore a motore, dirigeva con elevata perizia il riapprontamento delle caldaie e delle macchine, incoraggiando il personale con il suo generoso spirito di abnegazione e di sacrificio e con l'audace esempio. Nell'ardua prova dimostrava superbo attaccamento al dovere e preclari virtù professionali e militari.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita al capitano di fregata Tommaso Ferrieri Caputi, nato a Firenze il 12 marzo 1903:

“Comandante in 2a di incrociatore, colpito da arma subacquea nemica durante una missione di scorta a convoglio, si prodigava con superbo slancio ed elevata competenza, oltre ogni limite, nel sovraintendere le operazioni di puntellamento e di sicurezza nel locali danneggiati, imprimendo ai lavori un ritmo alacremente sereno e preciso. Nell'ardua contingenza, nel corso della quale era d'esempio ai dipendenti per elevato spirito di sacrificio e generoso attaccamento al dovere, raccoglieva dall'equipaggio quelle prove di disciplina e abnegazione che egli aveva saputo infondere con la sua opera di perfetta organizzazione e addestramento.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941”

La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Piero Pedemonti, nato a Firenze il 27 marzo 1912:

“Capo servizio E. di incrociatore, in missione di scorta a convoglio, colpito da arma subacquea nemica, assolveva con serena presenza di spirito ed elevata perizia il suo compito ed, impartite rapide e precise disposizioni alle centrali elettriche e al gruppi riparazione, si prodigava personalmente nelle zone danneggiate e allagate per assicurare l'energia elettrica all'illuminazione del locali interni e al mezzi di esaurimento. Nell'ardua contingenza, durante la quale era d'esempio ai suoi dipendenti per vivo senso di abnegazione e spirito di sacrificio, poteva constatare l'alto grado di efficienza e di attaccamento al dovere al quale aveva condotto il suo personale.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita al capitano del Genio Navale Roberto Schiroli, nato a Pellegrino Parmense il 18 giugno 1912:

“Ufficiale in sottordine al servizio di sicurezza di incrociatore colpito durante una missione di scorta a convoglio, da arma subacquea nemica, accorreva prontamente presso la zona danneggiata per l'accertamento e la delimitazione del danni e l'organizzazione dei primi soccorsi al personale investito dallo scoppio. Mediante la sua opera intelligente e proficua, disimpegnata con spirito di sacrificio e noncuranza del pericolo, assicurava il rapido compimento delle operazioni inerenti alla sicurezza dell'unità, dimostrando elevate qualità professionali e militari.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941”

La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita al tenente C.R.E.M. (S. N.) Raffaele Boccuni, nato a Taranto l’11 novembre 1891:

“Destinato al servizio munizioni di incrociatore, colpito da offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, dirigeva con prontezza e precisione le operazioni di sgombero del munizionamento perche fosse rapidamente e tempestivamente provveduto a puntellare una paratia pericolante del locale danneggiato. Infondeva al suoi dipendenti sereno coraggio e fiducia nell'esito del lavoro, dando per primo l'esempio di spirito di sacrificio e alto senso del dovere.  Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita al secondo capo carpentiere Gino Silvestrini, nato a Sassoferrato il 27 febbraio 1913:

“Imbarcato su incrociatore, colpito da offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, si prodigava con sereno coraggio ed elevata perizia tecnica alle operazioni di puntellamento di una paratia pericolante, effettuando con vivo senso di abnegazione un lungo e faticoso lavoro in locali allagati e inizialmente privi di luce. Dimostrava nell'ardua prova generoso spirito di sacrificio e costante attaccamento al dovere.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al sottocapo elettricista Celestino Bonetti, nato a Rovato il 2 aprile 1918:

“Capo guardia di centrale elettrogena su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, assolveva il suo importante compito con sereno coraggio ed elevata capacità professionale, dando prova di vivo attaccamento al dovere.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al marinaio servizi vari Francesco Stufano, nato a Giovinazzo il 4 luglio 1921:

“Servente di un complesso da 100/47 di incrociatore colpito, durante una missione di scorta a convoglio, da arma subacquea nemica, rimasto gravemente ferito in conseguenza dello scoppio, nell’assolvimento del suo dovere offriva al camerati superbo esempio di abnegazione e forza d'animo.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capo meccanico di seconda classe Armando Tordella, nato a Susa il 12 giugno 1908:

“Destinato al servizio scafo su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica, nel corso di una missione di scorta a convoglio, si prodigava con slancio e perizia nelle operazioni di localizzazione dei danni e di esaurimento del locali allagati, dimostrando sereno coraggio e belle qualità professionali.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capo elettricista di prima classe Vincenzo Bresmes, al capo elettricista di terza classe Antonio Rispoli ed ai secondi capi elettricisti Albino Rotaris e Carmine Fiore:

“Imbarcato su incrociatore, fatto segno, durante una missione di scorta a convoglio, ad offesa nemica si prodigava con sereno coraggio e perizia nell'opera di ripristino di utenti e circuiti elettrici danneggiati, dando prova di spirito d'iniziativa ed elevate capacità professionali.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capo meccanico di seconda classe Armando Lopez, nato a Taranto il 15 settembre 1906:

“Imbarcato su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, si prodigava instancabilmente nell'opera di approntamento e accensione delle caldaie, eliminando perdite di vapore; nell'assolvimento del suo compito dava prova di serena perizia e senso del dovere.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capo meccanico di seconda classe Salvatore Ibba, nato a Bonorva l’11 dicembre 1907:

“Imbarcato su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica, nel corso di una missione di scorta a convoglio, si prodigava con slancio e perizia nelle operazioni di esaurimento del locali allagati, dimostrando spirito d'iniziativa e noncuranza del pericolo.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al sottotenente CREM (S. T.) Eugenio Barberis, nato a Nizza Monferrato il 2 giugno 1904:

“Sottordine al Capo servizio E. di incrociatore, colpito, durante una missione di scorta a convoglio, da offesa subacquea nemica, disimpegnava con serenità e perizia le operazioni per la pronta rimessa in efficienza del materiale elettrico e si prodigava nell'esecuzione di allacciamenti di fortuna, pure in locali danneggiati dallo scoppio, dimostrando spirito d'iniziativa e noncuranza del pericolo. Mediterraneo centrale, 20 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al nocchiere di seconda classe Luciano Uggeri, nato a Torino il 19 giugno 1906:

“Imbarcato quale 1° Nocchiere su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, provvedeva rapidamente al ricovero del feriti nell'infermeria e si prodigava con sereno coraggio e spirito d'iniziativa nell'approntamento del mezzi di salvataggio e del materiale occorrente per l'esaurimento del locali allagati.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capo radiotelegrafista di prima classe Antonio Papagallo, nato a Molfetta il 2 gennaio 1898:

“Capo posto R.T. su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, assicurava il collegamento R.T., rimettendo in efficienza in breve tempo gli apparati danneggiati per effetto dello scoppio; nell'assolvimento del suo compito dimostrava vivo senso del dovere ed elevate qualità professionali.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capitano C.R.E.M. (S. M.) Giuseppe Maiorana, nato a Milazzo il 15 febbraio 1887:

“Sottordine alla vigilanza dell'apparato motore ed evaporatore di incrociatore, colpito, durante una missione di scorta a convoglio, da offesa subacquea nemica, coadiuvava alacremente il capo servizio nelle operazioni di riapprontamento, assolvendo il suo compito con perizia, noncuranza del pericolo e vivo senso di responsabilità.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al tenente del Genio Navale Direzione Macchine Giuseppe Donato, nato a Messina il 2 novembre 1910:

“Imbarcato su incrociatore, fatto segno, durante una missione di scorta convoglio, ad offesa subacquea nemica, accorreva prontamente presso la zona colpita e si prodigava con perizia ed elevato senso del dovere, per tutta la durata della navigazione di rientro alla base, nelle operazioni di puntellamento e di esaurimento dei locali allagati, infondendo ai suoi dipendenti entusiasmo e serena fiducia nei risultati dei lavori.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al tenente di fanteria e corrispondente di guerra Dino Buzzati, nato a Belluno il 16 ottobre 1906:

“Corrispondente di guerra, imbarcato su incrociatore, fatto segno ad offesa subacquea nemica, nel corso di una missione di scorta a convoglio, dimostrava sereno coraggio e noncuranza del pericolo, ponendo la sua opera a disposizione del Comandante, cooperava efficacemente alla trasmissione di ordini e di notizie interessanti zone colpite e allagate.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita sottocapo meccanico Angelo Cerutti, nato a Borgomanero il 30 maggio 1920:

“Imbarcato su incrociatore, colpito da offesa subacquea nemica nel corso di una missione di scorta a convoglio, e destinato ai locali colpiti e rapidamente allagati per effetto dello scoppio, prodigava la sua opera nel generoso disegno di contenere l'allagamento perché non fosse danneggiato il centralino telefonico. Con assoluta noncuranza del pericolo ed elevato spirito di sacrificio, permaneva nel locale, nell'assolvimento del suo arduo compito fino al rientro in porto dell'unità, offrendo un luminoso esempio di attaccamento al dovere.
Mediterraneo centrale, 21 novembre 1941.”

Il siluramento del Trieste nel giornale di bordo dell’Utmost (da Uboat.net):

“2300 hours - In position 37°48'N, 15°32'E heard HE. Shortly afterwards sighted three Italian cruisers and three destroyers bearing 275°, range about 5 nautical miles, enemy course 110°, speed 20 knots. Started attack in which four torpedoes were fired at the rear cruiser.
2312 hours - One hit was obtained just abaft the fore funnel. A column of flame rose over 200 feet in the air and the sea was illuminated for considerable distance so dived. Two depth charges were dropped shortly afterwards. Utmost meanwhile retired to the South-East.
2355 hours - A rumbling noise was heard. It was hoped that this was the cruiser sinking. A further 84 depth charges were dropped but by now Utmost was well clear.”

La nave, successivamente all’arrivo in porto, ricevette la visita di Vittorio Emanuele III, che notò un marinaio che piangeva e chiese al comandante il perché. Era Giuseppe Rosiello, il cui fratello Giovanni era morto nel siluramento. A Giuseppe fu concessa una licenza, dopo di che venne riassegnato ad un’altra nave.
Il Trieste rimase ai lavori di riparazione, in una base dell’Alto Tirreno, per otto mesi, fino alla metà del 1942; durante tali lavori vennero anche apportate alcune modifiche all’armamento, sostituendo le quattro mitragliere contraeree binate da 13,2/76 mm con otto singole Breda 1940 da 20/65 mm. Nel giugno 1942, con il completamento dei lavori, l’incrociatore ricevette la colorazione mimetica.
L’incrociatore, essendo ai lavori, non ebbe modo di partecipare ai due inconclusivi scontri della Sirte del dicembre 1941 e marzo 1942, né alla vittoriosa battaglia aeronavale di Mezzo Giugno (che vide per contro l’affondamento del gemello Trento). Tornò però in servizio in tempo per partecipare all’ultima e più grande battaglia aeronavale del Mediterraneo: l’operazione Mezzo Agosto.

Il Trieste dopo l'applicazione della colorazione mimetica (da www.navyworld.ru)

11-12 agosto 1942
Alle 9.40 del 12 agosto il Trieste, insieme al Gorizia (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Angelo Parona, comandante della III Divisione), al Bolzano ed ai cacciatorpediniere Grecale, Corsaro, Legionario, Aviere, Geniere, Ascari e Camicia Nera, esce da Messina per attaccare il convoglio britannico diretto a Malta nell’ambito dell’operazione «Pedestal» e già pesantemente danneggiato da attacchi da parte di aerei, sommergibili e motosiluranti durante la grande battaglia aeronavale di Mezzo Agosto. Alle 19 dello stesso giorno la III Divisione si congiunge, nel Basso Tirreno, con la VII Divisione (incrociatori leggeri Eugenio di Savoia, Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, più i cacciatorpediniere Maestrale, Gioberti, Oriani e Fuciliere), partita da Cagliari alle 20 dell’11 (a parte l’Attendolo, salpato da Napoli alle 9.30 del 12). Le due Divisioni dovrebbero intercettare i resti del convoglio, dispersi e danneggiati, per ultimarne la distruzione, verosimilmente nella mattina del 13, a sud di Pantelleria, nel punto più stretto del Canale di Sicilia.
Alle 22.37, tuttavia, la formazione viene avvistata e segnalata, 80 miglia a nord dell’estremità occidentale della Sicilia e con rotta sud, da un ricognitore Vickers Wellington (che viene a sua volta localizzato dal radar del Legionario). I comandi britannici, resisi conto del rischio che gli incrociatori italiani rappresentano nei confronti di ciò che resta del convoglio, ordinano dapprima al Wellington autore dell’avvistamento, e poi anche agli altri ricognitori avvicendatisi nel pedinare la formazione italiana, di sganciare bombe e bengala, in modo da far credere alle unità italiane di essere sotto ripetuti attacchi aerei e dissuaderle così dal proseguire nella navigazione verso il convoglio, giungendo anche ad ordinare loro – in chiaro, in modo da essere intercettati – di comunicare la posizione della forza italiana per permetterne l’attacco da parte di inesistenti bombardieri B-24 “Liberator”.
Supermarina cade nell’inganno, e già alle 00.30 del 13 ordina il rientro alla formazione (che si trova in quel momento a circa venti miglia da Capo San Vito) di virare verso est, temendo attacchi aerei nemici a seguito dell’intercettazione dei numerosi messaggi radio avversari tra i ricognitori ed i comandi delle forze aeree di Malta, in realtà provocata appositamente per ingannare i comandi italiani ed indurli ad ordinare il rientro degli incrociatori.
Lo stratagemma britannico è solo una delle molteplici ragioni che inducono a dare il discusso ordine: Supermarina, infatti, in ogni caso non intende inviare le proprie navi a sud di Pantelleria senza un’adeguata copertura aerea, che viene però negata dai comandi tedeschi, che preferiscono impiegare tutti i velivoli disponibili nell’attacco al convoglio; inoltre, a seguito dell’avvistamento (da parte di un U-Boot tedesco) di quattro incrociatori e dieci cacciatorpediniere britannici nel Mediterraneo orientale, apparentemente diretti verso Malta, Supermarina ha deciso di inviare la III Divisione nello Ionio, anziché nel Tirreno, per unirsi all’VIII Divisione (uscita da Navarino) onde attaccare tali navi, facendo al contempo rientrare la VII Divisione. In realtà, anche le unità avvistate nel Mediterraneo orientale (che sono in realtà due incrociatori, cinque cacciatorpediniere ed alcuni mercantili) sono una “finta” organizzata dai comandi britannici, un convoglio fasullo che finge di essere diretto verso Malta per ingannare i comandi italiani.
I finti attacchi e messaggi proseguono comunque anche nelle ore successive, per evitare che i comandi italiani possano cambiare idea ed ordinare agli incrociatori di riprendere la navigazione verso ovest per attaccare il convoglio.
Alle 00.30, a seguito dell’ordine di Supermarina, la III Divisione, cui si è aggregato l’Attendolo, fa rotta su Messina, la VII Divisione su Napoli.
Ma l’unico attacco, non aereo ma subacqueo, avviene invece proprio sulla rotta di ritorno, quando, alle 8.06 dello stesso giorno (dopo che il sommergibile Safari ha già avvistato nel navi italiane a nord di Palermo senza poterle attaccare), il sommergibile britannico Unbroken (tenente di vascello Alastair C. G. Mars) lancia quattro siluri contro la III Divisione (che dopo aver superato Alicudi è passata dalla linea di fila alla doppia linea, con Trieste e Gorizia davanti ed Attendolo e Bolzano dietro) a nordovest dell’imbocco dello Stretto di Messina (nel punto 38°43’ N e 14°57’ E): le armi colpiscono l’Attendolo, asportandogli la prua, ed il Bolzano, incendiandolo ed immobilizzandolo. Mentre l’Attendolo riesce comunque a raggiungere Messina con i propri mezzi alle 18.45, assistito e scortato da parecchie unità inviategli incontro dalla base siciliana (dovendo per giunta respingere gli aerei inviati a finirlo), il Bolzano dev’essere preso a rimorchio dall’Aviere e dal Geniere e portato a posarsi su bassifondali dell’isola di Panarea, alle 13.30. L’Unbroken supera senza danni otto ore di dura caccia, con il lancio di 105 bombe di profondità.
La III Divisione, ossia Trieste (che ha eluso due attacchi subacquei) e Gorizia scortati unicamente dal Camicia Nera, essendo stati gli altri cacciatorpediniere distaccati per assistere e scortare Bolzano ed Attendolo, arriva infine a Messina alle 11.45.

Il Trieste in navigazione intorno alle 7.50 del 13 agosto 1942 (g.c. STORIA militare)

La fine

Nel tardo autunno del 1942, con il progredire dell’avanzata alleata in Nordafrica a seguito alla battaglia di El Alamein e gli sbarchi in Algeria e Marocco, ebbe inizio una violenta offensiva aerea statunitense sui principali porti e basi navali dell’Italia meridionale. I suoi effetti non tardarono a mostrarsi: già il 2 dicembre la VII Divisione venne semidistrutta da un bombardamento americano su Napoli, ed i violenti bombardamenti che colpirono, oltre a Napoli, anche Messina, Palermo e Cagliari, fecero decidere di trasferire le navi maggiori ancora efficienti nelle basi arretrate di La Spezia, Genova e La Maddalena, dividendole nelle tre basi per evitare un eccessivo accentramento; era necessario inoltre trasferire tali unità nel Tirreno per contrastare possibili azioni da parte delle forze navali nemiche contro le coste italiane (per alcune fonti, era anche previsto che la III Divisione avrebbe dovuto compiere, partendo dalla Maddalena, delle incursioni contro il traffico navale alleato nel Nordafrica francese, o contro tali porti).
La III Divisione, formata da Trieste e Gorizia – ormai gli unici incrociatori pesanti ancora in efficienza – insieme agli incrociatori leggeri Duca d’Aosta, Duca degli Abruzzi e Garibaldi, dovette perciò lasciare per sempre Messina, che era stata la sua base sin dalla sua costituzione. Nella notte del 9 dicembre 1942 Trieste e Gorizia lasciarono Messina per La Maddalena, base navale che si reputava più riparata dai bombardamenti aerei alleati. Nel pomeriggio del 10 dicembre i due incrociatori arrivarono a destinazione: mentre il Gorizia fu ormeggiato in un’insenatura a sud di Caprera, sotto la protezione di alcune batterie contraeree terrestri (in tutto 12 pezzi da 76/40 mm), per il Trieste era stato preparato un recinto di reti parasiluri nella rada di Mezzoschifo (al largo della spiaggia della Sciumara), tra Punta Sardegna ed il paesino di Palau, a ponente della Maddalena. L’incrociatore, in tal modo, fruiva, oltre che del proprio armamento antiaereo, della protezione della batteria contraerea del vicino Monte Altura, dotata di quattro pezzi da 102/35 mm. I recinti di reti parasiluri vennero in seguito migliorati, in modo da offrire maggiore protezione. Difetto principale della base della Maddalena era l’assenza di radar per rilevare le formazioni aeree in avvicinamento: era stata prevista l’installazione ad Ajaccio di un radar che avrebbe dovuto coprire tutto il settore delle Bocche di Bonifacio, ma in base alle precedenze e priorità il Comando Supremo non aveva ancora assegnato tale apparato (il Trieste stesso, come detto, aveva subito modifiche strutturali per imbarcare un radar, che non venne però mai installato). Difetto cui avrebbe potuto supplire in parte un sistema d’ascolto aerofonico, che però non fu mai realizzato: a causa del forte vento che tirava solitamente alla Maddalena, che disturbava l’ascolto, gli aerofoni non erano stati piazzati. Si sarebbe potuto ovviare al problema scavando delle profonde fosse in cui collocare gli aerofoni, ma si era deciso di rinunciarvi per via dei costi elevati. Non era stato dato molto peso neanche alla difesa passiva, se è vero che non vennero mai realizzati nemmeno apparati nebbiogeni per annebbiare la base in caso di bombardamento. Non c’erano in zona neanche aeroporti da dove potessero decollare aerei da caccia per intervenire in caso di incursione aerea nemica: uno era in corso di realizzazione ad Olbia, ma non era ancora pronto.
Il complesso delle bocche da fuoco sistemate a terra (armate da personale della Regia Marina e della 3a Legione Milizia Artiglieria Marittima) più quelle delle navi della III Divisione sembrava assicurare una consistente difesa in caso di attacco aereo: ma nessuno di quei cannoni era stato progettato prima dell’entrata in servizio dei moderni bombardieri quadrimotori statunitensi, in grado di volare a quota di molto superiore al raggio massimo di tiro delle armi contraeree delle navi e della base della Maddalena. Le bocche da fuoco della base, 18 pezzi da 102/35 mm e 37 da 76/40, erano antiquate, alcuni dei pezzi da 76 mm della contraerea terrestre erano vecchi di trent’anni e conseguentemente usurati, il personale ad essi addetto scarsamente addestrato; centraline di tiro automatico non ve n’erano. Si era deciso di potenziare la difesa contraerea con 18 nuovi cannoni Ansaldo da 90/53 mm e si era valutata anche la possibilità di integrarla con 4 delle 12 batterie di efficienti pezzi da 88 mm tedeschi in corso di cessione alla Marina, ma i pezzi da 90, consegnati dalle fabbriche nel marzo 1943, non erano ancora stati trasferiti alla Maddalena, mentre quelli da 88 tedeschi non erano ancora stati ceduti.
Una delle soluzioni adottate per ovviare, almeno in parte, a questi gravi problemi, era consistita nel diradare gli ancoraggi (quelli di Trieste e Gorizia distavano 7 km, così che sarebbe stato impossibile colpirli entrambi con una singola salva di bombe) e realizzarli quanto più possibile vicino alla costa, a scopo mimetico.
Supermarina era bene al corrente delle molte deficienze della difesa della Maddalena, ma non aveva, sostanzialmente, avuto scelta: a La Spezia erano già state dislocate le tre moderne corazzate Littorio, Roma e Vittorio Veneto della IX Divisione ed i tre incrociatori leggeri della VII Divisione, a Genova i due incrociatori leggeri dell’VIII Divisione, e l’unica altra base navale del Tirreno adeguata, anche per il caso di uscita in mare della flotta, era La Maddalena. Del resto, il tempo avrebbe provato che nemmeno Genova e La Spezia potevano considerarsi al sicuro dall’offesa aerea, pur avendo difese migliori.
Di tutto questo non era a conoscenza la popolazione della Maddalena, che, vedendo le due potenti navi, le riteneva non un incentivo perché i bombardieri nemici attaccassero, bensì un dissuasore: nel 1947 Sandro Serra avrebbe ricordato “Ogni tanto allarme: ricognitori nemici in vista. "Forza Trieste" gridava la gente. Ed il Trieste rispondeva, poderoso. Pareva invincibile. Sembrava di vederlo ancora lì, sotto Monte Altura, mentre i franchi si preparano a scendere a terra, splendente al sole, come se il 10 aprile 1943 non fosse accaduto nulla. Anche questo videro gli isolani con occhi atterriti. Le due del pomeriggio: prime squadriglie di quadrimotori nemici altissime, luccicanti. "Forza Trieste!" si diceva ancora...” e trent’anni più tardi E. Casazza “...quando le notizie allarmistiche si diffondevano, si guardava con fiduciosa sicurezza il brandeggiare dei cannoni del Trieste, per sentirsi più sicuri, protetti”.
Dal 15 dicembre 1942, il comandante Rouselle era stato sostituito al comando del Trieste dal capitano di vascello Rosario Viola: questi sarebbe divenuto l’ultimo comandante della nave.
I nuovi sviluppi della guerra avevano fatto sì che il centro delle operazioni aeronavali si spostasse verso il Mediterraneo occidentale, ed i comandi alleati pensarono che lo spostamento dei due incrociatori pesanti alla Maddalena avrebbe potuto preludere ad interventi navali italiani ad ovest della Sardegna. Ne venne così pianificata la distruzione.
In un tentativo di emulazione dell’impresa di Alessandria del 19 dicembre 1941, quando gli operatori di tre siluri a lenta corsa della X MAS avevano minato le corazzate britanniche Queen Elizabeth e Valiant cambiando radicalmente, per lungo tempo, i rapporti di forza nel Mediterraneo, i comandi britannici pianificarono un’operazione d’assalto che prevedeva l’uso degli “chariots”, la versione britannica dei siluri a lenta corsa, copiata da alcuni SLC catturati in porti britannici in occasioni precedenti. Il sommergibile P 311, salpato da Malta il 28 dicembre 1942 al comando del tenente di vascello Cayley – lo stesso ufficiale che in precedenza, per singolare coincidenza, aveva silurato e danneggiato il Trieste quando era al comando del sommergibile Utmost – avrebbe dovuto traportare due “chariots” (denominati X e XVIII) nelle acque della Maddalena, dopo di che i mezzi d’assalto britannici avrebbero dovuto minare ed affondare Trieste e Gorizia, così distruggendo la III Divisione. L’operazione – denominata “Principle” – si risolse però per i britannici in un tragico fallimento, in quanto il P 311 non completò mai la propria missione, vittima, con tutti i 60 uomini dell’equipaggio ed i 10 operatori degli “chariots”, di una mina degli sbarramenti difensivi italiani. L’ultimo messaggio del P 311 risale al 31 dicembre, all’1.30, quando comunicò di essere nel punto 38°10’ N e 11°30’E; il 2 febbraio 1943 dei pescatori maddalenini segnalarono di aver sentito una violenta esplosione a sud del golfo della Maddalena. La base della Maddalena non fu nemmeno allertata, la III Divisione non seppe mai quale rischio aveva corso.
Da parte angloamericana, dopo questo disastro, si decise allora di ricorrere a mezzi più tradizionali per neutralizzare la potenziale minaccia di base alla Maddalena.
I timori alleati non erano infondati: nello stesso periodo Supermarina, anche in seguito a pressioni tedesche, pianificò una puntata offensiva contro il traffico navale nemico nelle acque tra Bougie e Bona, nell’Algeria occupata dalle forze angloamericane. L’azione sarebbe stata più che altro dimostrativa, per riaffermare, davanti agli alleati tedeschi, la volontà della Marina italiana di continuare a combattere. A causa della scarsità di nafta, che in quel periodo raggiunse la sua massima gravità, immobilizzando la quasi totalità delle forze da battaglia, l’unica Divisione Navale operativa era proprio la III con Trieste e Gorizia, che fu quindi scelta per l’operazione. A causa del logorio delle siluranti impegnate nelle pericolose missioni di scorta ai convogli, e della loro scarsità ed indisponibilità, era previsto che i due incrociatori sarebbero stati scortati da due soli cacciatorpediniere, oppure, se fosse stato impossibile, sarebbero andati senza alcuna scorta. La III Divisione, dopo apposite ricognizioni aeree, avrebbe dovuto lasciare La Maddalena in modo da raggiungere la zona prestabilita nelle prime ore dell’alba, per poi iniziare a pattugliarla ed attaccare il primo convoglio che avessero trovato (probabilmente in arrivo a Bona), distruggerlo con la massima celerità e poi dirigere a tutta forza per il rientro; qualora non avessero trovato nulla, le due navi avrebbero dovuto defilare a 30 nodi davanti a Bona (dove era di base anche una divisione di incrociatori nemici), tenendosi su alti fondali, e bombardare le unità in porto ed alla fonda, poi sempre tornare immediatamente verso l’Italia alla massima velocità. La missione era estremamente rischiosa, per via del dominio alleato dei cieli, sia di giorno (sebbene in questo caso non ancora tale da poter facilmente distruggere delle navi che procedessero a forte velocità) che di notte. Dato appunto che nottetempo l’aviazione italo-tedesca non era in grado di contrastare efficacemente le forze aeree Alleate, che si erano invece specializzate negli attacchi notturni, Supermarina ordinò che i due incrociatori venissero dotati di apparati tedeschi «Metox» per la rilevazione delle emissioni radar nemiche, e che il Trieste avrebbe ricevuto uno dei nuovi radar italiani Ec.3/ter «Gufo». I lavori per dotare l’incrociatore del radar, però, avrebbe richiesto un turno di lavori in arsenale, che avrebbero ritardato di troppo la missione; quindi si decise che la III Divisione sarebbe stata accompagnata da uno dei cacciatorpediniere già muniti di radar, il Legionario (scelto inizialmente) o l’Alfredo Oriani (su cui cadde poi la scelta).
Il tempo necessario a mettere a punto le strumentazioni, e la necessità che la missione fosse svolta in una fase di notte illune, costrinsero a rimandare l’operazione da metà marzo ad aprile; nel frattempo, il 18 marzo 1943 Trieste e Gorizia poterono effettuare una lunga esercitazione di tiro in mare: a causa della scarsità di carburante, i due incrociatori non uscivano più in mare per esercitazioni dal lontano 19 ottobre 1942. Ma, come si dirà più avanti, questa uscita dopo un periodo di totale immobilità non sarebbe passata inosservata.
L’ordine esecutivo, da parte di Supermarina, per dare il via all’operazione era previsto per il 12 aprile 1943: ma i fatti successivi avrebbero vanificato tutta la preparazione, ad un passo dalla sua attuazione.
Alla Maddalena, dove la III Divisione stazionava inattiva, l’atmosfera era quasi rilassata. Dopo tre anni in cui Trieste e Gorizia avevano partecipato a quasi tutte le battaglie ed operazioni aeronavali svoltesi in Mediterraneo, la guerra sembrava quasi lontana. La Maddalena non era mai stata bombardata; gli equipaggi, che avevano fatto amicizia con la popolazione del posto, erano ancora ignari dell’operazione che li avrebbe attesi di lì a poco.
Il Trieste, circondato da reti parasiluri, in una foto della ricognizione aerea statunitense scattata ad inizio aprile 1943 (g.c. STORIA militare)

Il pomeriggio del 10 aprile 1943 era un giorno di calma piatta. Splendido il tempo, quasi estivo: il mare era un olio, il cielo terso, faceva anche caldo. Non tirava un alito di vento: per una volta, anche gli aerofoni avrebbero potuto rendersi utili. Se solo fossero stati installati…
Durante la mattina, mentre le provviste venivano caricate sul Trieste, una grossa forma di parmigiano era caduta in mare, ma non la si era voluta perdere, per cui dall’Arsenale della Maddalena era stato inviato sul posto un palombaro civile, il maddalenino Rosario Caucci, per ripescarla.
Il sottufficiale Tavilla del Trieste, con due compagni, si era recato a terra con una lancia per prendere alcune provviste che mancavano a bordo, lasciando detto al marinaio addetto all’imbarcazione di tornare a prenderli alle undici. Dopo aver trovato il necessario alla Maddalena, i tre tornarono in porto in orario per l’appuntamento con l’imbarcazione, ma, quando giunsero sul molo, videro la lancia ripartire, mentre da bordo un sottufficiale gridava all’indirizzo di Tavilla un inesplicabile “Chi la fa l’aspetti!” e diede ordine di partire, lasciando i tre a terra nonostante i segni fatti da Tavilla.
Dopo pranzo – il rancio era a mezzogiorno – ognuno, sul Trieste, tornò alle sue normali occupazioni: metà al posto di guardia, gli altri occupavano il tempo leggendo, pulendo i propri vestiti, coltivando qualche passatempo o giocando con degli amici.
A terra, nella cittadina di La Maddalena, era stata organizzata per il pomeriggio una partita di calcio tra una squadra rappresentativa degli equipaggi della III Divisione e la squadra locale. Molti uomini del Trieste e del Gorizia, pertanto, erano scesi a terra in franchigia per assistere alla partita: in poche occasioni come in questa una partita di calcio avrebbe salvato tante vite. Altri barconi erano sottobordo ai due incrociatori per imbarcare altri marinai in franchigia, che a bordo delle navi stavano finendo di agghindarsi. Qualcuno guardava un film che stava venendo proiettato a bordo.
Erano passate le due e mezza: il palombaro era immerso per recuperare la forma di parmigiano, mentre la sua “guida”, l'assistente Stefano Uccioni (anch'egli di La Maddalena), lo aspettava su una barca, ed una grossa lancia si era appena staccata dal Trieste carica di 120 marinai in franchigia che andavano a terra per vedere la partita.
Nella base del VII Gruppo Sommergibili, che aveva sede alla Maddalena, dondolavano oziosamente all’ormeggio i sommergibili Topazio, Sirena, Dandolo, Mocenigo ed Aradam. Poche altre unità minori ed ausiliarie erano ormeggiate in porto od in rada.
Alle 14.45, la surreale tranquillità della Maddalena fu spezzata dal suono squillante delle sirene della DICAT (Difesa Contraerea Territoriale) Marina che davano l’allarme aereo. La totale assenza di radar od aerofoni fece sì che la formazione aerea attaccante fosse stata avvistata solo quando era praticamente giunta sulla base: non trascorsero infatti che uno o due minuti dall’allarme, prima che 84 quadrimotori statunitensi, dei Boeing B-17 “Flying Fortress” della 9th, 12th e 15th USAAF, apparissero dalla direzione del sole – nordovest – volando a 5000-6000 metri di quota (5700 secondo fonti statunitensi). Erano decollati dagli aeroporti statunitensi dell’Algeria ed avevano degli obiettivi precisi: 24 aerei (del 301st Bomb Group del 32nd Bomb Squadron) avrebbero attaccato la base dei sommergibili, 36 (del 2nd e 97th Bomb Group) il Gorizia, e 24 (appartenenti al 99th Bomb Group della 12th USAAF, facente parte della Northwest African Strategic Air Force, al comando del maggior generale James Harold “Jimmy” Doolittle, autore del primo famoso raid statunitense su Tokyo nel 1942) proprio il Trieste. Ognuno aveva nel suo ventre cinque bombe da quasi mezza tonnellata ciascuna.
Quasi contemporaneamente al tardivo allarme aereo, sul Trieste echeggiarono tramite i citofoni gli squilli di tromba che richiamavano gli uomini ai posti di combattimento, ma nello stesso momento si sovrapposero a questi gli scoppi delle bombe che iniziavano a cadere.
Le 24 fortezze volanti destinate al Trieste erano divise in due squadre di dodici velivoli ciascna, che effettuarono il bombardamento seguendo il metodo d’attacco «MTO» a formazioni sovrapposte, formate da “quadrati oscillanti” di sei losanghe sovrapposte, con lo sgancio di 120 bombe da 1000 libbre (con spoletta all'ogiva di 1/10 di secondo e spoletta posteriore di 25 millesimi) a saturazione.
Tutti i pezzi della contraerea a terra aprirono il fuoco in una debole reazione, ma era inutile: gli aerei volavano al di fuori della portata dei vetusti cannoni.
Non appena giunsero sulla Maddalena, i bombardieri americani si divisero nei tre gruppi come prescritto, poi ognuno dei tre si diresse verso il proprio obiettivo.
Una pioggia di bombe distrusse la base del VII Gruppo Sommergibili e le altre strutture della base navale, danneggiando il Mocenigo, sbriciolando i MAS 501 e 503, affondando i motovelieri Eliana, Maria Pia e Carmen Adele della vigilanza foranea, demolendo diversi edifici, causando perdite tra il personale a terra. Il Gorizia aprì il fuoco con le sue armi contraeree nel vano tentativo di difendersi, ma fu colpito in pieno da svariati ordigni, che devastarono armamento e sovrastrutture, scatenarono incendi, uccisero o ferirono decine di uomini.
Ad avere la peggio, però, fu il Trieste: senza nemmeno che l’incrociatore avesse il tempo di aprire il fuoco con il proprio armamento antiaereo, più di 120 bombe da 1000 libbre (oltre 450 kg) caddero tutt’intorno, e, quel che è peggio, sulla nave stessa, i cui ponti corazzati, spessi 5-6 centimetri, non poterono arrestare la caduta degli ordigni. Una bomba cadde all’estrema poppa, perforò il ponte di coperta ed aprì una grossa falla, altre due (almeno) colpirono il quadripode e distrussero la plancia comando, la plancia ammiraglio, la stazione di direzione del tiro antiaereo ed antisilurante, altri ordigni ancora perforarono il ponte di coperta ed il ponte di batteria per poi esplodere nella sala caldaie prodiera, sul lato sinistro, demolendo la parte sinistra del fumaiolo prodiero (per altra fonte, addirittura l’intero fumaiolo venne asportato dalla tremenda esplosione; uno dei piloti statunitensi ritenne che una delle bombe sganciate dal suo aereo fosse entrata esattamente nel fumaiolo). Parecchie altre bombe caddero vicinissime allo scafo, a dritta ed a sinistra, scoppiando sotto la linea di galleggiamento e causando aperture laterali nello scafo con la sola concussione, scardinando i corsi della corazza e del fasciame e facendo così rapidamente allagare i locali caldaie, motrici e turbodinamo di poppa; una, in particolare, esplose vicinissima alla carena e causò uno schiacciamento, che aprì una grossa falla sul lato di dritta, tra centro nave e poppa. Altre bombe esplose all’esterno dello scafo aprirono un’altra falla che causò il rapido allagamento dei locali diesel e dinamo, il che impedì completamente di utilizzare i mezzi di esaurimento e dunque di arginare gli allagamenti. Il tenente di vascello Luigi Campari, di guardia in coffa, fece aprire un intenso tiro contraereo con le armi che erano pronte, ma ormai era troppo tardi: le bombe erano già state sganciate, e Campari rimase ucciso al suo posto di combattimento.
Le esplosioni fecero sobbalzare notevolmente lo scafo, facendo mancare ovunque l’energia elettrica e precipitando gli interni della nave nel buio, mentre gli uomini correvano confusamente ai propri posti, spesso solo per trovare le armi già inutilizzabili.
Il sottocapo cannoniere armaiolo Mario Maffezzoni, addetto alla torre numero 3 del Trieste, salì affrettatamente la scaletta che conduceva in coperta per raggiungere uno dei complessi binati da 100/47 mm, al quale era assegnato quale capopezzo, ma mentre usciva in coperta tramite il boccaporto fu travolto dall’acqua di mare, mescolata alla nafta, che si riversava all’interno attraverso il boccaporto stesso. Maffezzoni comunque proseguì ed era quasi arrivato al complesso da 100/47, quando un ufficiale vietò di caricare i cannoni, perché la base imbullonata del complesso era stata smossa dalle esplosioni, il che impediva di usare i pezzi correttamente. Guardando per aria Maffezzoni vide sfilare in cielo le fortezze volanti, che procedevano in perfetto allineamento per poi sganciare le bombe a perpendicolo sulla nave. Quando gli ordigni andavano a segno, gli coppi proiettavano schegge arroventate in tutte le direzioni, uccidendo e ferendo quanti si trovavano nei pressi: Maffezzoni riuscì a ripararsi dietro lo scudo del pezzo da 100/47 insieme ad altri marinai, ma fu egualmente ferito al braccio destro, perdendo parecchio sangue finché l’ufficiale di guardia, toltosi prontamente la propria sciarpa, gliela legò stretta sul braccio a mo’ di laccio emostatico. Ad altri era andata anche peggio: un marinaio suo amico era stato decapitato da una scheggia, un altro aveva avuto una gamba quasi asportata, unita al resto del corpo da un unico lembo di pelle che un soccorritore dovette tagliare con un coltello, usando una cintura per bloccare l’emorragia, altri morti galleggiavano nell’acqua intorno all’incrociatore.
Guardandosi intorno Maffezzoni vedeva ovunque rovina e devastazione: la plancia comando, i cui sostegni erano stati divelti dalle esplosioni, penzolava pericolosamente nel vuoto, il lato destro della nave era dilaniato dalle bombe. Dappertutto gli uomini correvano chiedendo aiuto per sé o cercando qualcuno che li potesse aiutare a liberare i compagni rimasti intrappolati sottocoperta.

 La sequenza del bombardamento del Trieste nelle foto scattate dai velivoli statunitensi (da www.fold3.com):









Il bombardamento era durato solo sei minuti: abbastanza per cancellare l’ultima divisione di incrociatori pesanti rimasta all’Italia.
Nel disastro, la diversa protezione tra i classe “Trento” e gli “Zara” fece la differenza: mentre il Gorizia, pur gravissimamente danneggiato, con decine di vittime tra l’equipaggio, rimase a galla e riuscì infine a trasferirsi a La Spezia per le riparazioni (che non vennero però mai terminate), la sorte del Trieste fu segnata. Mentre l’allagamento causato dallo squarcio apertosi a centro-poppa sul lato di dritta risultava incontenibile, l’incrociatore andò lentamente appoppandosi e sbandando sulla dritta, finché alle 16, constatando che la sua nave era ormai pericolosamente sbandata a dritta (per altra fonte, verosimilmente erronea, a sinistra) e che tutti i tentativi di arrestare il capovolgimento erano ormai vani, il comandante del Trieste, capitano di vascello Rosario Viola, radunò i pochi uomini rimasti, li esortò a lanciare un ultimo “Evviva il Trieste” e poi ordinò di abbandonare la nave. Gli uomini ebbero il tempo di trasbordare sulle numerose imbarcazioni accorse dalla Maddalena, mentre la nave affondava con grande lentezza. Altri preferirono gettarsi direttamente in acqua e raggiungere la riva a nuoto.
Il comandante Viola fu l'ultimo ad abbandonare la nave: deciso inizialmente a restare sul Trieste in progressivo capovolgimento a dispetto delle incitazioni dei naufraghi a salvarsi, fu infine convinto a mettersi in salvo dal tenente di vascello Carlo Lapanje, che gli gridò al megafono "Meglio un comandante vivo che un eroe sulle lapidi". Calatosi sulla catena dell'ancora di sinistra, tesa dal capovolgimento della nave, l'ultimo comandante del Trieste si gettò in mare.

Poi, il Trieste si capovolse sul lato dritto ed affondò di poppa in 17 metri d’acqua, scivolando sotto la superficie alle 16.13 ed adagiandosi capovolto sul fondale fangoso della rada, nel punto 41°11’204” N e 009°22’193” E. La III Divisione Navale aveva cessato di esistere.
Dell’equipaggio del Trieste morirono 4 ufficiali, 6 sottufficiali e 67 sottocapi e marinai, mentre altri 6 sottufficiali e 69 sottocapi e marinai furono feriti gravemente. Scomparvero nel bombardamento, per non essere mai più ritrovati, anche il palombaro inviato a recuperare il parmigiano, Rosario Caucci – evidentemente sorpreso dalle bombe mentre era sott’acqua, senza poter avere idea di quanto stesse accadendo –, e la sua guida lasciata ad aspettare sulla barca, Stefano Uccioni.
Il bilancio avrebbe potuto essere molto più pesante se non fosse stato per la partita, che aveva fatto sì che parte degli oltre mille uomini dell’equipaggio si trovasse a terra, al sicuro. I marinai che erano giunti a riva, sui barconi, subito prima dell’attacco, non poterono che stare a guardare mentre le loro navi sparivano dietro alte colonne d’acqua per poi ricomparire in fiamme, poi il Trieste che lentamente si capovolgeva…
Altri, che erano già in paese, corsero verso il mare e la loro nave appena il bombardamento fu terminato, e quando giunsero in vista del faro della rada di Mezzoschifo videro per prima cosa una enorme chiazza di nafta, “come un’autostrada di argento liquido che separava il mare di Palau da quello della Maddalena”.
Il sottufficiale Tavilla, che aveva lasciato liberi i due marinai perché potessero mangiare un panino, era rimasto in riva al mare guardando la lancia che tornava alla nave, quando aveva sentito il rombo dei motori dei bombardieri in arrivo. Attardatosi per aiutare una vecchia a raggiungere un rifugio antiaereo, vide anche lui la tragedia svolgersi sotto i suoi occhi: le bombe che cadevano in acqua, sempre più vicine ai due incrociatori, alzando immense colonne d’acqua, poi la prima bomba a segno sul Trieste, l’incrociatore che sbandava mentre le imbarcazioni venivano messe a mare ed altri uomini si gettavano direttamente in acqua tentando di raggiungere la riva, poi il mare intorno al Trieste coperto di rottami, imbarcazioni, naufraghi, mentre le bombe continuavano ad esplodere in acqua.
Una lancia con a bordo un marinaio triestino che era stato imbarcato sulla nave fino al 1941, e che ora, accompagnando a bordo un amico che ancora apparteneva all’equipaggio del Trieste, tornava così a trovare i suoi molti amici dell’equipaggio, era stata sorpresa dall’attacco aereo a poca distanza dall’incrociatore, ed i suoi occupanti videro la nave venire bombardata e poi affondare. Alcuni dei suoi amici, il marinaio, non avrebbe più rivisti.
Le vittime rimasero pressoché tutte uccise nel bombardamento; se non altro, la lentezza dell’affondamento diede al resto dell’equipaggio il tempo di abbandonare la nave prima che questa affondasse. Subito dopo il bombardamento, numerose imbarcazioni private si erano immediatamente recate sul luogo dell’attacco, recuperando i feriti e le salme che galleggiavano sul mare (ai corpi venivano legati un cartellino con le generalità ed una delle loro piastrine), aiutando le centinaia di sopravvissuti a raggiungere la riva; parecchi  ci arrivarono direttamente a nuoto, nonostante ferite ed ustioni. Un superstite, un tenente di vascello, ricordò in seguito che l’acqua era diventata rossa per il sangue delle vittime e dei feriti, un altro, il marinaio Francesco Randazzo, sbalzato in acqua dal bombardamento, nuotò sino alla vicina terra passando in mezzo ai corpi delle vittime ed ai sopravvissuti. Molti naufraghi vennero ospitati dalle famiglie del posto; i feriti vennero portati negli ospedali della Maddalena e di Palau nonché in quello dell’Arsenale, tanto traboccante di pazienti che molti dovettero essere sistemati all’aperto, nei cortili. Mario Maffezzoni venne condotto nell’ospedale militare della Maddalena, anch’esso danneggiato dalle bombe.
Alcune delle salme delle vittime vennero disperse dalle correnti e ritrovate sulle coste della Sardegna e delle sue isole minori. L’enorme quantità di nafta fuoriuscita dai serbatoi del Trieste, chiaramente visibile nelle foto aeree scattate da ricognitori Alleati nei giorni successivi, annerì per lungo tempo gli scogli della rada.


Morirono sul Trieste alla Maddalena:

Giuseppe Acerbi
Pasquale Ainis
Luigi Angoscini
Salvio Argiolas, fuochista, da Elmas
Antonio Arneodo
Antonio Arthemalle
Ciro Balzano
Dante Barani
Luigi Benatti
Francesco Benedetti
Biagio Birilli
Angelo Bozzano
Sergio Brunetti
Stefano Brunetto
Francesco Caddeo
Luigi Campari, 40 anni, tenente di vascello (MBVM)
Mario Casotto
Giuseppe Cattani
Vilmer Cavallet
Antonio Celeste
Nicola Cellini
Carlo Chicchi
Pietro Coppola
Antonino Corrao
Romolo Corti
Pietro Craviolatti
Francesco D’Amico
Carlo Damato
Andrea De Cecco
Vittorio De Matteis
Pio De Simone
Alfonso Di Gerlando
Vincenzo Di Marzo
Michele Di Meo
Giuseppe Di Pierro
Bruno Fanfani
Paolo Fassio
Luigi Ferretti
Carmine Fiore
Ettore Frambati
Brancaleone Fravega
Aldo Gandino
Ottavio Vincenzo Gatto
Fernando Giambastiani
Antonio Giancane
Vincenzo Giuliano
Lamberto Granini
Salvatore Grasso
Antonio Grimaldi
Luigi Longo
Graziano Manca
Sergio Manetti
Vincenzo Minni
Giovanni Minto
Lolo Moriconi
Demetrio Murzi
Francesco Onorato
Guglielmo Ota
Giulio Pani
Luigi Poli
Letterio Quagliata
Umberto Quass
Alfio Rapisarda
Guerrino Rosa
Giovanni Rosiello
Salvatore Ruggeri
Francesco Santoro
Carmelo Scarnano
Luigi Scotti
Giovanni Scrigner, 25 anni, marinaio, istriano
Gioacchino Serretta
Pietro Simoncini
Vito Titone
Mario Toniolo
Lorenzo Trucco
Mario Ulivieri
Aniello Vanacore
Lorenzo Vesco
Giovanni Zocco


La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del tenente di vascello Luigi Campari, nato a Cortile San Martino nel 1903:

“Ufficiale di guardia in coffa di incrociatore sottoposto a violento, improvviso attacco aereo, apriva intenso fuoco con le armi pronte contro la soverchiante forza nemica che aveva già sganciato, sostenuto da indomito coraggio ed elevato spirito combattivo. Cadeva al proprio posto di combattimento lasciando il ricordo di una esistenza tutta dedicata alla Patria.”

Il ricordo del sottocapo cannoniere armaiolo Mario Maffezzoni, addetto alla torre n. 3 del Trieste, ventunenne all’epoca dei fatti (si ringrazia il forum di www.grupsom.com ed in particolare l’utente Millelire, che ha raccolto la testimonianza):

“Siamo al 10 aprile 1943. Dopo il rancio del mezzogiorno ognuno torna alle proprie occupazioni abituali. La metà dell’equipaggio è al suo posto stabilito di guardia o di manovra e l’altra metà alle sue occupazioni libere: lettura, pulizia del vestiario, hobbies o giochi con gli amici. Sono passate da poco le 14, quando dai citofoni arrivano i primi squilli di tromba, laceranti, che chiamano ai posti di combattimento e, nello stesso istante degli squilli di tromba, fanno eco i fragorosi colpi delle bombe aeree che scoppiano a bordo e nel mare vicino alle fiancate. Lo scafo sobbalza paurosamente. Le luci si spengono facendo rimanere nel buio e senza energia elettrica tutta la nave. Inizia il via vai di marinai che corrono in ogni direzione in una confusione indescrivibile. Molti raggiungono i loro posti di combattimento senza potere usare le armi. La nave, già colpita da alcune bombe sul lato destro che provocano immensa falle nello scafo, con numerosi morti e feriti. Io salgo frettolosamente la scala che porta in coperta per prendere posto, come capo al pezzo, alla coppia di cannoni da 100/47. Mentre esco all’aperto dal boccaporto, dallo stesso entrano a flutti, giù per le scale di ferro, torrenti d’acqua di mare mista a nafta. Sono vicino al complesso dei cannoni quando un ordine perentorio di un ufficiale, vieta il caricamento dei cannoni, essendosi spostata la base imbullonata del pesante complesso da non permettere quindi un normale uso delle armi. In cielo, molto alto, defilano , ben allineate, le numerose fortezze volanti americane B 17 quadrimotori, che giunti a perpendicolo della nave scaricano il loro micidiale carico di bombe dirompenti da 1000 Kg. E’ un inferno di fuoco, scoppi con piogge di schegge arroventate lanciate come proiettili tutt’intorno. In quel momento mi trovo riparato dietro le lamiere di protezione del complesso armiero. Vicino a me ci sono altri marinai. Ad un tratto sento una fitta dolorosa all’omero del braccio destro e subito un gran dolore invadermi come se fosse fuoco. Il sangue esce a flutti dalla ferita, il braccio mi pende inerte. L’emorragia viene fermata dal solerte intervento dell’ufficiale di guardia che, levatasi la sciarpa azzurra dalla spalla, la usa legandomi stretto il braccio (un pezzo di qual tessuto ce l’ho ancora a casa). Davanti ame ho il corpo di un marinaio amico, senza più il capo, staccato di netto da una scheggia di ferro. Corpi di altri marinai galleggiano nell’acqua attorno alla nave, ormai senza vita. Un altro corre saltando su una sola gamba, tenendosi l’altra ormai inerte e a penzoloni, unita solo da un lembo di pelle che il soccorritore taglia con un coltello fasciando con una cintura il moncherino rimasto. A bordo è una carneficina, i sostegni e la plancia Comando sono divelti e paurosamente penzolanti nel vuoto. La parte destra della nave squarciata in più parti dalle bombe. Gente che corre per ogni dove cercando aiuto per sé o per aiutare un compagno chiuso nei reparti sotto coperta. La nave sta affondando lentamente nelle acque fredde della baia. Si piega lentamente sul lato destro, sembra voglia lanciare il tempo ai superstiti di salire a bordo dei mezzi di soccorso che arrivano numerosi dal porto di La Maddalena. Vengo accompagnato all’ospedale militare della cittadina, anche questo disastrato dalle bombe cadute sul porto e sull’Arsenale. Si saprà poi che anche l’incrociatore Gorizia, alla fonda dietro l’isola di Caprera è stato colpito dalle bombe senza però essere affondato ma con numerosi morti e feriti.”

Giuseppe Aldo Bigolin, motorista navale, superstite del Trieste. Nato a Galliera Veneta (Padova) il 31 ottobre 1921, si arruolò volontario in Marina il 29 agosto 1939; sopravvisse all’affondamento della torpediniera Confienza, suo primo imbarco, per poi prestare servizio nella base di Brindisi e successivamente sulla torpediniera T 7. Dopo un breve periodo sulla nave reale Savoia, venne imbarcato sul Trieste; sopravvissuto al suo affondamento, venne trasferito sul Gorizia e poi inviato a Trieste per un corso specialistico. Sbandato dopo l’armistizio, venne congedato nel 1946. Fu tra i maggiori animatori della locale sezione ANMI fino alla sua morte, avvenuta nel paese natale il 12 novembre 2000 (si ringrazia per la foto e le notizie il nipote Alessandro Fontana).

La stessa corrente polemica che nel dopoguerra, sull’onda della propaganda della Repubblica di Salò sul “tradimento della Regia Marina” e dei faziosi libri di Antonio Trizzino, avrebbe a più riprese, a torto, di tradimento da parte dei vertici della Marina italiana, avrebbe poi voluto trovare una nuova occasione per fare insinuazioni nella distruzione della III Divisione. Fu Mussolini stesso, nel suo libello “Il tempo del bastone e della carota” ad insinuare per primo che il bombardamento avesse colto i due incrociatori con “misteriosa” precisione (come se fosse strano che un’ottantina di bombardieri con equipaggi bene addestrati avesse colpito due grandi navi ferme), dando ad intendere che qualcuno avesse informato gli Alleati della presenza alla Maddalena di Trieste e Gorizia (come se i due incrociatori non fossero stati lì fermi per quattro mesi, tempo largamente sufficiente perché la ricognizione alleata li avvistasse da sé) ed indicando velatamente questo qualcuno nell’ammiraglio comandante di Marina Sardegna Bruno Brivonesi, che al momento dell’attacco aereo non era presente alla Maddalena (il che, secondo i sostenitori di tali fantasiose teorie, non sarebbe stato un caso). Brivonesi, responsabile della distruzione del convoglio “Duisburg” e sposato con un’inglese – fatto perennemente ripetuto da tali faziosi autori e dallo stesso Mussolini alla stregua di una “prova” che fornisse informazioni agli inglesi – era diventato uno dei capri espiatori preferiti della propaganda saloina prima e neofascista poi contro la Regia Marina tutta. Nel suo libello, per dare maggior drammaticità alle sue insinuazioni, Mussolini, che era stato per breve tempo prigioniero alla Maddalena dopo la sua deposizione da capo del governo, affermò “Si vedevano ancora i relitti delle grandi navi affondate”, il che era una menzogna, in quanto il Gorizia, che non era affondato, aveva lasciato La Maddalena subito dopo l’attacco e ben prima che Mussolini vi arrivasse, mentre il Trieste era affondato completamente, e niente, del suo relitto, appariva visibile sopra la superficie. Voci e storie sul presunto tradimento dell’ammiraglio Brivonesi si diffusero anche tra uomini del Trieste ed abitanti della Maddalena, non potendo questi conoscere i retroscena della vicenda.
A destare “sospetti” fu l’incredibile coincidenza per cui i due incrociatori fossero stati bombardati proprio due giorni prima della pianificata incursione contro il naviglio alleato al largo di Bona: in realtà, la spiegazione era molto più semplice. I comandi Alleati avevano infatti previsto la possibilità che navi italiane, in particolare quelle di base alla Maddalena, localizzate dai ricognitori del Northwest African Photographic Reconnaissance Wing (NAPWR, il servizio di ricognizione fotografica della NASAF), potessero effettuare un’incursione contro i loro convogli in Nordafrica, e per questo avevano pianificato di attaccare la III Divisione alla Maddalena già da un mese, tenendo la base sotto controllo con i propri ricognitori. Il NAPWR aveva lavorato al di fuori degli orari usuali per raddoppiare le fotografie in preparazione dell’incursione, ed era stato ordinato di attaccare alla prima occasione. L’uscita in mare addestrativa di Trieste e Gorizia, svolta il 18 marzo 1943, era stata osservata dalla ricognizione nemica, così i preparativi per il bombardamento della Maddalena erano stati anticipati.


Due foto della ricognizione aerea statunitense, scattate probabilmente l’11 aprile 1943, che mostrano l’enorme scia di carburante che esce dai serbatoi del Trieste affondato:
 


A fine giugno 1943 i sopravvissuti del Trieste vennero inviati a Tolone per armare l’incrociatore leggero FR 11, ex francese Jean De Vienne, recuperato dalla Regia Marina dopo il suo autoaffondamento a Tolone il 27 novembre 1942 (insieme al resto della flotta francese) ed ormai pronto, dopo i primi lavori, al trasferimento. Già all’indomani dell’affondamento del Trieste Supermarina aveva comunicato al comando della distrutta III Divisione ed a quello della Squadra Navale che “Stato Maggiore ed equipaggio Trieste armeranno "Jean de la Vienne" recuperato Tolone ottime condizioni”. L’FR 11 avrebbe dovuto essere trasferito in Liguria per completare le riparazioni, ma la sua partenza venne rimandata finché, l’8 settembre 1943 (quando i lavori erano completati all’85 %), fu annunciato l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati. L’FR 11 venne catturato dalle forze tedesche, e gli uomini che erano stati del Trieste furono catturati: posti dinanzi alla scelta di essere deportati in Germania od aderire alla Repubblica Sociale Italiana, scelsero in maggioranza la prima opzione. Avrebbero passato ancora due anni nei campi di lavoro in Germania, in durissime condizioni, prima di poter tornare alle loro case. Parte di essi finì in una fabbrica tra l’Austria e la Polonia, dove dovettero lavorare 15 ore al giorno ricevendo il cibo appena sufficiente per sopravvivere e poter continuare a lavorare, fino alla liberazione da parte delle truppe americane; altri finirono nel campo di concentramento di Hinzert, dove rimasero sino a quando, nell’inverno del 1944, vennero trasferiti verso est – a seguito della ritirata tedesca – con una marcia della morte nella neve, dove chi non proseguiva veniva ucciso.

Nel dopoguerra lo scafo del Trieste (la nave fu radiata dai quadri del naviglio militare il 18 ottobre 1946 ed il relitto venduto per 350.000.000 di liree alla ditta «Micoperi»), previa rimozione delle torri e delle sovrastrutture (tagliate e lasciate sul fondale, per poi essere recuperate a pezzi) ed asportazione anche delle eliche, venne riportato a galla – dopo vari tentativi pregiudicati inizialmente dalla mancanza di tenuta stagna – dall’impresa di recuperi «Micoperi», per poi essere rimorchiato ancora capovolto a La Spezia, nel 1949. Durante tale opera, nell’agosto 1949, furono ritrovati all’interno dello scafo gli scheletri di alcune delle vittime dell’aprile 1943, che vennero sepolte con gli onori militari. Nel settembre 1949 la nave giunse a La Spezia, con una bandiera issata sopra lo scafo capovolto; il nome “TRIESTE” era stato riscritto, a grandi lettere, sulla carena emergente dall’acqua. A La Spezia il Trieste fu portato in bacino ancora capovolto e quindi raddrizzato: per quest’operazione fu necessario demolire le sovrastrutture, tamponare le falle, rendere nuovamente stagni i compartimenti, poi furono applicati alla carena sette cilindri da venti tonnellate ciascuno, che furono riempiti d’acqua, e fu pompata aria compressa nella parte dritta dello scafo ed acqua in quella sinistra: il Trieste tornò a galleggiare in posizione “eretta” il 7 giugno 1949. A dirigere il raddrizzamento fu il maggiore del Genio Navale Antonio Marceglia, Medaglia d’oro al Valor Militare, uno degli eroi dell’impresa di Alessandria del 19 dicembre 1941 (quando aveva minato e semiaffondato la corazzata britannica Queen Elizabeth). Poi lo scafo fu vuotato da acqua e fango. Si scoprì che il carburante fuoriuscito dai serbatoi squarciati aveva completamente “inondato” la sala macchine e “sommerso” l’apparato motore, preservando quest’ultimo dai danni che l’acqua avrebbe arrecato e tenendolo persino lubrificato, così che avrebbe potuto eventualmente essere riparato ed impiegato di nuovo.
Il relitto del Trieste durante il rimorchio dalla Maddalena alla Spezia nell’agosto 1949 (g.c. STORIA militare)
Il Trieste viene rimorchiato in porto (da “Orizzonte Mare” 4-II, Edizioni Bizzarri, Roma 1975, via Marcello Risolo e www.betasom.it)

Particolare della prua e dei galleggianti (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)
Il relitto del Trieste in bacino a La Spezia nell’agosto 1949 (g.c. STORIA militare)
Il Trieste tornato in assetto (Coll. Erminio Bagnasco via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)

Nel 1950 lo scafo del Trieste, che nonostante le bombe ed i sei anni trascorsi sott’acqua era ancora in condizioni relativamente buone (e con un apparato motore ancora utilizzabile), fu posto in vendita dalla «Micoperi», e l’8 febbraio (od il 28 marzo) 1951, dopo essere stato ispezionato da una commissione della Marina spagnola, venne venduto tramite la Empresa Nacional Elcano de la Marina Mercante alla Spagna, che intendeva ricostruirlo come portaerei leggera.  

Le prime notizie sulla possibile vendita del relitto dell’incrociatore causarono due interrogazioni parlamentari, il 27 aprile e l’8 maggio 1951, da parte del deputato Dino Del Bo, che lamentava che la cessione dell’incrociatore avrebbe privato l’industria italiana, in un momento di cui ve n’era particolare bisogno, di un consistente quantitativo di rottami di acciaio con alto tenore di nichel; rispose il ministro Sforza, che spiegò che gli accordi con il governo spagnolo prevedevano che la Spagna consegnasse all’Italia materie prime ancor più importanti, per l’industria italiana, dell’acciaio del Trieste: il 75 % dei 960.000 dollari pattuiti come prezzo, infatti, avrebbe dovuto essere pagato in rottami metallici e minerali metalliferi (con l’impegno di pagare all’Italia 720.000 dollari qualora la consegna di tali materie prime non avesse avuto luogo). Il 19 maggio 1951 lo scafo dell’incrociatore venne consegnato a La Spezia alle autorità spagnole.

Lo scafo del Trieste lascia a rimorchio Cartagena diretto all’arsenale di El Ferrol il 3 settembre 1951 (g.c. STORIA militare)

Il 7 giugno 1951 lo scafo raddrizzato del Trieste lasciò La Spezia a rimorchio, giungendo il 14 (o 17) giugno a Cartagena, da dove poi fu, dal 2 all’11 settembre 1951, fu trasferito a rimorchio all’arsenale del Ferrol, dove lo scafo fu nuovamente esaminato, e si rilevò che in realtà le sue condizioni erano molto meno buone del previsto, tanto da suggerirne la demolizione invece che la conversione. In luglio era divenuto Ministro della Marina, in luogo dell’ammiraglio Regalado, l’ammiraglio Salvador Moreno, che riesaminò le effettive possibilità di completare il progetto di trasformazione e concluse che ciò non era possibile o conveniente, perciò, a fine agosto, decise di annullare tali piani.
Il costosissimo progetto di trasformazione in portaerei (il costo stimato ammontava a 41.132.181 pesetas) non ebbe così seguito per mancanza di fondi.
Per alcuni anni l’ex Trieste rimase accantonato ad El Ferrol, e nel luglio 1952 si propose di trasformarlo in incrociatore antiaereo armato con pezzi da 120/50 mm oppure di asportarne l’apparato motore da usare per rimotorizzare il vecchio incrociatore leggero spagnolo Navarra e trasformare quest’ultimo in incrociatore antiaereo, ma alla fine si concluse che sarebbe costato meno costruire una nave nuova, e lo scafo che era stato del Trieste finì con l’essere demolito presso l’arsenale del Ferrol, tra il 1956 ed il 1959. Parte del rame ricavato dalla sua demolizione venne impiegato nella costruzione degli apparati motori dei nuovi cacciatorpediniere spagnoli della classe Oquendo; l’unica altra parte della nave che venne recuperata fu un gruppo generatore diesel-dinamo di emergenza.
Nel 1965 (“ventidue anni dopo”, come il titolo dell’articolo che scrisse in proposito), in una melanconica giornata piovosa e ventosa, Dino Buzzati tornò sul punto dell’affondamento insieme all’ex comandante Rouselle ed ad altri reduci del Trieste, un centinaio, per commemorare i caduti della nave sulla quale era stato lungamente imbarcato come corrispondente di guerra: 102 uomini dell’incrociatore erano morti in guerra, ventidue nel suo siluramento del novembre 1941 ed ottanta a seguito del suo affondamento dell’aprile 1943. Buzzati disse di loro che quei reduci “preferirebbero essere ancora in divisa, sottoposti al rischio di essere spediti al Creatore da un momento all'altro; ma avere vent’anni, venticinque anni, le meravigliose speranze dell'età. (…) Li ha presi la tristezza del mare, degli anni, della giovinezza perduta, del sangue buttato via così, in fondo per niente”.

Ancora oggi, nel punto in cui affondò il Trieste, il fondale marino, come un immenso “stampo”, porta in sé impresso il colossale solco scavato dal relitto dell’incrociatore nei sei anni in cui vi giacque capovolto, un’impronta lunga oltre un centinaio di metri e profonda 4-6 metri. Seminascosti nel fango del fondale giacciono svariati rottami ed oggetti appartenuti alla nave, tra i quali accumulatori elettrici, elettropompe, oblò, stoviglie, argenteria, gamelle, cuffie per aerofonisti, scarponi, maschere antigas, parecchie mattonelle della Richard Ginori appartenute al placcaggio di alcuni locali e persino la manichetta del palombaro impegnato nel recupero quel lontano 10 aprile; ma anche, per lunghissimo tempo, proiettili ottimamente conservati ed ancora pericolosi, in massima parte proiettili da 100 mm dei cannoni OTO da 100/47 del Trieste (parecchi ancora provvisti di bossolo), ma anche cariche di lancio dei cannoni da 203/50 mm del calibro principale. Negli anni si sono susseguite numerose segnalazioni e conseguenti interventi di recupero e bonifica; il più consistente è stato effettuato tra il 28 luglio ed il 12 agosto 2011 dal Nucleo Sminamento, Difesa, Antimezzi Insidiosi del Comando Militare Marittimo Autonomo in Sardegna, che ha recuperato 22 proiettili e cariche ed ha poi provveduto al loro brillamento. Negli stessi anni è stato trovato sui fondali della Maddalena anche uno scheletro, per quanto sia difficile stabilire se appartenesse ad una delle vittime del Trieste.
A Palau, il paese che ne vide la fine, una via è stata intitolata alla nave (Via Incrociatore Trieste), mentre l’arsenale della Maddalena ha dedicato al Trieste la Banchina “Incrociatore Trieste”. Un cippo a Palau ricorda i caduti della nave, così come una lapide con i loro nomi nel Cimitero dei Boschetti di La Spezia. Una parte dei caduti del Trieste e del Gorizia è ancora là, sepolta nel Sacrario Militare della Marna della Maddalena. Non tutte le lapidi ne portano i nomi, alcune recano solo la parola “sconosciuto”.
La bandiera del Trieste è oggi conservata al Museo Navale di La Spezia, uno dei suoi cannoni da 203 al Museo De Henriquez di Trieste. L’affondamento dell’incrociatore viene commemorato nei suoi anniversari dalle autorità militari e civili di La Maddalena e Palau, con il lancio di una corona di fiori sul punto dell’affondamento e la lettura della preghiera del marinaio.
Primi anni Trenta (Coll. E. Bagnasco via M. Brescia e www.associazione-venus.it)

La storia di un marinaio del Trieste nel libro “Giarrettiere, balilla e braghe di tela: quanto sei bella Roma”
L’HMS Utmost su Uboat.net
10 aprile 1943 – Il bombardamento di La Maddalena
11 dicembre 1931, la tragedia del Teseo
“La grandiosa rivista navale”