domenica 25 marzo 2018

Giosuè Carducci

Il Giosuè Carducci (g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net)

Cacciatorpediniere della classe Oriani, nota anche come classe Poeti (dislocamento standard 1750 tonnellate, 2130 in carico normale, 2320 a pieno carico).
Durante il secondo conflitto mondiale effettuò 38 missioni di guerra (7 con la squadra navale, 4 di scorta convogli, 7 di addestramento, tre di bombardamento controcosta, 17 di altro tipo), percorrendo in tutto 14.856 miglia nautiche e trascorrendo 829  ore in mare ed un solo giorno ai lavori.

Breve e parziale cronologia.

5 febbraio 1936
Impostazione nei cantieri Odero Terni Orlando di Livorno (numero di costruzione 183).
28 ottobre 1936
Varo nei cantieri Odero Terni Orlando di Livorno.


Due immagini del varo del Carducci (sopra: g.c. Giorgio Parodi; sotto: g.c. Marcello Risolo; entrambe via www.naviearmatori.net)



1° novembre 1937
Entrata in servizio. La sua costruzione è costata 18.500.000 lire dell’epoca.
Suo primo comandante è il capitano di fregata Giuseppe Lubrano, che ne ha curato l’allestimento e che ne manterrà il comando fino al 1939.


Sopra: il Carducci (a sinistra) e l’Alfieri in allestimento a Livorno nel luglio 1937 (Archivio cantiere Azimut-Benetti di Livorno, via www.associazione-venus.it); sotto, l’Alfieri (a sinistra) e probabilmente il Carducci (a destra) in una fase di allestimento ben più avanzata (g.c. STORIA militare)


5 maggio 1938
Il Carducci (capitano di fregata Giuseppe Lbrano di Negozio) partecipa alla rivista navale «H» tenuta nel Golfo di Napoli per la visita in Italia di Adolf Hitler. 
Il Carducci ed il resto della IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti, il tutto al comando del capitano di vascello Elena) fanno parte della 1a Squadra (ammiraglio Arturo Riccardi), insieme alla V Divisione Navale (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour), alla I Divisione Navale (ammiraglio Angelo Iachino, incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia), all’VIII Divisione Navale (ammiraglio Giotto Maraghini, incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale) e VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno). Partecipano alla rivista anche la 1a Squadra (II, III, IV e VIII Divisione Navale, I Squadriglia Esploratori, X Squadriglia Cacciatorpediniere, IX, X, XI e XII Squadriglia Torpediniere) e la Squadra Sommergibili.
25 maggio 1938
Visita Tripoli nel corso di una crociera.

A Venezia nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi via www.associazione-venus.it)

16 giugno 1938
Riceve a La Spezia la bandiera di combattimento, con cerimonia presieduta dal presidente del senato Luigi Federzoni (che nel 1900 si era laureato in lettere proprio con Giosuè Carducci) alla presenza di numerosi membri della Reale Accademia d’Italia.


Due immagini del Carducci a Venezia, il 17 luglio 1938 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)



1939
Prende parte alla crociera della I Squadra Navale (della quale fa parte insieme alle unità gemelle Alfieri, Oriani e Gioberti, colle quali forma la IX Squadriglia Cacciatorpediniere) in Portogallo e Spagna ed a Tangeri.

Il Carducci in transito nel canale navigabile di Taranto, diretto in Mar Piccolo per entrare in bacino, nel 1938-1939 (Coll. Achille Asta, via “Mussolini’s Navy: A Reference Guide to the Regia Marina 1930-1945” di Maurizio Brescia, Naval Institute Press, 2012)

6-7 aprile 1939
Partecipa alle operazioni di occupazione dell’Albania (Operazione "Oltre Mare Tirana", OMT), assegnata al II Gruppo Navale, quello principale, incaricato dello sbarco a Durazzo: oltre al Carducci, lo compongono i gemelli Alfieri, Oriani e Gioberti, gli incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia, le torpediniere Lupo, Lince, Libra e Lira, la nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia – carica di carri armati –, la nave officina Quarnaro, le cisterne militari Tirso ed Adige ed i mercantili requisiti Adriatico, Argentario, Barletta, Palatino, Toscana e Valsavoia.
Il II Gruppo (ammiraglio di divisione Ettore Sportiello; truppe da sbarco al comando del generale Alfredo Guzzoni) deve sbarcare il grosso delle forze, incaricate di conquistare Tirana.
Le navi da guerra giungono a Durazzo già nel pomeriggio del 6 aprile (e la torpediniera Lupo, prima di ricongiungersi alle altre unità, raggiunge il molo per recuperare il personale militare e diplomatico italiano), mentre quelle mercantili ed ausiliarie (ossia le navi con le truppe ed i materiali da sbarcare) solo alle 4.50 del 7, con mezz’ora di ritardo a causa della nebbia incontrata. Alle 5.25 ha inizio lo sbarco, che procede pur con qualche inconveniente (ordini di precedenza non rispettati per il ritardo di alcuni trasporti, impossibilità per alcuni di essi di entrare in porto a causa dell’eccessivo pescaggio).
Le prime truppe a prendere terra sono i distaccamenti da spiaggia e le compagnie da sbarco delle navi da guerra: a dispetto della calma apparente (la città è illuminata), non appena i militari italiani scendono sui moli divengono il bersaglio di violento tiro di fucili e mitragliatrici appostate tra i vicini edifici portuali.
La difesa albanese è comandata dal maggiore Abaz Kupi della gendarmeria e dal suo parigrado Alibali dell’esercito albanese; a contrastare lo sbarco vi sono un battaglione di guardia di frontiera, un battaglione dell’esercito albanese, un plotone di fanteria di Marina, una compagnia del Genio, una batteria da montagna (con due cannoni da 75/13 mm) e numerosi volontari, armati di fucili oltre a tre mitragliatrici Schwarzlose ed appoggiati dalla batteria costiera "Prandaj" (dotata di quattro cannoni Skoda da 75/27 mm, al comando del maggiore Gaqe Jorgo). Quest’ultima apre il fuoco sulle navi italiane, colpendo, secondo alcune fonti, la catapulta dell’idrovolante del Fiume; anche la Lupo viene colpita dal tiro proveniente da terra, senza riportare danni di rilievo ma subendo perdite tra l’equipaggio.
La forza attaccante, al comando del generale Giovanni Messe, consiste in due battaglioni del 3° Reggimento Granatieri di Sardegna, un battaglione del 47° Reggimento Fanteria, cinque battaglioni di bersaglieri (due del 2° Reggimento Bersaglieri, uno del 3°, uno del 7° ed uno dell’11°), due battaglioni di carri leggeri L3/35, una batteria d’artiglieria da 65/17 mm ed una batteria contraerei da 20/65 mm.
Gli scontri a Durazzo sono piuttosto accesi e si protraggono per alcune ore, con perdite da entrambe le parti ed anche combattimenti corpo a corpo; l’intervento delle artiglierie delle navi, ordinato dal capitano di vascello Carlo Daviso di Charvensod, risolve la situazione in favore delle truppe italiane, che conquistano la città entro le nove del mattino (grazie anche allo sbarco dei carri armati ed alle incursioni dei bombardieri IMAM Ro. 37).
Quella vista a Durazzo è stata la più intensa resistenza opposta dalle truppe albanesi allo sbarco italiano. Contrastanti i dati sulle perdite: secondo le fonti italiane dell’epoca, vi sarebbero stati 25 morti e 97 feriti da parte italiana, e 160 morti e diverse centinaia di feriti da parte albanese; da parte albanese alcuni affermano che i caduti italiani siano 400. Probabilmente entrambe le stime sono alterate; quella italiana al ribasso, quella albanese al rialzo.

Carducci, Oriani e Gioberti durante un’esercitazione nel settembre 1939 (da www.marina.difesa.it)

Maggio 1939
Partecipa alla rivista navale tenuta nel Golfo di Napoli in onore del principe reggente Paolo di Jugoslavia.
1939
Il Carducci, con altri cacciatorpediniere, scorta in Libia la nave reale Savoia, che porta Vittorio Emanuele III a visitare la colonia.
1939-1940
Subisce lavori di modifica con cui le quattro mitragliere contraeree binate da 13,2/76 mm vengono sostituite da otto più efficienti Breda singole da 20/65 mm mod. 1939-1940.



Due immagini scattate sul Carducci nel dicembre 1937, durante la navigazione verso le coste africane con mare forza 8. Verso poppa, in lontananza, lo Zara (Fam. Bertoglio-Paolino via www.regiamarina.net)


10 giugno 1940
All’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Giosuè Carducci fa parte della IX Squadriglia Cacciatorpediniere, che forma insieme ai gemelli Vittorio Alfieri (caposquadriglia), Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti. La IX Squadriglia è assegnata alla I Divisione incrociatori (1a Squadra Navale).
12 giugno 1940
Il Carducci, con il resto della IX Squadriglia (Alfieri, Oriani e Gioberti), la XVI Squadriglia (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno ed Antoniotto Usodimare) e la I (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia) e VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), salpa da Taranto alle 00.20 in appoggio alla formazione navale (incrociatore pesante Pola, III Divisione Navale, XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita da Messina per intercettare due incrociatori britannici (il Caledon ed il Calypso) avvistati da dei ricognitori a sud di Creta, diretti verso ovest: gran parte della Mediterranean Fleet, al pari di una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a caccia, infruttuosa, di naviglio italiano. (Per altra fonte la IX Squadriglia salpa poco prima di mezzanotte dell’11 giugno scortando la I Divisione, che deve effettuare un rastrello al largo della costa meridionale della Calabria).
Alle 7.15, mentre la formazione costituita da I Divisione e IX Squadriglia sta navigando verso sud, una sessantina di miglia a sud di Capo Colonne, i cacciatorpediniere della IX Squadriglia avvistano un sommergibile sulla dritta, e le navi accostano di conseguenza a sinistra. Poco più tardi, alle 7.30, i cacciatorpediniere avvistano nuovamente un sommergibile sulla dritta, inducendo una nuova accostata a sinistra.
Alle 9, dato che nuovi voli di ricognizione non sono più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le unità italiane ricevono ordine di tornare in porto, ed entro le 9.20 I Divisione e IX Squadrigli sono sulla rotta di rientro. Durante la navigazione di ritorno nel Mar Ionio si verificano ben tre presunti avvistamenti di sommergibili: il primo viene avvistato alle 10.53 dal Gorizia, che segnala un sommergibile sul lato sinistro, inducendo la formazione ad accostare a dritta di 50° per sottrarsi ad eventuali attacchi; alle 14.32 è l’Alfieri a comunicare della presenza di un sommergibile sulla dritta, mentre l’Oriani riferisce di essere stato mancato di stretta misura da due sommergibili, e procede al contrattacco. Alle 16.35, infine, è di nuovo l’Oriani ad avvistare un sommergibile, attaccandolo con bombe di profondità; alla caccia si unisce anche l’Alfieri. La formazione arriva a Taranto entro le 20.
È possibile che qualcuno dei cinque succitati avvistamenti di sommergibili fosse autentico e dovuto alla presenza in zona del sommergibile britannico Odin, scomparso in Mar Ionio nello stesso periodo; tuttavia, data l’elevata velocità della formazione italiana (25 nodi), è inverosimile che tutti e cinque gli avvistamenti, avvenuti  distanza di ore l’uno dall’altro, fossero riferiti all’Odin. È invece probabile che le vedette delle varie unità, particolarmente eccitate essendo in guerra da appena due giorni, abbiano scambiato increspature generate da altre cause (ad esempio, cetacei) per scie di periscopi e di siluri.
22-24 giugno 1940
La IX Squadriglia Cacciatorpediniere, con Carducci, Alfieri, Oriani e Gioberti, prende il mare insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere X e XII ed alle Divisioni incrociatori I (ZaraFiumeGorizia), II (Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) e III (Trento e Bolzano) nonché all’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia del comandante superiore in mare; è in mare tutta la 2a Squadra Navale, più la I Divisione), per fornire copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo occidentale.
Le forze della 2a Squadra, partite da Messina (Pola e III Divisione), Augusta (I Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21 ed il 22) e Palermo (II Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto dello stesso giorno a nord di Palermo.
L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.
2 luglio 1940
Il Carducci, le tre unità gemelle, la I Divisione (incrociatori pesanti ZaraFiume e Gorizia), la II Divisione (incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) e la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco) forniscono scorta indiretta ai trasporti truppe Esperia e Victoria, di ritorno vuoti da Tripoli (da dove sono partiti alle 13 del 2) a Napoli con la scorta delle torpediniere ProcioneOrsaOrione e Pegaso.
4 luglio 1940
Il convoglio raggiunge Napoli alle 23.
7 luglio 1940
Il Carducci ed il resto della IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani, Gioberti) salpano da Augusta (per altra fonte, Messina) alle 14.10 unitamente all’incrociatore pesante Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Riccardo Paladini, comandante la 2a Squadra), alla I Divisione Incrociatori (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia) ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Lanciere, Corazziere, Carabiniere, Ascari), mentre da Messina e Palermo prendono il mare le Divisioni Incrociatori III (Trento, Bolzano) e VII (Eugenio di Savoia, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Muzio Attendolo, Raimondo Monteucccoli) e le Squadriglie Cacciatorpediniere XI (Aviere, Artigliere, Geniere, Camicia Nera) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), che – insieme alle unità salpate da Augusta – compongono la 2a Squadra Navale.
Loro compito è scortare a distanza un convoglio salpato da Napoli alle 19.45 del 6 e diretto a Bengasi con un carico di 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari e 5720 tonnellate di carburante, oltre a 2190 uomini; lo formano le motonavi da carico Marco FoscariniFrancesco Barbaro (salpata da Catania alle 12 del 7) e Vettor Pisani e le motonavi passeggeri Esperia e Calitea, con la scorta diretta dei due incrociatori leggeri della II Divisione (Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni), dei quattro cacciatorpediniere della X Squadriglia (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), delle quattro torpediniere della IV Squadriglia (Procione, Orsa, Orione, Pegaso) e delle vecchie torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Missori
La IX Squadriglia Cacciatorpediniere, in particolare, è assegnata alla scorta della I Divisione Navale (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia, al comando dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci).
La 1a Squadra Navale (V Divisione con le corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, IV e VIII Divisione con sei incrociatori leggeri, VII, VIII, XV e XVI Squadriglia Cacciatorpediniere con 13 unità) esce anch’essa in mare a sostegno dell’operazione. Comandante superiore in mare è l’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, con bandiera sulla Cesare. Le unità della 1a e della 2a Squadra salpano tra le 12.30 e le 18 del 7 luglio da Augusta (Pola, I e II Divisione), Messina (III Divisione), Palermo (VII Divisione) e Taranto (IV, V e VIII Divisione).
La 2a Squadra si pone 35 miglia ad est del convoglio, tranne la VII Divisione con la XIII Squadriglia, che viene invece posizionata 45 miglia ad ovest.


Il Carducci, all’estrema sinistra, con i gemelli Oriani ed Alfieri e, in secondo piano, il Camicia Nera (da www.forummarine.forumactif.com)

8 luglio 1940
L’operazione va a buon fine (il convoglio raggiunge Bengasi tra le 18 e le 22 dell’8), ed alle 14.30 le navi delle due squadra navali iniziano la navigazione di rientro.
Ma alle 15.20, a seguito dell’avvistamento di una formazione britannica – anche la Mediterranean Fleet, infatti, è in mare a protezione di convogli – la 1a e la 2a Squadra Navale dirigono per intercettare le navi nemiche (che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in combattimento almeno un’ora prima del tramonto. La flotta britannica in mare, al comando dell’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, consiste in tre corazzate (Warspite, Malaya e Royal Sovereign), una portaerei (la Eagle), cinque incrociatori leggeri (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool, Gloucester) e 16 cacciatorpediniere (Nubian, Mohawk, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Stuart, Decoy, Hostile, Hyperion, Ilex, Dainty, Defender, Janus, Juno, Vampire e Voyager).
Alle 19.20, però, in seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a differenza dell’ammiraglio Campioni – comandante superiore in mare – ha avuto modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità dei movimenti britannici) la flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle basi, con l’ordine di non impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. Le bombe cadono vicine agli incrociatori, ma non causano danni.
9 luglio 1940
La navigazione notturna di rientro si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione; la 2a Squadra (eccetto la VII Divisione, che è ancora separata da essa) accosta verso nord all’1.23.
Già dalle 22 dell’8, però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio. Alle 6.40 del 9 luglio la III Divisione si ricongiunge con Pola e I Divisione, alle 8 viene avvistato un idroricognitore Short Sunderland che pedina la flotta italiana (la caccia italiana, chiamata ad intervenire, non verrà però inviata ad attaccarlo).
Verso le 13, dopo una mattinata di infruttuosi voli di ricognizione, un velivolo italiano avvista la Mediterranean Fleet 80 miglia a nordest della V Divisione, ossia molto più a nord di quanto previsto, ed in posizione adatta ad interporsi tra la flotta italiana e la base di Taranto: l’ammiraglio Campioni inverte allora la rotta, ed ordina a Paladini, che si trova più a sud e sta dirigendo per ovest-sud-ovest, di fare altrettanto, accostando ad un tempo per riunire più rapidamente le due Squadre.

Nella tarda mattinata del 9, dato che tre cacciatorpediniere (due dei quali della VII Squadriglia, che è stata così dimezzata) sono dovuti rientrare per avarie e che alcune squadriglie inviate a rifornirsi (VIII e XV) non sono ancora tornate, la IX Squadriglia, facente parte della II Squadra, viene distaccata ed assegnata alla VIII Divisione.

Verso le 13 la 1a e 2a Squadra, ormai riunite, si dispongono su quattro colonne, distanziate di cinque miglia l’una dall’altra: la IX Squadriglia Cacciatorpediniere, insieme alla XIV Squadriglia (giunta da Taranto nel primo pomeriggio del 9) ed alla IV e VIII Divisione incrociatori, va a formare la colonna sinistra dello schieramento italiano (ossia la quarta ed ultima da ovest), posta ad est della V Divisione costituita dalle corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour (le altre colonne, da ovest verso est, sono formate nell’ordine da: VII Divisione; Pola, I e III Divisione; V Divisione; IV e VIII Divisione).
Tra le 13.15 e le 13.26, 45 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento, il gruppo «Pola» (di cui la IX Squadriglia fa parte), mentre si trova a poppa dritta della Cesare e con rotta 183° – è in corso la manovra per assumere la propria posizione nella formazione ordinata da Campioni –, viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey Swordfish.
Gli aerei britannici, decollati dalla Eagle alle 11.45 con l’obiettivo di attaccare le corazzate italiane, che però non hanno trovato, provegono da ovest (cioè da sinistra); si avvicinano con decisione da poppavia agli incrociatori (approfittando del fatto che i cacciatorpediniere sono invece a proravia degli stessi), scendono in picchiata fino a 20-30 metri e sganciano i loro siluri da circa mille metri di distanza. Gli incrociatori si diradano, compiono rapide manovre evasive ed aprono subito un violento fuoco contraereo, evitando tutti i siluri (due diretti contro il Bolzano, altrettanti contro il Trento ed uno contro lo Zara). Gli aerei si allontanano, tre di essi danneggiati dal tiro delle navi italiane.
Alle 14.05 ha inizio l’avvicinamento alla flotta britannica: alle 15.15 gli incrociatori aprirono il fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate. La VIII Divisione, appena avvistato il nemico, accosta per 70° ed incrementa rapidamente la velocità a 30 nodi, per poi aprire il fuoco alle 15.20 (da 20.000 metri, con rotta 10°, contro la 7th Cruiser Division britannica). Già dalle 15.16 (15.26 per una fonte britannica), però, la IX Squadriglia è divenuta il bersaglio del tiro dell’incrociatore leggero britannico Orion: alle 15.08 gli incrociatori britannici della 7th Division, subito dopo aver avvistato la IX Squadriglia, mettono la prua verso di essa, riducono le distanze sino a 18.000 metri e poi accostano a dritta per poter puntare il maggior numero possibile di cannoni contro la VIII Divisione e la IX Squadriglia. Gli incrociatori britannici aprono poi il fuoco con i loro pezzi da 152, mentre i cacciatorpediniere della IX Squadriglia (che comunicano l’avvistamento alle 15.16) non possono rispondere al fuoco con i loro cannoni da 120, non essendo la distanza abbastanza ridotta per la loro gittata. Alle 15.19 vengono avvistate dall’Alfieri fumo e sagome di altre navi maggiori non identificabili. Essendo vincolata dai suoi compiti informativi, e comunque appoggiata dalla VIII Divisione, la IX Squadriglia non contromanovra per allontanarsi fino a quando, calata la distanza a 16.000 metri, non viene ricevuto l’ordine del comandante della VIII Divisione di raggiungere il posto assegnato nel dispositivo di combattimento. La IX Squadriglia accosta perciò in fuori e si posiziona come da ordini.
Incrociatori e corazzate cessano poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per poi riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15 (incrociatori). In questo frangente, dalle 15.23, la IV e la VIII Divisione vengono inquadrate da dieci salve da 381 mm sparate dalle corazzate britanniche Warspite e Malaya, che cadono molto vicine, costringendo alle 15.33 le due divisioni a portarsi fuori tiro accostando a sinistra (la VIII passa, con questa manovra, tra la 1a e la 2a Squadra, per poi assumere rotta verso nord). Durante questa fase, in cui gli opposti schieramenti si scambiano cannonate da grande distanza senza costrutto, la IX Squadriglia non ha parte rilevante. Alle 15.59, però, la Cesare, la nave ammiraglia della 1a Squadra, viene danneggiata da un proiettile da 381 mm, dovendo ridurre la velocità. A seguito di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in mare delle forze italiane, decide di rompere il contatto per rientrare alle basi, ed alle 16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie di cacciatorpediniere di attaccare con il siluro le navi della Mediterranean Fleet, in modo da facilitare lo sganciamento delle navi maggiori.
Già alle 15.45, prima ancora di ricevere l’ordine, la IX Squadriglia si trova un miglio a nord-nord-est dell’incrociatore pesante Bolzano (la nave in testa alla formazione navale), con rotta nord, intenta a manovrare con rotta dapprima 40° e poi 60° per ridurre le distanze con il nemico a sufficienza per lanciare. Alle 16 la IX Squadriglia viene presa sotto il tiro degli incrociatori britannici, aprendo a sua volta il fuoco alle 16.01 ma cessandolo già alle 16.05. Proprio alle 16.05 viene ricevuto l’ordine di attacco, ed un minuto dopo le unità della IX Squadriglia lanciano cinque siluri da una distanza di 13.500 metri (sono i primi cacciatorpediniere dello schieramento italiano a lanciare i siluri), con beta 32°, verso gli incrociatori britannici di testa, per poi ripiegare verso ovest-nord-ovest coprendo la propria ritirata con cortine nebbiogene. Alle 16.16 le navi britanniche cessano di sparare contro la IX Squadriglia, che si ricongiunge poi con la VIII Divisione.
Nessuno dei siluri lanciati va a segno; sono probabilmente proprio dei siluri della IX Squadriglia le scie che, alle 16.10, vengono viste passare nella formazione della 14th Destroyer Flotilla britannica, in procinto di contrattaccare. Tra le 16.19 e le 16.30 tre squadriglie di cacciatorpediniere britannici (2th, 10th e 14th Flotilla) aprono il fuoco contro quelli italiani da 11.250-12.500 metri, appoggiati tra le 16.39 e le 16.41 dal tiro dei pezzi secondari da 152 mm delle corazzate Warspite e Malaya. Alle 16.49 la “mischia” tra cacciatorpediniere, svoltasi a grande distanza, ha termine senza che nessuna unità sia stata colpita.
Terminata la battaglia, la flotta italiana si avvia alle proprie basi con direttrice di marcia 230°, passando a sud della Calabria; ma durante il rientro, tra le 16.20 e le 19.30, diviene oggetto anche dell'attacco da parte degli stessi bombardieri della Regia Aeronautica (una cinquantina, su circa 126 inviati in totale ad attaccare le forze britanniche), che le attaccano e bombardano pesantemente per errore di identificazione e malintesi (tra il comando delle due Squadre Navali e quello della II Squadra Aerea, cui appartengono i bombardieri) circa la posizione della flotta italiana e di quella britannica. Le insensate disposizioni vigenti in materia di comunicazioni tra Marina ed Aeronautica, che non contemplano la possibilità di comunicazioni dirette tra navi e aerei, impediranno alle prime di segnalare ai secondi l'errore; le stesse navi, non potendo distinguere la nazionalità degli aerei attaccanti, apriranno un intenso fuoco con proprie armi contraeree, rafforzando nei piloti l'impressione di stare attaccando navi nemiche. Alcune delle navi ed alcuni degli aerei, rispettivamente, cesseranno il fuoco e rinunceranno all'attacco riconoscendo all'ultimo momento la vera nazionalità del "nemico", ma alla fine gli attacchi ai danni delle navi italiane eguaglieranno, in intensità, quelli condotti contemporaneamente contro la vera Mediterranean Fleet. Nessuna nave italiana sarà, fortunatamente, colpita, mentre un bombardiere Savoia Marchetti S. 79 della 257a Squadriglia (XXXVI Stormo da Bombardamento Terrestre) finirà abbattuto dal "fuoco amico" delle navi. L’ammiraglio Campioni, per tentare di chiarire equivoco, ordina di stendere bandiere italiane sul cielo delle torri e di emettere fumo rosso dai fumaioli poppieri, pratica convenzionale, nelle esercitazioni in tempo di pace, per segnalare il gruppo “amico”.
L'incidente sarà poi fonte di aspre polemiche tra Marina e Aeronautica, ma per lo meno servirà a dare l'impulso ad un migliore sviluppo della collaborazione aeronavale, che però raggiungerà risultati soddisfacenti solo nel 1942.
L’aliquota più consistente delle unità italiane, compreso il Carducci, dirige su Augusta: nel pomeriggio del 9 luglio la corazzata Conte di Cavour, gli incrociatori pesanti PolaZaraFiume e Gorizia, gli incrociatori leggeri Alberico Da BarbianoAlberto Di GiussanoLuigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi ed i 36 cacciatorpediniere delle Squadriglie VII, VIII, IX, XI, XIV, XV e XVI fanno il loro ingresso nella base siciliana. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che fanno presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di assegnazione (Napoli e Taranto). La IX Squadriglia, insieme alla Cavour con i quattro incrociatori pesanti ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII e VIII partono per prime, alle 00.55 del 10 luglio, alla volta di Napoli.


Il Carducci in bacino di carenaggio insieme al sommergibile Serpente (g.c. STORIA militare)

30 luglio-1° agosto 1940
Il Carducci prende il mare, insieme al resto della IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani e Gioberti), alla XII Squadriglia (Ascari, Lanciere, Corazziere e Carabiniere) ed alla I Divisione (incrociatori pesanti ZaraFiume e Gorizia), nonché alla IV Divisione (incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano con i cacciatorpediniere Antonio PigafettaLanzerotto Malocello e Nicolò Zeno della XV Squadriglia), alla VII Divisione (incrociatori leggeri Eugenio di SavoiaLuigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Muzio AttendoloRaimondo Montecuccoli con i cacciatorpediniere GranatiereBersagliereFuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia) ed agli incrociatori pesanti Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio Paladini, comandante superiore in mare) e Trento, per fornire protezione a distanza ai convogli diretti in Libia nell’ambito dell’operazione «Trasporto Veloce Lento».
Tali convogli sono tre: il n. 1 (lento, partito da Napoli alle 8.30 del 27 a 7,5 nodi di velocità) è formato dalle navi da carico Maria EugeniaGloria Stella, MaulyBainsizzaBarbaro e Col di Lana e dall’incrociatore ausiliario Città di Bari (qui usato come trasporto) scortati dalle torpediniere ProcioneOrsaOrione e Pegaso (poi rinforzate dai cacciatorpediniere MaestraleGrecaleLibeccio e Scirocco); il n. 2 (veloce, partito da Napoli alle 00.30 del 29 alla velocità di 16 nodi) è composto dai trasporti truppe Marco PoloCittà di Napoli e Città di Palermo, scortati fino alla Sicilia dalle torpediniere Circe, Calipso, Calliope e Clio e poi dalle torpediniere AlcioneAretusaAirone ed Ariel; il n. 3 (partito da Trapani) è composto dai piroscafi Bosforo e Caffaro, scortati dalle torpediniere VegaPerseoGenerale Antonino Cascino e Generale Achille Papa.
Sempre a protezione dei convogli, viene potenziato lo schieramento di sommergibili nel Mediterraneo orientale ed occidentale, portandolo in tutto a 23 battelli, e vengono disposte numerose ricognizioni aeree speciali con mezzi della ricognizione marittima e dell’Armata Aerea (Armera).
A seguito della notizia dell’uscita in mare sia del grosso della Mediterranean Fleet da Alessandria, che da gran parte della Forza H da Gibilterra (incrociatore da battaglia Hood, corazzate Valiant e Resolution, portaerei Argus ed Ark Royal), che si presume essere dirette verso il Mediterraneo centrale, i convogli n. 1 e 2 vengono dirottati l’uno a Catania e l’altro a Messina, dove giungono rispettivamente la sera del 28 ed alle 13.30 del 29.
Il 30 luglio i due convogli, più il n. 3 che salpa solo ora, prendono nuovamente il mare per la Libia, e salpa anche la forza navale di copertura che comprende il Carducci (per altra versione, però, la IX Squadriglia non avrebbe fatto parte di questa formazione, mentre ci sarebbe stata invece la sola XII Squadriglia). La I e VII Divisione, insieme a Pola e Trento ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere, si portano in posizione idonea a proteggere il convoglio n. 2, diretto a Bengasi (gli altri sono diretti a Tripoli) dalle provenienze da levante. La sera del 31 luglio, quando ormai non vi sono più pericoli, la formazione degli incrociatori inverte la rotta e rientra le basi.
Tutti i convogli raggiungono senza danni le loro destinazioni tra il 31 luglio ed il 1° agosto.
31 agosto-2 settembre 1940
La IX Squadriglia parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione (corazzate Littorio, nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione (corazzate DuilioConte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia), al Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio Angelo Iachino, comandante della 2a Squadra), all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (FrecciaDardoSaettaStrale), VIII (FolgoreFulmineLampoBaleno), X (MaestraleGrecaleLibeccioScirocco), XIII (GranatiereBersagliereFuciliereAlpino), XV (Alvise Da MostoGiovanni Da VerrazzanoAntonio PigafettaNicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da ReccoEmanuele PessagnoAntoniotto Usodimare). Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III (TrentoTrieste e Bolzano, da Messina), VII (Eugenio di Savoia, Raimondo MontecuccoliMuzio AttendoloEmanuele Filiberto Duca d’Aosta, da Brindisi) e VIII Divisione e 39 cacciatorpediniere (oltre a quelli già menzionati, anche AviereArtigliereGeniere e Camicia Nera della XI Squadriglia, e LanciereCarabiniereAscari e Corazziere della XII Squadriglia). Obiettivo, contrastare l’operazione britannica «Hats» (consistente in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad Alessandria, per rinforzare la Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant, della portaerei Illustrious e degli incrociatori Calcutta e Coventry; invio di un convoglio da Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said; bombardamenti su basi italiane in Sardegna e nell’Egeo): Supermarina ha infatti saputo che sia la Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e sommergibili.
Le due Squadre Navali italiane (la 1a Squadra, al comando dell’ammiraglio Inigo Campioni – con insegna sulla Littorio –, è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a Squadra dal Pola, dalle Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII), riunite, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono però uscite in mare troppo tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro notturno ed hanno una velocità troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di cambiare rotta e raggiungere il centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in contatto con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16 Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla 2a Squadra, che si trova in posizione più avanzata della 1a, di proseguire verso le forze nemiche (l’ammiraglio Iachino, comandante la 2a Squadra, ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120 miglia di distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene annullata;  comunque la 2a Squadra non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie). Alle 17.27 la 2a Squadra riceve l’ordine d’invertire la rotta ed assumere rotta 335° e velocità 20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle 22.30 del 31 la formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante, dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da nordovest forza 9; le forze italiane si allontanano nuovamente dal Golfo di Taranto per cercare di nuovo quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con l’ordine di non oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la burrasca costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in formazione né usare l’armamento). Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare.
Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova occasione.


Un’altra foto del Carducci (da gradara.bcc.it)

1° settembre 1940
A seguito della riorganizzazione delle due Squadre Navali, la IX Squadriglia (Carducci, Alfieri, Oriani, Gioberti) rimane dislocata a Taranto, assegnata alla I Divisione Navale.
7-9 settembre 1940
La flotta italiana (5 corazzate, 6 incrociatori e 19 cacciatorpediniere) lascia Taranto alle 16 del 7 diretta a sud della Sardegna, per intercettare la Forza H britannica che si presume diretta verso Malta. La ricognizione aerea, tuttavia, non avvista nessuna nave nemica (la Forza H, infatti, aveva lasciato Gibilterra per un’operazione da svolgersi non nel Mediterraneo ma nell’Atlantico), dunque alle 16 dell’8 settembre la formazione italiana, arrivata a sud della Sardegna, inverte la rotta e raggiunge le basi del Tirreno meridionale, da dove il 10 tornerà nelle basi di dislocazione normale (Taranto e Messina).
29 settembre-2 ottobre 1940
Alle 18.05 del 29 settembre escono in mare da Taranto il Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio Iachino, comandante la 2a Squadra), la I Divisione con ZaraFiume e Gorizia e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (CarducciAlfieriOrianiGioberti) più l’Ascari della XII Squadriglia, seguiti alle 19.30 dalle Divisioni V (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour), VI (corazzata Duilio), VII (incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, da Brindisi), VIII (incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi e Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi) e IX (corazzate Littorio – nave di bandiera dell’ammiraglio Campioni, comandante la 1a Squadra – e Vittorio Veneto) e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (DardoSaettaStrale), X (MaestraleGrecaleLibeccioScirocco), XIII (GranatiereBersagliereAlpino), XV (Da MostoDa Verrazzano) e XVI (PessagnoUsodimare), per contrastare un’operazione britannica in corso, la «MB. 5», consistente nell’invio a Malta degli incrociatori Liverpool e Gloucester con 1200 uomini e rifornimenti e nel contemporaneo invio da Porto Said al Pireo del convoglio «AN. 4», il tutto con l’uscita in mare delle corazzate Valiant e Warspite, della portaerei Illustrious, degli incrociatori YorkOrion e Sydney e di undici cacciatorpediniere a copertura dell’operazione. Al contempo da Messina prende il mare la III Divisione (TrentoTriesteBolzano) assieme ai quattro cacciatorpediniere della XI Squadriglia (AviereArtigliereGeniere e Camicia Nera). La formazione uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18 nodi, riunendosi con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre, mentre si accorge di essere tallonata da ricognitori britannici. In mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.
6 ottobre 1940
Il Carducci salpa da Taranto in mattinata insieme al resto della IX Squadriglia, al Pola (nave di bandiera della 2a Squadra Navale) ed alla I Divisione (Zara, Fiume e Gorizia), in appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero delle due veloci e moderne motonavi Calitea e Sebastiano Venier, cariche di rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e scortate dalla XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari, Lanciere, Corazziere e Carabiniere). L’operazione (il convoglio è partito la sera del 5, ed il 6 mattino, oltre al gruppo cui appartiene il Carducci, sono salpate da Messina anche la III Divisione con Trento, Trieste e Bolzano e la XI Squadriglia Cacciatorpediniere con AviereArtigliereGeniere e Camicia Nera) viene però interrotta il mattino stesso del 6 ottobre, dopo che la ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate, due incrociatori e sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta Alessandria-Caso, ossia dove dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso. Tutte le unità italiane vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà più.
26 ottobre 1940
Il capitano di fregata Alberto Manlio Ginocchio, che tre mesi prima ha fatto richiesta di comando di un cacciatorpediniere (subito dopo essere guarito da un’intossicazione subita mentre prestava servizio su sommergibili), riceve il comando del Carducci: sarà l’ultimo comandante di questa nave.
29 ottobre 1940
Il capitano di fregata Ginocchio sale a bordo del Carducci, alla fonda a Taranto, per il passaggio di consegne con il comandante “uscente”.
11-12 novembre 1940
Carducci, Alfieri, Oriani e Gioberti sono presenti a Taranto durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (“notte di Taranto”). I quattro cacciatorpediniere sono ormeggiati a nordovest del centro del Mar Grande, ad est del recinto retale che racchiude le navi della I Divisione – Zara, Fiume, Gorizia – ed a sud del porto commerciale; il Carducci è il più a nord dei quattro, con Alfieri ormeggiato a sudest, Oriani a sudovest e Gioberti più a sud di tutti. Le unità della IX Squadriglia non subiscono danni nell’attacco.
Tra le 14.30 e le 16.45 del 12 novembre la IX Squadriglia, insieme alla XI Squadriglia, al Pola ed alla I Divisione, lascia Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere Napoli.
16 novembre 1940
La IX Squadriglia Cacciatorpediniere (CarducciAlfieriOrianiGioberti) salpa da Napoli alle 10.30 del 16, insieme alle corazzate Vittorio Veneto (nave ammiraglia dell’ammiraglio Campioni, comandante della 1a Squadra) e Cesare, al Pola (nave comando della 2a Squadra, ammiraglio Iachino), alla I Divisione con Fiume e Gorizia ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Bersagliere,GranatiereFuciliereAlpino), per intercettare una formazione britannica partita da Gibilterra e diretta verso est, che è stata segnalata nel Mediterraneo occidentale. Si tratta della Forza H dell’ammiraglio James Somerville (incrociatore da battaglia Renown, portaerei Argus e Ark Royal, incrociatori leggeri SheffieldDespatch e Newcastle, otto cacciatorpediniere) uscita da Gibilterra per l’operazione «White», che prevede l’invio a Malta di 14 aerei decollati dall’Argus per rinforzarne le scarse difese, nonché un’azione di bombardamento di Alghero (velivoli dell’Ark Royal) ed il trasporto a Malta di uomini e materiali della RAF sul Newcastle.
Contemporaneamente alla partenza da Napoli del grosso della flotta, escono in mare da Messina anche la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (LanciereCarabiniereAscariCorazziere), mentre da Palermo salpa la XIV Squadriglia Cacciatorpediniere (VivaldiDa NoliTarigoMalocello).
Le navi uscite da Napoli, prive di dati precisi sul nemico, dirigono verso sud nel Basso Tirreno; nel pomeriggio del 16 si uniscono al grosso la III Divisione e la XII e XIV Squadriglia. La forza così riunita sotto il comando dell’ammiraglio Campioni assume quindi rotta verso est verso l’8° meridiano, a sudovest della Sardegna, procedendo a 18 nodi, ridotti a 14 nella notte del 17 per agevolare la navigazione dei cacciatorpediniere, resa difficoltosa da un vento da sudovest.
Per tutta la giornata del 16 non si ricevono informazioni sulle forze nemiche.
17 novembre 1940
Alle 10.15 le forze britanniche vengono avvistate da ricognitori, che però non precisano né la rotta né la velocità. Campioni dirige verso sud, in direzione di Bona, sperando di riuscire ad intercettare le unità britanniche nel pomeriggio, se esse proseguono verso est.
Raggiunto alle 16.30 un punto prestabilito 45 miglia a nord-nord-est di Ustica, la formazione italiana dirige poi verso ovest ed alle 17.30 arriva 35 miglia a sudovest di Sant’Antioco. Dopo aver navigato per un po’ in direzione dell’Algeria, nella totale mancanza su dove sia il nemico e dove esso sia diretto, la squadra italiana riceve l’ordine rientrare. Campioni rileverà che le condizioni del mare – onde molto lunghe da sudovest – hanno causato forte rollio e beccheggio in tutte le sue navi, corazzate comprese, tanto da impedire l’uso dei cannoni se dirette verso sud. Durante il ritorno le navi italiane eseguono esercitazioni di tiro contro la scogliera La Botte, a sud di Ponza; raggiungono le rispettive basi tra il 17 ed il 18 novembre.
Sebbene non vi sia stato contatto tra le opposte formazioni navali, l’uscita in mare delle forze italiane ha indirettamente causato il fallimento dell’operazione «White»: a seguito dell’avvistamento della squadra italiana da parte dei ricognitori di Malta, infatti, Somerville ha fatto lanciare gli aerei dall’Argus tenendo la portaerei quanto più ad ovest possibile, cioè più lontana da Malta di quanto inizialmente pianificato, prolungando di molto la distanza sulla quale gli aerei dovranno volare. Il risultato sarà che su quattordici aerei decollati dall’Argus (dodici Hawker Hurricane e due Blackburn Skua) solo cinque (quattro Hurricane ed uno Skua) giungeranno a Malta: gli altri esauriranno il carburante e precipiteranno in mare a seguito di errori di navigazione e stime sbagliate sugli effetti del vento, tranne uno che dovrà effettuare un atterraggio d’emergenza presso Siracusa, venendo catturato.
26 novembre 1940
Tra le 11.50 e le 12.30 del 26 il Carducci lascia Napoli unitamente alle altre unità della IX Squadriglia (Alfieri, Oriani e Gioberti), di cui è caposquadriglia, di scorta alla I Divisione (Fiume e Gorizia) ed al Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino). Salpano al contempo da Napoli anche le corazzate Vittorio Veneto (nave di bandiera dell’ammiraglio Inigo Campioni) e Giulio Cesare e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Saetta e Dardo) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), che formano la 1a Squadra. La formazione italiana (vi sono anche la III Divisione e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere, partite da Messina, che insieme alla I Divisione, IX Squadriglia e Pola formano la 2a Squadra) si riunisce 70 miglia a sud di Capri alle 18.00 del 26 novembre, assumendo poi rotta 260° e velocità 16 nodi, per intercettare un convoglio britannico diretto a Malta nell’ambito dell’operazione britannica «Collar». Il convoglio, entrato in Mediterraneo il 24 novembre, è composto dai mercantili New Zealand Star, Clan Forbes e Clan Fraser, con la scorta diretta dell’incrociatore leggero Despatch, l’incrociatore antiaerei Coventry, i cacciatorpediniere Duncan, Wishart ed Hotspur e le corvette Hyacinth, Peony, Salvia e Gloxinia. La Forza F di protezione ravvicinata (ammiraglio Lancelot Holland) comprende l’incrociatore pesante Berwick e gli incrociatori leggeri Manchester, Newcastle, Sheffield e Southampton, mentre come forza di copertura a distanza è uscita da Gibilterra la Forza H (ammiraglio James Somerville) con la corazzata Ramillies, l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark Royal e undici cacciatorpediniere (Kelvin, Jaguar, Encounter, Faulknor, Firedrake, Fury, Forester, Gallant, Greyhound, Griffin e Hereward).


Una mitragliera contraerea del Carducci ed i suoi serventi (Fam. Bertoglio-Paolino, via www.regiamarina.net)

27 novembre 1940
Tra le 8.30 e le 9.10 la 1a  Squadra, rimanendo indietro rispetto agli incrociatori (che formano la 2a Squadra), a poppavia dei quali sta procedendo, accelera a 17 e poi a 18 nodi per ridurre la distanza. Alle 9.50 le corazzate avvistano un ricognitore britannico Bristol Blenheim, contro cui aprono il fuoco alle 10.05 (il velivolo si allontana).
La formazione italiana ha rotta 260°, verso la Sardegna, ed il mattino del 27 incrocia nove miglia a sud di Capo Spartivento Sardo, per intercettare uno dei due gruppi britannici in mare (uno partito da Alessandria ed uno da Gibilterra) prima che possano riunirsi: quello proveniente da Alessandria viene avvistato alle 9.45 da un idroricognitore lanciato dal Bolzano alle 7.55, che comunica che una corazzata, due incrociatori e quattro cacciatorpediniere si trovano a 26 miglia per 20° da Cap de Fer, con rotta 90° e velocità 16 nodi. Il messaggio del ricognitore viene ricevuto alle 10.05 dall’ammiraglio Iachino e dieci minuti dopo dall’ammiraglio Campioni. Poco dopo il velivolo aggiunge che si mantiene in contatto visivo con le navi nemiche; continuerà a tenere il contatto fino alle 10.40.
Sebbene la posizione indicata sia piuttosto lontana dal vero (troppo ad ovest), questo avvistamento è il primo concreto segnale, per il comandante superiore in mare, della presenza delle forze nemiche.
Alle 11 la formazione inverte la rotta ed aumenta la velocità da 16 a 18 nodi, ed alle 11.28 assume rotta 135°, per intercettare la formazione britannica – che (dalle segnalazioni dei ricognitori, in particolare quello del Bolzano) risulta avere posizione differente da quella prevista – e tagliarle la rotta. Alle 11.35 la 2a Squadra riceve dall’ammiraglio Campioni di portarsi su rilevamento 195° rispetto alla sua nave ammiraglia (la Vittorio Veneto), in modo che la formazione divenga perpendicolare alla probabile direzione d’avvicinamento della squadra britannica. Proposito di Campioni è di ingaggiare il Renown, che ritiene accompagnato solo da due incrociatori ed alcuni cacciatorpediniere, prima che possa ricongiungersi con l’altro gruppo navale, che diverrebbe così più potente del suo.
Alle 12.07, tuttavia, in seguito alla constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana (i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità, dato che al momento vi sono solo due corazzate operative e non ci si può permettere di subire altre perdite dopo la notte di Taranto) l’ammiraglio Inigo Campioni, al comando della flotta italiana, ordina di assumere rotta 90° per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e di aumentare la velocità. Alle 12.15 vengono però avvistati quattro cacciatorpediniere britannici, diretti verso gli incrociatori italiani: le siluranti nemiche spariscono subito, avendo apparentemente invertito la rotta, ma alle 12.16 la IX Squadriglia, che si trova circa 3 km a sud degli incrociatori della 2a Squadra, segnala alla Vittorio Veneto (dove il messaggio viene ricevuto alle 12.27) di aver avvistato una corazzata e tre incrociatori britannici su rilevamento 180° (verso sud). Si tratta della squadra britannica, che comprende la corazzata Ramillies, l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark Royal e gli incrociatori Berwick (pesante), SheffieldSouthamptonNewcastle e Manchester (leggeri), oltre a numerosi cacciatorpediniere. L’ammiraglio Campioni ordina pertanto di incrementare ancora la velocità (che è di 25 nodi per la 1a Squadra e di 28 per la 2a Squadra, che deve riunirsi alla 1a essendo più indietro): ha inizio la battaglia di Capo Teulada.
Alle 12.20, prima che l’ammiraglio Campioni possa ordinare di non impegnarsi, gli incrociatori della I Divisione aprono il fuoco da una distanza di 21.500-22.000 metri, seguiti in successione dal Pola e da quelli della III Divisione. Gli incrociatori della 2a Squadra, in linea di fila, sono in posizione favorevole (da “taglio del T”) per sparare con tutte le artiglierie su quelli britannici, che si trovano invece in linea di fronte e possono usare solo le torri prodiere, ma per via dell’ordine di Campioni di disimpegnarsi devono accostare verso nordest. Durante lo scontro, le navi italiane continuano a ritirarsi verso nordest, sparando quasi esclusivamente con le torri poppiere, mentre quelle britanniche le inseguono tirando quasi solamente con le torri prodiere (la distanza media del combattimento è 22.500 metri, che per la III Divisione – segnatamente il Trento – scende ad un minimo di 18.000 metri). Il tiro degli incrociatori italiani è intenso dall’apertura del fuoco fino alle 12.42, poi diventa intermittente tra le 12.42 e le 12.49 a causa di ripetute accostate necessarie a disturbare l’attacco di aerosiluranti britannici frattanto apparsi (e che poi attaccheranno le corazzate), poi nuovamente intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi, a causa dell’aumento delle distanze e del fumo (causato soprattutto dalla combustione forzata delle caldaie, in particolare sulle navi della III Divisione), il ritmo di tiro deve di nuovo calare, fino a cessare alle 13.15, quando la distanza è diventata di 26.000 metri.

Due salve da 203 mm degli incrociatori italiani colpiscono, alle 12.22 ed alle 12.35, l’incrociatore pesante britannico Berwick: la prima uccide sette uomini, ne ferisce nove e mette fuori uso la terza torre da 203 dell’unità britannica, la seconda danneggia il quadrato ufficiali e locali adiacenti, ma il Berwick continua a fare fuoco. Nello schieramento italiano, tra le 12.33 e le 12.40 tre colpi sparati da un incrociatore britannico colpiscono il cacciatorpediniere Lanciere, che rimane immobilizzato e verrà successivamente preso a rimorchio dal gemello Ascari.
Fino alle 12.40 le navi britanniche (soprattutto gli incrociatori) sparano intensamente contro la III Divisione, poi spostano il tiro sulla I Divisione, che è divenuta più vicina (ma il loro tiro è disturbato dal fumo prodotto dalle navi italiane). Le corazzate britanniche intervengono solo sporadicamente, trovandosi più indietro rispetto agli incrociatori, senza comunque colpire nulla.
Nel frattempo anche la 1a Squadra si è riavvicinata alla 2a Squadra, ed alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da poco meno di 29.000 metri, ma le unità britanniche subito accostano a dritta e la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare il fuoco già alle 13.10. Alle 13.05, su richiesta del Fiume (nave di bandiera dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci, comandante la I Divisione), le unità della IX Squadriglia stendono una cortina nebbiogena, disturbando il tiro degli incrociatori britannici contro quelli italiani. Alle 13.15, essendo la distanza (della 2a Squadra dalle forze britanniche) salita a 26.000 metri, il tiro viene cessato anche dagli incrociatori, viene rotto il contatto. Ha così fine l’inconclusiva battaglia di Capo Teulada. Alle 15.20 le unità della 2a Squadra vengono attaccate da nove aerosiluranti decollati dalla portaerei Ark Royal: l’attacco si protrae per dieci minuti, ma nessun siluro (lanciati tutti contro Pola, Fiume e Gorizia) va a segno. Alle 21 del 27 novembre le navi italiane assumono rotta nord a 15 nodi.
28 novembre 1940
Alle 00.30 la flotta italiana dirige verso est fino alle 7.30 del 28, dopo di che segue le rotte costiere, arrivando a Napoli tra le 13.25 e le 14.40 del 28. La IX Squadriglia lascia Napoli alle 20.35 del 28 stesso per scortare a Messina la III Divisione, che ha “perso” la propria Squadriglia Cacciatorpediniere – la XII – a seguito del danneggiamento in battaglia del caposquadriglia Lanciere, poi dirottato su Cagliari insieme al gemello Ascari.
15 dicembre 1940
Intorno alle 17 la IX Squadriglia, le Squadriglie Cacciatorpediniere VII e XIII, le corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto e gli incrociatori pesanti Zara e Gorizia lasciano Napoli diretti a La Maddalena, dove le navi sono state temporaneamente trasferite per sottrarle ad altri attacchi aerei britannici dopo che, nelle settimane precedenti, alcuni bombardamenti aerei su Napoli hanno rivelato la vulnerabilità di tale porto alle offese aeree (con il grave danneggiamento, il 14 dicembre, dell’incrociatore pesante Pola, colpito da bombe). Le unità rimangono a La Maddalena, porto non molto più al sicuro di Napoli dagli attacchi aerei, solo per i pochi giorni necessari all’approntamento a Napoli di adeguate contromisure contro i bombardamenti (tra cui impianti per l’annebbiamento del porto).
20 dicembre 1940
Le navi rientrano a Napoli.
28 dicembre 1940
Il Carducci, insieme ad Alfieri e Gioberti, effettua un’azione di bombardamento delle posizioni costiere greche nel settore di Himara (Albania) a supporto delle operazioni truppe di terra italiane (la XI Armata), impegnate a fronteggiare una violenta offensiva greca avente l’obiettivo di conquistare Valona. Azioni di bombardamento costiero come questa hanno in genere scarsi risultati materiali, stante la cronica imprecisione di questo tipo di bombardamento: vengono eseguite principalmente per motivi di ordine psicologico, servendo soprattutto ad incrinare il morale dell’avversario (le intercettazioni di messaggi greci e gli interrogatori dei prigionieri mostrano un crescente nervosismo, da parte greca, nei confronti dei bombardamenti navali, ed è proprio questo, insieme alla gravità del momento – si è all’acme della battaglia per Valona, dal cui esito possono dipendere le sorti dell’intera campagna –, a spingere i comandi italiani ad intensificare azioni di questo tipo).
30 dicembre 1940
Carducci, Alfieri e Gioberti bombardano di nuovo il settore di Himara con le loro artiglierie, stavolta con l’appoggio a distanza dell’VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi, ai quali è stato temporaneamente aggregato anche l’Armando Diaz).
5 gennaio 1941
Il Carducci salpa da Brindisi alle 00.10 per scortare a Valona, insieme al cacciatorpediniere Fulmine, alla torpediniera Generale Antonio Cantore ed all’incrociatore ausiliario Capitano A. Cecchi, le motonavi Verdi, Città di Agrigento e Città di Marsala, che hanno a bordo 2024 militari e 328 tonnellate di materiali. Il convoglio raggiunge Valona alle otto del mattino.
6 gennaio 1941
Carducci, Alfieri (caposquadriglia), Gioberti (la IX Squadriglia, meno l’Oriani), cui è stato aggregato il cacciatorpediniere Fulmine, partono da Valona insieme alla XIV Squadriglia Torpediniere (Pallade, Partenope, Andromeda, Altair) e bombardano all’alba le posizioni greche nel settore costiero di Porto Palermo (Albania), per poi tornare a Valona prima di mezzogiorno.
Per altra fonte il bombardamento sarebbe avvenuto il 7 gennaio, e vi avrebbe preso parte anche un altro cacciatorpediniere, il Folgore, mentre non avrebbero partecipato la Pallade e l’Altair. Le navi si sarebbero così ripartite i compiti: Carducci, Alfieri e Gioberti avrebbero bombardato le prime linee greche, mentre Folgore e Fulmine avrebbero cannoneggiato Himara, ed Andromeda e Partenope avrebbero cannoneggiato la strada costiera situata più sud, interrompendo il traffico nemico lungo di essa.
Pochi giorni dopo, il 10 gennaio, l’offensiva greca si esaurisce senza che Valona sia stata conquistata.
10 febbraio 1941
Carducci ed Oriani ricevono ordine da Supermarina di andare a rinforzare la scorta di un convoglio partito da Taranto e diretto a Napoli, composto dai piroscafi tedeschi Arta, Maritza ed Heraklea con la scorta del solo cacciatorpediniere Baleno. Supermarina ha deciso di rafforzarne la scorta dopo la segnalazione da parte del sommergibile Salpa, in navigazione in quelle acque (al largo di Punta Stilo), di essere stato attaccato da un sommergibile nemico (il Rover, al comando del capitano di corvetta Hubert Anthony Lucius Marsham). Carducci ed Oriani raggiungono il convoglio poco dopo mezzanotte, e l’Oriani assume il ruolo di caposcorta.
11 febbraio 1941
Poco prima delle 7.30, un idrovolante CANT Z della 142a Squadriglia della Regia Aeronautica (sottotenente di vascello Tenti) lancia una bomba da 160 kg contro il Rover, che si è venuto a trovare casualmente proprio sulla rotta del convoglio. Il sommergibile britannico non viene colpito, ma sente la violenta esplosione ed avvista subito dopo un cacciatorpediniere (probabilmente il Baleno, che sta zigzagando a proravia del convoglio) a circa 7 km di distanza. Non avendo invece visto il resto del convoglio, il Rover scende a 27 metri di profondità e non fa alcun tentativo di attaccare, così il convoglio passa indisturbato sulla sua verticale e si allontana indenne. I cacciatorpediniere di scorta non notano traccia del sommergibile, ma l’idrovolante richiama sul posto il cacciasommergibili Albatros, che darà infruttuosamente la caccia all’unità britannica.
 
Il Carducci in navigazione

Morte per acqua a Capo Matapan

Così s’intitola, in modo tragicamente appropriato, uno dei tanti libri scritti sulla battaglia di Capo Matapan, la più pesante sconfitta mai subita dall’Italia sul mare. Scritto nel 1965 dal giornalista Giuliano Capriotti, “Morte per acqua a Capo Matapan” è incentrato proprio sulla storia del Carducci, che in quella battaglia andò perduto, e del suo comandante, capitano di fregata Alberto Manlio Ginocchio: gli ultimi giorni del Carducci e del suo equipaggio vi sono minuziosamente ricostruiti attraverso i documenti dell’epoca, le relazioni delle Commissioni d’Inchiesta Speciale istituite sulla perdita delle navi affondate a Matapan, e le relazioni degli ufficiali sopravvissuti.
Il mattino del 26 marzo 1941 la IX Squadriglia Cacciatorpediniere, che il Carducci (capitano di fregata Alberto Ginocchio) formava insieme ai gemelli Alfieri (caposquadriglia, capitano di vascello Salvatore Toscano), Oriani (capitano di fregata Vittorio Chinigò) e Gioberti (capitano di fregata Marc’Aurelio Raggio), si trovava ormeggiata in Mar Grande a Taranto, quando giunse dal Comando della I Divisione Navale, dal quale tale Squadriglia dipendeva, l’ordine di tenersi pronti a muovere. L’ordine, comunicato dal comando di divisione al caposquadriglia Alfieri, venne da questi ritrasmesso agli altri tre cacciatorpediniere. Qualche ora dopo, i comandanti coinvolti vennero informati che se fossero usciti in mare avrebbero partecipato all’operazione anche altre navi: gli incrociatori pesanti della III Divisione Navale e forse una corazzata, con i relativi cacciatorpediniere di scorta.
Alle 16 giunsero la conferma dell’ordine di uscita in mare e l’autorizzazione a prelevare il carburante necessario; la partenza era stabilita tra le 22 e le 23 di quella sera. Nel tardo pomeriggio il Carducci prelevò dunque il carburante dalla banchina nafta del Mar Grande; gli erano state assegnate 300 tonnellate di nafta, ma a causa di un guasto alla manichetta di carico fu possibile aspirarne soltanto 275, venticinque in meno di quanto previsto e di quanto regolarmente caricato dalle altre navi della squadriglia. La presenza di altri due cacciatorpediniere, già sotto la banchina, che attendevano a loro volta di poter prelevare il loro carburante impedì di tentare di riparare la manichetta per aspirare anche la nafta restante, non essendovi abbastanza tempo disponibile. Anche questo inconveniente venne segnalato al Comando della I Divisione, che tuttavia ritenne che 275 tonnellate di nafta potessero bastare per la missione, e che di conseguenza riferì al Carducci che avrebbe potuto partire senza problemi insieme al resto della IX Squadriglia.
Alle 23 arrivò dal comando di divisione l’ordine di partenza. La IX Squadriglia lasciò il Mar Grande procedendo in linea di fila, con l’Alfieri in testa ed il Carducci in seconda posizione, seguito a sua volta da Oriani per terzo e Gioberti per ultimo; nonostante il buio, dalla plancia il comandante Ginocchio vedeva chiaramente tutte e tre le unità gemelle. Giunti alla fine del Mar Grande, in procinto di doppiare l’isolotto di San Paolo, vennero avvistate a poppavia anche le alberature di Zara (capitano di vascello Luigi Corsi), Pola (capitano di vascello Manlio De Pisa) e Fiume (capitano di vascello Giorgio Giorgis), gli incrociatori della I Divisione, che la IX Squadriglia doveva scortare.
Una volta in mare aperto, alla I Divisione si unì anche la VIII Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), proveniente da Brindisi con la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno). Le navi dovevano raggiungere un punto di riunione fissato circa 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro. Nelle stesse ore presero il mare anche la corazzata Vittorio Veneto, scortata dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco, poi rilevati da Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia), da Napoli, e la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) con la XII Squadriglia (Ascari, Corazziere, Carabiniere) da Messina.
Tutte queste unità si dovevano riunire nel punto prestabilito per poi partecipare all’operazione «Gaudo», un’incursione contro il naviglio britannico nel Mediterraneo orientale, a nord di Creta. Questo, naturalmente, l’equipaggio non lo sapeva: la destinazione era stata tenuta segretissima, anche se una volta in mare non tardarono a diffondersi voci che dicevano che in mare c’era tutta la flotta italiana.
La I e la VIII Divisione, con le rispettive squadriglie di cacciatorpediniere, dovevano riunirsi 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro, formando un unico gruppo.
Dopo la riunione, la flotta italiana doveva dirigere verso la Libia per trarre in inganno eventuali ricognitori britannici, finché, giunta in un punto prestabilito al largo di Capo Passero, si sarebbe divisa nuovamente nei due gruppi che avrebbero poi diretto verso i rispettivi obiettivi.
La I e la VIII Divisione (insieme ai sei cacciatorpediniere della IX e XVI Squadriglia), riunite sotto il comando dell’ammiraglio Carlo Cattaneo (comandante della I Divisione, con bandiera sullo Zara), dovevano portarsi a nord di Creta, passando tra Cerigotto e Capo Spada, poi proseguire sino a giungere a 30 miglia a sud di Stampalia per la loro puntata offensiva; la Vittorio Veneto (nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante superiore in mare) e la III Divisione, insieme alla XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (sette unità), dovevano invece raggiungere le acque di Gaudo, a sud di Creta, per compiervi una scorreria. Entrambi i gruppi erano incaricati di attaccare i convogli britannici in navigazione tra la Grecia e l’Egitto (nell’ambito dell’operazione britannica «Lustre»), se in condizioni di superiorità, per poi fare rapidamente alle basi ritorno dopo aver inflitto il maggior danno possibile. Qualora fossero state avvistate da superiori forze avversarie prima di arrivare nelle acque di Creta, le navi italiane avrebbero dovuto abortire l’operazione, venendo a mancare la sorpresa. L’ordine d’operazione per il Gruppo «Zara», formato dalla I e VIII Divisione con le relative squadriglie di cacciatorpediniere, recitava «Gruppo Zara composto I e VIII Divisione navale lasci base prime ore giorno X-1 et regoli propri movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1 in punto lat. 35°46’ e long. 19°34’ et diriga poi per passare ore 04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo Spada alt Prosegua quindi per levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per scoglio Karavi dove dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga per ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90 a ponente di Cerigotto dove dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et quindi per rientro basi alt In caso avvistamento unità nemiche attaccare a fondo soltanto se in condizioni favorevoli di relatività di forze alt».

L’idea di una puntata offensiva in Egeo era sorta a seguito del convegno di Merano, svoltosi il 13-14 febbraio 1941 tra una rappresentanza dei vertici della Regia Marina (ammiragli Arturo Riccardi, Raffaele De Courten, Emilio Brenta e Carlo Giartosio) ed una della Kriegsmarine (ammiragli Erich Raeder e Kurt Fricke e capitano di fregata Frank Aschmann, membro del Comando della Marina tedesca nel Mediterraneo). Il capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine, ammiraglio Erich Raeder, aveva evidenziato l’atteggiamento prettamente difensivo fino ad allora tenuto dalla Marina italiana – uscite in mare infruttuose o scontri terminati senza vincitori né vinti, combattimenti di minore entità sfociati in sconfitte per le unità italiane, l’ancor vicina “notte di Taranto” e la brutta figura del bombardamento navale di Genova compiuto dai britannici senza subire perdite – ed invitato il capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, ad improntare le operazioni future ad una maggiore aggressività, sia a sostegno del trasferimento in Libia dell’Afrika Korps (in corso in quel momento) che a contrasto dei convogli che trasportavano truppe e rifornimenti britannici dall’Egitto alla Grecia; in particolare, aveva suggerito incursioni nel Mediterraneo orientale con le veloci e potenti corazzate classe Littorio. Riccardi aveva respinto le richieste tedesche, motivandole con l’insufficienza della copertura aerea; il capo reparto operazioni della Kriegsmarine, ammiraglio Kurt Fricke, aveva poi rinnovato tali insistenze presso il suo collega italiano, ammiraglio Emilio Brenta, ma anche questi le aveva rigettate, adducendo a motivo la disparità di forze dopo la notte di Taranto e la scarsità di nafta, le cui scorte sarebbero state notevolmente erose da una missione del genere. Brenta aveva anche fatto presente che i britannici sarebbero stati in condizione di vantaggio e che, se fossero riusciti a danneggiare qualche nave italiana, avrebbero ridotto la velocità della squadra, costringendola ad accettare un combattimento lontano dalla proprie basi e in qualsiasi situazione di relatività di forze. Un timore, come poi mostrarono i fatti, profetico.
Fricke aveva allora suggerito incursioni notturne con l’impiego di forze navali leggere, ma Brenta aveva puntualizzato che le forze di cui si disponeva erano appena sufficienti a svolgere i compiti indispensabili, tra cui le scorte verso la Libia.
Nonostante una siffatta conclusione dell’incontro, dopo di esso tra i vertici della Regia Marina e nello stesso Riccardi crebbe l’esigenza di mostrare alla Germania che anche la Marina italiana era in grado di passare con decisione all’offensiva: ciò – fu deciso – si sarebbe concretizzato con una puntata offensiva (da compiersi non appena la flotta fosse potuta tornare nella base di Taranto, una volta che le sue difese contraeree fossero state potenziate) contro i convogli britannici che, provenienti dall’Egitto, rifornivano la Grecia.
Per coincidenza, a fine febbraio fu un ammiraglio che non era stato a Merano, né sapeva quanto vi si fosse detto, a prospettare a Riccardi l’idea di un’incursione in Egeo con una corazzata e tre incrociatori, per ostacolare l’invio di truppe e rifornimenti dall’Egitto alla Grecia: Angelo Iachino, comandante della Squadra da battaglia. Riccardi rispose che un piano del genere era già allo studio da parte di Supermarina, ma che nell’immediato era inattuabile per mancanza di obiettivi: l’attività della Luftwaffe, infatti, aveva fatto pressoché cessare il traffico navale britannico nel Mediterraneo orientale.
Ma pochi giorni dopo (6 marzo) prese il via l’operazione britannica «Lustre», il trasferimento in Grecia di circa 60.000 uomini con i relativi equipaggiamenti, per appoggiare la resistenza del Paese ellenico contro le forze dell’Asse. Convogli britannici ripresero pertanto a solcare le acque dell’Egeo verso la Grecia.
A rincarare la dose, tra il 10 ed il 14 marzo, ci si mise l’ammiraglio Eberhard Weichold, ufficiale di collegamento della Kriegsmarine in Italia, che rinnovò le pressioni per una mossa offensiva della Marina italiana. Da parte tedesca si sosteneva che parte delle forze della Royal Navy erano distolte dalla necessità di contrastare le incursioni in Atlantico dell’incrociatore pesante Admiral Hipper e della corazzata tascabile Admiral Scheer (ma in realtà questo non aveva influito sulla dislocazione delle forze britanniche nel Mediterraneo); sulle prime Supermarina fu ancora recalcitrante, ma il 19 marzo i comandi tedeschi asserirono che, dopo il grave danneggiamento delle corazzate britanniche Warspite e Barham e della portaerei Illustrious per opera di aerei della Luftwaffe (il 16 marzo degli Heinkel He 111 del X Corpo Aereo Tedesco – II Gruppo del 26° Stormo – avevano riferito di aver silurato due corazzate; quanto alla Illustrious, la sua messa fuori uso era cosa assodata già da gennaio), alla Mediterranean Fleet era rimasta una sola corazzata (la Valiant) e nessuna portaerei.
Riccardi, convinto che le condizioni fossero ora favorevoli, era capitolato: il 16 marzo aveva deciso di dare il via all’operazione (cinque giorni dopo anche il Comando Supremo rincarò la dose, invitando Marina ed Aeronautica ad un atteggiamento più aggressivo in Egeo, a sostegno della prossima offensiva tedesca in Grecia). Requisiti essenziali erano il fattore sorpresa da parte italiana, un capillare servizio di ricognizione aerea ed una forte copertura aerea italo-tedesca. Sarebbero mancati tutti e tre.
Dal momento che i piccoli convogli obiettivo dell’incursione erano formati di solito da quattro o cinque mercantili, scortati da un incrociatore e qualche cacciatorpediniere, e considerando che per il successo di un attacco del genere erano essenziali la rapidità e la sorpresa, probabilmente la scelta più appropriata sarebbe stata di lanciare veloci puntate offensive con gli ottimi incrociatori leggeri della VII e/o VIII Divisione (così come fecero, successivamente, i britannici stessi contro i convogli italiani, con la Forza K e la Forza Q), ma le reali motivazioni dietro all’operazione pianificata da Supermarina erano di natura politica: dimostrare ai tedeschi che gli italiani, sul mare, potevano essere aggressivi quanto loro e quanto i britannici. Nelle parole dell’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo, allora Capo Ufficio Operazioni Piani di Guerra: “Dare al mondo l’impressione che l’Inghilterra non ci aveva preclusa l’iniziativa in zone lontane dalle nostre basi; dare alla Squadra, da troppo tempo inattiva, la soddisfazione per essa tanto desiderata di andare verso il nemico senza subirne la volontà; non tralasciare le pressioni che ci venivano da Berlino”.
Ciò portò a decidere per una vera dimostrazione muscolare di forza: avrebbe preso il mare il fior fiore della flotta italiana, le unità più moderne e potenti di cui la Regia Marina disponeva.
Il 19 marzo Raeder aveva scritto ancora una volta per caldeggiare un attacco al traffico britannico nel Mediterraneo orientale, rimarcando la situazione favorevole generata dall’"eliminazione" di due corazzate, ed il 25 marzo Riccardi gli rispose di essere dello stesso avviso, aggiungendo che prossime operazioni navali italiane sarebbero state indirizzate proprio in quella direzione. Il 21 marzo anche il generale Alfredo Guzzoni, Sottocapo di Stato Maggiore Generale, suggerì che la Marina compisse in Egeo «offese navali di superficie attuabili attraverso rapide puntate di incrociatori protetti e cercando di battere le corazzate» britanniche, che in quel momento apparivano «in stato d’inferiorità numerica»; Riccardi rispose anche a lui che «Supermarina aveva già studiato le possibilità di azioni con navi di superficie contro l’Egeo».
I preparativi compresero il potenziamento delle difese della base di Taranto, così che almeno una parte della Squadra vi potesse tornare in condizioni di sicurezza (e proprio la I Divisione fu tra le formazioni che tornarono ad avere base a Taranto). Segnalazioni da parte del Servizio Informazioni della Marina, il 22 e 23 marzo, di due grossi convogli britannici (uno di 12 navi ad Alessandria ed uno di 18 navi a Giaffa) in procinto di partire per Volo e Suda riconfermarono Supermarina nelle sue intenzioni.
Originariamente l’avvio dell’operazione era stato previsto per il 24 marzo, ma successivamente, per avere il tempo di prendere accordi particolareggiati con le forze aeree tedesche, esso venne posticipato al 26. Alle 21.10 del 23 marzo Supermarina inviò agli ammiragli Iachino, Cattaneo, Sansonetti e Legnani l’ordine d’operazione: fu recapitato mediante corrieri e telescriventi, così che non potesse essere oggetto di intercettazione da parte avversaria. La parte che riguardava la I Divisione recitava: «Gruppo Zara composto I e VIII Divisione navale lasci base prime ore giorno X-1 et regoli propri movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1 in punto lat. 35°46’ e long. 19°34’ et diriga poi per passare ore 04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo Spada alt Prosegua quindi per levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per scoglio Karavi dove dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga per ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90 a ponente di Cerigotto dove dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et quindi per rientro basi alt In caso avvistamento unità nemiche attaccare a fondo soltanto se in condizioni favorevoli di relatività di forze alt». Il 24 marzo Iachino inviò il suo ordine di operazione dettagliato, il numero 47, a mezzo corrieri ai suoi tre ammiragli dipendenti (Cattaneo, Sansonetti e Legnani), ma frattanto anche i comandi di Rodi (per l’intervento dell’Aeronautica dell’Egeo) e Taormina (per l’intervento del X CAT) dovettero essere informati, e ciò si poté fare solo per radio.
L’Aeronautica della Sicilia, il X. Fliegerkorps della Luftwaffe (X Corpo Aereo Tedesco, che disponeva di circa 200 bombardieri e 70 caccia) anch’esso di base in Sicilia, e la caccia italiana di Rodi (dotata di biplani Fiat CR. 42 di base nell’aeroporto di Maritza; in tutto in Egeo non vi erano che 86 aerei italiani di cui solo 52 efficienti, in massima parte vetusti e con contenute riserve di carburante) avrebbero fornito copertura aerea alle navi di Iachino; o almeno questo era ciò che era previsto.
La questione dell’appoggio aereo ebbe degli aspetti che rasentarono l’assurdo. Supemarina, ritenendo necessario un efficace appoggio aereo per la riuscita della missione, chiese all’ammiraglio Weichold di accordarsi con il generale Hans-Ferdinand Geisler, comandante il X Fliegerkorps, che affermò di poter mettere a disposizione ricognitori, caccia a lungo raggio e bombardieri. Quando però il Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, generale Francesco Pricolo, ricevette il programma delle scorte aeree e seppe da Riccardi che si erano presi accordi con la Luftwaffe, senza che a lui si fosse detto niente, montò su tutte le furie ed accusò Riccardi di aver commesso “una grave sgarberia verso Superaereo”. Guzzoni si schierò con Pricolo, e venne modificato il programma previsto per l’impiego delle forze aeree. Nessuno si sarebbe poi curato di informare Iachino in merito.
Tra Creta ed Alessandria vennero inviati in agguato i sommergibili Ambra, Ascianghi, Dagabur, Nereide e Galatea, con l’incarico di segnalare eventuali movimenti di forze navali nemiche.

La segretezza dell’operazione «Gaudo», fondamentale per la sua riuscita, era però svanita prima ancora del suo inizio: l’aumento delle ricognizioni effettuate dalla Regia Aeronautica in Mar Egeo era stato infatti notato dall’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet; ed i ricognitori decollati da Malta avevano avvistato la I Divisione a Taranto, base che fino ad allora, dopo l’attacco aerosilurante dell’11-12 novembre, era stata abbandonata da ogni nave maggiore. Intuendo che la Marina italiana stesse preparando qualcosa contro i convogli britannici per la Grecia (anche se non si escludevano altre possibilità, quali l’invio di un convoglio italiano fortemente scortato verso il Dodecaneso, un’operazione diversiva a copertura di uno sbarco italo-tedesco in Cirenaica o Grecia, od un attacco contro Malta), Cunningham aveva ordinato che le ricognizioni sulle principali basi navali italiane e sulle probabili rotte che la flotta italiana avrebbe potuto seguire venissero aumentate sino al massimo possibile, e dislocò in quelle acque tutti i sommergibili disponibili.
Le decrittazioni, da parte di “ULTRA”, di comunicazioni della Luftwaffe in cui si annunciava che questa avrebbe dato protezione ad una forte squadra navale italiana che doveva a breve effettuare una scorreria in Egeo, diedero dato a Cunningham la conferma circa le sue supposizioni; infine, il 25 marzo “ULTRA” intercettò una comunicazione di Supermarina (partita da Roma e diretta a Rodi) in cui si diceca che «Oggi 25 marzo est giorno X meno 3». Tra il 25 ed il 26, ulteriori intercettazioni aggiunsero informazioni a quelle già note ai britannici, pur non componendo ancora un quadro particolarmente nitido.
Mentre gli ordini d’operazione delle unità navali, come si è visto, erano stati inviati con mezzi a prova d’intercettazione, l’unico modo di comunicare col Comando delle Forze Armate dell’Egeo (i cui velivoli dovevano partecipare alla copertura aerea delle navi il 28 marzo) era la radio, vulnerabile alle intercettazioni, e così era stato. Solo per mancanza di tempo, “ULTRA” non riuscì a decifrare l’ordine di operazioni completo, compilato il 24 marzo dall’ammiraglio Carlo Giartosio. In questo caso, Supermarina aveva tentato di far pervenire l’ordine a Rodi con mezzi non soggetti ad intercettazione: lo aveva affidato ad un corriere a Roma con l’ordine di imbarcarsi su un bombardiere Savoia Marchetti S.M. 81 (della 222a Squadriglia del 56° Gruppo da Bombardamento Terrestre) diretto nell’isola, ma il 25 marzo l’aereo, in decollo dall’aeroporto di Gerbini (Catania), era precipitato ed aveva preso fuoco, uccidendo i cinque uomini dell’equipaggio. Non essendovi più tempo per inviare un altro aereo, fu giocoforza usare la radio.
L’Ammiragliato informò Cunningham dell’intercettazione alle 17.05 di quello stesso giorno; l’indomani nuove intercettazioni (di radiomessaggi in codice inviati da Roma a Rodi) permisero di apprendere che da parte italiana erano pianificate ricognizioni aeree, nei due giorni precedenti X (su Alessandria, Suda e le rotte tra Alessandria ed il Pireo, su entrambi i lati di Creta) e durante lo stesso giorno X (dall’alba a mezzogiorno tra Creta ed Atene, nonché sulle rotte tra Creta ed Alessandria), ed attacchi aerei sugli aeroporto di Creta, sia la notte precedente il giorno X che il giorno X stesso. Dato che il più lungo dei messaggi intercettati era stato inviato dal generale Guzzoni, cioè da un ufficiale del Regio Esercito, ma mediante la macchina cifrante di Supermarina (per il semplice motivo di poter così usare la linea telegrafica di Supermarina con il Dodecaneso), da parte britannica si sospettò anche che l’operazione potesse contemplare un’azione anfibia, con la partecipazione di truppe di terra. Alle 10.07 del 26 marzo ancora un altro messaggio decrittato rivelò che il giorno X (tra l’alba e mezzogiorno) ci sarebbero state ricognizioni intensive tra Creta, la costa orientale greca, il Golfo di Atene e la linea Zea-Milo-Capo Sidero nonché (sempre durante il mattino) sulle rotte tra il Gaudo ed Alessandria e Caso ed Alessandria, ed attacchi aerei nel mattino sugli aeroporto cretesi.
Cunningham aveva subito preso tutti i provvedimenti del caso, con tre ordini di operazione diramati alle le 18.18, alle 18.20 ed alle 18.22 del 26 marzo a vari comandi (Malta, il Quartier Generale delle forze britanniche in Grecia, il comando della base di Suda, il Quartier Generale del Medio Oriente ed il Quartier Generale della Royal Air Force in Medio Oriente). Spiegando che «c’è ragione di sospettare che forze di superficie nemiche progettino una puntata nell’Egeo giungendo lì il 28 marzo», il comandante della Mediterranean Fleet aveva chiesto: 1) ricognizioni aeree su Taranto, Napoli, Brindisi e Messina per il pomeriggio del 27; 2) sospensione di ogni traffico da e per la Grecia, tranne i convogli «AG 8», già partito il 26 marzo da Alessandria per la Grecia con la scorta di due incrociatori antiaerei e tre cacciatorpediniere, e «GA 8» (un mercantile, l’incrociatore leggero Bonaventure e due cacciatorpediniere), che sarebbe partito il 29 seguendo la rotta opposta ed arrivando ad Alessandria due giorni dopo (senza il Bonaventure, affondato dal sommergibile italiano Ambra); 3) ritiro di tutte le unità di vigilanza in servizio a Suda ed al Pireo per porle sotto la protezione delle difese locali; immediato stato di allerta per tutta la Mediterranean Fleet; 4) uscita dal Pireo, il 27 marzo (il giorno prima di quello fissato per l’operazione italiana), della 7th Cruiser Division (Forza B) dell’ammiraglio Henry Pridham-Wippell per un pattugliamento del mare attorno a Gaudo, isolotto a sud di Creta (le navi di Pridham-Wippell salparono la sera del 27, con l’ordine di essere 30 miglia a sud di Gaudo per le 6.30 del 28); 5) invio dei sommergibili Rover e Triumph in probabili punti di passaggio della squadra italiana; 6) rinforzo delle difese contraeree di Suda (con l’invio dell’incrociatore antiaereo Carlisle); 7) potenziamento delle squadriglie di aerosiluranti di Creta e della Cirenaica e loro approntamento all’azione (e si prepararono anche reparti di bombardieri Bristol Blenheim); 8) che tutto ciò fosse eseguito in maniera tale da non far trapelare che i britannici erano al corrente di una prossima mossa della Regia Marina in Egeo. Il 27 marzo, quando gli ordini d’operazione di Cunningham erano già stati diramati, altre due decrittazioni di “ULTRA” permisero all’ammiraglio britannico di apprendere quanto da parte italiana si sapeva (mediante ricognizione ed intercettazioni) sulla dislocazione delle sue forze e sui movimento navali britannici in Mediterraneo.

Supermarina, ovviamente, era ignara di tutto ciò. Il 26 e 27 marzo il reparto informazioni della Regia Marina segnalò un forte, improvviso ed inconsueto aumento del traffico radio tra Malta ed i comandi britannici del Mediterraneo orientale, puntualizzando anche che doveva essere correlato alla preparazione, da parte avversaria, di qualche operazione. Nessuno, però, mise tale notizia in relazione alla puntata di Iachino in Egeo.
A differenza di quanto si riteneva da parte italo-tedesca, Warspite e Barham non erano state danneggiate in modo grave ed erano già tornate in servizio, come mostrato da nuove scattate il mattino del 24 marzo da uno Ju 88 della 3a Squadriglia del 1° Gruppo Ricognizione Strategica del X Fliegerkorps (che avevano sorvolato la Mediterranean Fleet, uscita in mare a protezione di un convoglio da Alessandria a Malta) ma inoltrate a Supermarina solo due giorni dopo, in quanto classificate come «bassa priorità». Un messaggio del X CAT a Supermarina mandato nel pomeriggio del 26 diceva chiaramente che «Da accurato esame della fotografia eseguita sulla forza navale avvistata a nord di Marsa Matruh si rileva: a) una forza navale costituita da quattro grosse unità in linea di fila a distanza di 650 metri tra prora e prora nell’ordine: una Nb tipo QUEEN ELIZABETH, una Pa tipo FORMIDABLE, una Nb tipo BARHAM, una Nb tipo QUEEN ELIZABETH (…)». Anche allora ci sarebbe stato il tempo di farlo sapere a Iachino, che ancora era in porto: ma ciò, per motivi inesplicati, non avvenne.
A Supermarina si era convinti che la superiore velocità delle navi italiane avrebbe loro permesso di evitare un pericoloso incontro; si sottovalutò poi la pericolosità degli aerei britannici, che fino a quel momento erano stati assai letali negli attacchi alle navi in porto (Taranto, Tobruk, Bengasi, Napoli, Augusta), ma non avevano mai colpito una nave da guerra italiana in mare aperto.
L’Illustrious era stata davvero posta fuori combattimento, ma il 10 marzo era già giunta in Mediterraneo la sua sostituta, la gemella Formidable.
Di ciò l’ammiraglio Iachino sarebbe stato informato solo a missione in corso, il 27 marzo, quando la sua nave avrebbe intercettato alle 15.19 e 16.43 due messaggi trasmessi da Rodi, che annunciavano che la ricognizione strategica (un CANT Z. 1007 italiano ed uno Junkers Ju 88 tedesco) aveva visto ad Alessandria tre navi da battaglia e due portaerei. Il giorno stesso fu trasmesso a Supermarina un messaggio del X Fliegerkorps che annunciava che un loro Ju 88 in ricognizione su Alessandria vi aveva localizzato «due navi da battaglia classe QUEEN ELIZABETH – una nave battaglia classe BARHAM – portaerei FORMIDABLE et EAGLE – un incr. classe AURORA – un incr. classe SOUTHAMPTON…»

La navigazione della formazione italiana era ostacolata dal mare di prora, causato da un leggero vento da sudovest. Durante i cinque mesi trascorsi da quando ne aveva assunto il comando, il capitano di fregata Alberto Ginocchio aveva avuto modo di familiarizzare con il Carducci, approfittando di ogni uscita in mare per perfezionare l’addestramento dell’equipaggio con tiri coi cannoni da 120, cambi di velocità ed accostate; durante queste uscite era emerso che i consumi di carburante del Carducci erano superiori al necessario, in quanto la nave necessitava con urgenza di lavori di pulitura dello scafo e delle caldaie. Ora, Ginocchio temeva che il Carducci potesse scadere dalla sua posizione nella linea di fila: al minimo sforzo, dal fumaiolo usciva un denso fumo nero prodotto dalle caldaie, che rendeva la nave visibile anche a grande distanza. Inoltre, c’era il rischio che il carburante imbarcato – meno del dovuto, per via del problema verificatosi durante il caricamento – potesse rivelarsi insufficiente: 275 tonnellate di nafta potevano bastare per un’operazione di due o al massimo tre giorni, però c’era da considerare il consumo eccessivo mostrato dal Carducci durante le missioni precedenti. Il Carducci era piaciuto a Ginocchio fin dal momento dell’imbarco, ma l’ufficiale aveva notato subito il cattivo stato delle caldaie: invano aveva ripetutamente richiesto al Comando un periodo di lavori in modo che le caldaie venissero sottoposte ad un’estesa pulitura, spiegando che il cacciatorpediniere avrebbe potuto essere assegnato in qualsiasi momento ad una missione di scorta veloce, il che avrebbe richiesto un apparato motore in ottimo stato. Fino a quel momento, dallo scoppio della guerra, il Carducci non era praticamente mai entrato in cantiere per lavori di sorta.
L’ultimo sollecito urgente di Ginocchio all’Arsenale di Taranto per una completa revisione delle caldaie, il quarto, era stato inviato proprio il mattino del 26 marzo, prima di sapere dell’ordine di partenza; Ginocchio ne aveva inviata copia per conoscenza anche al Comando della I Divisione, dove la lettera venne ritenuta giustificata ma non fu nemmeno mostrata all’ammiraglio Cattaneo, dato che già fervevano i preparativi per la missione e non c’era più tempo per questioni secondarie. Di conseguenza, Ginocchio non aveva neanche ricevuto la risposta scritta prevista dai regolamenti.
In mare aperto il comandante Ginocchio, una volta controllato che tutto fosse a posto, chiamò in plancia il comandante in seconda, tenente di vascello Vito Ninni, dal quale si fece sostituire, dopo di che scese nel quadrato per cenare con gli altri ufficiali. Ninni era corrucciato perché due giorni prima Ginocchio gli aveva comminato una punizione per essere sceso a terra senza autorizzazione – facendosi sostituire dal parigrado Michele Cimaglia, direttore del tiro, che aveva avvisato –, in sua assenza, per vedere la moglie e la figlia piccola, Rosalba, che in quel momento si trovavano a Taranto. Ginocchio aveva comunque un’ottima opinione di Ninni, così come di tutto il suo stato maggiore ed equipaggio: gente esperta e disciplinata, senza eccezioni.
Nel quadrato Ginocchio incontrò proprio il tenente di vascello Cimaglia, nonché il sottotenente del Genio Navale Antonio Sponza ed il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Giuseppe Scelsa. Quest’ultimo gli spiegò subito che le macchine andavano abbastanza bene, ma che non dovevano essere sottoposte a sforzo, e che avrebbe fatto il possibile per evitare che il Carducci scadesse rispetto alle altre unità della squadriglia. I quattro ufficiali presero poi a discutere su quali potessero essere gli obiettivi di quell’uscita in mare: nessuno di loro ne era stato informato, ma Ginocchio ipotizzò correttamente che la I e VIII Divisione, con altre unità (quali, ancora non sapeva), stessero dirigendo verso est per attaccare a sud della Grecia i convogli che dall’Egitto mandavano rinforzi e rifornimenti britannici in Grecia.
La giornata del 27 marzo passò senza eventi di rilievo: vi era una considerevole foschia sul mare, ma almeno le onde di prora incontrate dopo la partenza da Taranto erano cessate, così che il Carducci poté avanzare più agevolmente, senza più rischiare di scadere rispetto ai gemelli. Intorno alle dieci del mattino giunse dall’ammiraglio Cattaneo l’ordine per le navi della IX Squadriglia di passare dalla formazione in linea di fila a quella di scorta ravvicinata, ai lati della I Divisione. Subito il Carducci si portò sul lato di dritta della formazione, che procedeva su rotta 134°, rotta che – era ormai evidente – poteva portare il gruppo soltanto verso le coste meridionali della Grecia o le acque intorno a Creta.
Il tempo si mantenne buono fino alle 16, quando all’improvviso si levò un forte vento da sud e comparvero all’orizzonte striature basse e nere. L’aria, in precedenza fresca, divenne afosa, il che faceva presagire un prossimo peggioramento dello stato del mare. Si presentarono in plancia il tenente Sponza ed il fuochista Aiello, preoccupati perché il cambiamento delle condizioni meteomarine avrebbe reso necessario rinforzare l’andatura, con conseguente aumento dei consumi di nafta, più di quanto previsto. Ginocchio e Ninni, infatti, non tardarono a notare che il Carducci stava lentamente scadendo rispetto all’Oriani, che lo precedeva, ed agli incrociatori della I Divisione che aveva alla sua sinistra.
Alle 10.30 del 27 la I e la VIII Divisione (con IX e XVI Squadriglia) si riunirono 55 miglia a sudest di Capo Passero, poi si posizionarono 16 miglia a poppavia della Vittorio Veneto (fuori vista rispetto alle navi del gruppo «Zara»), che era a sua volta preceduta di 7 miglia dalla III Divisione. La foschia ed il vento di scirocco ostacolarono il mantenimento della formazione, mentre non vi furono difficoltà nel mantenere la velocità prefissata.
La navigazione proseguì senza incidenti – ma nella preoccupante assenza della poderosa scorta aerea tedesca prevista: non si vedevano che idrovolanti CANT Z. 506 che fornivano per qualche ora scorta antisommergibile, e più tardi qualche aereo tedesco in lontananza che passò senza dar segno d’aver visto le navi – sino alle 12.25, quando il Trieste annunciò che la III Divisione era stata localizzata da un idroricognitore britannico Short Sunderland. Quest’ultimo era un velivolo del 230th Squadron RAF decollato dalla base greca di Scaramanga, ai comandi del capitano pilota D. G. Boehm, il quale segnalò alla base di aver avvistato, 80 miglia ad est di Capo Passero, una formazione composta da tre incrociatori ed un cacciatorpediniere, con rotta sudest, probabilmente diretti verso le rotte dei convogli britannici per la Grecia. (Altra fonte invece anticipa di parecchie ore l’avvistamento della formazione italiana, che sarebbe avvenuto all’alba del 27 da parte di un altro Sunderland del 230th Squadron, il ‘NM-P’ del capitano McCall, che avrebbe segnalato l’avvistamento di tre incrociatori).
Compreso che la sorpresa, presupposto fondamentale per la riuscita della missione, non c’era più, Iachino domandò quindi a Supermarina se dovesse annullare la missione e rientrare alla base; in una concitata riunione si concluse che la sorpresa era venuta a mancare, ma che il ricognitore non aveva avvistato che una porzione della squadra italiana, pertanto si decise di proseguire, preferendo rischiare una trappola, che far sembrare ai tedeschi (che avevano sollecitato un atteggiamento più offensivo da parte della Marina italiana, in risposta a cui era stata pianificata l’operazione «Gaudo») ed a Mussolini che la Marina si ritirasse alle prime difficoltà.
In seguito a ciò, la formazione italiana, poco dopo le 14, accostò per 150° (prima la rotta era 134°) per ingannare il ricognitore, e mantenne questa rotta sino alle 16, dopo di che riaccostò per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23 nodi, così da giungere nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba del 28. Alle 22 Supermarina annullò l’attacco a nord di Creta, dato che la ricognizione aveva rivelato che non c’erano convogli da attaccare (ed anche per il rischio che gli incrociatori del gruppo «Zara» venissero attaccati da forze britanniche, di cui si aveva contezza dopo l’avvistamento del Sunderland), pertanto la I e VIII Divisione ricevettero l’ordine di ricongiungersi con la Vittorio Veneto e la III Divisione all’alba del giorno seguente, al largo di Gaudo («Destinatati V. VENETO per Squadra e ZARA per Divisione alt Modifica ordine di operazione gruppo Cattaneo si riunisca dopo alba domani 28 corrente gruppo Iachino alt Programma Iachino resta invariato»). In base a rilevazioni radiogoniometriche, si ritenne che in quella zona si sarebbero trovati, il giorno seguente, alcuni incrociatori leggeri e cacciatorpediniere britannici.
Alle 14.35 del 27 la ricognizione aerea italiana su Alessandria trovò le corazzate britanniche ancora in porto: ciò venne riferito a Iachino, ma la successiva ricognizione, da effettuarsi in serata, fu annullata per via delle condizioni meteorologiche. Se ci fosse stata, avrebbe mostrato che il grosso della Mediterranean Fleet – le corazzate BarhamValiant e Warspite, la portaerei Formidable (Forza A) e nove cacciatorpediniere della 10th e 14th Destroyer Flotilla (Forza C) – non c’era più: dopo la segnalazione del Sunderland che aveva avvistato le navi italiane alle 12.25, infatti, l’ammiraglio Cunningham era uscito in mare con le sue navi, alle 19 del 27, per intercettare la formazione di Iachino. Proprio perché si aspettava una ricognizione sul porto durante il pomeriggio, anzi, Cunningham non era partito prima: aveva deliberatamente tenuto in porto le sue corazzate affinché i ricognitori italiani le trovassero lì e credessero quindi che la Mediterranean Fleet sarebbe rimasta in porto.
Inoltre, per ingannare eventuali informatori nemici ad Alessandria (si sospettava soprattutto dell’addetto navale del Giappone, nazione ancora neutrale ma alleata di Italia e Germania), Cunningham si era recato a giocare a golf in abiti civili durante il pomeriggio del 27, avendo cura di farsi vedere, per poi imbarcarsi furtivamente sulla Warspite all’ultimo momento. Unico intoppo nel piano britannico, la bassa velocità (19-20 nodi) che la forza navale doveva tenere per non lasciare indietro la Warspite, che aveva aspirato della sabbia nell’uscire dal porto con conseguenze ostruzione dei condensatori dell’apparato evaporatore. Ciò ritardò la riunione tra le Forze A e C e la Forza B di Pridham-Wippell, impedendo che tali forze riunite incontrassero quelle di Iachino già nella giornata del 28 marzo.
Iachino ignorava del tutto tale situazione; Supermarina ricevette notizia di messaggi non confermati che accennavano alla presenza in mare di una/tre corazzate ed una portaerei al largo di Alessandria (ed alle 20.35 del 27 il Servizio Informazioni riferì di «3 navi da battaglia e 2 [sic] navi portaerei accertate ad Alessandria ieri ore 13.00 (…) Oggi ore 13.00 una nave portaerei – un incrociatore et un cacciatorpediniere 20 miglia a nordovest di Alessandria alt Ore 17.00 Formidable rilevata per 102° da Taormina alt Traffico radiotelegrafico confermerebbe presenza in mare una nave da battaglia – una portaerei e Comando 7a Divisione incrociatori (…)»), ma non ritenne di doverne informare il comandante superiore in mare.
Dei sommergibili dislocati nel Mediterraneo orientale per avvistare le forze nemiche, uno solo, l’Ambra, sentì due volte rumori di eliche agli idrofoni; dato che non era però riuscito ad avvistare niente, non riferì alcunché alla base, non avendo ricevuto ordini in tal senso.
La sera del 27 Ginocchio cenò nuovamente con i suoi ufficiali: stavolta alla tavola c’era anche Ninni, che era tornato di buon umore. Ben più cupo era invece l’ufficiale di rotta, sottotenente di vascello Michele Fontana: scherzando, Ninni gli disse che se sarebbero affondati lo avrebbe portato in salvo lui, caricandoselo sulla schiena e nuotando fino a riva. Finito di cenare, Ginocchio ordinò per sé e per gli ufficiali un bicchierino di gin, cosa insolita per lui, e ne offrì anche al ragazzo di mensa; poi ricontrollò i turni ed andò a dormire.

Alle 6.35 del mattino un idroricognitore catapultato dalla Vittorio Veneto avvistò la Forza B britannica (composta dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex), in navigazione con rotta stimata 135° e velocità 18 nodi, una quarantina di miglia ad est-sud-est dall’ammiraglia italiana. Alle 6.57, mentre la III Divisione riceveva l’ordine di assumere rotta 135° e velocità 30 nodi (per raggiungere gli incrociatori britannici, poi dirigere verso la Vittorio Veneto ed attirarli così verso la corazzata), il resto della formazione italiana aumentò la velocità a 28 nodi. In quel momento il gruppo «Zara» – che si sarebbe dovuto congiungere con la Vittorio Veneto all’alba –, di cui la IX Squadriglia faceva parte, si trovava in leggero ritardo; alle 6.30 era circa 16 miglia a nordovest delle altre unità, ed alle 6.57 ricette ordine dalla nave ammiraglia di accelerare.
Alle 6.30 del mattino del 28 marzo il comandante Ginocchio venne avvertito dell’avvistamento a parecchie miglia di distanza, all’orizzonte, di alcune grandi navi; d’altro canto, il gruppo «Zara» era giunto nel punto designato per l’appuntamento con le altre navi che avrebbero preso parte all’operazione. Durante la notte la radio del Carducci aveva intercettato sull’onda di divisione le comunicazioni ricevute dallo Zara: anche se erano messaggi cifrati, si capiva che bolliva in pentola qualcosa di grosso. Ginocchio era stato anche svegliato un paio di volte, durante la notte, dal marinaio inviatogli dall’ufficiale radio per portargli i messaggi.
Al binocolo, Ginocchio riconobbe le sagome di una divisione di incrociatori e comprese trattarsi di Trento, Trieste e Bolzano della III Divisione; più a destra e più lontana vide una corazzata scortata da cacciatorpediniere, che riconobbe in breve come la Vittorio Veneto. Carteggiando in sala nautica, determinò che l’incontro con queste navi sarebbe avvenuto tra Gaudo e Cerigotto, all’altezza di Capo Krio. Uscendo dalla sala nautica, ebbe da Ninni la conferma che gli incrociatori e la corazzata erano effettivamente Trento, Trieste, Bolzano e Vittorio Veneto; Ninni aggiunse che alcuni minuti prima uno degli incrociatori aveva catapultato un idroricognitore che si era diretto verso sudest, e che forse poteva essere visto all’orizzonte. Ginocchio cercò infruttuosamente l’aereo con il binocolo, poi riprese a controllare l’orizzonte e poco dopo avvistò del fumo verso sudest, in mezzo alla foschia. Più o meno contemporaneamente giunse in plancia, dalla sala radio, la notizia che erano in corso intensi scambi di messaggi tra lo Zara, la III Divisione e la Vittorio Veneto. I fumi visti verso sudest dovevano essere navi nemiche; Ginocchio stabilì che la III Divisione avesse su di esse, rispetto alla I Divisione, un vantaggio di visibilità di almeno 14 miglia.
Poco dopo il comando della I Divisione segnalò otticamente alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere di accelerare al massimo per superare la Vittorio Veneto e raggiungere la III Divisione, cui dovevano fornire appoggio. I cacciatorpediniere accelerarono dunque da 25 nodi fino a circa 28, e poi gradualmente fino alla massima velocità; il Carducci dovette sforzare le macchine e, pur riuscendo a non scadere rispetto agli altri, prese ad emettere nuovamente denso fumo nero dal fumaiolo. La sala macchine comunicò che c’erano problemi ai condensatori, e Ginocchio si chiese ad alta voce se non sarebbero finiti col dover tornare in porto a rimorchio.
Il primo avvistamento da parte britannica delle navi italiane era avvenuto alle 7.20, quando un aereo Fairey Albacore aveva segnalato quattro incrociatori ed altrettanti cacciatorpediniere 25 miglia a sudest dell’isolotto di Gaudo; venti minuti dopo, un altro aereo dello stesso tipo (pilotato dal tenente di vascello A. S. Whitworth) aveva riferito a sua volta l’avvistamento di quattro incrociatori e sei cacciatorpediniere a 20 miglia dal precedente avvistamento, ed alle 8.04 il primo Albacore aveva rettificato segnalando anch’esso quattro incrociatori e sei cacciatorpediniere. Ciò aveva inizialmente generato nei comandi britannici il dubbio che gli Albacore potessero aver individuato le navi di Pridham-Wippell, dato che la loro composizione era analoga a quella della forza avvistata (quattro incrociatori e quattro cacciatorpediniere); ma il dubbio fu dissipato quando fu lo stesso Pridham-Wippell a comunicare l’avvistamento di tre navi sconosciute 18 miglia più a nord. Le navi avvistate dagli Albacore erano quelle della III Divisione di Sansonetti.
La III Divisione aveva avvistato la Forza B britannica alle 7.55, ma dato che anche la Forza B intendeva cercare di attirare le navi italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet (della cui presenza in mare gli italiani erano del tutto all’oscuro) e pertanto iniziò a ripiegare, la manovra pianificata dall’ammiraglio di squadra Iachino non si concretizzò, e furono invece le navi italiane ad inseguire quelle britanniche. Alle 8.12 gli incrociatori della III Divisione aprirono il fuoco contro le navi britanniche, che stavano ritirandosi ad elevata velocità, da 21.000 metri di distanza: iniziava così lo scontro di Gaudo. La IX Squadriglia, disposta in linea di fila, navigava verso il nemico seguita a distanza normale dalla I e VIII Divisone; il gruppo della Vittorio Veneto si scorgeva appena all’orizzonte, sulla dritta. In un modo o nell’altro, il Carducci riuscì a sviluppare e mantenere una velocità di 30 nodi.
In plancia, il comandante Ginocchio cercò di capire al binocolo che tipo di navi fossero le unità nemiche, che dovevano trovarsi circa 16 miglia a proravia della III Divisione: lui riteneva che fossero cacciatorpediniere classe Tribal, ma chiese a Cimaglia quale fosse il parere dei telemetristi. La III Divisione, che continuava inseguire e cannoneggiare il nemico senza colpire, a causa della distanza ancora eccessiva, procedeva in testa alla formazione italiana.
Sulla plancia del Carducci giunse la notizia che le navi nemiche erano quattro incrociatori leggeri tipo Orion. Ginocchio si stupì nel vedere l’ultimo incrociatore britannico – era il Gloucester – aprire il fuoco (erano le 8.29): non aveva gittata sufficiente per colpire, e infatti la sua salva cadde corta, un paio di chilometri a proravia del Trieste. Aveva evidentemente sparato al solo scopo di tentare di ostacolare l’avanzata della III Divisione, sapendo di non poter colpire. Ninni commentò: “Quelli in mancanza d’altro ci tirerebbero addosso con la fionda!”. Speranza di Ginocchio era che la III Divisione riuscisse a rallentare od immobilizzare gli incrociatori nemici, così che i cacciatorpediniere sarebbero potuti andare all’attacco silurante. Il tiro delle unità italiane fu inizialmente piuttosto preciso e centrato sul Gloucester, che zigzagò per evitare di essere colpito ed alle 8.29, calate le distanze a 20.000 metri, tirò senza successo tre salve che caddero corte (più per ragioni “morali” – Pridham-Wippell non voleva dare ai suoi uomini l’impressione di starsi ritirando senza sparare – che per l’effettiva speranza di colpire qualcosa). Anche tutte le successive salve italiane, tuttavia, caddero parimenti corte.
Alle 8.55, dato che le distanze col nemico restavano costanti, la III Divisione interruppe l’inseguimento del nemico, dietro ordine di Iachino. Concluso il vano inseguimento e scambio di cannonate – al quale la I e VIII Divisione, non ancora ricongiuntesi al resto della formazione, non avevano potuto partecipare (anche perché alle 8.38 avevano dovuto ridurre la velocità a 20 nodi a causa di un’avaria del Pessagno, per ordine di Iachino, che aveva al contempo ordinato loro di assumere rotta 300°) –, le navi italiane alle 8.55 accostarono per 270° ed assunsero rotta 300° e velocità di 28 nodi, seguite a distanza dalla Forza B, che tenne informato il resto della Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Quando se ne accorse, alle 10.02, l’ammiraglio Iachino ordinò alla III Divisione di proseguire sulla sua rotta, mentre la Vittorio Veneto e le altre navi invertivano la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione italiana) e così impedirne la ritirata.
Di conseguenza, il Carducci ricevette un messaggio dalla I Divisione, nel quale si spiegava il piano di massima messo a punto dal Comando di Squadra: gli incrociatori avrebbero dovuto continuare l’inseguimento fino a nuovo ordine, mentre la Vittorio Veneto avrebbe invertito la rotta per tentare di aggirare le unità britanniche e di tagliare loro la ritirata. Ginocchio e Ninni, dalla plancia del Carducci, videro infatti la nave ammiraglia di Iachino defilare sulla dritta e dileguarsi nella foschia unitamente ai cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, che la scortavano. L’esecuzione di questa manovra venne però temporaneamente ritardata in quanto, alle 10.10, lo Zara lanciò un segnale di scoperta col quale riferì di aver avvistato fumo o alberatura sospetta per 300°; Iachino attese che tale avvistamento venisse chiarito, ma alle 10.34 lo Zara annullò il segnale di scoperta e la manovra riprese.
Le unità della Forza B erano però più a nord di quanto ritenuto (e segnalato) e pertanto l’incontro avvenne alle 10.50: alle 10.56 la Vittorio Veneto aprì il fuoco da 23.000 metri, e la Forza B subito accostò verso sud coprendosi con cortine nebbiogene e si ritirò inseguita dalle navi italiane, ma le distanze andarono aumentando ed il tiro della Vittorio Veneto risultò inefficace. L’Orion venne preso di mira per i primi dieci minuti e subì qualche lieve danno per proiettili caduti vicini, dopo di che il tiro della corazzata inquadrò il Gloucester, che venne anch’esso leggermente danneggiato da colpi caduti nei suoi pressi finché il cacciatorpediniere Hasty non riuscì ad occultarlo con cortine fumogene (per altre fonti anche il Perth avrebbe subito qualche danno).
Ad un tratto parve al comandante Ginocchio che l’incrociatore britannico di coda fosse stato colpito da un proiettile, ma l’illusione durò poco; subito dopo venne informato che quella nave aveva catapultato un idrovolante per l’osservazione del tiro. Alle 10.57 vennero avvistati sei aerei che si rivelarono poi essere aerosiluranti britannici: erano infatti sei Albacore dell’826th Squadron della Fleet Air Arm, guidati dal capitano di corvetta Saunt e decollati dalla Formidable. Li scortavano due caccia Fairey Fulmar dell’803rd Squadron (pilotati dal tenente D. C. E. F. Gibson e dal sergente A. W. Theobald) e li accompagnava un Fairey Swordfish con compiti di osservazione. Quando arrivarono sul cielo delle navi di Pridham-Wippell, gli Albacore furono scambiati per aerei nemici e bersagliati dal tiro contraereo delle navi britanniche, ma ne uscirono indenni. Avvistate le navi italiane, gli Albacore si posizionarono per attaccarle, ma in quel momento intervennero due aerei tedeschi (gli unici che si sarebbero visti durante tutta la battaglia), due bombardieri Junkers Ju 88 che si lanciarono in picchiata sugli Albacore. Intervennero subito i Fulmar della scorta, che abbatterono uno degli Ju 88 e misero in fuga l’altro; le navi italiane non si accorsero neanche dell’intervento dei due aerei della Luftwaffe.
Alle 11.18 la prima sezione degli Albacore attaccò la Vittorio Veneto dal lato di dritta: e se le navi britanniche, sbagliando, li avevano scambiati per nemici ed avevano sparato loro addosso, quelle italiane, sbagliando a loro volta, li scambiarono invece per amici, ritenendo erroneamente – data la somiglianza nell’aspetto esteriore – che gli aerei in arrivo fossero caccia italiani FIAT CR. 42 dell’Aeronautica dell’Egeo, biplani proprio come gli Albacore. In questa zona, infatti, le navi di Iachino avrebbero dovuto fruire della copertura aerea dei caccia di Rodi (dodici CR. 42 muniti di serbatoi supplementari per incrementarne l’autonomia, di base a Scarpanto), ma questi velivoli non si sarebbero fatti vedere (per altra fonte furono invece presenti sul cielo della formazione, ma solo saltuariamente ed in numero modesto, nel corso della mattinata). Quando Iachino si rese conto che gli aerei erano nemici, la Vittorio Veneto accostò sulla dritta, e la XIII Squadriglia si portò in posizione adatta ad impedire l’attacco, aprendo intenso fuoco contraereo; alle 11.25 gli aerosiluranti della prima sezione lanciarono, seguiti da quelli della seconda, ma i siluri mancarono tutti il bersaglio. Andò a vuoto anche un attacco, eseguito poco dopo quello contro la Vittorio Veneto, da parte di tre aerosiluranti Fairey Swordfish dell’815th Squadron F.A.A., decollati da Maleme (Creta) alle 10.50 e guidati dal tenente M. G. W. Clifford, che lanciarono infruttuosamente contro il Bolzano.
L’attacco aerosilurante aveva però obbligato le navi italiane a cessare il fuoco (verso le 11.38), consentendo alla Forza B di sfuggire ad una situazione di grave pericolo. In tutto, le navi di Iachino avevano sparato 94 colpi da 381 mm e 542 da 203 mm.

Alla fine, per ordine del Comando di Squadra, l’inseguimento venne infine abbandonato, senza che il gruppo formato da I e VIII Divisione fosse potuto arrivare al contatto balistico; le navi invertirono la rotta su 300° e ridussero la velocità a 20-25 nodi. Il gruppo «Zara» tornò ad assumere la formazione di marcia in linea di fila, con i cacciatorpediniere in posizione laterale. Alle 11.07 la I Divisione avvistò un sommergibile a 3000 metri per 280°, segnalandolo alla nave ammiraglia.
Successivi messaggi e segnalazioni, che confermavano l’assenza di traffico convogliato britannico da attaccare, ed insieme ad essi l’ormai conclamata assenza della copertura aerea e la continua diminuzione delle scorte di carburante dei cacciatorpediniere, portarono l’ammiraglio Iachino, alle 11.40, a disporre rotta verso nordovest: si tornava alla base.
Poco prima di mezzogiorno avvenne la riunione delle unità della squadra italiana; il comandante Ginocchio venne informato che la Vittorio Veneto aveva sparato sulle navi britanniche, ma senza risultato apprezzabile, per via della grande distanza. Dopo l’una del pomeriggio Ginocchio consumò in plancia un pranzo frugale: due panini ed una tazza di caffè. Mezz’ora dopo arrivò dal Comando di Divisione la comunicazione che un idrovolante Short Sunderland stava seguendo da parecchio la squadra italiana, tenendosi fuori tiro. Lo pilotava il capitano di corvetta Bolt, dello Stato Maggiore di Cunningham, catapultato dalla Warspite: durante la sua missione ebbe modo di aggiornare il suo ammiraglio circa posizione, composizione, rotta e velocità delle navi italiane, con notevole accuratezza.
Ginocchio controllò il cielo verso poppa, ma il sole alto gli impedì di vedere alcunché; gli incrociatori aprirono inutilmente il fuoco contro il Sunderland, dopo di che iniziarono gli attacchi aerei, cui le navi risposero con rapide accostate e fuoco contraereo. Se in mattinata l’appoggio dato dai CR. 42 dell’Aeronautica dell’Egeo era stato pressoché inconsistente, nel pomeriggio esso cessò del tutto e definitivamente: col rapido allontanamento della flotta italiana in direzione di Taranto, infatti, questa si venne presto a trovare al di fuori dei limiti dell’autonomia dei CR. 42, anche se questi impiegavano serbatoi supplementari.
Cunningham si era reso conto che la formazione di Iachino, più veloce della sua, rischiava di sfuggire facilmente all’inseguimento (del quale non sapeva nemmeno di essere oggetto): a meno di non riuscire a rallentarla. Questo si poteva fare danneggiando qualche nave, con attacchi di bombardieri ed aerosiluranti dalle basi di Creta e dalla Formidable. Cunningham, pertanto, ordinò ripetuti attacchi aerei contro le navi di Iachino. Durante il pomeriggio, un totale di 30 bombardieri Bristol Blenheim della RAF (decollati da basi aeree della Grecia) e 18 aerosiluranti Fairey Albacore e Fairey Swordfish della Fleet Air Arm (decollati dall’aeroporto cretese di Maleme e dalla Formidable) effettuarono rispettivamente cinque e tre attacchi sulla formazione italiana. Nel corso della giornata del 28 marzo, in tutto, ben 24 siluri e 13 tonnellate di bombe sarebbero state sganciate contro le unità di Iachino.
Alle 13.23 la I Divisione si trovava a 56 miglia per 266° da Gaudo. Nel primo pomeriggio un Sunderland del 230th Squadron, pilotato dal capitano Alan Lywood (che già aveva scoperto la forza di Iachino alle 6.20 di quel mattino, tallonandola poi a più riprese), s’imbatté per puro caso, in seguito ad un errore di rotta del suo navigatore, nel gruppo «Zara»: Lywood segnalò al quartier generale di Atene l’avvistamento di due corazzate e tre incrociatori. Questi ultimi erano queli della I Divisione, mentre le due “corazzate” erano in realtà i due incrociatori dell’VIII Divisione, Garibaldi e Duca degli Abruzzi, che funo scambiati per corazzate classe Duilio a causa della simile disposizione di cannoni e fumaioli.
Alle 14.20 tre bombardieri Bristol Blenheim dell’84th Squadron RAF, decollati a seguito dell’avvistamento di Lywood, attaccarono la Vittorio Veneto, ma senza alcun risultato. Alle 14.50 altri sei Blenheim, appartenenti al 113th Squadron (maggiore Spencer) e decollati dalla base greca di Eleusis, attaccarono a loro volta la corazzata italiana, ma anche stavolta le bombe caddero soltanto in mare nei suoi pressi, senza causare danni.
Alle 15.17 il gruppo «Zara» venne attaccato da sei bombardieri britannici Bristol Blenheim (che attaccarono lo Zara ed il Garibaldi), attacco che si ripeté alle 15.26, alle 16.30 ed infine alle 16.44. Le unità italiane risposero zigzagando prontamente ed aprendo un intenso fuoco contraereo non appena furono avvistati i velivoli nemici. Ad attaccare le navi di questo gruppo furono in tutto undici Blenheim, sei del 113th Squadron (guidati dal capitano Rixson) e cinque dell’84th Squadron (guidati dal maggiore Jones); nonostante le rivendicazioni dei piloti britannici, che ritennero di aver messo varie bombe a segno, nessuna nave fu colpita, anche se diverse bombe di grosso calibro caddero a soli trenta metri dallo Zara e dai cacciatorpediniere della IX Squadriglia.
Nello stesso lasso di tempo anche la Vittorio Veneto e la III Divisione vennero più volte attaccate da aerei, rispettivamente tre e due volte. La III Divisione fu attaccata da nove Blenheim, tre dell’84th Squadron (capitano Don G. Bohem) e sei del 211st Squadron (capitano Jones), ma anche in questo caso le bombe caddero soltanto vicine ai bersagli – Trento e Bolzano – senza causare danni, nonostante, di nuovo, rivendicazioni di senso contrario da parte degli attaccanti.
Considerando che gli aerei non potevano certo venire da Alessandria d’Egitto, base troppo lontana (al massimo potevano essere decollati da Creta), il comandante Ginocchio iniziò a valutare la possibilità che vi fosse in mare anche una portaerei britannica. Poco prima delle 15 (alle 14 per altra versione) ordinò a Fontana, l’ufficiale di rotta, di aprire un ascolto su un’onda non prevista per il Carducci, in modo da ricevere con il massimo dettaglio possibile eventuali notizie sul nemico: e proprio alle 15 Fontana intercettò e decifrò su tale frequenza un segnale di scoperta di una formazione nemica, cento miglia (secondo quanto riferito da Fontana; 120 miglia secondo quanto scritto da Ginocchio nella sua relazione dell’8 aprile) più ad est, cioè di poppa rispetto al Carducci, formata da una corazzata, una portaerei, sette incrociatori e vari cacciatorpediniere con rotta ovest.
Il messaggio intercettato dal Carducci aveva un’importanza tutt’altro che secondaria.
Alcune ore prima, infatti, alle nove del mattino, un ricognitore aveva comunicato alla Vittorio Veneto la presenza di una portaerei, due corazzate e naviglio minore in una posizione vicina a quella delle navi italiane: Iachino e Supermarina avevano però pensato che il ricognitore avesse semplicemente avvistato la squadra italiana, scambiandola per nemica. E invece era davvero il nemico: la Mediterranean Fleet di Cunningham.
Nemmeno una nuova segnalazione delle 14.25, inviata da Rodi, che diceva che «Alle ore 12.15 aereo n. 1 ricerca strategica Egeo avvistati una nave da battaglia, una portaerei, sei incrociatori e cinque cacciatorpediniere nel quadratino 5647», cioè 79 miglia ad est della Vittorio Veneto, venne presa in considerazione: Supermarina e Iachino la ritennero sbagliata, dato anche che un precedente rilevamento radiogoniometrico aveva individuato la squadra britannica come a 170 miglia da quella italiana. Invece era una segnalazione esatta: l’aereo che l’aveva lanciata non era un ricognitore, come erroneamente il messaggio di Rodi dava ad intendere, bensì il capo sezione di una sezione di due aerosiluranti Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero” della 281a Squadriglia della Regia Aeronautica, decollati da Rodi, che intorno alle 12.45 (o 12.54) avevano anche attaccato la portaerei – la Formidable, rimasta leggermente arretrata rispetto al resto della formazione – con i loro siluri, al punto di indurre Cunningham ad ordinare a tre dei cacciatorpediniere che lo scortavano di correre a proteggerla. I due “Sparvieri” avevano attaccato individualmente; uno di essi aveva lanciato da distanza ravvicinata, l’altro da 1370 metri, ma entrambi senza successo a causa delle brusche manovre evasive intraprese dalla portaerei, anche se i due aerosiluranti erano riusciti a sganciarsi (uno di essi fu colpito dal tiro contraereo della Formidable, ma riuscì egualmente a rientrare alla base di Gadurra) grazie al fatto che in quel momento non si trovava in volo nessun aereo della Formidable. (Per altra fonte, invece, l’avvistamento di cui Rodi diede notizia non fu effettuato dagli aerosiluranti che avevano attaccato alla Formidable, bensì da uno dei ricognitori IMAM Ro. 43 catapultati dagli incrociatori italiani, che aveva avvistato la formazione britannica alle 12.25 ed aveva poi dovuto raggiungere Rodi – non potendo essere recuperato dall’incrociatore che l’aveva lanciato – da dove poi il segnale di scoperta era stato trasmesso a Iachino). Il forte ritardo (più di due ore) con cui questa notizia raggiunse Iachino, ed il fatto che dopo di essa Rodi non comunicò più nessun’altra informazione, indussero l’ammiraglio a ritenere, sbagliando, che tale avvistamento fosse inattendibile; invece era una delle poche notizie giuste nella marea di informazioni errate che affluirono sulla Vittorio Veneto nel corso della giornata. Alle 15.04 Supermarina comunicò a Iachino che «Dalle intercettazioni radiogoniometriche nave nemica ore 13.15 a miglia 110 per 60° da Tobruk trasmette ordini a Creta e ad Alessandria»; alle 11.15 i crittografi imbarcati sulla Vittorio Veneto avevano decrittato un messaggio di Pridham-Wippel che diceva a Cunningham «Dirigo per incontrarvi». Ma la granitica certezza di Iachino, che Cunningham e corazzate fossero ad Alessandria, non fu scossa.
Questa valutazione di Iachino – che non ci fossero, in mare, corazzate nemiche – ebbe poi un ruolo determinante nella catastrofica decisione, presa alcune ore più tardi, di inviare l’intera I Divisione in soccorso del Pola danneggiato da aerosiluranti, come si vedrà. È oggi quasi certo che la comunicazione intercettata dal Carducci fosse quella di Rodi delle 14.25; ed è interessante notare, anche col senno di poi, come Ginocchio, un comandante di cacciatorpediniere, seppe valutare quell’avvistamento più seriamente del suo ammiraglio, Iachino, che scartò la notizia tanto a cuor leggero. Fontana, nella sua relazione del 1947, avrebbe scritto a questo proposito che “Questo (…) mi pare sufficiente a dimostrare che c’era modo in quel pomeriggio, anche attraverso le frammentarie intercettazioni di un cacciatorpediniere, di rendersi esattamente conto della situazione nel senso di concludere che già gli inglesi ci stavano tallonando ad una distanza tale da sconsigliare nella sera l’ordine alla I Divisione di soccorrere il Pola. Si poteva e si doveva ritenere che dato l’inseguimento del nemico, non da lontano, l’inversione di rotta presentava rischi enormi.”
Forse, si disse Ginocchio, le navi di cui si parlava nel messaggio intercettato da Fontana erano gli incrociatori incontrati qualche ora prima, ed era stato commesso un errore di identificazione; ma lui per primo si rese conto che una simile supposizione fosse troppo irrealmente ottimistica. Probabilmente era in mare un nutrito nucleo da battaglia proveniente da Alessandria, del quale facevano forse parte l’Eagle o l’Illustrious. Altra cosa preoccupante erano il fatto che dal momento della partenza non si fosse visto un solo caccia dell’Asse sul cielo delle navi italiane, e che dall’alba del 28 non ci fosse stata ombra di ricognitori italiani. A seguito dell’intercettazione del segnale di scoperta, il comandante del Carducci volle controllare quanta nafta e quanta acqua restassero nei serbatoi: più tardi, verso le 17, chiamò quindi in plancia il direttore di macchina Scelsa, il quale riferì che rimanevano 130 tonnellate di nafta aspirabile, non molte nel caso di un ulteriore prolungamento della missione. La notizia venne comunicata al caposquadriglia Alfieri alzando il segnale di rimanenza, che venne poi ripetuto alle 18.40 per aggiornarlo sulla situazione.
Ginocchio scese in cabina, ma subito dopo Ninni lo chiamò di nuovo in plancia e gli disse che il Comando della I Divisione stava comunicando all’VIII Divisione che quest’ultima aveva libertà di manovra ed ordine di tornare subito alla base. Duca degli Abruzzi, Garibaldi e relativi cacciatorpediniere iniziarono a scadere lentamente, e Ginocchio ordinò di inviare con segnali ottici un saluto ed un augurio alle navi della VIII Divisione. La I Divisione invertì la rotta per ricongiungersi col gruppo Vittorio Veneto.

Come se non bastasse, a Ginocchio vennero al contempo mal di testa e dolori colitici – per il primo problema, si fece portare in plancia delle aspirine dall’infermiere e ne prese ben quattro – : avrebbe voluto potersi riposare un po’, invece arrivò Ninni ad annunciare un nuovo imminente attacco di aerosiluranti.
Si trattava di cinque aerosiluranti, due Fairey Swordfish e tre Fairey Albacore dell’829th Squadron della Fleet Air Arm (guidati dal capitano di corvetta John Dalyell-Stead), decollati dalla Formidable e scortati da due caccia Fairey Fulmar (guidati dal tenente Bruen), decollati dalla Formidable alle 12.22. Questo attacco venne inoltre appoggiato da bombardieri Bristol Blenheim del 211st Squadron RAF (caposquadriglia il capitano Jones) decollati dalle basi aeree britanniche di Creta.
Alle 15.19 gli aerei, dieci in tutto, apparvero da est, a poppavia della formazione, e si divisero quasi subito in due gruppi, mentre tutte le navi aprivano il fuoco con le armi contraeree; il Carducci iniziò ad emettere nebbia artificiale. I tre Albacore, al loro primo impiego in battaglia, si aprirono a ventaglio e puntarono sulla Vittorio Veneto, mentre i Fulmar attaccarono le unità della XIII Squadriglia, mitragliandone la coperta per disturbarne la reazione contraerea; i Blenheim, restando ad alta quota, sganciarono le loro bombe sulle navi che evoluivano freneticamente ad alta velocità. Dalla plancia, Ginocchio vide due marinai del Carducci che raffreddavano una mitragliera, arroventata dal ritmo di tiro, rovesciandoci sopra dei secchi d’acqua. Ad un tratto i due marinai iniziarono a correre per il ponte: Ginocchio gridò loro di fermarsi, ma vennero entrambi colpiti a morte, cadendo uno sull’altro, sotto lo sguardo del loro comandante.
Poco dopo, verso destra, Ginocchio vide un grande lampo e pensò che il Carducci od un’altra nave avessero abbattuto un aereo: invece, al termine dell’attacco seppe che la Vittorio Veneto era stata colpita a poppa da un siluro, imbarcando oltre 4000 tonnellate d’acqua. L’intenso tiro contraereo dei cacciatorpediniere della XIII Squadriglia aveva costretto due degli Albacore a lanciare da distanza troppo elevata (anche i due Swordfish, che avevano attaccato da dritta, lanciarono a vuoto) e colpito il terzo, quello centrale (il caposquadriglia, pilotato dal capitano di corvetta Dalyell-Stead), che però, prima di precipitare in mare con la morte dei tre uomini dell’equipaggio, era riuscito a ridurre le distanze con la Vittorio Veneto a meno di 1000 metri ed a lanciare un siluro, che colpì la nave da battaglia a poppa, in posizione 35°00’ N e 22°01’ E. Alle 15.30 la Vittorio Veneto, che aveva imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si immobilizzò. Sebbene visibilmente appoppata, però, la corazzata riprese quasi subito (dopo sei minuti) a navigare a buona andatura. Solo alle 17.13, tuttavia, riuscì a sviluppare una velocità di 19 nodi.
La flotta italiana diresse su Taranto, ed alle 16.38 l’ammiraglio Iachino, in previsione di altri attacchi aerei in arrivo al tramonto, ordinò che le altre unità si disponessero intorno alla danneggiata Vittorio Veneto per proteggerla da altri attacchi. Proprio a quell’ora la I Divisione ricevette l’ordine di riunirsi al resto della formazione e portarsi presso la Vittorio Veneto; alle 18.18 la I Divisione ricevette dalla nave ammiraglia l’ultimo messaggio contenente le istruzioni sulla formazione da assumere, ed alle 18.40 il gruppo «Zara» raggiunse il posto assegnato, completando così lo schieramento. Alle 18.10 fu ricevuta in plancia del Carducci una comunicazione del Comando di Squadra (cioè dalla Vittorio Veneto): vi si diceva che appena calato il buio ci sarebbe stato un altro attacco aereo, e si prescriveva una nuova formazione nonché il da farsi al momento dell’attacco. Le navi dovevano disporsi in cinque colonne, con la Vittorio Veneto al centro, fiancheggiata ai lati dalla I e III Divisione, mentre la IX e XII Squadriglia Cacciatorpediniere si sarebbero disposte lungo i lati esterni; quando gli aerei avessero attaccato, i cacciatorpediniere avrebbero dovuto emettere cortine nebbiogene e tutte le navi, oltre ad aprire il fuoco con le armi contraeree, avrebbero dovuto accendere i proiettori per accecare i piloti britannici.
L’ordine dell’ammiraglio Iachino era stato originato dall’intercettazione, da parte del reparto di crittografi imbarcati sulla Vittorio Veneto, di un messaggio britannico che ordinava attacchi di aerosiluranti da Maleme (Creta) per il tramonto. Da quella base avevano infatti preso il volo, alle 16.55, due Fairey Swordfish, pilotati dai tenenti di vascello Torrens-Spence (aereo L9774) e Kiggell. Recavano gli ultimi due siluri disponibili a Maleme, là inviati quello stesso pomeriggio da Eleusis. L’ammiraglio Cunningham, una volta appreso che la Vittorio Veneto era stata danneggiata, aveva deciso di lanciare un ulteriore attacco aereo al tramonto, col proposito di finire la corazzata: oltre ai due Swordfish di Maleme, alle 17.30 decollarono pertanto dalla Formidable tutti gli aerosiluranti ancora disponibili, cioè sei Albacore dell’826th Squadron e due Swordfish dell’829th Squadron, guidati dal capitano di corvetta Saunt. Poco prima che gli aerei decollassero, i caccia Fulmar della Formidable ebbero un inconclusivo scontro con un aerosilurante italiano, un Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero” del 34° Gruppo da Bombardamento Terrestre, che aveva infruttuosamente attaccato un incrociatore.

La nuova formazione italiana era articolata su cinque colonne di unità disposte in linea di fila: da destra a sinistra, la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri in testa, Gioberti in seconda posizione, Carducci terzo ed Oriani in coda), la I Divisione (nell’ordine Zara, Pola, Fiume), la Vittorio Veneto preceduta da Granatiere e Fuciliere e seguita da Bersagliere ed Alpino, la III Divisione (nell’ordine Trieste, Trento, Bolzano) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (nell’ordine Corazziere, Carabiniere, Ascari). La squadra italiana faceva quadrato attorno alla sua azzoppata ammiraglia, per proteggerla da ulteriori danni. Al crepuscolo il Carducci accelerò a 21 nodi, e si preparò ad emettere nebbia artificiale e ad aprire il fuoco contraereo.
Iachino richiese la copertura aerea, e gli fu assicurato che era in arrivo: alle 14.30 erano già decollati quattro caccia pesanti Messerschmitt Bf 110 del X Corpo Aereo Tedesco per abbattere il ricognitore Sunderland che controllava la forza italiana, e verso le 16 erano stati fatti decollare altri sei Bf 110 per dare scorta aerea alle unità italiane. Secondo la Luftwaffe, gli aerei raggiunsero la squadra di Iachino e la scortarono per 50 minuti, senza avvistare aerei nemici; l’ammiraglio italiano, al contrario, sostenne di non aver visto un solo aereo per tutta la durata della navigazione.
Tra le 16 e le 16.15 giunse a Iachino ancora un messaggio che avrebbe dovuto metterlo all’erta: uno Ju 88 tedesco comunicò di aver avvistato, alle 15, una formazione britannica comprensiva di una corazzata su rotta 285°.
Alle 18.23 (nel frattempo la velocità della Vittorio Veneto era scesa a 15 nodi) vennero avvistati all’orizzonte nove aerosiluranti britannici, che si tenevano a distanza ad est delle navi italiane, fuori tiro e bassi sul mare (tranne uno che, restando in quota dalla parte del sole, comunicava agli altri la posizione e gli elementi del moto delle unità italiane).
Per coincidenza, gli aerosiluranti di Maleme, guidati dal tenente di vascello Torrens-Spence, e quelli della Formidable, guidati dal capitano di corvetta Saund, erano giunti sul posto quasi contemporaneamente. Torrens-Spence stava posizionandosi per attaccare quando vide arrivare gli aerei di Saunt, che volavano in linea di fila a soli 30 metri di quota, e decise di accodarsi ad essi; inizialmente tale manovra destò qualche equivoco, perché i velivoli di Saunt scambiarono inizialmente quelli di Torrens-Spence per caccia italiani CR. 42, e manovrarono per evitarli.
Alle 18.51 tramontò il sole. Alle 18.58 Iachino ordinò a tutte le navi di tenersi pronte ad accendere i proiettori e stendere cortine nebbiogene, alle 19.15 la formazione italiana accostò per conversione ed assunse rotta 270° (in modo che le navi fossero meno illuminate possibile dal sole che stava tramontando) e nove minuti più tardi i cacciatorpediniere in coda iniziarono a stendere cortine nebbiogene. Alle 19.25 Saund giudicò che le condizioni di luce fossero divenute adatte per un attacco, dunque alle 19.28 gli aerosiluranti si avvicinarono – le navi più esterne accesero perciò i proiettori su ordine di Iachino – ed alle 19.30, su ordine dell’ammiraglio Iachino, fu eseguita una nuova accostata per conversione, assumendo rotta 300°. (Stephen Roskill, per undici anni storico ufficiale della Royal Navy, evidenziò in seguito la perizia marinara mostrata dalle navi italiane, nel manovrare senza incidenti in formazione tanto ristretta, al buio, ad alta velocità, tra cortine fumogene e sotto attacco aereo. Ma questo non cambiò, purtroppo, l’esito dell’attacco). Venne data attuazione alle disposizioni precedentemente ordinate: alle 19.40 il Carducci aprì il fuoco ed accese i proiettori per accecare i piloti nemici, mentre gli aerosiluranti andavano all’attacco. Anche gli altri cacciatorpediniere emisero cortine fumogene ed aprono il fuoco, mentre gli aerei passavano all’attacco: molti, non riuscendo ad oltrepassare la barriera costituita dal tiro dei cacciatorpediniere, dai fasci dei proiettori e dalle cortine nebbiogene, sganciarono in maniera imprecisa. L’azione che seguì, durante la quale vi furono sul Carducci altri feriti, si protrasse per un’ora, secondo quanto poi stimato dal comandante Ginocchio (ma l’azione cruciale, l’attacco degli aerei, durò molto meno); tra il buio, le cortine di fumo e le vampe delle cannonate risultava pressoché impossibile vedere le altre navi.
Gli aerei britannici attaccarono provenendo da poppa, dividendosi una volta giunti a 2700 metri dal loro obiettivo ed attaccando individualmente. Il fumo ed i proiettori disorientarono molti dei piloti, parecchi dei quali non riuscirono a distinguere i bersagli e finirono con l’attaccare gli incrociatori anziché il loro obiettivo primario, la Vittorio Veneto. I due aerosiluranti di Maleme seguirono quelli di Saund nell’attacco contro le navi di Iachino; Torrens-Spence, una volta entrato nella cortina fumogena, non riuscì più a vedere niente, pertanto risalì fino a 2700 metri di quota per poter meglio distinguere le navi italiane e la loro formazione. Alle 19.45 l’Albacore pilotato dal sottotenente di vascello G. P. C. Williams lanciò il suo siluro contro il Pola, e poco dopo fece lo stesso anche lo Swordfish di Torrens-Spence, che era riuscito a scovare proprio in quel punto un “buco” nella cortina nebbiogena stesa dalle navi italiane. Nessuno degli aerei attaccanti venne abbattuto; quello di Torrens-Spence subì lievi danni alla coda ma riuscì a rientrare alla base, mentre quello di Williams dovette ammarare durante il rientro a causa dell’esaurimento del carburante.
Concluso l’attacco, le navi ripresero la normale navigazione sulla rotta di rientro. Alle 19.50, calato il buio, si spensero i proiettori e venne cessato il fuoco contraereo, ed alle 20.11 cessò anche l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05 l’ammiraglio Iachino ordinò alla I Divisione di posizionarsi 5000 metri a prua della Vittorio Veneto, in linea di fila (poco prima, alle 19.55, aveva ordinato a tutte le navi di assumere rotta 300° e velocità 19 nodi, confermando un ordine dato alle 19.44, subito dopo la fine dell’attacco aereo).
Il direttore del tiro del Carducci, Cimaglia, approfittò di questo momento di calma per cercare di riposarsi; si ritirò in sala nautica e si sedette sul portello d’accesso per tentare di dormire un po’, ma non vi riuscì, perché sentì il comandante Ginocchio discutere lungamente con Scelsa, il direttore di macchina, in merito alle rimanenze di nafta: confrontavano quelle del Carducci con quelle delle altre navi, valutavano l’opportunità di farlo presente al Comando di Squadriglia per decidere se fosse necessario tornare alla base oppure, se la missione si fosse ancora prolungata, andarsi a rifornire nella base più vicina, in Africa od in Egeo.
Intorno alle 21 Ginocchio, sceso in cabina, controllò i nomi di chi era rimasto ucciso o ferito nel corso degli attacchi aerei: i due morti, i marinai colpiti mentre correvano durante il primo attacco, avevano 19 e 20 anni; altri due marinai erano rimasti feriti gravemente. Ginocchio ripeté ad un marinaio, mandato da Ninni a portargli una tazza di caffè, la domanda che stava ponendo a sé stesso: “Perché correvano tanto? Lo hai sentito anche tu quando gridavo di fermarsi?”. Il marinaio rispose solo che le salme erano state trasportate dall’infermeria ad un locale di prua.
Dieci minuti dopo, Ginocchio venne informato dell’intercettazione di un messaggio del Fiume, nel quale si diceva che il Pola era fermo: corso in plancia, scrutò col binocolo il buio della sera e riuscì a vedere la sagoma nera del Pola, sempre più lontano dal resto della squadra. Passato poco tempo, giunse proprio dal Pola la comunicazione di essere stato colpito da un siluro, nei locali macchine e caldaie, nel corso dell’ultimo attacco aereo. Era accaduto verso le 19.50, e quasi nessuno se ne era accorto.

Alle 20.15 il Carducci intercettò il segnale col quale lo Zara riferiva alla Vittorio Veneto: «Nave Pola informa essere stata colpita da siluro a poppa. Nave est ferma…»
Poco prima era salito in plancia, insieme a Ninni, il fuochista Aiello, per dire che restava poca nafta nei depositi, notizia doppiamente preoccupante ora che si doveva tornare indietro: Ginocchio l’aveva fatta comunicare di nuovo all’Alfieri, e dopo l’intercettazione del messaggio dello Zara relativo al Pola ordinò all’ufficiale di rotta Fontana di redigere un messaggio cifrato dall’analogo contenuto, che fu poi trasmesso sull’onda RDS del Comando di Divisione, cosa non prevista per un cacciatorpediniere non caposquadriglia, “in modo che lo intercettino anche sullo Zara e sulla Vittorio Veneto”. Il messaggio fu trasmesso allo Zara alle 20.15.
Di nuovo non ci fu risposta, ma in realtà la comunicazione venne ricevuta sia sull’Alfieri che sullo Zara, e sia il caposquadriglia Toscano che l’ammiraglio Cattaneo considerarono il problema con la dovuta attenzione: Toscano discusse con i suoi subordinati la possibilità di far rifornire il Carducci da un incrociatore, Cattaneo decise poi di ridurre la velocità con cui la I Divisione doveva procedere verso il Pola proprio in considerazione della ridotta autonomia residua del Carducci, molto minore di quella degli altri cacciatorpediniere, dato che una maggiore velocità avrebbe comportato un più elevato consumo di nafta. (Nel dopoguerra qualcuno ha anche ipotizzato che la situazione del Carducci possa aver giocato un ruolo nella scelta di Cattaneo di non far precedere la I Divisione dai cacciatorpediniere, ma questa rimane una supposizione).
Alle 20.16 l’ammiraglio di divisione Cattaneo, comandante la I Divisione, comunicò a Iachino che salvo contrordini avrebbe distaccato due cacciatorpediniere (della IX Squadriglia) per scortare il danneggiato Pola. Era probabilmente la decisione più sensata: inviare al soccorso del Pola l’intera I Divisione sarebbe stato di scarsa utilità e sproporzionato ai rischi, dato che è in mare, era sole 55 miglia di distanza (Iachino pensava 75, a causa di errori nelle rilevazioni radiogoniometriche usate per localizzare le navi nemiche), una formazione britannica di dimensioni sconosciute, chiaramente all’inseguimento delle navi italiane. Si trattava del gruppo che comprendeva Barham, Valiant, Warspite e Formidable, ma Iachino pensava che l’entità della formazione britannica fosse molto minore, e che nessuna corazzata ne faccia parte.
In realtà, Iachino avrebbe avuto più di un motivo per dubitare di una valutazione del genere: oltre a quanto detto più sopra (si ricordi il segnale di scoperta intercettato dal Carducci alle tre di quel pomeriggio), alle 20.05 Supermarina gli aveva riferito che alle 17.45 una nave nemica «sede di Comando Complesso», pertanto di sicuro non una nave minore, alle 17.45 aveva comunicato con Alessandria da un punto a 40 miglia per 240° da Capo Krio, cioè da un punto a 75 miglia per 110° dalla Vittorio Veneto (in realtà era ancora più vicino, a 55 miglia per 110°, in quanto un errore radiogoniometrico stimava la posizione di Cunningham 20 miglia più ad est di quella effettiva).
Se Iachino avesse dato credito a questo messaggio, si sarebbe accorto che la formazione britannica, seguendo ad una velocità stimabile attorno ai 20-22 nodi (per via delle proprie lente corazzate) la squadra italiana che avanzava a 15-19 nodi (quanto riusciva a fare, a tratti, la Vittorio Veneto), avrebbe potuto ridurre la distanza con le sue navi, tra le 17.45 e le 19.50, da 75 a 67 miglia circa; cioè sarebbe stata a sole 67 miglia del Pola quando questo era stato immobilizzato, e, procedendo a velocità media di 21 nodi, avrebbe coperto tale distanza in poco più di tre ore, raggiungendo il Pola attorno alle 23.
Per giunta, alle 20.15 i crittografi imbarcati per l’occasione sulla Vittorio Veneto intercettarono un messaggio trasmesso da un ammiraglio britannico, cui risposero ben tre unità sedi di Comando Complesso («Velocità 15 nodi – 2013»); ma visto che alle 19.50 lo stesso ammiraglio aveva ordinato «Velocità 20 nodi – 1945», Iachino pensò che le unità britanniche inseguitrici avessero rallentato, forse anche abbandonato l’inseguimento. Più tardi, durante il botta e risposta tra Cattaneo e Iachino gli stessi crittografi intercettarono pure "un lungo segnale di formazione – Forse le disposizioni per la notte", trasmesse alle 20.37 dalla Warspite (nominativo 1JP) alle unità  D2M e DV5, ritenute sedi di probabili comandi complessi: erano probabilmente la Forza B di Pridham-Wippell e la 14th Destroyer Flotilla del capitano di vascello Philip Mack, inviate alla ricerca notturna delle navi italiane.
Già dal pomeriggio del 28 marzo il capitano di fregata Eliseo Porta, capo dei crittografi imbarcati sulla Vittorio Veneto, aveva detto a Iachino che interpretando le intercettazioni delle comunicazioni nemiche – cioè proprio lo scopo al quale era stato imbarcato – aveva ricavato l’impressione che il grosso nemico fosse in mare. Iachino l’aveva ascoltato, poi lo aveva congedato senza dire niente: il parere di Porta probabilmente contrastava con il quadro della situazione che Iachino s’era fatto, dunque l’ammiraglio doveva aver concluso che ad essere in errore fosse Porta. Ma non era così.
Un paio di cacciatorpediniere probabilmente sarebbero bastati, l’uno per prendere il Pola a rimorchio e l’altro per scortarlo, e, nel caso siano raggiunti dalle navi britanniche, per evacuarlo ed affondarlo con i siluri; al più si sarebbe potuto inviare al suo soccorso tutta la IX Squadriglia. Iachino, però, era di diversa opinione: affermò in seguito che due cacciatorpediniere avrebbero potuto solo affondare il Pola, non sarebbero riusciti a rimorchiare una nave così grande e appesantita dall’acqua imbarcata (valutazione del tutto errata, dato ad esempio che nell’agosto 1942 due cacciatorpediniere furono più che sufficienti a rimorchiare in salvo l’incrociatore pesante Bolzano, silurato e ridotto in condizioni peggiori del Pola a Matapan), non sarebbero nemmeno bastati a salvarne l’equipaggio e non avrebbero avuto l’autorità necessaria a decidere se affondare o meno l’incrociatore. Alle 20.18 ordinò pertanto che tutta la I Divisione (Zara, Fiume e IX Squadriglia) si recasse a soccorrere la nave danneggiata, reiterando l’ordine alle 20.38 («ZARA FIUME et 9a squadriglia vada soccorrere POLA»), dal momento che Cattaneo, essendosi reso conto – dalle segnalazioni dei ricognitori tedeschi e dalle intercettazioni delle comunicazioni radio britanniche – che una squadra britannica stava seguendo quella italiana, tardava ad eseguire l’ordine. Alle 20.24 Cattaneo, che sulle prime era stato riluttante a tornare indietro con tutte le sue navi, chiese se poteva invertire la rotta per assistere il Pola, ed alle 21 Iachino rispose affermativamente. Già prima di questa conferma finale, probabilmente in seguito alla ricezione dell’ordine delle 20.38, la I Divisione accostò ad un tempo di 180° sulla dritta ed invertì la rotta alle 21.06, dirigendosi verso il Pola.
Questo scambio di messaggi tra Cattaneo e Iachino venne seguito anche sul Carducci: alle 20.58 venne intercettato un altro messaggio dello Zara, che diceva «Chiedo se posso invertire la rotta per portare soccorso al Pola» (un messaggio il cui effettivo significato rimane piuttosto ambiguo, date le precedenti resistenze di Cattaneo, la sua giusta proposta di mandare soltanto un paio di cacciatorpediniere, ed il pessimistico commento che fece al momento di ordinare l’inversione di rotta: “È un guaio!”), ed alle 21.05 anche la risposta dell’ammiraglio Iachino, «Sì, invertite la rotta».
A quel punto venne comunicato al Carducci, sia per radio che con segnali ottici, che tutta la I Divisione con la IX Squadriglia sarebbe dovuta tornare indietro per prestare assistenza al Pola. L’ordine fu riferito a Ginocchio da Fontana. Mentre la I Divisione metteva nuovamente la prua a sudest, il resto della squadra italiana, continuando la navigazione verso Taranto, sparì nel buio della notte.
Una volta ricevuto l’ordine di tornare indietro, le quattro unità della IX Squadriglia iniziarono un’ampia conversione per portarsi in testa alla I Divisione; completata l’accostata, il Carducci stava per superare Zara e Fiume per posizionarsi a proravia di essi, insieme agli altri tre cacciatorpediniere (in linea di fila), ma giunse dall’ammiraglio Cattaneo un ordine che disponeva che i cacciatorpediniere si tenessero a poppavia degli incrociatori, anziché a proravia. Sia a Ginocchio che a Ninni quest’ordine sembrò strano: la logica sembrava dettare il contrario, i cacciatorpediniere dovevano procedere in testa per formare uno schermo protettivo ed evitare che, in caso di brutti incontri notturni, gli incrociatori fossero subito colti nel pieno dello scontro. Anche gli altri cacciatorpediniere tardavano a manovrare per eseguire l’ordine, colti probabilmente dallo stesso dubbio, e sia Ginocchio che Ninni pensarono che l’addetto alla radio dovesse aver commesso un errore nella trascrizione del messaggio di Cattaneo. Venne dunque chiesta conferma dell’ordine allo Zara, conferma che puntualmente giunse dopo cinque minuti. Ancora perplesso, Ginocchio desisté dal comprendere ed iniziò a manovrare per portarsi dietro gli incrociatori, come stavano già facendo gli altri cacciatorpediniere. Cimaglia, avendo ormai rinunciato a cercare di dormire, seguì la manovra di accostata e fornì dei nuovi dati di alzo al sottotenente di vascello Luigi Rossi, suo sottordine al tiro. Nel corso dell’accostata il complesso poppiero da 120 mm, che non aveva seguito la manovra, avvistò un’ombra sospetta e vi puntò contro i cannoni, segnalandola frattanto a Cimaglia: in realtà si trattava dell’Oriani, che seguiva il Carducci e stava manovrando per posizionarsi dietro di esso. Il direttore del tiro decise allora di dare ordine – chiedendo ed ottenendo l’autorizzazione dal comandante Ginocchio – che i complessi da 120 tenessero aperti gli otturatori, per evitare che nel buio della notte potessero inavvertitamente fare fuoco su navi italiane.
Il Carducci si posizionò in penultima posizione, seguito dall’Oriani (suo sezionario) e preceduto dal Gioberti (sezionario dell’Alfieri). L’Alfieri, quale caposquadriglia, apriva la fila dei cacciatorpediniere, seguendo il Fiume che a sua volta seguiva lo Zara, nave di testa.
Non fu soltanto Ginocchio a restare stupito dell’ordine ricevuto. La formazione assunta da Cattaneo, con la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori, invece che a proravia degli stessi, avrebbe in seguito destato molte perplessità e polemiche, dal momento che, se i cacciatorpediniere fossero stati posizionati in posizione di scorta avanzata notturna (4 km a proravia degli incrociatori, con un intervallo di 2 km tra ogni cacciatorpediniere), gli eventi successivi avrebbero potuto prendere una piega differente. Da molte parti, ancor oggi, si sostiene che ponendo la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori Cattaneo contravvenne alle regole vigenti sulla navigazione notturna in tempo di guerra, che prevedevano invece che i cacciatorpediniere venissero posizionati a proravia delle navi maggiori, formando uno schermo difensivo. In realtà, tuttavia, le norme di Squadra (come evidenziato dallo storico Francesco Mattesini, autore di una monumentale opera su Capo Matapan), prevedevano un’eccezione alla summenzionata regola: quella di condizioni pessime di visibilità notturna. In tal caso, le norme stabilivano che i cacciatorpediniere dovessero navigare – in singola o doppia linea di fila – a poppavia delle navi maggiori, anziché a proravia, perché in caso di incontro improvviso con unità nemiche avrebbero dovuto essere le navi maggiori ad aprire il fuoco per prime (un controsenso, in effetti, se si pensa che gli equipaggi di tali navi, a differenza di quelli dei cacciatorpediniere, non erano addestrati al combattimento notturno, e gli incrociatori di notte viaggiavano con i cannoni per chiglia, del tutto impreparati ad un’azione di fuoco): l’articolo 68 della direttiva SM-11-S del gennaio 1936 disponeva che “All’approssimarsi della notte le Unità del naviglio sottile che il C.C. [Comandante in Capo] intende far navigare in unione con le unità maggiori, vengono inviate di poppa alla formazione di queste, in unica e doppia linea di fila”. Tanto che Supermarina, nelle relazioni sul disastro, non diede alcuna importanza al fatto che la IX Squadriglia si fosse trovata dietro e non davanti agli incrociatori (il primo a sollevare tale questione fu invece, nel dopoguerra, l’ammiraglio Iachino, che cercava di alleggerire la propria responsabilità dell’accaduto imputandolo anche ad errori commessi da Cattaneo). E “pessime condizioni di visibilità notturna” definiva esattamente la fatidica notte del 28 marzo, una notte senza luna, estremamente buia, con alcune nuvole che riducevano molto la visibilità, specie verso est. Dunque Cattaneo non contravvenne alle regole, ma vi si attenne alla lettera, anche in considerazione del fatto che la carente visibilità avrebbe potuto causare errori di riconoscimento con i cacciatorpediniere (come dimostrato, peraltro, dal succitato episodio di Cimaglia e del complesso poppiero da 120 del Carducci), qualora fossero stati posti a proravia, e specialmente sarebbe stato d’intralcio al tiro degli incrociatori in caso d’incontro con le unità britanniche. Peraltro, Cattaneo stesso (come Iachino) si aspettava di incontrare le unità britanniche – che anche lui pensava essere solo incrociatori e cacciatorpediniere, non corazzate – molto più tardi, quando il Pola sarebbe già stato preso a rimorchio, ed i cacciatorpediniere sarebbero stati disposti tutt’attorno agli incrociatori per proteggerli su tutti i lati. Comunque sia, anche la Commissione d’Inchiesta Speciale istituita nel 1947 sulla perdita dello Zara avrebbe espresso il giudizio che sarebbe stato opportuno che Cattaneo avesse ordinato di far precedere la I Divisione dai cacciatorpediniere, anche se avrebbe puntualizzato che bisognava considerare che ciò avrebbe potuto generare alcuni problemi: vi sarebbe stata possibilità di equivoci con il Pola, con la necessità di utilizzare i segnali di riconoscimento (cosa da evitare, data la possibilità della presenza di forze nemiche nelle vicinanze); inoltre occorreva evitare di perdere altro tempo, proprio per riuscire a raggiungere e rimorchiare in salvo il Pola prima del possibile intervento nemico. La CIS avrebbe inoltre rilevato che Iachino, pur essendo stato informato della formazione adottata da Cattaneo, non aveva ritenuto di dover intervenire ordinando al suo sottoposto di disporre le sue unità in modo più appropriato.

Al momento dell’inversione di rotta, la distanza tra il Pola fermo ed il resto della squadra, che era proseguito, era divenuta di 24 miglia. La I Divisione assunse rotta 135°, ed alle 21.07 Cattaneo ordinò di portare la velocità a 16 nodi, che aumentò a 22 nodi alle 21.25 per poi ridurla nuovamente a 16 alle 22.03. Questa velocità, non particolarmente elevata, era dovuta al fatto che i cacciatorpediniere della IX Squadriglia erano ormai a corto di carburante (fatto che venne segnalato allo Zara, che a sua volta comunicò a Iachino alle 21.50, nel suo ultimo messaggio, cui Iachino non rispose: "L’autonomia rimasta alla Squadriglia Alfieri è molto limitata e non permette un ingaggio d’emergenza, che pensiamo essere quasi certo"), rimasto in quantità appena sufficiente a tornare alla base: ad impensierire più di tutti era proprio il Carducci, che alle 21 aveva solo 125 tonnellate di carburante nei serbatoi (il 28 % del totale, e bastante per meno di 200 miglia alla velocità da tenere in battaglia), mentre gli altri tre ne avevano 145 ciascuno. La ridotta riserva di combustibile rimasta ai cacciatorpediniere era anche uno dei motivi per i quali Cattaneo, essendosi trovato con la IX Squadriglia a poppavia dei suoi incrociatori a seguito dell’inversione di rotta, non ordinò loro di portarsi a proravia di questi ultimi, dato che per portarsi nuovamente in testa allo schieramento i cacciatorpediniere di Toscano avrebbero dovuto incrementare considerevolmente la velocità, consumando così più carburante. Secondo il tenente di vascello Vincenzo Raffaelli, aiutante di bandiera dell’ammiraglio Cattaneo, dopo l’inversione di rotta i cacciatorpediniere rimasero indietro rispetto agli incrociatori, perciò Cattaneo, dopo aver ordinato 22 nodi agli incrociatori, impartì alla IX Squadriglia l’ordine di serrare le distanze alla massima velocità; i cacciatorpediniere svilupparono la massima velocità possibile, ma non ridussero comunque le distanze fino a quando, più tardi, Zara e Fiume ridussero la velocità a 12 nodi.
Sul Carducci, il comandante Ginocchio ponderò brevemente la situazione. In base alle ultime comunicazioni, una formazione navale britannica si trovava a 120 miglia di distanza, diretta verso il Pola, che distava 25 miglia dalla I Divisione. Con una distanza di 120 miglia dal nemico, ci sarebbe stato abbondantemente tempo di raggiungere il Pola e soccorrerlo, e poi c’era sì una portaerei in mare, ma per quanto ne sapeva i britannici avevano soltanto incrociatori leggeri nel Mediterraneo orientale: d’altro canto, però, gli incrociatori britannici disponevano di munizioni a vampa ridotta per il tiro notturno, quelli italiani no.
Il cuoco salì in plancia portando la cena, che Ginocchio non aveva ancora mangiato: una fetta di carne e tre supplì. Il cuoco era un uomo di circa trent’anni, grande e grosso, dall’aspetto ben poco militaresco: non indossava il camisaccio e col suo grembiule bianco sembrava il garzone di una pizzeria. Da qualche tempo gli aveva prestato il romanzo “La cittadella” di Archibald Joseph Cronin, che Ginocchio faticava a finire per mancanza di tempo, sempre preso dalle incombenze del comando. Anche il cuoco era dubbioso: guardando verso prua chiese perché li stessero facendo navigare dietro gli incrociatori, e Ginocchio gli suggerì scherzosamente di andare in sala radio per parlare con l’ammiraglio Cattaneo, che forse glielo avrebbe spiegato. Il cuoco salutò cerimoniosamente e se ne andò in silenzio.
Ginocchio assaggiò un supplì, ma lo trovò disgustoso; ne offrì una fetta al timoniere, marinaio nocchiere Giuseppe Calafiore, che però, dopo averlo provato, lo respinse a sua volta protestando che era una schifezza. Il cuoco del Carducci non godeva di grande prestigio tra l’equipaggio per il suo talento culinario. Ninni rispose al timoniere scherzando che avrebbero chiamato Auguste Escoffier.
La radio del Carducci intercettò sull’onda di divisione una comunicazione diretta dallo Zara al Fiume, nella quale il primo ordinava al secondo di preparare le attrezzature del rimorchio (l’ammiraglio Cattaneo voleva infatti far prendere il Pola a rimorchio dal Fiume) e di passare al posto di combattimento notturno per guardie (sul Carducci quest’ultimo ordine non era necessario, essendo già previsto che durante la navigazione notturna i cannoni rimanessero armati con metà del personale sveglio, e l’altra metà che doveva dormire non in branda ma sul ponte, accanto ai cannoni, per essere pronta a combattere in caso di necessità). Il direttore del tiro Cimaglia tornò a ritirarsi in sala nautica, dove lo raggiunse anche il sottotenente di vascello Aldo Venticinque.
Alle 21.40 il Carducci, su ordine del comando di divisione, ridusse la velocità da 20 a 12 nodi e passò da rotta 130° a 180°: apparve evidente che la I Divisione dovesse essere ormai quasi arrivata al Pola.

Alle 21.24 Iachino autorizzò Cattaneo ad abbandonare il Pola qualora attaccato da forze nemiche di entità superiore, e dieci minuti più tardi iniziò lo scambio di informazioni tra Zara e Pola per preparare le operazioni di rimorchio, una volta le navi di Cattaneo fossero giunte sul posto.
All’insaputa di Cattaneo e di Iachino, però, già dalle 20.15 il radar dell’incrociatore britannico Orion, inviato con il resto della Forza B alla ricerca della formazione italiana, aveva individuato il relitto galleggiante del Pola. Dopo aver effettuato vari rilevamenti radar senza essere riuscito ad identificare il contatto (il Pola non era infatti stato visivamente avvistato), l’ammiraglio Pridham-Wippell, comandante della Forza B, avendo comunicato al suo comandante in capo (l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet ed imbarcato sulla Warspite) la posizione della nave sconosciuta affinché decidesse sul da farsi, decise di proseguire senza curarsene ulteriormente.
Alle 21.55 (od alle 21.15, o poco dopo le 22) un altro degli incrociatori di Pridham-Wippell, l’Ajax, rilevò un nuovo contatto radar: stavolta erano tre navi, che si trovavano cinque miglia a sud della Forza B (che era in quel momento nel punto 35°19’ N e 21°15’ E), su rilevamento compreso tra 190° e 252°. Erano probabilmente il Carducci, l’Oriani ed il Gioberti, che assieme al resto della I Divisione stavano procedendo su rotta opposta a quella della Forza B, rispetto alla quale si trovavano effettivamente poco più di cinque miglia a sud: Pridham-Wippell, però, pensa trattarsi di tre degli otto cacciatorpediniere della 14th Destroyer Flotilla del capitano di vascello Philip Mack, inviati anch’essi alla ricerca delle navi italiane (Cunningham aveva ordinato a Mack di seguire una rotta molto più a sud di quella di Pridham-Wippell, per formare una sorta di “tenaglia” avente a sud la forza di Mack, a nord quella di Pridham-Wippell ed al centro le sue corazzate): lo stesso pensò il comandante Mack, che aveva ricevuto la comunicazione radio dell’avvistamento, e rispose all’Ajax che le navi da loro avvistate dovevano essere le sue. La Forza B, pertanto, alle 22.02 accostò verso nord per allontanarsi, onde evitare incidenti con le navi di Mack. Le navi di Cattaneo superarono quindi indenni ed ignare sia la Forza B (passando a sud di essa) sia le navi di Mack (ad una decina di miglia di distanza), procedendo su rotta opposta.
Ricevuta la segnalazione di Pridham-Wippell sul relitto del Pola (che ancora non si sapeva essere tale), Cunningham assunse con le sue navi (Barham, Valiant, Warspite, Formidable ed i cacciatorpediniere Stuart, Havock, Griffin e Greyhound) rotta 280° per scoprire la sua identità, e distruggerlo. Dopo un’ora la Valiant, unica corazzata munita di radar, che subito dopo il mutamento di rotta aveva iniziato a scandagliare la zona con il suo radar per cercare la nave immobilizzata, localizzò il Pola 6 miglia a prua sinistra, e tutte le navi di Cunningham accostarono di 40° a sinistra, assumendo rotta 240° ed avvicinandosi in linea di rilevamento all’unità sconosciuta. L’ammiraglio britannico pensava di trovarsi di fronte alla Vittorio Veneto: di conseguenza, ordinò ai suoi cacciatorpediniere di scorta (Stuart ed Havock erano a dritta delle corazzate, Greyhound e Griffin a sinistra) di spostarsi tutti a dritta per liberare il campo di tiro verso sinistra, mentre 24 cannoni da 381 mm – l’armamento principale delle tre corazzate – venivano puntati verso il punto in cui il radar della Valiant aveva localizzato la nave ignota, pronti ad aprire il fuoco non appena essa fosse stata avvistata con i binocoli.
Alle 22.23, prima di completare la manovra di spostamento per liberare il campo di tiro delle corazzate, lo Stuart segnalò urgentissimamente a Cunningham "Unità sconosciuta per 250° a 4 miglia di distanza", seguito alle 22.25 da un’altra nave che comunicò "J – 300 – 6", cioè "rilevo unità di superficie nemica per rombo 300° a distanza 6": erano le navi del gruppo «Zara», che venivano a soccorrere il Pola.
Prima ancora che il messaggio dello Stuart venisse ricevuto sulla Warspite, comunque, fu il commodoro John Hereward Edelsten, capo di Stato Maggiore di Cunningham, ad avvistare le navi italiane. Mentre tutte le vedette, i puntatori e gli ufficiali britannici cercavano nel buio a sinistra, dove il radar della Valiant aveva localizzato il relitto del Pola, Edelsten stava tranquillamente controllando l’orizzonte sulla destra, con un binocolo, dalla plancia ammiraglio della Warspite. Alle 22.25 Edelsten disse con calma a Cunningham di aver avvistato due grandi incrociatori, preceduti da uno di dimensioni minori, che stavano attraversando la rotta della formazione britannica a proravia della stessa, ad una distanza di un paio di miglia, sulla dritta. Il comandante della Mediterranean Fleet si accertò egli stesso dell’esattezza dell’avvistamento, ed il capitano di fregata Power, esperto nel riconoscimento delle navi italiane, confermò che si trattava di due incrociatori classe Zara e (erroneamente) uno da 5000-6000 tonnellate, probabilmente tipo Colleoni. Erano le navi di Cattaneo, in navigazione in linea di fila su rotta 130°.
Le navi britanniche erano tutte munite di colorazione mimetica, che ne diminuiva di molto la probabilità di avvistamento, mentre quelle italiane, a parte il Fiume, avevano ancora la loro colorazione grigio chiaro, senza mimetizzazione, che le rendeva molto più visibili di notte.
Proprio in quei minuti, alle 22.29, le navi di Cattaneo avevano avvistato un razzo Very rosso levarsi nel cielo a poca distanza, a 40° di prora sinistra: l’aveva lanciato il Pola, per farsi vedere, temendo che le sagome scure che aveva visto transitare nei suoi pressi poco prima fossero le navi di Cattaneo, e che non l’avessero visto (in realtà erano le corazzate di Cunningham). Di conseguenza la I Divisione, ridotta la velocità a 16 nodi, iniziò ad accostare a sinistra, verso il punto da cui era partito il razzo. Intanto il Pola aveva effettuato segnalazioni anche con la lampada Donath: ma queste ed il razzo erano stati visti non solo dalla I Divisione, ma anche dalle navi da battaglia britanniche.
Cunningham ordinò che la formazione accostasse ad un tempo di 40° sulla dritta, ricostituendo la linea di fila sul rombo 280°; poi le torri dei cannoni delle tre corazzate – nell’ordine WarspiteValiant e Barham, distanziate di circa 600 metri l’una dall’altra – vennero puntate nella direzione da cui provenivano le navi della I Divisione. Alle 22.27 Cunningham ordinò alla Formidable di uscire dalla formazione ed allontanarsi verso destra, essendo al momento inutile ed anzi a rischio di essere coinvolta in un combattimento notturno nel quale non avrebbe potuto difendersi adeguatamente se attaccata. Al Griffin, che si trovava ancora sulla linea di tiro delle corazzate in procinto d’aprire il fuoco, fu ordinato in malo modo di levarsi di mezzo.

Alle 22.29 precise tutti gli uomini sulla plancia del Carducci videro un razzo Very rosso sollevarsi verso est, 40° da prora a sinistra, descrivere un’ampia traiettoria e poi cadere in mare. Il comandante Ginocchio commentò “Quello è il Pola!”, e questa fu l’impressione di tutti in plancia, ma un attimo dopo il mare venne improvvisamente illuminato da fasci di proiettori e bengala che si accesero per tutto il cielo, sulla dritta della formazione, mentre Ninni si girava e diceva qualcosa che Ginocchio non sentì. Il fascio di un proiettore proveniente da sinistra illuminò il Fiume, altri illuminarono lo Zara. Per un attimo Ginocchio pensò che forse quelli erano i proiettori del Pola, ma era evidente che erano troppo lontani per poterlo essere. E difatti, più o meno contemporaneamente venne intercettato un messaggio del Pola, che diceva di essere attaccato e chiedeva aiuto.
Mentre verso destra si accendevano le vampate di cannoni che facevano fuoco, Ninni gridò “Non è il Pola! Non è il Pola! Questi sono cannoni di grosso calibro!”. Un attimo più tardi, Zara e Fiume vennero colpiti e presero a bruciare furiosamente: dalla plancia del Carducci, Ninni vide chiaramente diversi proiettili colpire lo Zara, e gli scoppi delle riservette di munizioni sulla coperta del Fiume. La I Divisione era finita sotto il tiro di corazzate che sparavano stando nascoste nel buio, mentre i cacciatorpediniere ai lati illuminavano i bersagli con i proiettori.
Sul Carducci gli uomini, abbagliati da bengala e riflettori, non riuscivano a vedere il nemico. Più tardi, Ginocchio avrebbe stimato che l’azione di fuoco non dovesse essere durata più di tre minuti contro gli incrociatori e l’Alfieri ed uno e mezzo contro il Carducci, e che da parte britannica dovessero aver sparato diverse corazzate assistite da incrociatori e cacciatorpediniere; quest’ultimi erano i responsabili del tiro rapido illuminante che aveva accecato tutti, dato che sembrava tiro di pezzi da 100 mm.
La prima ad aprire il fuoco, alle 22.30, fu la Warspite, da 3500 metri di distanza. Subito la seguirono la Valiant e la Barham: ventiquattro cannoni da 381 mm riversarono un diluvio di proiettili sui due incrociatori della I Divisione, mentre i proiettori del cacciatorpediniere Greyhound e delle corazzate illuminavano lo Zara, il Fiume e l’Alfieri.
Lo Zara ed il Fiume, colti completamente alla sprovvista, non ebbero nemmeno il tempo di abbozzare una reazione: entrambi gli incrociatori vennero ridotti, in capo a tre minuti, a due relitti galleggianti, devastati dall’uragano di fuoco che si era abbattuto su di loro.
Alle 22.35 (o 22.33) la Barham aprì il fuoco per ultima, prima contro l’Alfieri e poi contro lo Zara.
Poco dopo, i proiettori delle navi britanniche avvistarono tre dei quattro cacciatorpediniere della IX Squadriglia: ai britannici sembrò che questi, sbucati da dietro gli incrociatori, si fossero inizialmente diretti verso la formazione britannica e poi, probabilmente dopo aver lanciato i siluri, avessero accostato a dritta per poi allontanarsi coprendosi la ritirata con cortine fumogene.
Niente di tutto questo era in realtà avvenuto: le quattro unità della IX Squadriglia, benché – a differenza degli incrociatori – avessero le proprie artiglierie ed i propri tubi lanciasiluri armati e pronti al fuoco (come di norma per la navigazione notturna delle siluranti in tempo di guerra), furono state talmente colte di sorpresa e frastornate da quanto stava accadendo – all’iniziale sorpresa seguirono violente e rapide raffiche di proiettili da 152 mm – che non spararono un colpo né tentarono il contrattacco silurante. La loro posizione era particolarmente sfavorevole: si erano venuti a trovare un po’ a ridosso degli incrociatori pesanti ed erano così centrati dal tiro delle navi britanniche che sparavano defilandosi dietro gli incrociatori della I Divisione; i cacciatorpediniere non potevano così impiegare le armi, perché rischiavano di colpire gli incrociatori di Cattaneo.
Investiti dal tiro delle navi britanniche ed abbagliati dai fasci luminosi dei proiettori puntati su di essi, l’Alfieri per primo, e subito dopo gli altri tre (per imitazione della manovra del caposquadriglia), accostarono immediatamente a dritta per disimpegnarsi, ed accelerarono tentando di sottrarsi al tiro delle unità britanniche coprendosi con cortine nebbiogene, senza capire cosa stesse accadendo. Il Carducci fu subito inquadrato subito dal tiro britannico, e così pure l’Oriani che lo seguiva.

Ripetendosi che doveva essere un sogno, Ginocchio si fiondò sul clacson e suonò l’allarme, poi Fontana, l’ufficiale di rotta (che al momento dell’apertura del fuoco era appena entrato in sala nautica perché chiamato dal radiotelegrafista di guardia, e si era subito precipitato nuovamente in plancia), lo mise in comunicazione telefonica con la centrale di tiro: più o meno in quel momento, il Carducci venne percorso da uno scossone. Doveva essere stato colpito a prua da qualche proiettile (più o meno contemporaneamente, infatti, venne osservato da bordo dell’Alfieri che si era scatenato un incendio sulla prua del Carducci). Dalla centrale di tiro non giunse risposta, per cui Ginocchio ordinò al sottocapo cannoniere Francesco Di Maio, che si trovava in plancia, di andare in centrale di tiro per recare l’ordine di iniziare subito a sparare contro i proiettori con i cannoni da 120 mm. A Ninni, che aspettava ordini, Ginocchio disse di andare a prua e vedere cosa fosse accaduto; mentre Ninni scattava, Ginocchio ordinò alla sala macchine “Macchine avanti massima!” e gridò al timoniere Calafiore “Vai per 270°!” (cioè barra a dritta, un’accostata per imitare la manovra del caposquadriglia), mettendosi anche lui alla ruota per aiutarlo ad accostare (in quel momento, secondo il ricordo del sottotenente di vascello Fontana, il Carducci aveva rotta 160°). Anche l’Alfieri era ora avvolto dalle fiamme.
In sala nautica, il tenente di vascello Cimaglia stava cercando di riposare quando sentì gridare “Razzo rosso!” e simultaneamente il Carducci venne fatto oggetto di una gragnola di colpi. Saltato in piedi e ricevuto dal comandante l’ordine di mandare gli uomini al posto di combattimento generale, Cimaglia diede l’allarme ai complessi da 120 ed ordinò di smistare il tiro sul lato sinistro, dove aveva visto vampe di cannoni che sparavano ed un proiettore acceso. Intanto, sentì Ginocchio ordinare delle ampie accostate a tutta forza e l’emissione di fumo; accostate che vennero prontamente eseguite dal timoniere Calafiore, sempre calmo, che manovrò la barra ripetendo gli ordini del comandante. Cimaglia si fermò un attimo accanto a Calafiore, cercando infruttuosamente di scorgere il nemico ed attendendo l’ordine di aprire il fuoco.
Poco dopo, una prima coppiola di proiettili colpì il Carducci sotto la plancia, devastando il castello (per altra versione questa salva avrebbe colpito sotto la linea di galleggiamento, esplodendo molto all’interno della nave), facendo sussultare il cacciatorpediniere e provocando l’esplosione di cassette di munizioni e bombe da getto in coperta. Furono colpiti anche il complesso prodiero da 120, che fu messo fuori uso con quasi tutto il personale ucciso o ferito, l’infermeria (nella quale scoppiò un violento incendio) e la direzione del tiro, scatenando un primo incendio a bordo. Il ponte di comando venne investito da una pioggia di schegge, che mandò in pezzi vetri e strumentazioni: passato questo “turbine”, il sottotenente di vascello Fontana domandò ad alta voce “C’è qualcuno al timone?”. Rispose Calafiore, che era rimasto al suo posto, attaccato alla ruota senza scomporsi.
Il cielo era pieno di razzi illuminanti e grappoli di bengala, e diversi proiettori continuavano ad essere puntati sulle navi italiane; un singolo bengala giallo-arancione, in particolare, illuminava a giorno il Carducci. In plancia, si aveva erroneamente l’impressione che Fiume e Zara stessero facendo fuoco, ma non si riusciva a distinguere da dove provenissero le vampate che si vedevano.
Il supposto attacco silurante dei cacciatorpediniere italiani aveva frattanto indotto le corazzate ad aprire il fuoco con i cannoni di medio calibro (152 mm) verso le navi della IX Squadriglia, mentre i cacciatorpediniere britannici – Stuart (australiano), Havock, Griffin e Greyhound – si lanciavano al contrattacco aprendo il fuoco con i propri cannoni. Nella confusione generale, anzi, l’Havock aveva scordato di accendere i fanali di riconoscimento in uso nelle azioni notturne e venne perciò scambiato per italiano e fatto segno di due salve da 152 della Warspite, uscendone tuttavia indenne. Alle 22.31 la Valiant spostò la sua attenzione dall’ormai devastato Zara al Carducci, aprendo il fuoco contro di esso con i pezzi secondari da 152 mm: fu il tiro di questa corazzata a colpire più volte il cacciatorpediniere, con effetto catastrofico.
Il sottotenente Sponza, al momento dell’apertura del fuoco da parte britannica, si trovava in segreteria artiglieria, intento anche lui a cercare di riposarsi un poco; all’improvviso aveva visto il cielo illuminarsi a giorno per l’accensione di proiettori e bengala, e prima di poter capire cosa stesse accadendo sentì due colpi sordi allo scafo: i primi proiettili nemici andati a segno. Mentre le macchine rallentavano e si fermavano, si precipitò al suo posto di combattimento, nella sala macchine di poppa, dove aiutò il capo guardia ad intercettare il vapore. Successivamente salì in coperta per chiedere ordini al comandante.
Dopo essersi arrestato quasi di colpo, il Carducci riprese ad avanzare, spinto dall’abbrivio. Ginocchio gridò allora a Calafiore di mettere la barra a sinistra (rotta 130°), poi vide il sottocapo Di Maio e gli chiese, gridando, “Perché non spariamo? In centrale sono impazziti?”, per poi rendersi conto che Di Maio aveva una profonda ferita al ventre, dalla quale perdeva molto sangue. Questi rispose che non arrivava la corrente, poi si sedette su uno sgabello e prese ad esaminare la ferita.
Scartando notevolmente, il Carducci era arrivato all’altezza del Gioberti, e Ginocchio ordinò a Fontana di dire alla sala macchine di emettere subito fumo, poi gridò: “Via alla massima!”; la nave accostò lentamente ed assunse una rotta quasi parallela a quelle di Gioberti, Alfieri, Zara e Fiume. Proposito di Ginocchio era di coprire le unità superstiti con una cortina fumogena, per permettere loro di fuggire, anche a costo di sacrificare la propria nave. Con questa manovra, infatti, il Carducci ritornò più o meno sulla rotta originaria e si trovò ad essere l’unica nave italiana bene in vista per i cannonieri britannici: su di esso si riversarono dunque innumerevoli colpi da 120 e 152 mm, con effetti devastanti.
Verso sud vennero visti quattro grossi scoppi e incendi, che Ginocchio ritenne avvenuti sugli incrociatori. Ormai i grossi calibri tacevano: sparavano ora cannoni a tiro rapido, con proiettili illuminanti. Dopo appena tre minuti di fuoco, le corazzate di Cunningham avevano infatti spento i proiettori alle 22.32 ed avevano accostato ad un tempo di 90° sulla dritta per evitare gli ipotetici – ma inesistenti – siluri lanciati dalla IX Squadriglia (in questa fase la Warspite tirò alla cieca una salva da 381 contro i cacciatorpediniere italiani, cui era più vicina), dopo di che si allontanarono rapidamente dal luogo dello “scontro”, assumendo rotta 010° insieme alla Formidable (alle 23.30 le navi di Cunningham assunsero poi rotta 070° e velocità 18 nodi).
Rimasero sul posto i cacciatorpediniere Stuart (caposquadriglia, capitano di vascello Hector Macdonald Laws Waller), Havock (tenente di vascello Geoffrey Robert Gordon Watkins), Griffin (capitano di corvetta John Lee-Barber) e Greyhound (capitano di fregata Walter Roger Marshall-A’Deane), cui Cunningham ordinò alle 22.38 di dare il colpo di grazia alle navi semidistrutte, mentre le tre corazzate e la Formidable si riunivano e riformavano la linea di fila, assumendo rotta 10°, per poi allontanarsi verso nordest. I quattro cacciatorpediniere britannici avrebbero incrociato a lungo nelle acque del disastro, attaccando saltuariamente i relitti galleggianti delle navi italiane.
Nel buio della notte, Zara e Fiume non erano altro che due enormi roghi, e non molto diversa era la situazione dell’Alfieri, che per un momento sembrò sparare contro i proiettori. Sul Carducci, una volta finito di trasmettere al centralino macchine, per via telefonica, l’ordine di emettere la nebbia, il sottotenente di vascello Fontana si girò verso prua giusto in tempo per veder scadere sulla dritta, in conseguenza dell’accostata a sinistra, una grande fiammata che avvolgeva l’incastellatura di un incrociatore, forse il Fiume.
Cimaglia cercò di capire dove fosse il nemico, in modo da dirigere la punteria del complesso poppiero da 120, l’unico ancora funzionante: per cercare di avvistare le navi britanniche si spostò dal lato sinistro a quello di dritta e poi tornò nuovamente a sinistra, ma non riuscì a vedere gli avversari. Vide invece il Gioberti, interamente illuminato dai proiettori, mentre navigava con rotta quasi opposta a quella del Carducci (stimò l’angolo tra le due rotte in circa 130°). I primi colpi incassati, intanto, avevano messo fuori uso anche il timone, ragion per cui fu ordinato di passare al timone a mano.
Il Carducci iniziò ad emettere la sua cortina fumogena, e poco dopo Ginocchio vide l’Oriani superare a tutta forza la sua nave, eseguire una veloce conversione ed infilarsi nella cortina, sparendo alla vista; il Gioberti fece lo stesso, e Ginocchio pensò solo che ce la dovevano fare.
Il Carducci, invece, non ce l’avrebbe fatta. Poco dopo, una seconda salva nemica lo colpì a centro nave sulla dritta, in corrispondenza dei locali macchine e caldaie, mettendo fuori uso la motrice prodiera, il centralino macchine e le turbodinamo; si sentì un sibilo fortissimo mentre un’enorme nube di vapore veniva sprigionata dal locale caldaie, e contemporaneamente la nave perse velocità. La prua continuava a virare a sinistra, per effetto dell’abbrivio. In plancia si comprese subito che il gruppo caldaie era stato seriamente colpito; le macchine si fermarono ed in sala caldaie si scatenò un incendio violentissimo, come avrebbe poi raccontato a Cimaglia il sergente meccanico Francesco Lezzi. Venne a mancare la corrente elettrica ed il Carducci precipitò nel buio, arrestandosi bruscamente mentre del vapore usciva dal fumaiolo sforacchiato.
Fontana esclamò “Comandante! Siamo fermi!”, e Ginocchio assentì. Fontana chiese allora se dovesse affondare le pubblicazioni segrete, ed ebbe risposta affermativa. Cimaglia stimò poi che fossero passati al massimo cinque minuti da quando era stato lanciato il razzo rosso, Fontana ritenne invece che ne fossero trascorsi poco più di due.

In quella manciata di minuti il Carducci, illuminato in pieno dai proiettori e dai bengala, era stato centrato da tre salve di medio calibro (152 mm) della Valiant o della Warspite, a mezzo minuto l’una dall’altra.
La prima salva aveva devastato il castello, mentre la seconda, che aveva colpito il Carducci quando Ginocchio aveva ordinato a Calafiore di virare a sinistra, aveva centrato ed immobilizzato le tre caldaie, gravemente danneggiato il locale turbodinamo e la trasmissione di manovra del timone e fatto saltare la corrente, così vanificando i tentativi di mandare in punteria i cannoni da 120. I colpi giunti a bordo appiccarono anche diversi incendi, che l’equipaggio tentò di domare senza successo.
Altre cannonate si abbatterono ancora sulla nave ormai ridotta a relitto. Un’altra salva britannica sradicò dal suo posto il complesso prodiero da 120, gettandolo in mare, e subito dopo altri due colpi demolirono la prua del cacciatorpediniere. La plancia era fiocamente illuminata dalla luce verde di sicurezza, che «dava ai presenti un aspetto come di persone già morte». Arrivò Ninni, di ritorno dal suo giro per controllare i danni, e spiegò con calma che i colpi arrivati a centro nave – oltre a fermare le macchine ed incendiare uno dei due depositi principali della nafta – avevano aperto delle falle dalle quali l’acqua si riversava copiosamente all’interno; il Carducci stava per affondare. Altri ufficiali riferirono che oltre ai locali caldaie erano stati colpiti anche le trasmissioni del timone ed il locale dinamo, nonché vari punti dell’opera morta. Ginocchio ordinò di prepararsi ad abbandonare la nave.

In plancia si spense anche l’ultima luce verde, e Ginocchio e gli altri scesero in coperta. Adesso non si sentiva più sparare, ed anche bengala e proiettori si erano spenti; all’inferno di poco prima era subentrata una strana calma. Uniche luci sul mare erano gli incendi che divampavano a bordo di Zara, Fiume, Alfieri e Carducci. Vicino ad una mitragliera, un marinaio era appeso ad alcuni ferri, morto in piedi. Il Carducci stava avanzando ancora, girando con il timone alla banda, ma era spinto solo dall’abbrivio, le macchine ormai erano morte. La velocità decresceva gradualmente fino a quando la nave, esaurita la spinta, si arrestò del tutto. Le paratie prodiere, sottoposte alla pressione del mare, iniziarono a cedere: Ginocchio ne percepì lo schianto sotto i suoi piedi. La nave iniziò ad assumere un leggero appruamento, e due marinai seminudi scavalcarono il parapetto e si buttarono in acqua, uno dopo l’altro. Ginocchio gridò a Ninni di fermarli, ma si rese conto lui stesso che quell’ordine non aveva senso.
Sulla poppa ardeva un violento incendio, e di quando in quando esplodeva una bomba di profondità, raggiunta dalle fiamme. Aveva preso fuoco anche un doppio fondo nel quale era stivata della nafta, per cui in quella zona le fiamme uscivano anche dai boccaporti; gettare in mare le munizioni non sarebbe servito a migliorare la situazione. Sperando che fosse ancora possibile salvare la nave, Ginocchio chiese al capo meccanico Angelo Guglielmi di andare di sotto per vedere a quale distanza fosse l’incendio dalle riservette di munizioni; Guglielmi gli chiese se sarebbe potuto andare a prendere anche la bandiera di combattimento, ed il sergente meccanico Francesco Lezzi, sebbene ferito al volto e alle mani, lo seguì immediatamente per aiutarlo. Ginocchio cercò di fermare Lezzi, ma questi scese nel boccaporto e sparì.
Lentamente, il Carducci stava affondando di prua, in modo quasi impercettibile. Ginocchio ordinò a due marinai, Gaetano De Rosa e Gino Rosteghin, di aiutare i feriti più gravi, e si diresse verso prua: il mare tuonava nel penetrare attraverso le paratie dilaniate.
Alle 23.30 Ginocchio dovette rassegnarsi: il Carducci era perduto. Nel buio circostante si vedevano ancora ardere i relitti di Zara e Fiume, mentre l’Alfieri era sparito, probabilmente già affondato.
Ninni chiese e ottenne da Ginocchio l’autorizzazione di distruggere i cifrari e le altre carte dell’archivio segreto, operazione che fu materialmente eseguita da Fontana: questi, con l’aiuto di due radiotelegrafisti, chiuse tutte le pubblicazioni segrete della stazione radio (codici, cifrari e nominativi) e gli altri documenti segreti dei quali era prevista la distruzione nell’apposita cassetta bucherellata, che gettò poi in mare dall’aletta di plancia di sinistra. Fatto questo, lasciò la plancia ed insieme al tenente di vascello Venticinque raggiunse Ginocchio, il quale, giudicando che fosse arrivato il momento di abbandonare la nave, ordinò loro di radunare gli uomini, ordinandoli in modo che i feriti, specie quelli gravi, venissero messi in salvo per primi. Non essendo più possibile trasmettere l’ordine a tutta la nave, con tutti i sistemi di comunicazione fuori uso, Fontana e Venticinque scelsero sei o sette uomini che mandarono in tutte le zone del Carducci a diffondere il “Si salvi chi può”. Arrivò Cimaglia, il direttore del tiro, che chiese ordini; dovette ripetere la sua domanda, perché Ginocchio si era perso nei suoi pensieri. In precedenza, Cimaglia si era brevemente trattenuto in coperta a poppa per incitare i pochi timorosi, che avevano paura di tuffarsi perché non sapevano nuotare, a saltare in acqua e raggiungere le zattere. Quando tornò alla realtà, Ginocchio ordinò a Cimaglia di far saltare la nave, distruggerla, affondarla, e lo disse quasi rabbiosamente, cosa di cui si stupirono entrambi. Ricevuto l’ordine di far brillare le cariche di autodistruzione nel deposito munizioni di poppa, Cimaglia si diresse nel suo alloggio, dove a tentoni – dato che tutta la nave era al buio –, con l’aiuto del marinaio Mario Rebora, ordinanza del comandante Ginocchio, recuperò la chiave dei depositi ed una candela. Cimaglia e Rebora scesero insieme nel deposito munizioni ed accesero la candela; Rebora fece luce con la candela, mentre Cimaglia cercava di aprire la prima carica. Per preparare le micce delle cariche di autodistruzione bisognava aprire un coperchio saldato, sfilare la miccia e distenderla; ma il contenitore era saldato talmente forte che la linguetta di chiusura si spezzò in mano a Cimaglia. Questi mandò allora Rebora nel riposto ufficiali, e poco dopo il marinaio fece ritorno con un coltello, usando il quale, a costo di ferirsi in più punti le mani, Cimaglia riuscì infine ad aprire il coperchio ed estrarre la miccia; ma srotolandosi in modo irregolare, questa si tagliò contro il bordo del coperchio. Intanto la situazione diventava sempre più preoccupante: di sopra erano state aperte le valvole Kingston e le saracinesche per procedere all’allagamento e autoaffondamento (i sottufficiali meccanici incaricati avevano avviato le manovre di allagamento dei depositi di munizioni e teste cariche), e l’acqua stava entrando anche nel deposito; Cimaglia si trovava già con l’acqua alle ginocchia.
Nel frattempo, un marinaio aveva riferito a Ginocchio che il sottotenente Sponza, dalla sala macchine, domandava l’autorizzazione per sfondare le tubolature di circolazione dei condensatori. Ginocchio scese personalmente in sala macchine, dove Sponza – unico ufficiale di macchina ancora in vita – ed alcuni marinai attendevano la risposta, mazze alla mano, pronti a sfasciare le tubature. Il comandante del Carducci diede la sua autorizzazione, e gli uomini cominciarono a sfondare le tubature ed allagare la sala macchine. Fu a questo punto che Cimaglia, che nel deposito munizioni semiallagato stava cercando di riparare la miccia tranciata per distenderla nella sua interezza e portare a termine il suo compito, sentì Ninni che dalla coperta gli ordinava di lasciar perdere, dato che il Carducci stava già affondando per l’allagamento dei locali colpiti dal tiro nemico e per gli squarci aperti dal sottotenente Sponza.
Lasciata la sala macchine, Ginocchio imboccò il corridoio che conduceva alla mensa ufficiali per tornare in coperta: mentre lo attraversava, il Carducci fu di nuovo percorso da un violento scossone, ed una colonna di vapore di levò nella direzione della mensa. Ginocchio s’imbatté in Cimaglia, il quale, il volto annerito e sanguinante da una guancia, gli spiegò che non riusciva ad attivare le cariche di autodistruzione perché le micce erano difettose: non era possibile far saltare il Carducci. Ginocchio volle andare a controllare di persona, insieme a Cimaglia, e constatò che i detonatori a tempo erano difettosi, e le micce erano troppo corte, rendendo un’accensione diretta troppo pericolosa.

Ma affondare il Carducci era l’ultimo della schiera di problemi che si presentavano. La nave lo stava già facendo da sola: anche il secondo deposito di nafta, contenente almeno 70 tonnellate di carburante, aveva preso fuoco, facendo sussultare l’unità. Le cariche di autodistruzione erano superflue; Ginocchio ordinò a Cimaglia di mandare gli uomini ad aprire tutti gli oblò che fossero raggiungibili senza rischiare di restare intrappolati (vennero aperti anche i portelli di murata, le porte stagne di poppa, le saracinesche dei condensatori e la portelleria degli alloggi dello Stato Maggiore, ed aperti completamente gli allagamenti del deposito teste cariche), poi raggiunse Fontana e gli ordinò di far mettere a mare le zattere Carley. Fontana rispose che due degli zatteroni erano inutilizzabili, perché colpiti dal tiro britannico, e Ginocchio disse allora di buttare in mare il massimo quantitativo possibile di legno. Molti uomini, tra i quali un nostromo gravemente ferito, si erano radunati presso i Carley; sul castello, a poppavia del complesso da 120 mm, giacevano parecchi morti e feriti, così tanti da intralciare le operazioni di messa a mare dei galleggianti.
Dietro ordine di Fontana, gli uomini gettarono in mare due zattere del lato sinistro, dopo di che Fontana si recò a centro nave per ammainare battelli e motolancia. Quando alcuni marinai cercarono di ammainare la motolancia, che era rimasta appesa al solo paranco prodiero (quello poppiero, colpito da schegge, si era rotto), questa cadde in mare, si capovolse e affondò. Anche il battello, non appena fu messo in mare, affondò perché danneggiato da schegge. Tra gli uomini che cercarono di mettere in mare le imbarcazioni vi era anche il nocchiere di seconda classe Augusto Simonelli, che diede il suo aiuto nonostante fosse gravemente ferito; ma nel farlo, questi, dolorante e stremato, finì in mare e scomparve.
Furono liberate e messe a mare le zattere collocate sotto le ali di plancia e lateralmente ad essa; lo stesso fu fatto con le zattere di poppa, che vennero raggiunte da Fontana e dal sottotenente di vascello Rossi, gli ufficiali loro assegnati dal ruolo. Fu più difficile calare i due grandi zatteroni posti ai lati della stazione segnali, ma ci si riuscì. In una scena quasi surreale, il cuoco uscì da sotto la plancia e passò accanto al comandante, recando un cesto di patate e mugugnando qualcosa; Ginocchio gli ordinò di lasciare le patate e di andare con gli altri a poppa, dove Ninni stava riunendo l’equipaggio. Il cuoco lasciò il cesto e si diresse verso poppa dopo aver risposto soltanto “Peccato!”.
Capo Guglielmi, tornato con la bandiera di combattimento dopo aver provveduto ad aprire tutti gli oblò di poppa per accelerare l’affondamento, consegnò il vessillo a Ninni; dopo aver chiesto il parere di Ginocchio, questi la ripose nel suo cofano.
A poppa, intanto, erano scoppiati altri due incendi; oltre ad immergersi lentamente di prua, il Carducci stava anche assumendo un marcato sbandamento sulla sinistra. A Ninni si era unito Fontana, che lo aiutava ad ordinare gli uomini; la maggior parte di questi ultimi avevano mantenuto la calma, ma quando Ginocchio arrivò a poppa, Ninni gli disse che non aveva potuto impedire che diversi uomini, presi dal panico, si tuffassero in mare, e che essi chiedevano ora di essere ripresi a bordo. Ginocchio rispose che la nave doveva essere abbandonata subito, quindi dovevano allontanarsi, non tornare a bordo; vennero buttati in acqua salvagenti circolari, paglioli, carabottini, plancette ed ogni altro pezzo di legno che fu possibile trovare. Ninni disse a Fontana che si stava per far saltare la nave e che doveva quindi abbandonare la nave con gli uomini che aveva ai suoi ordini sul lato sinistro, dopo di che chiese tranquillamente a Ginocchio l’autorizzazione per andare a recuperare qualche bottiglia di gin dal locale dove erano tenute, permesso che fu accordato.
Sotto la direzione di Fontana, dopo il grido tradizionale “Viva il re, viva l’Italia, viva il Carducci” fatto lanciare dal comandante, gli uomini scesero ordinatamente nelle zattere frattanto messe a mare sottobordo. Il mare era abbastanza calmo. Un marinaio tentò di tornare a bordo, dicendo che voleva recuperare le foto della madre e della fidanzata, ma venne gettato forzatamente sullo zatterone, ormai quasi al completo. Gli uomini rimasti indenni diedero aiuto e precedenza a quanti non erano in grado di nuotare; i feriti gravi vennero imbarcati sulle zattere rimaste accanto alla nave, quelli più leggeri invece vennero spinti in acqua, ricevendo se necessario un secondo salvagente, ed affidati ad uomini illesi che nuotavano nei pressi. Un po’ per volta, scesero in acqua o sulle zattere tutti, tranne gli ufficiali, gli uomini incaricati di provvedere all’affondamento, alcuni feriti ed alcuni uomini timorosi di buttarsi perché incapaci di nuotare. Di tanto in tanto, qualche bengala illuminava ancora il Carducci; Ninni notò che una nave italiana (doveva certamente essere l’Alfieri) sembrava impegnata in un duello d’artiglieria con navi britanniche. Ginocchio, Ninni e Fontana controllarono che tutti indossassero il giubbotto salvagente, e che i feriti ne possedessero due ciascuno, come avevano ordinato; Ginocchio notò che il marinaio Gennaro Conte ne era sprovvisto di salvagente ed esitava a calarsi in mare, pertanto lo chiamò e gli diede il suo. Conte aveva perso entrambe le braccia, amputate da una raffica di schegge, e piangeva in silenzio. Una volta indossato il giubbotto salvagente con l’aiuto di Cimaglia, scese insieme agli altri, senza dire nulla, sempre piangendo; Ninni, del quale Conte era attendente, lo accompagnò fino alla zattera.
Quando le zattere furono piene ed il centro nave, lato sinistro, fu completamente sgombro, Fontana avvisò Ninni che sarebbe salito su una zattera per cercare di regolare l’imbarco degli uomini sui vari galleggianti. Indi, si gettò in mare e raggiunse una zattera, cui ordinò di allontanarsi dalla nave fin quando fu a circa 200 metri di distanza. A quel punto, ordinò di fermarsi, per attendere gli ultimi uomini che erano rimasti ancora a bordo.
Cimaglia, tornato in coperta, trovò che regnava ancora la calma: gli uomini che restavano a bordo, tranne alcuni feriti ed ustionati che non erano ancora riusciti a raggiungere le zattere, erano calmissimi. Una piccola zattera, sul castello a dritta, non era stata ancora messa a mare; Cimaglia aiutò il sottonocchiere Mario Bonatelli ed il marinaio Giulio Sessuru a filarla in acqua, poi imbragò alla medesima cima del paranchetto il capo cannoniere Francesco Marino, che aveva perso entrambe le gambe, e lo fece mettere sulla zattera, cui diede quindi ordine di allontanarsi dalla nave. In infermeria ardeva un violentissimo incendio, ben visibile attraverso il ponte squarciato, e fiamme uscivano anche dall’accesso del deposito munizioni prodiero, che però era stato allagato (così gli fu riferito; Ninni, però, nella sua relazione scrisse invece che il groviglio di lamiere causato da un colpo caduto vicino all’infermeria aveva impedito l’accesso al deposito munizioni, e di conseguenza anche il suo allagamento). Sul castello giaceva gravemente ferito il marinaio Martino Mellano, che si lamentava e stava già rantolando. Non era rimasto sul Carducci un solo pezzo di legno che si potesse gettare in acqua: persino la passerella, il barcarizzo e la plancia da sbarco erano state buttate a mare per servire come sostegno ai naufraghi. I più paurosi vennero convinti a gettarsi in mare ed aggrapparsi ai vari galleggianti che si trovavano attorno alla nave, e quelli che continuavano a rifiutarsi furono gettati di peso ed affidati a nuotatori più esperti che si trovavano nei loro pressi. Gli ultimi feriti gravi rimasti ancora a bordo vennero sbarcati su una zattera rimasta in prossimità del Carducci.
Infine rimasero a bordo in sette, tutti radunati a centro nave, sulla dritta: erano Ginocchio, Ninni, Sponza, Cimaglia, il sergente Lezzi, il marinaio fuochista Domenico Minniti ed il marinaio cannoniere Domenico Angioletti. Questi ultimi due non si erano ancora tuffati perché non sapevano nuotare.
Alle 23.15 la nave era quasi completamente deserta; Ginocchio ordinò agli ufficiali di abbandonare la nave, e si trattenne a bordo da solo ancora per mezz’ora, onde sincerarsi che l’allagamento procedesse come previsto. Il ponte di coperta ormai non distava più di un metro dalla superficie del mare, e Cimaglia, quando Ginocchio gli ordinò di abbandonare la nave, non dovette neanche tuffarsi; si lasciò scivolare lungo il bordo. Non appena fu in mare, Cimaglia s’imbatté in una delle passerelle di legno che di solito erano collocate su complessi lanciasiluri, tra un tubo e l’altro; essendo ancora vicino alla nave, da bordo gli gridarono che gli avrebbero affidato Lezzi, Angioletti e Minniti. Cimaglia adagiò Lezzi sul carabottino e fece aggrappare ai bordi Angioletti e Minniti, dopo di che, non essendoci più posto, si allontanò nuotando con le gambe per cercare qualche oggetto o galleggiante per sé. Purtroppo, Lezzi, Angioletti e Minniti non sarebbero mai più stati rivisti, come tanti altri che scesero in mare quella notte. Cimaglia raggiunse presto un nutrito gruppo di uomini in acqua, che gridavano e si agitavano; quando si accorsero di lui, iniziarono a chiamarlo e a domandargli quale fosse la situazione. Preferì mentire, dicendo che era stato lanciato l’SOS e che stavano già arrivando delle navi per salvarli, e continuò a raccomandare la calma e cercare di tranquillizzare i naufraghi. Vicino a Cimaglia era anche Venticinque: benché il primo gli assicurasse che il Carducci stava affondando, Venticinque disse che intendeva tornare a bordo e si allontanò a nuoto nella direzione della nave, sparendo alla vista. Dopo circa un quarto d’ora, Cimaglia venne raggiunto da Ninni; anche Sponza nuotava vicino a loro. Ninni, vedendo alcuni fasci di proiettore molto lontani, credette che probabilmente delle navi britanniche stessero recuperando i naufraghi delle altre unità italiane affondate.
Alle 23.45 Ginocchio era l’ultimo uomo vivo ancora a bordo del Carducci. Il livello dell’acqua nei locali era ormai tale da garantire che la nave sarebbe affondata da un momento all’altro. Zara e Fiume, ancora a galla, continuavano a bruciare, scossi di tanto in tanto da qualche esplosione.
Il Carducci era fortemente sbandato, al punto che Ginocchio poté abbandonare la nave semplicemente scavalcando il parapetto e lasciandosi scivolare lungo lo scafo fino al mare. Urtò con una gamba un oggetto duro che protrudeva dall’opera viva, ma non si ferì; al termine della sua scivolata cadde in mare e sprofondò sott’acqua per un paio di metri, poi riemerse e si mise a nuotare verso alcune voci che sentiva. L’acqua era gelida.
Adesso sul Carducci restavano solo i morti: entro pochi minuti il Mar Egeo sarebbe divenuto la tomba loro e della loro nave.

Intanto, i quattro cacciatorpediniere britannici si aggiravano tra i relitti delle navi italiane, ansiosi di completare il lavoro iniziato dalle corzzate. Alle 22.40, Griffin e Greyhound si misero all’inseguimento di Gioberti ed Oriani, che avevano visto accostare verso ovest; aprirono il fuoco e vedono alcuni colpi andare a segno (sull’Oriani), dopo di che le navi italiane, alle 23.20, accostarono verso sud e si dileguarono nell’oscurità, coprendosi con cortine fumogene. Secondo una versione, Griffin e Greyhound avvistarono alla luce degli illuminanti il Carducci, già danneggiato a prua con vistosi incendi in quella parte, e fecero fuoco su di esso, dopo di che superarono con un’accostata la nave ormai in fiamme e si spinsero nella cortina fumogena stesa dal Carducci per inseguire Oriani e Gioberti, ma nella nebbia artificiale non riuscirono più a trovarli.
Maggior frutto ebbero le ricerche di Stuart ed Havock, che rintracciarono i relitti di Alfieri e Carducci, dei quali accelerarono l’affondamento. Le fonti italiane e britanniche riferiscono unanimemente che il Carducci agonizzante ricevette il colpo di grazia da uno dei cacciatorpediniere britannici, ma sembra esserci discordanza circa l’identificazione di tale cacciatorpediniere. La storia ufficiale redatta dall’U.S.M.M. nel 1959 afferma che il Carducci venne finito dal cacciatorpediniere australiano Stuart, mentre l’Havock fece lo stesso con l’Alfieri; di questo parere sembra essere anche Vince O’Hara nel suo libro "Struggle for the Middle Sea". Secondo la ricostruzione di O’Hara, Stuart ed Havock invertirono la rotta alle 22.40, dirigendo per sudest lungo il lato sinistro di quella che era stata la colonna di navi italiane; vennero attratti dalle luci degli incendi che divampavano a bordo del Carducci, e puntarono in quella direzione. Alle 22.59 avvistarono un incrociatore immobilizzato in fiamme e subito dopo anche quello che sembrava un incrociatore più piccolo, che girava in cerchio attorno al primo; lanciarono entrambi dei siluri contro questo secondo “incrociatore”, e lo Stuart, che ne aveva lanciati otto (cioè tutti quelli che aveva), vide un’esplosione che attribuì ad un siluro andato a segno. Probabilmente questo “incrociatore” era in realtà l’Alfieri, che in questo frangente vide lo Stuart passargli accanto ed a sua volta lanciò dei siluri ed aprì il fuoco contro la nave australiana, senza risultato. Lo Stuart prese poi a cannoneggiare in successione i relitti del Fiume e dello Zara, ma alle 23.08 vide una sagoma emergere dall’oscurità: lo Stuart dovette accostare bruscamente per evitare la collisione, e le due navi si scambiarono cannonate da una distanza inferiore ai 140 metri; lo Stuart ritenne di aver messo tre colpi a segno sull’unità avversaria, che gli era passata vicinissima sulla dritta. Verso nord, lo Stuart vide l’Havock intento a fare fuoco contro un cacciatorpediniere, apparentemente il medesimo col quale lo Stuart stesso si era appena scontrato, che di lì a poco saltò in aria con una grande esplosione. La nave affrontata dallo Stuart in questa breve scaramuccia, e poi vista dallo Stuart esplodere sotto il tiro dell’Havock, viene identificata da varie fonti britanniche, tra cui anche la storia ufficiale della Royal Navy ("Naval Staff History – Second World War, Selected Operations (Mediterranean), 1940 – Battle Summaries Nos. 2, 8, 9 & 10"), nel Carducci. O’Hara mette però in dubbio tale identificazione, dal momento che a quell’ora il Carducci si trovava già immobilizzato, mentre il cacciatorpediniere di cui parla lo Stuart stava ancora navigando ad elevata velocità: probabilmente la nave incontrata dallo Stuart era invece l’Havock, che nella concitazione del momento e nel buio della notte venne scambiato dallo Stuart per una nave italiana, e nessun colpo dello Stuart andò a segno.
Alle 23.15 l’Havock lanciò quattro siluri da 533 mm da ridottissima distanza (appena 150 metri) contro un cacciatorpediniere italiano, rivendicando un siluro a segno a centro nave. Questa nave è identificata da O’Hara come l’Alfieri. La maggior parte delle altre fonti britanniche (e anche parte di quelle italiane), invece, invertono l’identificazione dei “carnefici”: sarebbe stato l’Havock a finire il Carducci, mentre lo Stuart diede il colpo di grazia all’Alfieri. La nave silurata dall’Havock alle 23.15 sarebbe dunque il Carducci, che venne poi finito a cannonate dal cacciatorpediniere britannico, affondando alle 23.30. Secondo un’altra versione, leggermente differente, il Carducci fu ingaggiato da Stuart ed Havock alle 23.08 ed affondato sempre alle 23.30. Affondò di prua, capovolgendosi sul lato sinistro.
D’altro canto, secondo le fonti italiane le 23.30 sarebbero l’ora di affondamento dell’Alfieri, mentre il Carducci sarebbe affondato un po’ più tardi, alle 23.45. Permane dunque una certa confusione.
Il comandante Ginocchio stava ancora nuotando quando, percorsi circa cinquanta metri, si girò a guardare verso il suo cacciatorpediniere. La poppa del Carducci si era levata nel cielo, e si potevano chiaramente vedere le eliche di bronzo; all’interno dello scafo ci fu una nuova esplosione, che espulse un getto di vapore bianco dal fumaiolo. Dopo di che, il Giosuè Carducci scivolò silenziosamente sotto la superficie, nel punto 35°21’ N e 20°57’ E, una cinquantina di miglia a sudovest di Capo Matapan (secondo "Navi militari perdute" dell’USMM; gli ultimi calcoli del comandante Ginocchio indicavano invece la posizione 35°58’ N e 21°38’ E).
Era passata circa un’ora e un quarto da quando le navi britanniche avevano aperto il fuoco sulla I Divisione. Nel buio della notte rimanevano i roghi del Fiume e dello Zara.

Continuando a nuotare nella direzione da cui provenivano le voci, Ginocchio raggiunse e riunì alcuni gruppi di naufraghi, cui disse di muoversi per evitare il congelamento; in acqua vicino a lui c’erano Ninni e Cimaglia. Sopraggiunse uno zatterone, sospinto dalla corrente, con a bordo numerosi naufraghi tra cui Fontana; Cimaglia lo afferrò, ma dovette restare in acqua per un altro po’, per poi arrampicarsi a bordo quando si fece un po’ di posto. Fontana, sulla zattera sovraccarica, si faceva in quattro per mantenere la calma e disporre gli uomini in modo da conservare un sufficiente equilibrio del galleggiante; ma ciononostante la zattera ondeggiava paurosamente, ed a tratti gli occupanti erano immersi nell’acqua fino al collo. Cimaglia, vedendo Ginocchio in mare nelle vicinanze, gli offrì di salire a bordo, dicendo che avrebbero fatto posto per lui; Ginocchio declinò inizialmente l’offerta, dicendo di far salire altri due marinai che erano in acqua. Fece quindi un ampio giro tutt’intorno, per vedere se vi fossero altri uomini in mare nelle vicinanze, dopo di che tornò alla zattera e, quando Cimaglia gli offrì di nuovo di prenderlo a bordo, accettò e venne issato sul galleggiante.
Sullo zatterone c’erano in tutto una quarantina (secondo Ginocchio) o una cinquantina di uomini (secondo Cimaglia), tra i quali diversi ufficiali: Ninni, il comandante in seconda; Cimaglia, il direttore del tiro; Fontana, l’ufficiale di rotta; Sponza, sottotenente del Genio Navale. Ninni indossava ancora la sua giacca, ma non aveva più i pantaloni, ed aveva una sola scarpa. Questa concentrazione di ufficiali su una sola zattera fu essa stessa motivo di preoccupazione per Ginocchio, dal momento che significava che altre zattere erano probabilmente prive di comando, anche se aveva ordinato che su ogni zattera ci fosse un sottufficiale. Non si sapeva con certezza neanche quante zattere fossero state messe a mare: sei secondo Cimaglia, sette secondo Ninni. Tirava un vento fresco da sud; sul fondo della zattera, parecchi marinai si stringevano l’uno con l’altro per cercare di riscaldarsi. Faceva freddissimo, e Ginocchio disse di non smettere mai di muoversi, per evitare di addormentarsi e morire assiderati. Cimaglia e Fontana controllarono i naufraghi e li divisero a gruppi, facendo sistemare quelli meno vestiti al centro della zattera, riscaldati dal fiato dei compagni.
Dopo qualche minuto venne avvistata un’altra zattera, che fu avvicinata e legata a quella di Ginocchio con un cavo. Si provvide poi a controllare il fondo del galleggiante per vedere quali fossero le dotazioni di emergenza: c’erano un barilotto d’acqua da 50 litri, dieci pacchi di gallette e, chissà come, una guida di Napoli. Ma il barilotto perdeva, il suo contenuto era contaminato dall’acqua di mare, ed anche le gallette erano inzuppate dall’acqua di mare. Sulle prime questo non sembrò un grosso problema; anche le altre zattere dovevano avere cibo ed acqua, e l’indomani mattina, quando la luce del giorno avrebbe permesso di avvistarle, ci si sarebbe riuniti e si sarebbero distribuite equamente le dotazioni. Il mare era piuttosto calmo, anche se c’era un po’ di vento da ovest, e ad un certo punto il cavo teso tra le due zattere si spezzò e dovette essere sostituito.
I roghi di Zara e Fiume erano ancora visibili in lontananza.
Tutti, sulla zattera, pensavano che i soccorsi sarebbero arrivati presto: Zara o Fiume dovevano aver comunicato la loro posizione, e ad ogni modo il mattino successivo sarebbero stati certamente avvistati dai ricognitori.
Ma non tutti sarebbero arrivati vivi al mattino. I primi a soccombere furono quelli che non riuscirono a salire a bordo delle zattere, o che vennero respinti per mancanza di posto: aggrappati alle corde esterne, col corpo immerso nell’acqua gelida, non sopravvissero a lungo. Il marinaio Luigi Pellino disse al comandante Ginocchio di vedere delle mani prive di vita serrate attorno ad un tratto di corda: appartenevano a due uomini, con la testa sott’acqua ma le mani ancora avvinghiate alla corda. Ginocchio li fece issare a bordo e spogliare, dato che i vestiti sarebbero potuti servire agli uomini ancora in vita, dopo di che disse di cercare qualcosa di pesante per affondarli: l’unico oggetto pesante presente nella zattera era una piccola cassetta metallica, che fu legata ai piedi dei due morti, che furono poi spinti in acqua. Non affondarono; rimasero a galla accanto alla zattera, completamente immersi tranne che per la testa. Un marinaio cercò di allontanarli con una pertica, ma senza risultato.
Sul lato opposto della zattera, un altro marinaio disse di aver sentito delle richieste di aiuto; con i remi la zattera si spostò lentamente verso il punto indicato, fino a giungere nei pressi di un gruppo di naufraghi che si trovavano in acqua senza niente con cui tenersi a galla, forse cinquanta uomini. Ginocchio stava per ordinare agli uomini sulla zattera di togliere i giubbotti salvagente per lanciarli agli uomini in mare, ma qualcun altro sul galleggiante gridò: “Ci vengono addosso! Ci vengono addosso!”. A circa 300 metri dalla zattera vennero infatti avvistate delle luci rosse-arancioni: luci di posizione di due cacciatorpediniere – Ginocchio, vedendone le sagome, stimò che fossero della classe Tribal – che si avvicinavano ad alta velocità, oltre 30 nodi, puntando apparentemente proprio verso il gruppo di naufraghi. Si trattava del Griffin e del Greyhound, i quali, terminato il combattimento, dirigevano per riunirsi al resto della squadra britannica, senza vedere, o badare, agli uomini che si trovavano in mare. Il cacciatorpediniere più a destra dei due passò ad appena dieci metri dalla zattera del comandante Ginocchio, facendolo capovolgere e rovesciandone in mare tutti gli occupanti. Alcuni dei nuotatori meno esperti vennero annegati dalle onde generate dai cacciatorpediniere.
La zattera venne faticosamente raddrizzata, ma all’improvviso comparvero innumerevoli altri naufraghi, apparsi dal nulla, che cercarono tutti di salire: si lottava per arrampicarsi a bordo, tra grida, suppliche e bestemmie. Ginocchio non tentò di riportare l’ordine – non ci sarebbe riuscito – e preferì non cercare neanche di risalire sulla zattera, aggrappandosi ad un cesto ed attendendo in disparte, a qualche metro dalla ressa. Vicino a lui galleggiavano di schiena due corpi, gli stessi che prima, sulla zattera, avevano spogliato e gettato in mare dopo averli insufficientemente zavorrati. Passò in acqua circa un’ora, dopo di che il vento girò a sud e iniziò a diventare più fresco; avvertendo nelle gambe i sintomi dell’ipotermia, e faticando a respirare, gridò verso la zattera, dove sembrava tornata una certa calma e dove poteva udire le voci di Cimaglia e Fontana. Venne subito issato a bordo. Durante la notte spirarono diversi degli occupanti della zattera: primi a cedere furono i feriti, poi, paradossalmente, morirono i nuotatori più forti, perché si erano agitati e spogliati più degli altri e più degli altri si erano dati da fare per sostenere i feriti, consumando più energie. Cimaglia ed il sottocapo cannoniere Giacomo Casalini strinsero tra di loro, per tutta la notte, il comandante in seconda Ninni, che rischiava l’assideramento, riscaldandolo col fiato e con il continuo sfregamento. Avevano l’acqua alla cintola, e gli ufficiali erano posizionati nei punti più scomodi della zattera, più esposti alle onde e al vento. Ginocchio ordinò che gli uomini si alternassero a turni nello stare al centro della zattera, dove erano relativamente più riparati dal vento.
All’alba un marinaio, impazzito, si gettò in mare e morì.

Non diversa era la situazione dei naufraghi sulle altre zattere del Carducci. Il marinaio Cesare Montanari, 21 anni, era finito in mezzo ad una chiazza di nafta nera che galleggiava sull’acqua, quando vide una zattera che galleggiava nei pressi. La raggiunse a nuoto e gli uomini già a bordo, alcuni marinai e due giovani ufficiali, lo aiutarono a salire; Montanari tremava dal freddo, l’acqua era gelida. Ancora altri naufraghi si arrampicarono sul piccolo galleggiante, fino a quando non ci fu più posto: in tutto una ventina di uomini riuscirono a salire sulla zattera, fino ad essere stipati “come sardine”, mentre molti altri, tra cui anche parecchi feriti, dovettero restare in acqua, aggrappati al bordo del piccolo galleggiante. Un sottotenente di vascello, il più alto in grado tra i naufraghi a bordo della zattera (Montanari non ne fece il nome nel suo racconto, ma doveva quasi certamente essere Luigi Rossi od Aldo Venticinque), ordinò di fare posto ai feriti; la zattera, già semiallagata, s’immerse ancora di più. Le onde portarono la zattera di Montanari vicino ad un’altra zattera ancora più sovraccarica della sua, e poi ad una terza zattera che invece era quasi vuota: molti degli occupanti della zattera di Montanari trasbordarono pertanto su quest’ultima, dopo di che i naufraghi delle tre zattere legarono insieme i tre galleggianti come a formarne uno solo. In tutto si trovavano sulle tre zattere più di 40 uomini, senza contare quelli che si trovavano in acqua, aggrappati ai bordi.
Tutt’intorno c’erano rottami di ogni tipo, naufraghi in acqua che gridavano e si agitavano ed altri che erano già morti, sorretti solo dai salvagente. Alcuni uomini finirono in mezzo alle chiazze di nafta incendiata che galleggiavano sulla superficie del mare, e morirono tra le fiamme.
Nel buio si vedevano tre cacciatorpediniere, uno abbastanza vicino e due più lontani, che ispezionavano il mare con i loro riflettori e recuperavano gli uomini che erano in mare, tralasciando invece le zattere. Il mare, da calmo, era diventato mosso, con onde corte.

Quando iniziò a sorgere il sole, gli uomini sulla zattera del comandante Ginocchio poterono finalmente osservare la scena intorno alla zattera: uno scenario apocalittico. Tutt’intorno c’erano altre zattere, un’abnorme quantità di legname e centinaia di naufraghi, in tutto 200 o 300, non solo del Carducci ma anche di altre navi. Si riusciva a vedere fino a 4 o 5 chilometri di distanza – non essendo ancora giorno fatto – ma di Zara e Fiume non c’era più traccia: erano evidentemente affondati durante la notte. Neanche Oriani, Gioberti e Pola erano in vista; Ginocchio ne trasse la conclusione che i primi due fossero riusciti a fuggire, mentre niente si sapeva di cosa fosse accaduto al terzo. Nel punto in cui il Carducci era affondato ore prima si andava allargando un’estesa chiazza di nafta densa e oleosa, che le luci dell’alba coloravano di azzurro perlaceo. Si vedevano altre due zattere, appartenenti all’Alfieri, legate tra loro con un cavo; sulla più grande delle due si vedevano dei corpi stesi bocconi lungo il bordo, evidentemente morti. Ginocchio decise di non ridurre le distanze dalle altre zattere, in quanto se queste fossero state più sparpagliate avrebbero avuto maggiori probabilità di essere avvistate.
Faceva ancora freddo, e per scaldarsi Ginocchio indossò un maglione levato ad uno dei due morti spogliati e spinti in mare in precedenza. Invece del sole, che avrebbe permesso di asciugarsi almeno un po’, arrivarono nubi basse e la pioggia, anche se abbastanza debole. Ginocchio contò gli uomini sulle sue due zattere: erano in 34 sullo zatterone sul quale si trovava, e 6 su quella più piccola legata allo zatterone con un cavo. Il numero era già calato di molto dai 40-50 di poche ore prima. Ninni, Fontana, Cimaglia e Sponza c’erano ancora tutti. Tutti i naufraghi avevano ormai recuperato la calma, qualcuno dei più giovani trovò la forza di scherzare.
Un naufrago isolato, un giovane dagli occhi marroni, sopraggiunse “navigando” seduto su un rudimentale galleggiante fatto di giubbotti salvagente legati assieme, remando con le braccia; Ginocchio lo invitò a salire sulla sua zattera, ma il naufrago, dopo aver fatto un giro attorno allo zatterone sovraccarico, soppesandolo a fondo, decise che stava meglio sul suo galleggiante e si allontanò di alcuni metri dopo aver ringraziato per l’offerta.
Ginocchio tenne una specie di consiglio con i quattro ufficiali che erano con lui; si rimandò a più tardi l’istituzione di turni di guardia, mentre si decise che la priorità era di verificare le condizioni dei feriti più gravi. Dei 34 uomini sulla zattera, cinque versavano in gravi condizioni, quasi tutti ustionati; uno, invece, era morto. Giaceva sul fondo della zattera, col camisaccio sulla testa, e gli altri avevano pensato che stesse dormendo, ma quando venne girato videro che era stato colpito da una scheggia di granata nel basso ventre. Doveva essere morto dissanguato nel corso della notte, senza neanche lamentarsi, o senza essere sentito da nessuno. D’altra parte, non ci sarebbe stato nulla da fare in ogni caso.
Quando finalmente smise di piovere, Ginocchio decise di gettare il morto in mare. Non c’era nulla con cui zavorrarlo, stavolta, per cui rimase a galla, bocconi. Poco dopo, con l’aumentare della luce, gli occupanti della zattera videro una grossa macchia scura a circa 400 metri di distanza: parevano alghe, invece erano dei morti, forse più di 200, che galleggiavano tutti nella stessa posizione. Su ordine di Ginocchio, la zattera remò verso i cadaveri e poi entrò in quella specie di cimitero galleggiante, navigandovi per qualche minuto mentre Ginocchio e Cimaglia prelevavano da ognuno le piastrine di riconoscimento: non passò molto prima che entrambi ne avessero le mani piene. Erano troppi per poterli recuperare tutti, così alla fine Ginocchio decise di rinunciare ed allontanarsi dai morti.
Il mare rimaneva calmo; ad un certo punto si sentì nel cielo il rumore di un aereo, e infatti dopo un attimo apparve verso nord un idrovolante che volava a bassissima quota, con l’apparente intenzione di ammarare. Su entrambe le zattere gli uomini presero a gridare ed esultare, credendo di essere ad un passo dalla salvezza; un marinaio voleva tuffarsi in mare per raggiungere a nuoto il velivolo, che stava ammarando, ed un altro tirò fuori una piccola valigetta di cartone – chissà come aveva fatto a portarla con sé sulla zattera e conservarla durante la notte –, si levò il maglione e lo ripiegò con cura, mettendolo nella valigia, «come se si preparasse a prendere il treno o la corriera». Un altro ancora, che fino a quel momento aveva portato le scarpe appese al collo, se le infilò ai piedi.
Ma poi i naufraghi si resero conto che l’idrovolante, frattanto ammarato, era britannico, e che stava avanzando sull’acqua con i motori al minimo, passando proprio in mezzo al gruppo di cadaveri di prima; poi il velivolo si fermò, si aprì un portellone e si affacciò un giovane con un giaccone in pelle, con in mano una cinepresa: filmava i naufraghi. Cimaglia commentò seccato “Ci hanno presi per divi del cinema?”. Quando l’uomo ebbe finito di filmare, richiuse il portellone e l’idrovolante decollò e se ne andò, senza aver recuperato nessuno.
La delusione fu grande, ma ci si consolò dicendosi che forse i britannici avrebbero riferito alle autorità italiane la posizione dei naufraghi.
Fontana, intanto, si era spostato sulla zattera più piccola per verificarne la situazione. Quasi tutti i sei uomini a bordo di quel galleggiante erano feriti, due dei quali in modo grave; la zattera aveva delle dotazioni d’emergenza – un barilotto d’acqua non contaminata dall’acqua di mare, sei pacchi di gallette e qualche tavoletta di cioccolato di glucosio – ma bastavano appena per i sei uomini che aveva a bordo, quindi Ginocchio decise, per il momento, di non trasferire niente alla sua zattera.
Il cielo si era in parte aperto, con notevole miglioramento della visibilità; verso l’orizzonte si potevano vedere delle altre zattere ed altri naufraghi, probabilmente dello Zara e del Fiume. Alle dieci del mattino (i naufraghi potevano sapere che ora fosse grazie a Ninni, il cui orologio andava ancora) la zattera più piccola si accostò a quella di Ginocchio, ed un marinaio offrì un pacco di gallette. Comunque, il Carducci era affondato da meno di dodici ore; per il momento fame e sete non si facevano ancora sentire gran che, e si confidava ancora in un pronto arrivo dei soccorsi. I naufraghi erano ancora abbastanza calmi. Era iniziata la rotazione dei turni di guardia per controllare se fossero in vista navi od aerei: per la verità dei turni non erano necessari, dato che bastava che gli uomini sulla zattera guardassero verso nord (solo da lì potevano arrivare i soccorsi), ma almeno servivano a tenere occupati gli uomini.

Intorno alle 11, il sergente cannoniere Guglielmo Fiorilla ed il sottocapo cannoniere Vincenzo Padua dissero che stavano arrivando i soccorsi: verso nord si vedeva del fumo, proprio all’orizzonte. Ginocchio, osservando bene, dedusse che si trattava di una nutrita squadra da battaglia; per un momento sperò che fossero la Vittorio Veneto e la III Divisione, ma si rese conto che era impossibile, perché quelle navi non avevano abbastanza carburante per tornare indietro. Dovevano essere navi britanniche. Nondimeno, i marinai erano nuovamente esultanti; il naufrago seduto sul mucchio di salvagente, quello che qualche ora prima aveva declinato l’offerta di salire sullo zatterone, spuntò da un mucchio di legname galleggiante, credendo anche lui, evidentemente, che i soccorsi fossero in arrivo. Poi anche loro si accorsero che le navi avvistate erano nemiche, ma continuarono comunque a gridare: la prigionia era preferibile ad una lenta morte in mare.
Le navi più grandi si tennero a distanza, mentre due cacciatorpediniere si avvicinarono ai naufraghi ed iniziarono l’opera di salvataggio, dando la precedenza agli uomini che si trovavano in acqua. Le zattere vennero ignorate, almeno per il momento; Ginocchio approvò quest’ordine di priorità, avrebbe fatto lo stesso se si fosse trovato al loro posto. Preparandosi al salvataggio, tenne un breve discorso ai suoi uomini: la guerra per loro era finita; rammentò loro che dovevano tenere un atteggiamento dignitoso in prigionia, e che non dovevano rivelare al nemico niente più che il nome e numero di matricola, senza neanche dire il nome della loro nave.

Qualche ora prima, alle 4.30 del 29 marzo, la Formidable aveva lanciato tre Albacore con l’incarico di ispezionare le acque nelle quali era stata annientata la I Divisione: tornati dopo due ore, gli aerei avevano riferito di non aver visto altro che rottami e numerosi naufraghi aggrappati ai relitti; anche tre Swordfish dell’815th Squadron F.A.A., decollati da Maleme, riferirono di scene analoghe al loro rientro. Sorvolarono la zona anche degli idroricognitori Short Sunderland, uno dei quali, il L2160 pilotato dal capitano P. R. Woodward, ammarò in una zona costellata di grandi chiazze di nafta, rottami e ben 25 zattere. Woodward stimò che ci fossero in vista circa 600 naufraghi, ma quando cercò di scoprire a quale nave appartenessero, ricevette soltanto richieste di acqua. Informò la base di Scaramanga della posizione dei naufraghi, dopo di che riprese il volo per proseguire il suo pattugliamento. È possibile che l’aereo di Woodward fosse quello visto la mattina del 29 dai naufraghi del Carducci.
Ad ogni modo, con la luce del sole la squadra di Cunningham, riunitasi alle cinque nel punto 35°34’ N e 21°38’ O (una cinquantina di miglia a sudovest di Capo Matapan), si diresse nuovamente sul luogo della mattanza della notte precedente, e verso le otto del mattino i cacciatorpediniere britannici iniziarono a recuperare dal mare centinaia di naufraghi italiani, molti dei quali feriti: si trattava dei superstiti degli incrociatori. Solo molto più tardi, verso le undici del mattino, le navi soccorritrici si accorsero di altri naufraghi più a sud dei precedenti, che compresero appartenere ai cacciatorpediniere affondati durante l’azione notturna: erano infatti gli uomini di Alfieri e Carducci.

Uno dei cacciatorpediniere si avvicinò fino a poco più di un centinaio di metri dalla zattera del comandante Ginocchio; procedeva a bassissima velocità, raccogliendo dal mare naufraghi isolati. Un cavo venne gettato verso il naufrago seduto sul mucchio di salvagente, che lo afferrò subito e venne issato a bordo. Il cacciatorpediniere aveva raccolto anche parecchi cadaveri, senza però issarli a bordo; erano legati “a mazzo” in acqua, assicurati alla nave da un cavo, probabilmente con l’intento di tirarli a bordo una volta finito di recuperare i vivi.
Sembrava che i superstiti del Carducci fossero davvero in salvo, ormai, e invece all’improvviso comparvero nel cielo degli aerei della Luftwaffe. I velivoli tedeschi si buttarono subito sui due cacciatorpediniere britannici, bombardando e mitragliando; le navi britanniche risposero al fuoco, colpendo uno degli attaccanti, che si allontanò lasciando dietro di sé una scia di fumo nero. Gli altri aerei perseverarono nell’attaccare, e parecchie raffiche finirono in mare, uccidendo anche dei naufraghi. Gli scoppi delle bombe cadute in mare sospinsero le due zattere al comando di Ginocchio più lontano dal cacciatorpediniere, verso la chiazza di nafta che marcava la tomba del Carducci, finendo quasi al centro di essa.
Sotto questo attacco, i due cacciatorpediniere britannici rimisero in moto, tagliarono il cavo che assicurava ad essi il gruppo dei cadaveri e si allontanarono di gran carriera, evoluendo in velocità ed abbandonando la loro opera di soccorso.
Un’ultima bomba, caduta vicino alle due zattere di Ginocchio, le capovolse con la sua esplosione, gettando tutti gli occupanti nel mare cosparso di nafta.

Anche Cesare Montanari, dalla sua zattera, vide i tre cacciatorpediniere che aveva avvistato durante la notte – i quali, all’alba, avevano iniziato a recuperare anche i naufraghi a bordo delle zattere più malridotte o sovraccariche, oltre a quelli in acqua – accelerare a tutta forza ed allontanarsi fino a sparire. Gli uomini sulla zattera di Montanari, a differenza di quelli sul galleggiante del comandante Ginocchio, non videro gli aerei tedeschi, e solo in seguito seppero il motivo che aveva indotto le navi soccorritrici ad andarsene.
I cacciatorpediniere britannici erano stati attaccati, alle undici del mattino del 29 marzo, da bombardieri tedeschi Junkers Ju 88 A-4 del X Fliegerkorps, decollati da Catania: anche se nessuna nave era stata colpita, l’ammiraglio Cunningham aveva dato subito ordine a tutte le sue unità di interrompere i soccorsi e tornare alla base, per non esporle al rischio di subire danni nel caso di ulteriori e più pesanti attacchi aerei. Centinaia di naufraghi delle navi affondate durante la notte vennero così abbandonati in mare: tra di essi anche tutti i superstiti del Carducci, in quanto, benché da bordo di varie sue zattere fossero stati visti i cacciatorpediniere britannici intenti ai soccorsi, nessun naufrago di questa nave era stato ancora recuperato nel momento in cui gli attacchi aerei tedeschi indussero i britannici ad andarsene. Tutti i 1062 naufraghi salvati dalle navi di Cunningham appartenevano infatti agli equipaggi degli incrociatori: per la maggior parte erano uomini del Pola, ed in misura minore dello Zara e del Fiume. I naufraghi di Alfieri e Carducci, insieme a molti altri del Fiume e dello Zara, rimasero in balia del mare.
Cunningham prese però l’iniziativa di trasmettere in chiaro (sulla frequenza di emergenza usata dalla Marina Mercantile) a Roma, via Malta, la posizione in cui si trovavano i naufraghi non raccolti dalle sue navi, suggerendo l’invio di una nave ospedale. Il capo di Stato Maggiore della Marina italiana, ammiraglio Arturo Riccardi, destinatario del messaggio, ringraziò Cunningham e rispose che la nave ospedale Gradisca era già partita. Questa nave era giunta a Taranto il mattino del 29 marzo con 704 militari feriti e malati dall’Albania (a bordo si trovavano anche le salme di tre crocerossine decedute nell’affondamento della nave ospedale Po, affondata due settimane prima da aerosiluranti britannici in quanto trovatasi a luci spente durante un attacco notturno) e si stava preparando a sbarcare i degenti, quando ricevette l’ordine di affrettare lo sbarco onde ripartire subito. Lo sbarco venne dunque svolto il più in fretta possibile; l’operazione fu completata alle 14.30, e mezz’ora dopo la Gradisca mise in moto. Mollati gli ormeggi alle 15.30 del 29, non appena in franchia la nave ospedale mise le macchine a tutta forza, dirigendo verso il Mar Egeo alla massima velocità possibile. La Gradisca era la più veloce nave ospedale della Marina italiana (era in grado di raggiungere i 16 nodi, anche se in quell’occasione il vento teso ed il mare agitato da sudovest limitarono tale velocità a 14 nodi) ed anche la più vicina alle acque in cui era andata distrutta la I Divisione, ma ci avrebbe messo comunque più di un giorno per raggiungere la zona del disastro. L’ordine d’operazioni era di dirigere verso il punto 35°30’ N e 20°50’ E, per missione di ricerca e salvataggio di naufraghi. Era promessa, a questo scopo, la collaborazione di aerei, ma proprio come la scorta aerea per le navi coinvolte nell’Operazione «Gaudo», quei velivoli non si sarebbero mai fatti vedere.

Intanto, le due zattere al comando del comandante Ginocchio erano state raddrizzate, ed i naufraghi si erano nuovamente arrampicati a bordo. Risultò che in quattro mancavano all’appello: il marinaio S.D.T. Giuseppe Maronati, il sottocapo radiotelegrafista Luigi Pericotti ed i marinai Giovanni Silvestri e Gennaro Criscuolo (la sorte di quest’ultimo non è però del tutto chiara, perché nella sua relazione il tenente di vascello Cimaglia scrisse in seguito che “…fui costretto più volte ad usare le mie residue forze contro il marò Criscuolo che voleva ad ogni costo andare in franchigia”, il che sembrerebbe significare che Criscuolo fosse sopravvissuto più a lungo a bordo della zattera). Altri due uomini erano rimasti gravemente feriti; tutti avevano ingerito nafta, che si era infilata ovunque, bruciando occhi (e rendendo insopportabile alla vista la rifrazione prodotta dal mare) e orecchie, ed incollando i capelli alla testa. Il ferito più grave era un nostromo, che si era fratturato il cranio nel capovolgimento dello zatterone: la sua testa si era gonfiata e addirittura deformata per la gravissima frattura, perdeva sangue dalle orecchie e ad un certo punto rinvenne, aprì gli occhi ed iniziò a parlare velocissimamente, pronunciando parole senza senso. Un marinaio, non sopportando quella vista, cercò di saltargli addosso brandendo un coltello, ma qualcuno gli diede un calcio sul polso, facendo cadere in mano il coltello. Continuando a parlare, il nostromo si portò sull’orlo della zattera, sporgendosi, finché perse l’equilibrio per un’onda e cadde in mare con un grido altissimo. Scomparve.

Venne la sera, e la fame iniziò a diventare un problema. Gli uomini sulla zattera più piccola avevano furtivamente tagliato il cavo che li univa all’altra e si erano distanziati da essa di alcune decine di metri, temendo di dover dividere le poche provviste che avevano; alcuni, sullo zatterone, domandarono a Ginocchio di ordinare loro di riavvicinarsi per dividere il cibo. Questi rispose che era meglio lasciare a quegli uomini i pochi viveri che avevano: in caso di rapido arrivo dei soccorsi, non sarebbe stato necessario ridistribuire le provviste; se invece fosse passato del tempo prima del salvataggio, era meglio lasciare quel cibo agli uomini sulla zattera più piccola, che avrebbero potuto sopravvivere più a lungo, anziché distribuirlo tra i tanti occupanti dello zatterone, dove quelle poche provviste, distribuite tra tutti, non avrebbero permesso a nessuno di durare a lungo. Non tutti erano d’accordo, e sui volti di alcuni la preoccupazione lasciò il posto all’aggressività, ma obbedirono tutti al loro comandante. Ancora si credeva che i soccorsi sarebbero arrivati durante la notte, o al più tardi l’indomani mattina.
Alle 19 Ginocchio chiamò i marinai del nuovo turno di guardia, ordinando loro di farsi sostituire dopo due ore; aveva scelto per sé il turno dalle 21 alle 23. Alle 20.30, qualcuno lo avvisò che Pellino, il marinaio che gli aveva indicato, durante la prima notte, i due morti aggrappati alla zattera, era impazzito. Due uomini lo tenevano fermo per evitare atti sconsiderati, ma lui sembrava tranquillo; sorrideva e rabbrividiva violentemente. Parlava di questioni familiari, legate ad una piccola proprietà agricola che la sua famiglia aveva dalle parti di Salerno; temeva che il cognato, approfittando della sua assenza, gli rubasse gli ortaggi e le galline. Poi fu colto da quello che sembrava un attacco epilettico, al punto che si rese necessario legarlo; gli altri compresero che doveva aver bevuto acqua di mare. Si mise a gridare, e qualcuno lo imbavagliò, ma Ginocchio ordinò di levare subito il bavaglio; poi, a poco a poco, si calmò e andò irrigidendosi. Spirò poco prima dell’alba del 30 marzo. Mezz’ora dopo la sua morte venne gettato in acqua, e anche lui rimase a galla nella stessa posizione degli altri, di schiena; ma stavolta si sentì un rumore strano, strisciante, e con un improvviso gorgoglio il corpo di Pellino sussultò, poi venne trascinato sott’acqua da qualcosa. Qualcuno nominò il pericolo cui nessuno, fino a quel momento, aveva pensato: squali.
Dai 34 uomini che erano sullo zatterone il mattino del 29 marzo, il numero era già calato a 27.
Anche gli occupanti della zattera più piccola si accorsero degli squali: temendo, forse, che potessero rovesciare il loro minuscolo galleggiante – non ci sarebbero potuti riuscire con quello del comandante Ginocchio, troppo grande –, chiesero a gran voce di potersi riunire allo zatterone; venne quindi teso un nuovo cavo, e i due galleggianti tornarono ad unirsi.

Ormai le correnti avevano disperso i naufraghi ed i rottami, allontanandoli gli uni dagli altri. Il marinaio Cesare Montanari, sulla sua zattera, si levò la divisa e la fece asciugare al sole, che era abbastanza forte. Il sottotenente di vascello, lo stesso che aveva ordinato di fare spazio per i feriti, disse agli altri naufraghi che era necessario alternarsi con quelli in acqua, fare a turni per stare sulla zattera: lui per primo scese in mare per dare l’esempio. Non tornò mai più a bordo.
Il cambio non ci fu, parecchi uomini che erano in acqua si arrampicarono sulle zattere, ma nessuno di quelli che erano a bordo volle scendere in mare, così che i piccoli galleggianti si riempirono a dismisura e rischiarono di capovolgersi. Molti dovevano stare sul bordo delle zattere, con le gambe immerse nell’acqua.
La notte tra il 29 ed il 30 marzo falcidiò gli uomini che erano ancora in acqua: all’alba del 30 non c’era quasi più nessuno aggrappato al bordo esterno della zattera di Montanari. Anche tra gli uomini a bordo della zattera ci furono delle vittime: sei feriti gravi spirarono nel corso della notte. Altri ancora sarebbero morti la notte seguente. Vennero tutti calati in mare.

Giunse l’alba del 30 marzo anche per gli uomini sulla zattera del comandante Ginocchio. I turni di guardia erano stati rispettati; due marinai scandagliavano l’orizzonte, mentre la maggior parte degli altri erano sdraiati sul fondo della zattera, silenziosi. In un momento in cui non vi era altro da fare, Ginocchio ripensò al  macello di due notti prima, all’affondamento del Carducci ed alla commissione d’inchiesta speciale che sarebbe stata certamente istituita, come di rito, per la perdita della sua nave; si fece prestare una penna da un marinaio e cercò di scrivere qualche appunto sulla sua piccola agenda, al fine di mettere per iscritto ciò che ricordava finché aveva la memoria ancora fresca, ma non ci riuscì perché alla penna mancava l’inchiostro.
Mentre il sole lentamente si levava nel cielo, gli occupanti della zattera si svegliarono e si misero a sedere. Adesso, a differenza che nei giorni precedenti, il cielo era sereno, e qui si presentava un nuovo pericolo: il sole, che avrebbe battuto per tutto il giorno sui naufraghi impossibilitati a mettersi all’ombra. Per ripararsi dal sole, parecchi uomini si affrettarono a realizzare, con i loro camisacci, cappelli di molteplici forme e dimensioni; quelli che indossavano soltanto mutande o pantaloncini arrotolarono intorno alle gambe degli stracci, legandoli con dello spago, e si coprirono le spalle con dei pezzi di tela. La sete, ormai, si faceva sentire.
Nel corso della notte, la deriva doveva aver sospinto le due zattere di qualche miglio verso ovest; non si vedeva più la distesa di salme del giorno prima, mentre invece la luce del giorno rivelò la presenza, sulla destra, di altre zattere ed altri naufraghi in acqua, in tutto tra i 150 e i 200 uomini, probabilmente dello Zara o del Fiume. Le due zattere del Carducci si diressero verso di loro, ma Ginocchio ordinò di non avvicinarsi troppo, dato che lo zatterone era già sovraccarico, per non rischiare che venisse preso d’assalto dagli uomini in mare. Questi ultimi, ad ogni modo, non davano segni di agitazione: come i naufraghi del Carducci, attendevano con calma l’arrivo dei soccorsi. Persino alcuni degli uomini che si trovavano in acqua, tenuti a galla dai giubbotti salvagente, avevano provveduto a realizzare dei copricapi di stracci per ripararsi dal sole; parevano dei funghi galleggianti. Un naufrago era seduto a cavalcioni di una grossa asse, un altro, completamente nudo, era steso bocconi su una grossa cassa quasi completamente sommersa, immobile; non si capiva se fosse ancora vivo o no.
Quando il sole fu alto nel cielo, e cominciò a picchiare, la situazione dei naufraghi andò peggiorando: l’effetto combinato del sole e della nafta che ancora ricopriva in gran parte i naufraghi (era pressoché impossibile lavarla via) fu tremendo, facendo nuovamente lacrimare gli occhi, indurire e spaccare la pelle, infiammare le mucose. La maggior parte dei naufraghi restavano zitti, cambiando posizione di quando in quando per alleviare i dolori, mentre altri continuavano a chiedere agli ufficiali se Zara e Fiume, prima di affondare, fossero riusciti a chiedere aiuto. Ginocchio rispose che sicuramente delle navi ospedale erano in navigazione verso di loro, e che prima del tramonto sarebbero certamente apparsi i ricognitori che le guidavano, i quali avrebbero comunicato loro la posizione dei naufraghi. Sarebbero stati salvati all’alba dell’indomani. Ma dopo essersi calmati per qualche minuto, gli uomini ripresero a chiedere se fosse davvero certo che fosse stato lanciato il segnale di soccorso: allora li redarguì aspramente, e smisero di fare domande, limitandosi a guardare silenziosamente l’orizzonte.
Ad un certo punto Ginocchio notò che due o tre marinai, chini sulla “prua” dello zatterone, stavano cercando di filtrare dell’acqua di mare con un pezzo di tela, travasandola poi in una bottiglia: ma “filtrare” l’acqua in quel modo non l’avrebbe affatto depurata, rimaneva acqua salata che non doveva essere bevuta, pena gravissime conseguenze per l’organismo, anche mortali in quelle condizioni, come aveva mostrato la sorte di Pellino. Temendo che stessero iniziando a perdere la testa, Ginocchio si slanciò verso quegli uomini, li spintonò via – uno bestemmiò pesantemente – e buttò in mare con un calcio bottiglia e “filtri”, con tanta foga da cadere lui stesso fuori bordo. Nuotò verso la “poppa” dello zatterone, dove si trovavano gli ufficiali, e venne nuovamente issato a bordo; non appena ebbe fiato, gridò che se qualcun altro avesse tentato di filtrare dell’acqua di mare lo avrebbe ucciso.
Durante il pomeriggio del 30 marzo si ebbe un’altra vittima: un sergente cannoniere, probabilmente imbarcato da poco tempo, dato che Ginocchio non sapeva come si chiamasse. Aveva circa vent’anni e pareva quasi, per il suo aspetto, uno studente; Ginocchio, che ci aveva parlato qualche ora prima che morisse, ne aveva tratto l’impressione che prima di imbarcarsi sul Carducci non fosse mai stato per mare. Aveva una grave ferita allo stomaco, che era risultata fatale dopo quasi due giorni trascorsi senza che si fosse potuta prestare alcuna cura. Nonostante il suo stato, non si era mai lamentato, non volendo dar fastidio agli altri naufraghi; si spense silenziosamente intorno alle 18.
Poi, calò ancora una volta il buio. Ricominciarono le continue domande, da parte dei marinai, su quando sarebbero giunti i soccorsi; faceva freddissimo, e lo zatterone cominciò ad imbarcare acqua dal fondo. Ginocchio diede ordine di sistemare i feriti in modo che fossero il più possibile al riparo e riservò i posti più scomodi a sé ed agli altri ufficiali, mentre dispose i marinai illesi lungo il bordo della zattera, dove potevano rimanere abbastanza all’asciutto. Così, però, i marinai avevano paura di cadere in acqua, dove erano riapparsi gli squali: preferivano attaccare di notte, col favore del buio. Si sentiva l’acqua muoversi attorno alla zattera, e nel buio il grido di qualche naufrago assalito mentre si trovava in acqua da solo. Dovevano essercene parecchi; Ginocchio riuscì a vederne qualcuno, e stimò che raggiungessero i cinque metri di lunghezza. Quando uno squalo sbatté violentemente contro lo zatterone, molti uomini preferirono abbandonare i loro posti all’asciutto lungo i bordi per tornare al centro della zattera, dove dovevano stare parzialmente immersi nell’acqua, ma si sentivano al sicuro dagli squali. Ginocchio riuscì ad allontanare lo squalo, almeno temporaneamente, colpendo ripetutamente la superficie con un remo; ma nel buio e nel panico non riuscì a calmare gli uomini, e temette che muovendosi così tanto avrebbero potuto sfondare la fragile zattera. Cimaglia richiamò gli uomini a sua volta, poi iniziò a recitare la Preghiera del Marinaio: era lui a recitarla, ogni sera, a bordo del Carducci, dinanzi all’equipaggio riunito. Uno ad uno, i naufraghi gradualmente si calmarono, e si misero a pregare insieme al loro direttore del tiro.
Durante la notte il mare divenne leggermente agitato, ma tornò a calmarsi con l’approssimarsi del mattino.

Passò la notte, e venne anche l’alba del 31 marzo. L’aria era divenuta più fresca, e all’orizzonte si vedevano grosse nuvole scure; lo zatterone del comandante Ginocchio, nonostante l’acqua imbarcata, teneva ancora il mare ragionevolmente bene. Sullo zatterino più piccolo, ancora legato a quello principale da un cavo, nessuno si muoveva più. Su quello più grande, gli uomini ancora in vita erano in gran parte inebetiti dal lungo tempo trascorso in mare, dalla fame, dalla sete atroce, dal sole che aveva picchiato sulle loro teste senza sosta per tutto il giorno precedente. Durante il mattino Ginocchio cercò di scuoterli, farli muovere, affidando loro incarichi al solo scopo di impedir loro di sprofondare nell’apatia che spesso, nei naufraghi, precedeva la morte; ma solo un paio risposero, i più se ne rimasero sdraiati sul fondo della zattera, inerti. Verso mezzogiorno le nuvole si dissiparono e riprese a battere il sole, anche se meno forte del giorno prima; ormai gli uomini non sentivano neanche più male.
Alle due del pomeriggio, essendosi levato un lieve venticello, qualcuno propose di realizzare una vela; Ginocchio sapeva che non sarebbe servito a raggiungere la terraferma – erano troppo lontani dalla terra più vicina, e la zattera non sarebbe riuscita a raggiungere neanche un nodo di velocità – ma non si oppose, dato che almeno sarebbe servito a tenere occupati gli uomini (anche nei primi giorni si era vogato per tutto il giorno verso terra, che al mattino appariva lontanissima, al solo scopo di tenere alto il morale ed evitare che gli uomini si lasciassero andare e venissero vinti dall’intorpidimento), e poi avrebbe reso la zattera più facilmente avvistabile. Al centro della zattera venne piantata una pertica, cui fu issata una rudimentale vela fabbricata con pezzi di tela ed una tuta appartenuta ad un sottufficiale deceduto. Un remo fungeva da timone; si cercò di governare verso nord, e vennero stabiliti dei turni di guardia per manovrarlo, giorno e notte (di notte, i turni venivano regolati sul corso dell’orsa maggiore).
Più o meno alla stessa ora, spirò il marinaio fuochista Amleto Galgani, le cui gambe si erano fortemente gonfiate per una grave frattura che aveva subito in precedenza, e che non era stato possibile curare in alcun modo sulla zattera. Un altro fuochista, Aiello – quello che, poche ore prima dell’affondamento, era salito in plancia per dire a Ginocchio che le riserve di nafta erano molto esigue –, aveva perso la vista a causa del terribile sole del giorno precedente; ad un tratto disse “Sono cieco, non ci vedo più”, poi morì a sua volta. A differenza di quanto fatto con le vittime precedenti, Ginocchio ordinò di non buttarli in mare; pensava che i soccorsi ormai stessero per arrivare, ed avrebbe voluto che le due salme venissero recuperate in modo da avere una tomba in Italia. Due squali seguirono le zattere dal primo pomeriggio fino alla sera.
Dopo qualche ora, il venticello smise di soffiare, e lo zatterone cessò di “veleggiare” e ricominciò ad essere spinto soltanto dalla deriva. Ci si decise infine a vedere cosa fosse stato degli occupanti dello zatterino più piccolo, che continuavano a non dare segni di vita; venne tirato il cavo, per riavvicinare il galleggiante. Dei sei uomini che erano stati sullo zatterino, soltanto tre erano ancora a bordo, tutti morti. Gli altri tre erano spariti. I corpi vennero gettati in mare insieme a quelli di Aiello e Galgani, che i marinai non volevano vedere a bordo, il cavetto fu reciso, lo zatterino ormai deserto venne abbandonato alla deriva.
Ai corpi, prima di lasciarli alle onde, venivano sempre levati i vestiti per permettere ai viventi di potersi coprire e riparare un po’ meglio dal sole del giorno e dal freddo della notte, ma quegli indumenti erano invariabilmente laceri e fradici. La biancheria venne usata per fasciare le ferite.
Nel tardo pomeriggio, tre dei naufraghi cominciarono a gridare, svegliando i molti – tra cui Ginocchio, Ninni e Fontana – che si erano frattanto addormentati. Dicevano che c’era una nave gigantesca a soli trecento metri di distanza, e che si stava avvicinando per recuperarli: ma Ginocchio e i pochi altri che avevano preservato una sufficiente lucidità, guardando nella direzione indicata, non videro nulla. Era un’allucinazione collettiva, come se ne verificarono parecchie, in quei giorni, tra i naufraghi spinti alla follia dal sole e dalla sete. Altri naufraghi, contagiati dalla follia, credettero anche loro di “vedere” la nave soccorritrice; un uomo si tuffò in mare per raggiungerla, altri seguirono, nonostante gli sforzi degli ufficiali che tentavano di fermarli. Ginocchio, cercando di afferrare le gambe di quelli che volevano tuffarsi, si prese anche un calcio in faccia. In tutto, sei o sette uomini si tuffarono e cominciarono a nuotare verso il miraggio. Un altro giovane marinaio, invece, si rizzò in piedi mettendosi sull’attenti, e con tutta calma domandò a Ginocchio il permesso di scendere dal treno: era arrivato al suo paese, disse, e voleva salutare la madre, anche solo per un momento; spiegò che sarebbe poi salito sul treno seguente. Detto questo, saltò in acqua anche lui e cominciò a nuotare verso il nulla, con molta calma.
Ginocchio e Fontana si tuffarono allora a loro volta per ricondurre indietro quelli che si erano tuffati; essendo entrambi provetti nuotatori, raggiunsero presto il gruppo dei marinai, che intanto si erano fermati, avendo infine realizzato che la nave soccorritrice non esisteva. Anche così, però, non volevano saperne di tornare sulla zattera, e i due ufficiali dovettero ricorrere alle maniere forti per riportarli alla ragione; uno dei marinai abbrancò Ginocchio per il collo e lo trascinò tre o quattro metri sotto la superficie. L’ufficiale rischiò di affogare, ma ad un tratto il marinaio smise di fare forza, e Ginocchio riuscì a riemergere. Fontana, intanto, a forza di grida e pugni era riuscito ad indurre gli altri marinai a tornare verso la zattera: non però quello che aveva chiesto il permesso di “scendere dal treno”, il quale intanto aveva notevolmente distanziato gli altri, e continuava a nuotare senza una meta. Ginocchio ordinò a Fontana, più giovane e forte di lui, di andarlo a recuperare; ma dopo qualche bracciata anche Fontana, ormai stremato, disse che non ce la faceva più, e dovette rinunciare. Il marinaio continuò a nuotare, fino a sparire alla vista. Ginocchio, Fontana ed i marinai che si erano tuffati risalirono tutti sulla zattera.
Adesso sulla zattera restava soltanto una ventina di uomini, poco più della metà degli occupanti originari.
Ninni, che nei primi momenti del naufragio era stato uno degli uomini che più si erano prodigati, più calmo forse dello stesso Ginocchio, appariva ora distaccato, silenzioso; non si sforzò molto di riordinare gli uomini tornati a bordo, a differenza del solito. Ginocchio gli domandò come stesse, e Ninni rispose quasi urlando: “Grazie! Perfettamente bene! Agli ordini!”.
Mentre le navi erano immaginarie, erano reali i ricognitori britannici che più volte, nel corso dei giorni trascorsi alla deriva, sorvolarono i naufraghi del Carducci. Ogni volta gli aerei si abbassavano e sembravano spegnere i motori, tanto da far sperare nel salvataggio, invece si limitavano a scattare foto per poi allontanarsi. Un pomeriggio (quello del terzo giorno, secondo Ginocchio, o del quarto giorno, secondo Ninni, che però non sembra aver avuto esatta cognizione del tempo) venne avvistato un idrovolante Sunderland: i naufraghi fecero delle segnalazioni, gli aviatori britannici risposero, l’aereo sorvolò la zattera a più riprese, a bassa quota, scattando foto per poi andarsene.
Il capo meccanico di terza classe Mario Riccio morì tra le braccia di Ginocchio, dicendo prima di spirare: “Ci hanno dimenticati!”. Scrisse poi Ginocchio: «Ma non c’era rancore nelle sue parole, soltanto delusione»…

Intanto, verso le 19.30 del 30 marzo, la Gradisca era giunta nei pressi del luogo in cui erano affondate le navi della I Divisione (35°33’ N e 20°55’ E), come indicato dall’avvistamento dei primi rottami e delle prime chiazze di nafta, ed aveva dato inizio alle ricerche. Per tutta la notte e poi la giornata del 31 marzo la nave setacciò inutilmente il mare: dapprima, la sera del 30, giunse da Supermarina la notizia dell’avvistamento di una zattera di naufraghi in posizione 35°20’ N e 21°00’ E (più a sud di dove si trovava la Gradisca); portatasi nel punto indicato alle 20, tuttavia, la Gradisca non vi trovò nulla, pur avendo setacciato il mare coi proiettori fino alle 21.30. Invertì poi la rotta e diresse per nordest, poi per ovest, di nuovo senza costrutto; dopo di che venne raggiunta da un nuovo messaggio di Supermarina, che annunciava l’avvistamento di altre zattere da parte di ricognitori, più a sud, ed impartiva nuovi ordini per le ricerche. La Gradisca si diresse verso il nuovo punto indicato (in realtà, tale segnalazione era del tutto errata e stava soltando allontanando la nave dal punto degli affondamenti), ma di nuovo non trovò traccia di naufraghi o di zattere. Il mattino del 31 la nave assunse nuovamente rotte nord per tornare nel punto in cui erano state avvistate le prime macchie di nafta; vi giunse alle 10. Vennero infatti avvistate delle chiazze di nafta, che indicavano la vicinanza al punto di affondamento di una nave, e poco dopo comparve una prima zattera, che però era vuota. Nelle ore successive (nelle quali la Gradisca diresse nuovamente verso sud e poi ancora verso nord a partire dalle 11) non furono trovati altro che rottami di ogni tipo, zattere vuote e cadaveri che galleggiano nei salvagente: solo alle 21 le vedette della Gradisca sentirono finalmente delle grida lontane. La nave fermò le macchine e tutti si misero ad ascoltare: erano proprio delle voci. Furono puntati i proiettori in quella direzione, e vennero presto avvistate una zattera; a bordo c’erano due ufficiali e due marinai dell’Alfieri, semiassiderati ed affamati (per altra fonte, in questa circostanza vennero soccorse non una ma tre zattere, dalle quali sarebbero stati soccorsi numerosi naufraghi tra cui anche alcuni superstiti del Carducci). Vennero tutti tratti in salvo ed uno di essi, l’ufficiale di rotta dell’Alfieri, spiegò che nelle vicinanze dovevano esserci altre zattere, sia dell’Alfieri che del Carducci: indicò una rotta approssimata lungo la quale cercarle, e la nave ospedale iniziò a percorrerla in cerca di altri naufraghi.
Alle 23 le tre vedette di prua della Gradisca sentirono di nuovo delle voci in lontananza; le macchine vennero fermate un’altra volta, furono accesi i riflettori e si precipitarono a prua molti altri uomini. Decine di occhi scrutarono il mare con l’aiuto della luce dei riflettori, che spazzarono tutta l’area circostante; ma il tempo lavorò contro di loro: lo stato del mare era peggiorato, diventando piuttosto agitato, e per qualche minuto si mise anche a piovere, una pioggerella fredda che ridusse la visibilità. Non si riusciva a vedere niente, e non si sentivano più neanche le voci. Dopo mezz’ora, la Gradisca rimise in moto e si allontanò verso nord.
Le vedette non si erano sbagliate: la nave era davvero giunta in vista di una zattera, proprio quella del comandante Ginocchio. Verso le 23, i marinai sulla zattera avevano ripreso a gridare come qualche ora prima: ma questa volta non per un’allucinazione, bensì per una nave autentica, completamente illuminata, distante un paio di chilometri. Le grandi croci rosse luminose visibili sulla murata la rendevano chiaramente riconoscibile come una nave ospedale; si muoveva a lentissimo moto. Tutti gridavano per farsi sentire, ed anche Ginocchio si unì all’esultanza generale. I naufraghi videro la nave mettere la prua verso di loro, accendere i proiettori ed iniziare a puntarli sul mare circostante, e furono certi che la loro odissea fosse giunta alla fine; invece, ad un certo punto, la Gradisca rimise in moto, accostò ed iniziò ad allontanarsi verso nord. I naufraghi gridarono più forte che poterono, ma non furono più sentiti; non c’era sulla zattera nessun razzo di segnalazione, né torce elettriche per fare segnali luminosi. Si cercò di governare col remo-timone per avvicinarsi alla rotta della nave ospedale, ma invano. La Gradisca non era riuscita a vederli, e se ne andò via, segnando per i superstiti del Carducci la terza terribile delusione in meno di tre giorni. Per alcuni, questa fu l’ultima e definitiva spinta verso la follia. I naufraghi furono presi dalla rabbia, dall’isteria e dalla paura, si misero a piangere, gridare od imprecare; invano gli ufficiali cercarono di riportare la calma. Qualcuno nella zattera urlò che un inglese lo stava assassinando, e si scatenò una nuova calca; altri uomini caddero in acqua, si fece fatica a tirarli nuovamente a bordo, qualcuno si tuffò deliberatamente e non riemerse più. Tutti gli uomini rimasti sulla zattera si ammassarono sulla “prua”, come temendo un pericolo invisibile. Durante la notte, terribilmente fredda, Cimaglia recitò di nuovo la Preghiera del Marinaio, e di nuovo i naufraghi – anche gli impazziti e i moribondi – si unirono a lui nella preghiera.

Il mattino del 1° aprile 1941, quarto giorno alla deriva, la conta rivelò che altri due uomini erano scomparsi durante la notte. Probabilmente erano caduti in mare durante la calca scatenatasi quanto la Gradisca si era allontanata, ed erano annegati. I superstiti versavano in uno stato sempre peggiore, disidratati e sanguinanti dalle piaghe causate dal sole e dalla nafta; parecchi, tra cui lo stesso Ginocchio, avevano subito gravi lesioni oculari a causa del battito incessante del sole. Ninni, il comandante in seconda, stava ormai dando segni di squilibrio: non rispondeva, diceva cose senza senso, continuava a togliersi e rimettersi la giacca; propose a Ginocchio di alzare una seconda vela ed un fiocco, poi si levò la giacca di nuovo e rimase in piedi a fissare l’orizzonte, per alcuni minuti, senza dire nulla. Non era il solo a perdere la testa: un cannoniere aveva fissato la fotografia di una ragazza sul bordo interno della zattera; un gruppetto di naufraghi si radunò intorno a guardarla silenziosamente, poi uno di essi l’afferrò e la nascose nel suo camisaccio, venendo subito aggredito dal proprietario dell’immagine. Si scatenò una rissa, che arrecò ulteriori danni alla zattera. Gli episodi di pazzia si moltiplicavano: qualcuno diceva di vedere bottiglie di birra in fondo al mare, altri immaginavano navi e fumi all’orizzonte che esistevano solo nella loro mente. Qualcuno diceva che guardando il sole sarebbe potuto morire, qualcun altro cercava la cambusa sotto il pagliolo della zattera, altri ancora volevano bere l’acqua del mare ad ogni costo, credendo che fosse cognac o latte. Un naufrago disse che doveva assolutamente andare ad un appuntamento con degli amici al caffè Sport di La Spezia, ma che sarebbe tornato subito. I più folli saltavano in acqua, e venivano riportati a bordo da quelli rimasti savi fino a quando questi ultimi ebbero ancora abbastanza forza per farlo.
Altri naufraghi “vedevano” la costa vicinissima, e si dicevano certi di poterla raggiungere. Quando qualcuno veniva preso dallo scoramento, era lo stesso Ginocchio a dire che la terra era in vista, non perché delirasse anche lui, ma per tenere alta la speranza ed il morale degli uomini, ed impedire che si lasciassero andare; quando Cimaglia, non capendo, mise in dubbio questa affermazione, Ginocchio lo fulminò con lo sguardo e Cimaglia comprese.
Per cercare di porre rimedio alla fame e alla sete si tentò di tutto: si cercò di mangiucchiare suole, corde, pezzi di legno, ma niente passava al di là dei denti; qualcuno bevve anche urina raccolta nel fondo di un binocolo.
Durante il pomeriggio del 1° aprile, forse verso le due, Ninni prese a parlare a bassa voce a Ginocchio. Gli spiegò che la sua figlia piccola, Rosalba, era molto malata, forse aveva una febbre infettiva; necessitava di continue cure, ma la moglie era sola a Taranto, non c’erano altri parenti. Di notte la bimba non riusciva a dormire, calmandosi solo quando il padre la prendeva in braccio. Era questo il motivo per cui era sceso a terra senza permesso qualche giorno prima della partenza, ma non glie l’aveva mai detto: sapendolo, ora, e ripensando alla punizione che per questo gli aveva comminato, Ginocchio ne rimase profondamente colpito. Se l’avesse saputo, avrebbe soprasseduto. Finito di spiegare, Ninni ricominciò a raccontare di nuovo quanto aveva appena detto, però cambiando vari particolari; e chiese il permesso di scendere a terra per andare dalla famiglia. Guardava fisso verso qualcosa di indefinibile, lontano; Ginocchio cercò inutilmente di scuoterlo, ma Ninni non lo ascoltò. Allora il comandante del Carducci cercò di far sedere il suo secondo sul fondo della zattera, ma Ninni cercò invece di divincolarsi e di tuffarsi in acqua: per fermarlo prima che potesse gettarsi, o che qualcuno lo vedesse lottare con un ufficiale – temeva che ciò avrebbe avuto effetto negativo sul morale degli uomini –, Ginocchio gli tirò un pugno sulla bocca, e in tal modo riuscì a calmarlo. Ninni si sedette, e con sguardo assente chiese a Ginocchio chi avrebbe cullato la figlia; questi rispose che la stava cullando lui, che lei stava benissimo ed era felice, e mimò anche il gesto con le braccia. Ciò ebbe finalmente l’effetto di tranquillizzare Ninni, che sorrise e poco dopo si addormentò.

La giornata del 31 marzo aveva decimato anche i naufraghi della zattera del marinaio Cesare Montanari. In acqua, ormai, non c’era più nessun naufrago vivo: soltanto cadaveri sorretti dai salvagente. Anche gli occupanti della zattera cedettero a poco a poco al freddo della notte, al sole implacabile di giorno, e soprattutto alla sete, di gran lunga il problema più grande, che spingeva alcuni marinai a crisi di follia.
Uno dopo l’altro, i naufraghi morirono e vennero gettati in mare. Dopo qualche giorno – difficile dire quale, dato che la memoria di Montanari era confusa dal tanto tempo passato sulla zattera: probabilmente il 1° aprile – della quarantina di uomini che erano stati inizialmente sulla zattera di Montanari erano rimasti soltanto in sei, uno dei quali moribondo. Quel giorno, nel primo pomeriggio, un marinaio si alzò e, puntanto il dito verso l’orizzonte, iniziò a gridare: “Là! Laggiù! Il Colleoni, il Colleoni che è tornato a galla e ci viene a salvare!”. I naufraghi avevano ben presente la storia dell’incrociatore leggero Colleoni, la prima nave maggiore perduta in guerra dalla Marina italiana. Era stato affondato otto mesi prima, nel luglio 1940, nelle acque di Creta, non lontanissimo da dove ora loro si trovavano. Fu forse per questo motivo – la perdita del Colleoni aveva avuto molta risonanza tra gli equipaggi della flotta – che vi furono diversi casi, tra i naufraghi di Matapan, di uomini che credettero di vedere il Colleoni riemergere dalle acque. Naturalmente non era che un’illusione: il marinaio che aveva “visto” il Colleoni si gettò in mare e prese a nuotare vigorosamente, allontanandosi dalla zattera, fino a quando, esaurite le poche forze residue, annegò.
Morì anche un altro naufrago, ed il giorno seguente soltanto quattro uomini restavano in vita, tra cui Montanari. Ormai avevano quasi perso ogni speranza e non avevano più forze, ma compresero che l’unico modo di prolungare almeno un poco la loro sopravvivenza consisteva nel mangiare qualcuno dei gabbiani che volavano sopra di loro, e che di tanto in tanto si posavano sul bordo della zattera. Durante la giornata, i quattro naufraghi studiarono con cura – il tempo di certo non mancava – il modo migliore per riuscire a catturare uno degli uccelli: impossibile prenderli al volo, bisognava riuscire a colpirne uno quando si posava sul bordo. I gabbiani che si posavano sulla zattera, però, erano molto guardinghi, e coglierli di sorpresa non sarebbe stato facile.
I naufraghi attesero il momento propizio, tenendo un piccolo remo, molto leggero, a portata di mano: ed infine, nel pomeriggio, due gabbiani si posarono sul bordo. Montanari prese il remo, lo alzò lentamente e poi colpì uno dei gabbiani prima che potesse spiccare il volo. Il volatile venne rapidamente spezzato in quattro parti, che i naufraghi si divisero, succhiandole per dissetarsi (il sangue degli animali può rappresentare, come estrema ratio, un sostituto dell’acqua) e poi mangiandone la carne così com’era, cruda. Quella poca carne ridiede loro un poco di forza.

La giornata del 1° aprile fu, per la Gradisca, la più fruttuosa. All’alba la nave individuò coi proiettori due zattere cariche di naufraghi, che vennero prontamente soccorsi, nonostante il mare piuttosto agitato, dal motoscafo della Gradisca; subito dopo vennero avvertite delle altre grida, che provenivano da destra, ed i proiettori rivelarono altre zattere, stavolta in gran numero. Vennero messe a mare anche altre motobarche, che per quattro ore si prodigarono incessantemente recuperando decine e decine di naufraghi, anche feriti. Per la maggior parte essi appartenevano all’equipaggio del Fiume, ma ce n’erano anche alcuni dei cacciatorpediniere.
Terminata questa prima fase di salvataggi, la Gradisca riprese a cercare, e più tardi durante la mattinata vennero avvistate verso sud delle altre zattere. Di nuovo la nave si diresse loro incontro, per poi fermarsi una volta nelle vicinanze e mettere a mare i motoscafi. Molti di questi naufraghi erano allo stremo delle forze, sdraiati sul fondo delle zattere, il capo reclinato sulle ginocchia dei compagni; quando i motoscafi li portarono sulla Gradisca, iniziarono a chiedere dell’acqua, senza sosta. Il tenente commissario Ermanno De Maio, della Gradisca, vide che tra i naufraghi salvati c’era un suo cugino (è possibile che questi fosse Francesco De Maio o Di Maio, sottocapo cannoniere del Carducci), e corse ad abbracciarlo. Per altri, invece, arrivarono cattive notizie: tra gli ufficiali medici della Gradisca era anche il tenente medico Giulio Venticinque, fratello di Aldo Venticinque, sottotenente di vascello del Carducci, che non era sopravvissuto. Uno dei naufraghi tratti in salvo, quando lo vide, proruppe in esclamazioni disperate: “Signor Venticinque! Signor Venticinque! Vostro fratello è morto!”. Fulminato dall’inaspettata notizia, l’ufficiale si abbandonò tra le braccia di un collega. Neanche Giulio Venticinque sarebbe sopravvissuto alla guerra: dopo l’armistizio, catturata la Gradisca dai tedeschi in Grecia, sarebbe fuggito per unirsi ai partigiani greci, e sarebbe stato catturato ed impiccato dai tedeschi nel 1944.
Nelle prime ore del 1° aprile, tra le 5.25 e mezzogiorno, la Gradisca riuscì a trarre in salvo ben 122 sopravvissuti, da un totale di 18 zattere. (Secondo il libro "Le missioni avventurose di una squadra di navi bianche", scritto dal generale Mario Peruzzi, già capo del Corpo Sanitario Militare Marittimo, e pubblicato nel 1951 dal Ministero della Marina, risulterebbe che tutti i naufraghi salvati il 1° aprile appartenessero allo Zara, Fiume ed all’Alfieri, rispettivamente in numero di 8, 106 e 8, recuperati da una zattera dello Zara – la prima avvistata quel giorno –, 16 zattere del Fiume e da una dell’Alfieri, mentre non sarebbero stati recuperati in quella giornata superstiti del Carducci. Tuttavia l’episodio di Venticinque – ufficiale del Carducci, la cui morte poteva essere nota solo ai naufraghi di questa nave – e forse anche quello di Di Maio, narrati entrambi nel diario della crocerossina volontaria Maria Corazza, imbarcata sulla Gradisca, fanno pensare che in realtà tra i naufraghi salvati il 1° aprile dovessero esservene anche alcuni del Carducci. A meno che la data indicata sul diario non sia sbagliata).
Terminato il recupero di questi naufraghi, a mezzogiorno nave ospedale proseguì nella sua ricerca, basandosi sulle informazioni fornite da Supermarina e da quanto raccontato dai naufraghi recuperati in precedenza, navigando verso ovest, fino a giungere in un punto non lontano da quello in cui aveva iniziato le ricerche una volta giunta sul luogo della battaglia. Degli aerei che avrebbero dovuto cooperare nella ricerca non c’era traccia: solo un singolo aereo di soccorso della C.R.I. perlustrò vanamente la zona per un po’ di tempo, tenendosi in contatto radio con la Gradisca ma senza riferire nulla di utile. Poco prima era transitato anche un aereo tedesco, ma volando ad alta quota, diretto verso sudest. Apparve invece, alle tre del pomeriggio, un aereo britannico, un idrovolante Short Sunderland, che effettuò due giri a bassa quota sopra la Gradisca – qualcuno ritenne di vedere un segnale – e poi si allontanò immediatamente verso nordest. La nave continuò a cercare navigando a velocità moderata, dapprima verso sud, poi verso ovest e quindi verso nordest e nordovest, per tutta la giornata del 1° aprile, la notte seguente e poi la giornata del 2 aprile. Alle nove del mattino del 2 aprile, in posizione 35°38’ N e 21°20’ E, vennero avvistati due gavitelli rossi e ben 16 zattere di salvataggio, tutte vuote: non c’erano né naufraghi vivi né cadaveri, e opinione degli uomini della Gradisca fu che quelle zattere fossero del Pola, e che i loro occupanti fossero stati probabilmente recuperati in precedenza dai britannici.
Nel pomeriggio del 2 aprile, finalmente, vennero trovati degli altri naufraghi: appartenevano al Carducci e versavano in condizioni peggiori di quelli recuperati in precedenza. Alcuni di essi raccontarono di aver visto la Gradisca durante la notte, ma di non essere riusciti a comprendere quale fosse la sua nazionalità. Alcuni non avevano osato avvicinarsi perché temevano di finire prigionieri, altri al contrario avevano gridato per farsi sentire ed avevano cercato di vogare con le mani verso la nave ospedale, ma senza successo, com’era accaduto sulla zattera del comandante Ginocchio. Avevano perso la speranza di essere salvati, alcuni erano impazziti, mentre altri avevano cercato di tranquillizzarli ed incoraggiarli. Molti, credendo di essere prossimi alla morte, volevano confessarsi subito: il cappellano della Gradisca, don Ezio Chidini, riuscì a convincerli che ne avrebbero ancora avuto di tempo per confessarsi, per il momento si dovevano prima di tutto riposare.

Nel pomeriggio del 2 aprile, i quattro naufraghi sulla zattera di Cesare Montanari videro all’improvviso qualcosa che si avvicinava, ed a poco a poco riuscirono a distinguere una nave, interamente verniciata di bianco: quando venne più vicina poterono discernere anche le croci rosse sulle murate e sui fumaioli, e furono certi che si trattava di una nave ospedale.
Era infatti la Gradisca: giunta nei loro pressi, mise a mare una motolancia ed un motoscafo. La prima si diresse verso delle altre zattere più lontane, mentre il motoscafo puntò diritto sulla loro. Montanari fu preso dalla gioia: rise, si alzò, cadde nell’acqua al centro della zattera semiallagata, e perse i sensi.
Rinvenne nelle braccia di un marinaio, mentre un tenente di vascello gli porgeva una mano per aiutarlo a salire sul motoscafo: a bassa voce l’ufficiale gli diceva “Forza marinaio, ce l’hai fatta, fatti forza, non cedere proprio ora...”. Insieme ai tre compagni, venne portato a bordo della Gradisca e messo in un letto; fu visitato da un ufficiale medico assistito da un sergente infermiere e due crocerossine. Per parte sua, Montanari continuava a chiedere acqua: non beveva da cinque giorni, eccettuato il gabbiano che aveva succhiato. Infermieri e crocerossine gli passarono delle garze umide sulle labbra, poi gli fecero bere dell’acqua e aranciata con un cucchiaino da caffè, poco per volta; gli fu fatto indossare un pigiama bianco. Le crocerossine erano particolarmente premurose, sempre a portata con acqua o altre bevande, che venivano somministrate con garze o cucchiai: dopo tanti giorni senza bere, i naufraghi non potevano ingerire subito grandi quantità di liquidi in un sol colpo, anche se continuavano a chiedere acqua.
Passato abbastanza tempo, finalmente, Montanari poté bere una tazza di brodo. Ad un medico, che gli chiedeva come stesse, rispose con un modo di dire romagnolo: “Sto come un pesce nel pagliaio”. Il medico non capì, ed una crocerossina gli spiegò allora il significato: “Mettere un pesce in un pagliaio ed un essere umano sottacqua sono la stessa cosa”. Ci volle parecchio tempo per placare quella tremenda sete.

Ciò che accadde sulla zattera del comandante Ginocchio tra il 1° ed il 2 aprile non è noto, dato che tutti i sopravvissuti erano ormai scivolati in uno stato di semincoscienza, sull’orlo della morte, e nessuno conservò memorie precise di quel che successe. Alcuni uomini morirono, altri, cedendo alla follia o alla disperazione, si gettarono in mare, assottigliando sempre più il numero degli occupanti. Cimaglia scrisse nella sua relazione, redatta nel dopoguerra, che i pochi rimasti erano ormai rassegnati ed aspettavano semplicemente la morte, sdraiati in silenzio; solo Ninni seguitava ad avere allucinazioni, continuando a chiedere a Ginocchio “Comandante, mia figlia Rosalba è ammalata. Permette che scenda a terra a chiamare un medico?”, e dicendo di vedere le luci di Taranto. Alcuni pregavano che i loro parenti non soffrissero troppo per la loro morte.
La Gradisca, intanto, continuava a cercare, dirigendo prima verso nordest, poi verso nordovest e poi verso sudovest, per ampliare gradualmente la zona delle ricerche. Nel primo pomeriggio del 2 aprile, le vedette della nave ospedale avvistarono due zattere del Carducci, a circa dieci miglia di distanza. Erano la zattera del comandante Ginocchio e l’altro zatterino, ormai vuoto, che anche dopo aver tagliato il cavo era rimasto nei suoi pressi.
La Gradisca si precipitò sul posto; giunti ad una cinquantina di metri di distanza, gli uomini a bordo videro che la zattera più piccola era vuota, mentre su quella più grande c’erano alcuni uomini, che però non davano segni di vita. Fu messa a mare una lancia con sei uomini, che raggiunse i due galleggianti: venne verificato che sulla zattera piccola non ci fosse proprio nessuno, mentre sulla zattera più grande gli uomini ancora in vita erano sette: tra di essi vi erano Ginocchio, Ninni, Fontana e Cimaglia. Dopo cinque giorni alla deriva, questi 7 uomini erano gli unici sopravvissuti dei 34 che si erano trovati a bordo della zattera il mattino del 29 marzo.
Cimaglia era ancora cosciente, sebbene a malapena. Sentì qualcuno dire che c’era un fumo all’orizzonte, ma dopo tutti i falsi allarmi e le delusioni dei giorni precedenti non si volse nemmeno a guardare, e rimase sdraiato sul fondo della zattera. Invece, a un certo punto sentì un rumore vicino, vide che c’era davvero una nave che si era fermata ed una motolancia che veniva verso di lui, e sentì due braccia che lo sollevavano e lo avvolgevano in una coperta.
I sette superstiti erano in condizioni disperate, tutti privi di sensi, disidratati e scottati dal sole; subito portati a bordo della Gradisca, vennero dapprima adagiati in coperta, uno accanto all’altro, e poi trasferiti nei letti dell’ospedale. Gli ufficiali, che erano tra quelli in condizioni peggiori, poterono essere identificati dai loro piastrini di riconoscimento. Uno dei sette uomini, un fuochista, spirò poco dopo il salvataggio.
Verso sera, dopo le prime cure, i superstiti della zattera iniziarono a riprendere conoscenza: alcuni deliravano, altri continuavano a chiedere acqua. Ginocchio scivolava dalla lucidità al delirio e viceversa; disse che nella zona dovevano esserci altre zattere del Carducci, e che voleva andare in plancia per assistere l’ufficiale di rotta nelle ricerche, ma venne fermato e ricominciò a delirare. Si riprese alle due di notte del 3 aprile e ricominciò a chiedere di potersi alzare dal letto; gli fu allora messa accanto la crocerossina Fausta Bertolini. Questa raccontò a Ginocchio quanto sapeva: che oltre al Carducci erano stati affondati Zara, Pola, Fiume ed Alfieri; che 5000 marinai erano morti o prigionieri; che l’ammiraglio Cattaneo era presumibilmente morto; che il comandante Toscano dell’Alfieri – il caposquadriglia di Ginocchio, sempre di buon umore ed adorato dai suoi uomini, che lui ammirava ed invidiava – era volontariamente affondato con la sua nave. Sentito tutto questo, Ginocchio iniziò a gridare “Si poteva evitare! Si poteva evitare!”, ripetendolo continuamente, e a dimenarsi per lasciare il letto, con calci e pugni; la Bertolini dovette immobilizzarlo con degli asciugamani, poi andò a prendere delle strisce di tela perché sarebbe probabilmente riuscito a strappare gli asciugamani.
È da notare qualche discrepanza: dalle zattere di Montanari e Ginocchio risulterebbero esservi stati, secondo i racconti dei sopravvissuti, rispettivamente 4 e 7 uomini ancora in vita al momento del salvataggio, dunque in tutto 11 naufraghi; mentre il già citato libro "Le missioni avventurose d’una squadra di navi bianche", basandosi sul rapporto di missione della Gradisca, riferisce invece che alle 14.12 del 2 aprile, mentre dirigeva per sudovest (avendo ampliato l’area delle ricerche), la Gradisca avvistò in posizione 35°56' N e 21°14' E due zattere, dalle quali furono recuperati in tutto 21 naufraghi del Carducci. Anche sulle circostanze vi è qualche discordanza, dato che dai racconti di Montanari e dei sopravvissuti della zattera di Ginocchio si ricava l’impressione che le due zattere siano state soccorse separatamente, in tempi diversi (alcuni superstiti della zattera di Ginocchio collocano il salvataggio alle 16.30; nessuno parla di un’altra zattera con superstiti, né Montanari parla della zattera di Ginocchio), mentre dal citato volume apparirebbe che le due zattere siano state trovate e soccorse contemporaneamente.
Qualcuno degli uomini raccolti il 2 aprile, dopo il salvataggio, affermò che, pur non potendo fornire indicazioni precise sulla presenza o meno di altre zattere nelle vicinanze, certamente se ne sarebbero trovare delle altre verso sudest, pertanto la Gradisca continuò a cercare in tale area per tutto il resto della giornata e della notte seguente. Alle 15.55 sorvolò la nave un aereo tedesco, diretto a nordest; alle 16 fu la volta di un velivolo britannico, diretto a sud. Poco più tardi la radio della Gradisca captò dei deboli segnali radio da un aereo italiano, che richiedeva un rilevamento radiogoniometrico per raggiungere la nave, ma i segnali erano troppo deboli per permettere di rilevare la posizione.

Nel corso della notte la Gradisca, ridotta la velocità a 6,5 nodi, incrociò in lungo e in largo in cerca di naufraghi, finché il mattino del 3 aprile si ritrovò più o meno nello stesso punto del giorno prima. A quel punto, accostò verso sud con velocità normale.
Il 3 aprile il considerevole miglioramento dello stato del mare consentì infatti alla Gradisca di mettere a mare le motolancie, così da estendere la zona delle ricerche. A mezzogiorno la nave aveva appena fatto il punto ed assunto rotta per perlustrare la zona compresa tra 35°42’ N e 35°52’ N e tra 21°14’ E e 21°23’ E, quando le vedette di plancia e di prua avvistarono qualcosa in lontananza. Tra le 12.38 e le 14.06 vennero così individuate e soccorse, una dopo l’altra, quattro zattere, tutte del Carducci. A bordo c’erano, in tutto, altri 14 sopravvissuti del cacciatorpediniere: versavano in condizioni spaventose. Non si reggevano in piedi, erano completamente disidratati, con bocca inaridita, labbra screpolate, occhi infossati, gambe tumefatte. La temperatura corporea era inferiore a 36° C (il medico che li visitò li trovò freddi, quasi come cadaveri), respiravano ancora ma il polso quasi non si sentiva. Tutti presentavano gravi scottature da sole, e le ferite erano macerate dal sale. Chiedevano incessantemente acqua, una sete inestinguibile, e non potevano ingerire quasi nulla, a parte bevande zuccherate, a causa di continuo singhiozzo e vomito. Alcuni erano ancora preda delle allucinazioni; qualcuno gridava ai soccorritori “Ce ne sono delle altre! Le abbiamo viste all’alba, e stanotte abbiamo sentito chiamare vicino a noi!” ed anche altri insistevano che dovessero esservi altre zattere, mentre altri dicevano di non aver sentito altro che lo sciabordio delle onde.
I 14 uomini del Carducci salvati il 3 aprile furono in assoluto gli ultimi naufraghi di Matapan ad essere soccorsi; erano rimasti alla deriva per sei giorni e sei notti.
Le condizioni dei naufraghi recuperati nei giorni precedenti, intanto, andavano lentamente migliorando. Passata la sete, subentrava fortissima la fame: il personale sanitario consolava i naufraghi spiegando che “quando il malato ha fame vuol dire che è guarito”. A molti si gonfiarono braccia e gambe, a causa del molto tempo passato in acqua: però massaggi, frizioni ed iniezioni per riattivare la circolazione fecero passare tutto abbastanza in fretta. Le crocerossine erano sempre pronte ad essere di aiuto; vedevano i naufraghi come eroi e, infervorate dalla propaganda dell’epoca, parlavano di «Vittoria e Destini della Patria».

La Gradisca riprese ad esplorare le acque a nordovest ed a sudest del punto in cui si presumevano essere affondate le navi, ampliando ancora la zona delle ricerche. Alle 15 ed alle 16.39 passarono nel cielo un aereo britannico ed uno italiano, ad alta quota, senza effettuare comunicazioni. Alle 17.38 apparve un aereo tedesco, proveniente da sud, che venne incontro alla Gradisca, sganciò cinque bombe in mare e poi se ne andò.
Calata la sera, la nave rallentò la velocità per la ricerca notturna; nel corso della notte descrisse tre lati di un vasto quadrilatero, ed il mattino del 4 aprile tornò sul punto 35°30’ N e 20°50’ E, poi proseguì verso sudest. Alle sette del mattino la Gradisca entrò in un vero e proprio cimitero galleggiante: per tutta la mattinata la nave si trovò a navigare in mezzo ad una distesa di cadaveri, 200, 250, forse anche 300 o 400. Galleggiavano lasciando affiorare solo il dorso. L’equipaggio venne schierato col capo scoperto, ed il cappellano di bordo impartì la benedizione e l’assoluzione alle vittime.
Per il resto della giornata, la Gradisca non trovò altro che zattere vuote o già controllate; continuò comunque a cercare superstiti fino alla sera del 5 aprile, incrociando con rotte varie attorno alla zona della chiazza di nafta che segnava la nave affondata, con un percorso di ricerca a reticolo che e puntate verso sud e verso nordest, passando e ripassando anche in zone già controllate, e cercando di ipotizzare le possibili rotte di deriva dove vento e correnti potevano aver spinto le zattere. Il mattino del 5 vennero avvistate tre zattere vuote, nel pomeriggio una motolancia semiaffondata. Non fu trovato nessun altro naufrago, ed anche il tempo si mise contro i soccorritori: prima si levò una fitta foschia, poi vento sempre più violento da est, che rese il mare via via più agitato.
Ciò risulta dal libro "Le missioni avventurose di una squadra di navi bianche" e di nuovo contrasta con il diario della crocerossina Maria Corazza, secondo il quale l’ultimo salvataggio sarebbe invece avvenuto il 5 aprile, cioè a ben sette giorni dagli affondamenti. In esso è infatti scritto che, il 5 aprile, la Gradisca avvistò una zattera in lontananza; mentre la nave si dirigeva verso di essa, venne avvistata sulla destra un’altra zattera, con a bordo un unico naufrago, che gridava e si agitava, avvicinandosi alla nave ospedale. La Gradisca fermò le macchine e mise a mare il motoscafo; quando quest’ultimo era già a poche decine di metri dalla zattera, il naufrago si gettò in acqua e prese a nuotare verso di esso, come impazzito. Venne prontamente issato a bordo dagli uomini del motoscafo; si trattava di un sergente, che quando giunse sottobordo alla Gradisca gridò “Grazie! Grazie! Viva l’Italia” in preda alla gioia. Avvolto nelle coperte di lana, venne portato a bordo: era l’unico sopravvissuto della sua zattera. La Gradisca rimise poi subito in modo, senza neanche curarsi di recuperare il motoscafo per fare prima, e si diresse verso la zattera che era stata avvistata per prima, che fu presto raggiunta. Un altro motoscafo, calato in mare, raggiunse la zattera e ne recuperò gli occupanti, che giacevano inerti sul fondo: sette uomini, tutti, tranne due, in gravi condizioni, che giacevano inerti sul fondo del galleggiante. I marinai della Gradisca li avvolsero nelle coperte e diedero loro acqua, cognac e caffè, a sorsi. Questi furono gli ultimi naufraghi tratti in salvo: dopo di loro, la Gradisca trovò ancora molte zattere, ma alcune «portavano trasversalmente una specie di remo o recavano nel fondo mucchi di salvagente, per significare che i naufraghi furono salvati», mentre altre erano vuote. Tuttavia, si può esprimere qualche dubbio sull’esattezza della data indicata sul diario di Maria Corazza, dal momento che più avanti si parla di una messa celebrata a bordo l’8 aprile, durante la navigazione di rientro, mentre risulterebbe che la Gradisca sia arrivata in porto già il 7 aprile.
Alle 22 del 5 aprile Supermarina ordinò per radio alla Gradisca di dirigere per Messina: ormai non era più ragionevole aspettarsi di trovare altri sopravvissuti. In tutto la nave ospedale aveva salvato 162 uomini: 35 del Carducci, 106 del Fiume, 12 dell’Alfieri, 8 dello Zara. Due dei 162 erano deceduti a bordo della Gradisca. Vennero inoltre recuperate sette salme, mentre centinaia di altre erano state viste ma le si era dovute lasciare alla deriva, per cercare uomini ancora vivi.
Forse, scrisse poi il generale Peruzzi, la Gradisca avrebbe potuto rintracciare la maggior parte delle zattere già il primo giorno (dato che l’avvistamento di rottami e chiazze di nafta già la sera del 30 era prova che essa era già giunta nella zona in cui le navi erano affondate), se i messaggi radio di Supermarina, che indicavano avvistamenti in vari punti nei quali non furono trovati né naufraghi né zattere vuote, non l’avessero fuorviata. In tal caso si sarebbero potuti salvare molti più uomini. Anche le indicazioni fornite dai primi naufraghi tratti in salvo non erano state di aiuto per le ricerche. Purtroppo era mancata la collaborazione dell’unico mezzo che avrebbe potuto davvero fornire un contributo efficace, gli aerei.
Il 6 aprile si tenne una messa di suffragio per gli uomini scomparsi in mare a Capo Matapan, cui presero parte l’equipaggio e quei naufraghi che erano in condizione di reggersi in piedi. Non era tra questi il comandante Ginocchio, che delirava nel suo letto, preda di febbre altissima e vomito; nei brevi momenti in cui era in sé, continuava a domandare che la Gradisca continuasse a cercare, dicendo che la nave avrebbe certamente trovato altri superstiti del Carducci. Quando infine comprese che non potevano esserci altri sopravvissuti, chiamò il cappellano e lo tempestò di domande sullo stato dei naufraghi del Carducci che la Gradisca aveva tratto in salvo; il cappellano preferì mentire piuttosto che dirgli della triste verità: di tutto il suo equipaggio erano stati salvati appena 35 uomini, i più in condizioni pietose.
Un’altra messa venne celebrata per i naufraghi che versavano in condizioni più gravi, ed il cappellano passò nei reparti a distribuire l’eucarestia anche a quelli che non potevano alzarsi dal letto.
La dieta somministrata ai naufraghi recuperati, che dopo giorni trascorsi senza mangiare né bere non potevano ingerire subito grandi quantità di cibo, consisteva in acqua zuccherata con un goccio di cognac, e succhi di frutta. I medici della Gradisca effettuarono alcuni interventi d’urgenza, perlopiù per fratture: d’altra parte, i feriti gravi non erano sopravvissuti alla lunga attesa sulle zattere. Durante la navigazione verso Messina, gli ufficiali della Gradisca iniziarono anche ad interrogare i naufraghi in condizioni migliori, per cercare di capire come si fosse svolta l’azione notturna che aveva portato all’annientamento della I Divisione. Al momento dell’arrivo in porto, molti dei naufraghi recuperati nei primi giorni, che avevano passato relativamente meno tempo in mare e più tempo sulla Gradisca, si erano ripresi quasi del tutto.
La Gradisca arrivò a Messina alle 8.30 del 7 aprile, ed i 55 naufraghi in condizioni peggiori vennero subito trasportati in ambulanza all’ospedale Regina Margherita. Tra questi erano il comandante Ginocchio e molti altri superstiti del Carducci, i cui naufraghi erano quelli che erano rimasti in mare più a lungo di tutti. Gli altri 105 uomini recuperati dalla Gradisca, che si ritenne si fossero sufficientemente ristabiliti, vennero invece inviati al locale deposito C.R.E.M. (Corpo Reali Equipaggi Marittimi). Le nove salme vennero tumulate nel Sacrario Militare di Cristo Re.
Ginocchio era ancora febbricitante e stentava ad alzarsi dal letto, ma quella stessa sera gli arrivò un ordine del Comando di Squadra, che richiedeva di mandare entro qualche ora un rapporto su quanto accaduto. Dei comandanti delle cinque navi affondate a Matapan, lui era l’unico che fosse stato recuperato da una nave italiana: tre, Toscano dell’Alfieri, Corsi dello Zara e Giorgis del Fiume, erano scomparsi in mare; uno, De Pisa del Pola, era stato fatto prigioniero. Nonostante le sue condizioni e la contrarietà dei medici, Ginocchio si sforzò di obbedire, ed alle 00.30 dell’8 marzo scrisse il suo rapporto, anche se i suoi ricordi erano ancora confusi (ci volle del tempo per convincerlo che fosse stato sulla zattera per cinque giorni: nella sua mente, quella interminabile attesa sembrava essere durata otto o nove giorni). Per lo meno, a Messina aveva ricevuto la buona notizia che Oriani e Gioberti erano si erano salvati ed erano giunti a Taranto nel pomeriggio del 30 marzo.
Ginocchio rimase ricoverato nell’ospedale Regina Margherita per quasi due mesi, fino a fine maggio. Gli esami gli trovarono una grave forma di gastrite acuta, probabilmente causata dall’ingestione di acqua di mare; le piaghe causate dal sole e dalla nafta guarirono molto lentamente. Uscì dall’ospedale per la prima volta il 20 maggio, e andò a farsi visitare da un oculista privato di Messina: non voleva farsi visitare dal personale del Regina Margherita perché temeva che le lesioni agli occhi causate dal sole, se scoperte, avrebbero potuto comportare la fine del suo servizio attivo. Era ancora molto debole, e per spostarsi necessitò di una carrozzina.


Sopra, superstiti del Carducci e personale dell’ospedale militare Regina Margherita di Messina in una foto di gruppo scattata nell’aprile 1941; sotto, da sinistra a destra, Cimaglia, Ninni, Ginocchio e Fontana in convalescenza (Coll. Vito Ninni, da www.marinai.it)


Dei 206 uomini che componevano l’equipaggio del Carducci, sopravvissero soltanto 5 ufficiali, 4 sottufficiali e 26 tra sottocapi e marinai, tutti recuperati dalla Gradisca. Trovarono la morte a Capo Matapan, caduti in combattimento o scomparsi in mare nei giorni successivi, 171 uomini del Carducci: 4 ufficiali, 22 sottufficiali e 145 tra sottocapi e marinai.

I loro nomi:

Guido Addeo, marinaio fuochista, disperso
Gaetano Aiello, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Aiello, marinaio fuochista, deceduto
Giuseppe Aiolfi, marinaio fuochista, disperso
Carlo Alessandri, marinaio cannoniere, disperso
Luigi Amato, secondo capo cannoniere, disperso
Antonio Ambrosino, marinaio, disperso
Angelo Angioletti, marinaio cannoniere, disperso
Michele Arena, marinaio fuochista, disperso
Pasquale Astarita, tenente del Genio Navale, disperso
Giuseppe Bagordo, secondo capo elettricista, disperso
Catullo Calducci, sergente cannoniere, disperso
Giuseppe Balestrin, sottocapo S.D.T., disperso
Giovanni Barattieri, sergente cannoniere, disperso
Vincenzo Barbieri, marinaio furiere, deceduto
Matteo Barone, marinaio fuochista, deceduto
Rosario Barresi, marinaio, disperso
Mario Bax, marinaio fuochista, disperso
Silvio Belvedere, marinaio, disperso
Massimiliano Benassi, marinaio fuochista, disperso
Liberato Bengardino, marinaio cannoniere, disperso
Filippo Bertoglio, sottocapo S.D.T., disperso
Emilio Berton, secondo capo S.D.T., deceduto
Armando Bertotto, marinaio cannoniere, disperso
Remo Bevilacqua, sottocapo segnalatore, deceduto
Mario Bindi, marinaio silurista, disperso
Guido Bisotti, marinaio fuochista, disperso
Mario Bolognesi, marinaio fuochista, disperso
Gino Bortolusso, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Brignoli, marinaio meccanico, disperso
Letterio Bruno, marinaio cannoniere, deceduto
Vitantonio Buono, marinaio, disperso
Giuseppe Calafiore, marinaio nocchiere, disperso
Cosimo Calò, marinaio elettricista, disperso
Salvatore Campisi, marinaio, disperso
Oscar Candiotto, sottocapo meccanico, disperso
Giuseppe Carfora, marinaio fuochista, disperso
Giacomo Casalini, sottocapo cannoniere, deceduto
Settimo Casano, marinaio fuochista, disperso
Ottavio Cavallari, marinaio cannoniere, disperso
Cesare Cecconi, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Cingolani, marinaio fuochista, disperso
Angelo Colucci, sottocapo cannoniere, disperso
Gennaro Conte, marinaio, disperso
Gennaro Criscuolo, marinaio, disperso
Matteo Criscuolo, sottocapo torpediniere, disperso
Domenico Currò, marinaio fuochista, deceduto
Giovanni De Rosa, capo meccanico di terza classe, disperso
Gaetano De Rosa, marinaio, deceduto
Gennaro De Silvestro, marinaio, disperso
Marino De Steno, marinaio fuochista, disperso
Pierino De Troia, marinaio, disperso
Edoardo Dell’Arte, motorista navale, disperso
Antimo Di Frischia, marinaio segnalatore, disperso
Sebastiano Di Scala, marinaio, disperso
Nicola Dimiccoli, marinaio fuochista, disperso
Federico D’Onora, marinaio fuochista, disperso
Raffaele Esposito, sottocapo infermiere, disperso
Pasquale Esposito, marinaio, deceduto
Vincenzo Esposito, marinaio, disperso
Girolamo Esposito D’Ardia, marinaio cannoniere, disperso
Luciano Ferrante, secondo capo elettricista, disperso
Wladimiro Ferri, sottocapo cannoniere, deceduto
Pietro Ficarotta, sottocapo cannoniere, deceduto
Domenico Filocamo, marinaio cannoniere, disperso
Antonio Fausto Finetto, capo musicante di seconda classe, deceduto
Guglielmo Fiorilla, sergente cannoniere, deceduto
Leonardo Fois, secondo capo meccanico, deceduto
Virgilio Fracassi, marinaio segnalatore, disperso
Giuseppe Frattini, marinaio fuochista, disperso
Ultimo Fusi, marinaio fuochista, deceduto
Alfredo Gadda, secondo capo meccanico, deceduto
Lorenzo Gaeta, marinaio fuochista, disperso
Domenico Galati, marinaio, disperso
Amleto Galgani, marinaio fuochista, deceduto
Giobatta Gasperini, sottocapo, deceduto
Giacomo Gattinoni, marinaio fuochista, deceduto
Francesco Gentile, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Gerbino, marinaio meccanico, disperso
Giuseppe Ghielmi, capo meccanico di prima classe, disperso
Doloino Grassini, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Grasso, marinaio fuochista, disperso
Domenico Grattarola, marinaio, disperso
Severino Guaiumi, marinaio motorista, disperso
Angelo Guglielmi, capo meccanico di seconda classe, disperso
Mario Gulmini, marinaio, disperso
Luigi Iacomino, marinaio cannoniere, disperso
Tommaso Ilari, marinaio, disperso
Giuseppe Iurchio, marinaio fuochista, disperso
Guerrino Katich Zodan, marinaio cannoniere, disperso
Pasquale Laudanna, sottocapo S.D.T., disperso
Francesco Lezzi, sergente meccanico, disperso
Aldo Liniero, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Lombardi, marinaio cannoniere, disperso
Aldo Lombardo, marinaio cannoniere, deceduto
Giuseppe Longhi, marinaio fuochista, disperso
Mario Lorenzutti, marinaio fuochista, deceduto
Giuseppe Santo Lo Savio, marinaio torpediniere, disperso
Michele Magliola, marinaio, disperso
Germano Marrapese, marinaio silurista, disperso
Francesco Marino, capo cannoniere di prima classe, disperso
Giuseppe Maronati, marinaio S.D.T., deceduto
Mario Marozzi, marinaio meccanico, disperso
Antonio Marzano, marinaio, disperso
Andrea Massaro, marinaio, deceduto
Giuseppe Mastromatteo, marinaio, disperso
Aldo Mozzanti, marinaio elettricista, disperso
Francesco Mazzella, marinaio radiotelegrafista, disperso
Onelio Mazziari, secondo capo cannoniere, disperso
Luigi Mazzini, marinaio cannoniere, disperso
Martino Mellano, marinaio, disperso
Domenico Minniti, marinaio fuochista, disperso
Natale Montessi, marinaio cannoniere, deceduto
Filippo Muggeo, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Mungo, sottocapo cannoniere, disperso
Giuseppe Nani, marinaio, disperso
Gastone Nart, marinaio meccanico, disperso
Cesare Natini, marinaio cannoniere, disperso
Renato Negrini, marinaio fuochista, disperso
Luigi Nervi, marinaio S.D.T., disperso
Giovannino Nicoli, marinaio, deceduto
Sergio Orlandi, marinaio fuochista, disperso
Vincenzo Padua, sottocapo cannoniere, deceduto
Ottorino Paglialunga, sottocapo S.D.T., disperso
Sergio Paoli, marinaio elettricista, deceduto
Gaetano Papinutti, marinaio cannoniere, disperso
Walter Pareschi, marinaio, disperso
Luigi Pellino, marinaio, disperso
Giuseppe Penniccioli, marinaio fuochista, disperso
Luigi Pericotti, sottocapo radiotelegrafista, deceduto
Guerrino Piacentini, marinaio cannoniere, disperso
Lorenzo Pirrera, sottocapo cannoniere, disperso
Ezio Pisani, marinaio radiotelegrafista, deceduto
Pietro Rambuschi, secondo capo cannoniere, deceduto
Redo Ravasio, marinaio cannoniere, disperso
Emilio Raveglia, marinaio cannoniere, disperso
Giorgio Rè, sottocapo silurista, disperso
Mario Riccio, capo meccanico di seconda classe, deceduto
Danilo Righi, marinaio elettricista, deceduto
Luigi Rossi, sottotenente di vascello, disperso
Oscar Rossinovich, marinaio fuochista, disperso
Gino Rosteghin, marinaio, deceduto
Renato Saccari, capo meccanico di seconda classe, disperso
Giuseppe Saffiotti, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Santi, sottocapo meccanico, disperso
Michele Santoro, marinaio, disperso
Abbondanzio Sassi, marinaio, disperso
Remigio Savini, capo furiere di terza classe, deceduto
Alfonso Scala, marinaio furiere, deceduto
Giuseppe Scelsa, capitano del Genio Navale (direttore di macchina), disperso
Gaetano Sica, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Silvestri, marinaio, deceduto
Augusto Simonelli, marinaio nocchiere, disperso
Giuseppe Simonetta, marinaio fuochista, deceduto
Carlo Sozzoni, marinaio, disperso
Mario Spinadin, marinaio fuochista, disperso
Ezio Taverna, marinaio fuochista, disperso
Ruggiero Toffoluti, capo radiotelegrafista di seconda classe, disperso
Silvano Uberti, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Urdi, marinaio fuochista, disperso
Ippazio Vallo, marinaio nocchiere, disperso
Giovanni Vellere, sottocapo cannoniere, disperso
Aldo Venticinque, tenente di vascello, disperso
Pantaleo Ventura, marinaio cannoniere, disperso
Ino Vercesi, marinaio elettricista, disperso
Pietro Verzillo, sottocapo S.D.T., disperso
Luigi Vianello, sottocapo elettricista, disperso
Alceste Vusio, marinaio, disperso
Rizzardo Zambelli, marinaio, disperso
Serafino Zanetta, marinaio silurista, disperso
Amedeo Zennaro, marinaio elettricista, disperso

(1) NOTA: L’elenco (preso da www.regiamarina.net) potrebbe contenere degli errori, per i quali ci si scusa e si ringrazia chi vorrà segnalarli.

I pochi sopravvissuti: capitano di fregata Alberto Ginocchio; tenente di vascello Vito Ninni; sottotenente di vascello Michele Cimaglia; sottotenente di vascello Michele Fontana; sottotenente G. N. D. M. Antonio Sponza; secondo capo radiotelegrafista Regileno Massa; secondo capo S.D.T. Andrea Mazzei; secondo capo meccanico Giuseppe Solaro; sergente meccanico Romano Turco; sottocapo nocchiere Mario Bonaielli; sottocapo torpediniere Francesco De Maio; sottocapo furiere Mario Di Terlizzi; sottocapo puntatore scelto Vittorio Raffaghelli; sottocapo S.D.T. Umberto Raschioni; marinaio Alvaro Arcuri; marinaio Giuseppe Arena; marinaio silurista Aldo Baroni; marinaio S.D.T. Laerte Bergonzoni; marinaio Giorgio Bruzzi; marinaio cannoniere Armando Canevari; marinaio cannoniere Antonio Crucitti; marinaio cannoniere Edoardo Kossuta; marinaio cannoniere S.D.T. Silvio Arancini; marinaio Emanuele Innocente; marinaio silurista Angelo Invernizzi; marinaio Ferdinando Liotta; marinaio fuochista Aldo Livieri; marinaio segnalatore Elvino Maran; marinaio fuochista Angelo Massa; marinaio Cesare Montanari; marinaio Antonio Montanga; marinaio Leonardo Nardelli; marinaio Mario Rebora; marinaio cannoniere Giovanni Scuttari; marinaio fuochista Salvatore Sergi; marinaio Giulio Sessuru.

Un’altra immagine del Carducci (da www.marina.difesa.it)

Oggetto di lunghissima disputa furono la manovra intrapresa dal Carducci per coprire la ritirata degli altri cacciatorpediniere, ed i suoi effettivi risultati. Nel rapporto steso subito dopo l’arrivo a Messina, nella notte tra il 7 e l’8 marzo, Ginocchio aveva scritto di aver deciso di nascondere con cortine nebbiogene gli altri cacciatorpediniere ed eventualmente qualche incrociatore fosse riuscito a lasciarsi scadere; aveva pertanto compiuto un’accostata con tutta la barra a dritta per costringere l’Oriani ad accostare a un tempo, poi – dopo essere stato colpito ed incendiato – aveva nuovamente accostato a sinistra, aveva portato la velocità al massimo ed ordinato di emettere una cortina di nebbia artificiale tra Oriani e Gioberti e le unità britanniche. Nel corso di tale manovra, il Carducci era stato colpito ripetutamente, ma era rimasto governabile ed aveva proseguito nella manovra; poco dopo, però, era stato colpito in sala macchine da un’altra salva, che aveva posto fuori uso l’apparato motore.
In un primo incontro con l’ammiraglio Iachino, nel giugno 1941, Ginocchio si sentì dire da questi che egli riteneva che la manovra del Carducci fosse stata intenzionale, ma che non fosse stata effettivamente eseguita, perché prima di poterla mettere in atto la nave era stata immobilizzata dal tiro britannico. Il comandante del Carducci ne rimase esterrefatto e spiegò a Iachino, con l’aiuto della carta nautica, le due accostate eseguite per emettere la cortina fumogena al fine di coprire Oriani e Gioberti, ma Iachino, pur rimanendo cordiale, rimase del suo parere: Ginocchio aveva progettato tale manovra, ma questa non era poi stata portata a termine a causa dell’immediata immobilizzazione del Carducci, causata dalla prima salva nemica, che aveva impedito di eseguire la seconda accostata e di emettere la cortina fumogena. Dopo questo primo infruttuoso incontro, Ginocchio scrisse a Iachino una lettera con cui chiedeva di rettificare la sua “Ricostruzione degli avvenimenti”, sostenendo che il Carducci avesse eseguito la sua manovra e che questa avesse permesso ad Oriani e Gioberti di salvarsi. Inviò copia della missiva anche al Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, ma non arrivò nessuna risposta.
Iachino, nello stendere la sua relazione, aveva utilizzato anche il rapporto del capitano di fregata Vittorio Chinigò, comandante dell’Oriani, che aveva scritto tra l’altro «…E pertanto approfittando che il Carducci era a poppavia del mio traverso a dritta, e mi avrebbe forse mascherato temporaneamente alla vista del nemico, ho accostato a dritta di circa 30° per cercare di guadagnare acqua verso ponente…», senza parlare esplicitamente di una manovra effettivamente intrapresa dal Carducci per coprirlo. Ciò, però, era dovuto al fatto che Chinigò aveva incentrato il suo rapporto sull’azione dell’Oriani, senza soffermarsi molto su cosa avessero fatto le altre navi; a fine luglio 1941, in un incontro con Ginocchio, Chinigò confermò che dopo i primi colpi il Carducci aveva compiuto delle ampie accostate ed emesso cortine fumogene. Chinigò aveva visto benissimo le accostate del Carducci, come pure la cortina, della quale aveva approfittato per disimpegnarsi. Forte di questa conferma, l’11 agosto Ginocchio scrisse nuovamente a Iachino ed al sottosegretario alla Marina, ribadendo quanto detto. Il 1° settembre fu il comandante Chinigò ad intervenire, scrivendo al Comando di Squadra una lettera nella quale riferiva: «Alle 22.30 il Carducci ha eseguito un’accostata sul lato dritto molto forte (maggiore di 45°) tanto che, poiché ho iniziato l’accostata su tale lato qualche istante dopo di lui, non mi è stato possibile mantenermi sul lato dritto e sono stato quindi costretto a passargli di poppa per non investirlo. Data l’ampiezza dell’accostata effettuata inizialmente dal Carducci e il fatto che successivamente il Gioberti, l’Oriani ed il Carducci sono venuti a trovarsi in linea di rilevamento e con rotte parallele, il Carducci, dopo la prima accostata a dritta, ne ha sicuramente effettuata un’altra sul lato sinistro. Alle 22.35 il Carducci era a poppavia del mio traverso ed effettivamente emetteva fumo, tanto che ho deciso, approfittando del temporaneo occultamento che mi avrebbe dato, di tentare l’attacco col siluro (…) Se il fumo che il Carducci emetteva fosse dovuto al nebbiogeno o alla combustione in caldaia non ho avuto agio di poterlo giudicare, dato che nel frattempo la distanza era aumentata. Alle 22.41 il Carducci scade decisamente di poppa emettendo denso fumo nero: lo ritengo colpito. Essendo stato anch’io colpito, assumo rilevamento per 180°. È probabile che, oltre il fumo che do ordine di emettere, anche quello emesso dal Carducci abbia contribuito ad occultarmi temporaneamente favorendomi nell’allontanamento».
Il 25 ottobre 1941 il comandante Ginocchio ricevette la Medaglia d’Argento al Valor Militare per la sua azione a Capo Matapan: nella motivazione si riconosceva, finalmente, che la manovra del Carducci fosse stata effettuata («…abilmente manovrava per proteggere con cortine di nebbia le altre unità del proprio gruppo…»), senza però menzionare che avesse effettivamente permesso ad Oriani e Gioberti di salvarsi. Iachino, infatti, era rimasto del suo parere, e nella relazione sulla battaglia aveva scritto che la manovra del Carducci fosse stata pensata ma non eseguita: «Non appena avvistato il very, il comandante [Ginocchio] ordinò (…) al timoniere di mettere tutta la barra a dritta, a poppa di far nebbia e alle macchine la massima forza. Subito dopo venne ordinato di mettere la barra a sinistra per proteggere le unità della I Divisione con cortine di nebbia, ma l’ordine non poté essere eseguito perché la seconda salva fece fermare le macchine e immobilizzò il cacciatorpediniere con prora a ponente». Ginocchio decise di non insistere ulteriormente per sé, ma il 24 aprile 1942 scrisse al Ministero della Marina chiedendo che fossero concesse alcune decorazioni, a viventi ed alla memoria, ad alcuni suoi uomini che erano stati segnalati come meritevoli nelle relazioni dei suoi ufficiali, ma non nella sua (proprio perché già citati dagli ufficiali), e che non avevano ricevuto nulla. Tornò invece sulla questione della manovra tre anni dopo, nel luglio 1945, a guerra finita, quando scrisse nuovamente al Ministero per ribadire che il Carducci, pur già colpito e con incendio a bordo, aveva compiuto la manovra per coprire le altre unità, e che questa aveva permesso ad Oriani e Gioberti di salvarsi: «…Questa manovra occultò senz’altro il Gioberti che era in posizione avanzata, mentre l’Oriani, che con la prima accostata era un po’ scaduto, vi si infilò in mezzo riuscendo a far perdere le sue tracce…». Non avendo avuto risposta, Ginocchio – che nel frattempo era stato promosso capitano di vascello – sollecitò una replica nel dicembre 1946, e nel maggio 1947, essendo state frattanto istituite le Commissioni d’Inchiesta Speciali (CIS) su ciascuna delle navi perdute a Matapan, chiese agli uffici competenti di trasmettere la documentazione da lui inviata ai membri della CIS.

Alberto Ginocchio e Vito Ninni con le mogli, Ada Marullo e Ninetta Colucci, presso la casa dei Ninni a Taranto (g.c. Giovanni Pinna)

La CIS sulla perdita del Carducci, istituita appunto a inizio maggio 1947, era formata dagli ammiragli Gino Pavesi ed Arturo Solari, e presieduta dall’ammiraglio Emilio Brenta; per prima cosa, oltre ad esaminare la documentazione di Ginocchio (in tutto tre relazioni), la Commissione chiese a Cimaglia e Ninni di stendere ciascuno una relazione particolareggiata degli eventi che avevano visto protagonista il Carducci dal momento dell’ordine di invertire la rotta per soccorrere il Pola. Ninni, nella sua relazione, scrisse che dopo l’apertura del fuoco da parte delle corazzate britanniche il Carducci aveva accostato con tutta la barra dritta sino ad assumere rotta ovest, portando le macchine alla massima forza e stendendo una cortina fumogena con il nebbiogeno di poppa e quello del fumaiolo. Pochi secondi dopo la nave era stata colpita, con conseguente avaria del timone, e si era passati al timone a mano, dopo di che il Carducci era stato colpito ancora nei locali caldaie, con gravi danni ed una diminuzione della velocità. La Commissione esaminò anche la “Ricostruzione degli avvenimenti” compilata dal Comando di Squadra nel maggio 1941 e gli atti dell’inchiesta sulla perdita dello Zara, sede del Comando della I Divisione, nonché quattro rapporti dell’Oriani, un estratto di brogliaccio radio dell’Oriani, due rapporti e due estratti di brogliacci radio del Gioberti ed una relazione di Sponza.
Nello stesso anno venne anche pubblicato il libro “Gaudo e Matapan” scritto dall’ammiraglio Iachino, che sull’azione del Carducci ripeteva quanto l’ex comandante della Squadra Navale aveva già scritto nella sua relazione anni prima: il cacciatorpediniere era stato immobilizzato dal tiro britannico mentre si apprestava a stendere una cortina fumogena, quindi prima di poterlo fare. Ginocchio, temendo che il libro potesse influenzare la CIS, inviò a quest’ultima una nuova relazione con la quale aggiungeva altri particolari e contestava quanto scritto dal suo vecchio comandante di squadra, che affermava tra l’altro che il Carducci aveva la prua verso ponente, a riprova che non aveva completato la sua manovra. Ginocchio citò a sostegno di quando diceva il rapporto dell’Oriani e soprattutto quello del Gioberti, risalente al 30 marzo 1941 (prima ancora del salvataggio dei superstiti del Carducci), nel quale si diceva tra l’altro «…ore 22.32 (…) si scorge a non più di trecento metri il Carducci in accostata verso sud già scaduto a poppavia del traverso ed avvolto in una densa nube di fumo nero. (…) Ore 22.41 (…) in questo preciso momento un cacciatorpediniere, probabilmente il Carducci, si infiamma al centro e si spezza in due…», il che contraddiceva l’affermazione di Iachino che il Carducci avesse la prua verso ovest.
La CIS sulla perdita dello Zara (ammiragli Silvio Salsa, Gino Ducci e Wladimiro Pini), che aveva svolto i suoi lavori qualche mese prima, aveva analizzato brevemente anche le vicende che avevano coinvolto la IX Squadriglia Cacciatorpediniere; in base a quanto concluso dalla Commissione le quattro unità della squadriglia, venutesi a trovare improvvisamente sotto il tiro britannico, avevano manovrato subito per disimpegnarsi, ed il tiro britannico si era inizialmente concentrato su Alfieri e Carducci, mentre Oriani e Gioberti erano stati lasciati relativamente indisturbati. L’Alfieri era stato subito immobilizzato, mentre il Carducci, «facendo nebbia, passò di poppa al Gioberti e finì per coprire l’Oriani e forse appunto per tale protezione essi andarono immuni dal tiro delle corazzate e furono i soli superstiti della Divisione»: dunque si riconosceva la manovra del Carducci e la possibilità che essa fosse il motivo per cui Oriani e Gioberti si erano salvati. La CIS dello Zara proseguiva poi dicendo che la formazione italiana si era a quel punto divisa in due gruppi, uno formato da Zara, Fiume, Pola ed Alfieri ed un secondo composto da Oriani, Gioberti e Carducci che si erano venuti a trovare ad ovest dei primi. L’Alfieri era affondato tra le 22.55 e le 23 e poco prima era colato a picco il Carducci, spezzandosi in due. I superstiti dello Zara avevano riferito di aver visto dalla loro nave due cacciatorpediniere immobilizzati, uno dei quali continuava a sparare mentre affondava (l’Alfieri) mentre l’altro aveva un grande incendio a bordo ed era esploso dopo circa un’ora (il Carducci).
Esaminato tutto il materiale disponibile, la CIS sul Carducci scrisse nei suoi atti che «È dimostrato che la nave eseguì una seconda accostata sulla sinistra», dando ragione a Ginocchio e torto a Iachino: il Carducci aveva realmente eseguito la manovra ordinata da Ginocchio per coprire con cortine nebbiogene gli altri cacciatorpediniere, non era stato immobilizzato prima di poterla compiere. Questa era la conclusione che si poteva trarre dalle relazioni di Ginocchio, Ninni, Cimaglia e dei comandanti di Oriani e Gioberti. Tuttavia, la Commissione giudicò anche che non era stata la manovra del Carducci a permettere ad Oriani e Gioberti di salvarsi: vale a dire, la nave di Ginocchio aveva effettivamente manovrato per coprire le unità gemelle con una cortina fumogena, ma senza successo, ed Oriani e Gioberti erano scampati alla strage per le loro pronte manovre e per il caso, e non per la cortina del Carducci.
Sulla base dei documenti disponibili, la CIS stabilì che dopo la seconda ed ultima accostata del Carducci i tre superstiti cacciatorpediniere della IX Squadriglia (l’Alfieri era già stato immobilizzato) si erano venuti a trovare praticamente in linea di rilevamento e con rotte parallele, nell’ordine Gioberti, Oriani e Carducci. I primi due avevano accostato subito verso sud, il Carducci lo aveva invece fatto solo dopo la seconda accostata, per correggere – in senso inverso – l’eccessiva ampiezza della prima. Grosso modo le tre unità avevano manovrato nello stesso modo, accostando quasi ad un tempo per 170°-180° circa; il Carducci era stato colpito per la prima volta durante la prima accostata, aveva iniziato ad emettere fumo alle 22.30 ed era stato immobilizzato alle 22.32, mentre compiva la seconda accostata, circa un minuto e mezzo dopo aver ricevuto la prima salva e dopo l’inizio dell’emissione di fumo. Dopo la prima accostata del Carducci, l’Oriani gli era passato di poppa, venendosi quindi a trovare tra esso ed il Gioberti; aveva assunto dapprima rotta 170° e poco dopo rotta 180°, vedendo sempre il Carducci a poppavia del traverso a dritta, e vedendolo poi scadere gradualmente verso poppa. Il Gioberti aveva assunto prima rotta 170° e poi, alle 22.32, rotta 210°. Il Carducci e la cortina fumogena da esso stesa erano sempre rimasti ad ovest dal “meridiano” costituito dalla rotta 180° assunta dall’Oriani. A meno che vi fosse stato un forte vento dal terzo al quarto quadrante, l’Oriani non avrebbe potuto pertanto infilarsi nella cortina fumogena del Carducci, essendogli passato di poppa e poi rimasto sempre a sinistra: per coprire l’Oriani con la cortina, il Carducci sarebbe dovuto passare di prora all’Oriani, dalla dritta alla sinistra di quest’ultimo, in modo che i tre cacciatorpediniere fossero disposti nella successione Gioberti-Carducci-Oriani, mentre la successione effettiva era stata Gioberti-Oriani-Carducci. Di conseguenza, la cortina fumogena stesa dal Carducci non aveva avuto un ruolo nella fuga di Oriani e Gioberti.

Così la CIS concluse i suoi lavori relativi all’ultima azione del Carducci, con delibera del 25 settembre 1947. Il 25 ottobre Michele Fontana, l’ex ufficiale di rotta del Carducci, inviò alla Commissione una lunga relazione sui fatti del 28 marzo-2 aprile 1941. In essa si diceva tra l’altro che Ginocchio aveva ordinato di mettere tutta la barra a sinistra e di emettere nebbia dopo aver giudicato che l’incendio causato dalla prima salva giunta a bordo era indomabile, stimando che se il Carducci avesse continuato a seguire Oriani e Gioberti, con l’incendio a bordo che lo rendeva facilmente individuabile, avrebbe finito con l’attirare anche su di essi il tiro nemico. L’accostata a sinistra avrebbe invece permesso di distogliere dalle unità gemelle l’attenzione dei cannoni britannici, occultandole con la cortina fumogena; il Carducci aveva dunque accostato verso il nemico ed iniziato ad emettere nebbia, dopo di che era stato colpito dalla seconda salva ed immobilizzato. Dopo aver preso in esame la relazione di Fontana, il 10 dicembre 1947 la CIS redasse un supplemento a quanto già scritto, nel quale si concludeva che tale relazione non apportava elementi che potessero modificare il giudizio già espresso. Per il comportamento tenuto durante i cinque terribili giorni trascorsi sulla zattera, nei quali si era prodigato al massimo delle sue forze per tenere in vita i suoi uomini, la CIS propose Ginocchio per il conferimento della Medaglia d’Oro al Valor di Marina, decorazione conferita per atti di perizia marinaresca e differente dalla Medaglia d’Oro al Valor Militare, insignita invece per fatti d’arme. Anche la storia ufficiale della Marina Militare ("La Marina italiana nella seconda guerra mondiale – La guerra nel Mediterraneo – Le azioni navali: Tomo I, dal 10 giugno 1940 al 31 marzo 1941", USMM, 1959) si sarebbe poi allineata a questo giudizio: «Il Ct Carducci (…) accostò a dritta insieme colle altre unità della sua squadriglia e cominciò a distendere una cortina di nebbia artificiale. Aumentando di velocità, si spostò sulla destra della formazione, ma poi mise il timone a sinistra, riprendendo press’a poco la vecchia rotta. Il suo comandante, C.F. Ginocchio, ha riferito che egli intendeva proteggere colla sua cortina di nebbia gli altri Ct della Squadriglia ed eventualmente anche gli incrociatori, ma ciò gli fu impedito dai colpi che investirono il caccia dall’inizio della nuova accostata e ben presto lo immobilizzarono. La sua generosa manovra non poté quindi essere portata a compimento; il Carducci non riuscì infatti mai a mettersi fra il nemico e gli incrociatori della I Divisione, e i comandanti dei Ct Oriani e Gioberti che sfuggirono alla distruzione, hanno escluso di aver potuto sottrarsi al tiro nemico grazie alla cortina del Carducci», anche se più oltre il medesimo testo afferma: «Il Ct Oriani (C.F. Vittorio Chinigò), dopo avere accostato verso sud, riaccostò di altri 30° sulla dritta per guadagnare cammino verso ponente, al riparo – sia pure per breve tempo – della cortina che stava stendendo il Carducci, con l’intenzione di passare dall’altro lato della formazione avversaria e attaccarla col siluro».
Occorre dire che molti anni più tardi lo storico Francesco Mattesini, nella sua monografia "L’operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan" pubblicata nel 1998 dall’Ufficio Storico della Marina Militare, è stato più possibilista sull’esito della manovra del Carducci: riprendendo in parte il giudizio espresso nel 1947 dalla CIS sulla perdita dello Zara, egli ha infatti scritto che «il Carducci, prima di arrestarsi definitivamente [dopo aver compiuto le due accostate ed essere stato colpito dalle salve che ne misero fuori uso l’apparato motore] continuò a venire a sinistra per abbrivio. Nel contempo, dallo svuotamento delle caldaie che erano state colpite si verificò una maggiore e vasta emissione di fumo, che poi servì a nascondere il Gioberti e, in parte anche l’Oriani, agevolandoli nella loro manovra di disimpegno».
Nell’aprile del 1948 la relazione della CIS sulla perdita del Carducci venne inviata all’ammiraglio Francesco Maugeri, capo di Stato Maggiore della Marina, che dopo averla vagliata espresse un parere ancora più favorevole rispetto a quello della CIS: ossia, che la manovra intrapresa dal Carducci per occultare le unità gemelle meritasse riconoscimento al di là del fatto che avesse avuto successo o meno, dal momento che il suo esito non mutava il valore di chi l’aveva intrapresa. Maugeri elogiò la condotta del comandante Ginocchio e dell’equipaggio del Carducci, ed inoltrò all’Ufficio Ricompense della Marina la proposta di commutare la Medaglia d’Argento al Valor Militare, già conferita a Ginocchio nel 1941, in una Medaglia d’Oro al Valor Militare, e di riesaminare anche le altre decorazioni conferite a caduti e superstiti del Carducci, allo scopo di eliminare le iniquità rispetto a quelle concesse agli uomini dell’Alfieri. Dal momento che l’Alfieri aveva risposto al fuoco nemico ed il Carducci no, infatti, nel 1941 si era presa la decisione generale di conferire all’equipaggio del Carducci decorazioni di grado inferiore rispetto a quelle insignite agli uomini dell’Alfieri, anche quando le azioni individuali alla base del conferimento erano sostanzialmente simili: ad esempio, gli ufficiali dell’Alfieri distintisi nell’azione e poi nei giorni trascorsi alla deriva avevano ricevuto medaglie d’argento, mentre agli ufficiali del Carducci, protagonisti di azioni analoghe, erano state concesse medaglie di bronzo. L’Ufficio Ricompense era tuttavia indipendente, nelle sue decisioni, rispetto al Capo di Stato Maggiore della Marina, che poteva soltanto esprimere un parere non vincolante; e non furono apportate commutazioni od altre modifiche alle decorazioni concesse. Nell’aprile 1950 venne invece conferita al comandante Ginocchio la Medaglia d’Oro al Valor di Marina, ma il conferimento, come del resto la proposta di Maugeri, giunse postumo.

Nel frattempo, infatti, le condizioni di salute del comandante Ginocchio erano andate deteriorandosi: a differenza dei suoi ufficiali, più giovani e forti, il comandante del Carducci non si era mai ripreso completamente delle conseguenze dei cinque giorni trascorsi in balia del mare, senza cibo né acqua. La sua vecchia colite, che si era aggravata dopo l’affondamento del Carducci, andò via via peggiorando, fino a costringere al ricovero dell’ufficiale. Il 6 dicembre 1947 il capitano di vascello Alberto Manlio Ginocchio morì all’ospedale civile di La Spezia per occlusione intestinale, infermità che venne riconosciuta come contratta per causa di servizio. Aveva 46 anni. Fu lui, forse, l’ultima vittima della terribile notte di Matapan.
 
Il Carducci nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)

La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al capitano di fregata Alberto Manlio Ginocchio, nato a La Spezia il 29 novembre 1901:

“Comandante di cacciatorpediniere, attaccato nella notte da superiori forze nemiche, abilmente manovrava per proteggere con cortine di nebbia le altre unità del proprio gruppo, prodigando con ardimento la sua opera sotto il violento e ininterrotto fuoco avversario che provocava incendi e feriti a bordo. Resasi inutile ogni ulteriore resistenza e presi gli opportuni provvedimenti per la salvezza dell’equipaggio, ordinava l’affondamento della nave, che egli abbandonava per ultimo. Nella lunga e fortunosa navigazione sulla zattera infondeva in tutti, con elevato senso di abnegazione, serenità e coraggio.
(Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del capitano del Genio Navale Direzione Macchine Giuseppe Scelsa, nato a Palermo il 13 novembre 1899:

“Direttore di macchina di cacciatorpediniere, gravemente colpito in un combattimento navale notturno contro preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità e fierezza il comandante nell’attuazione delle misure necessarie per fronteggiare l’attacco e prestare assistenza ai numerosi feriti a bordo. Mentre prodigava la sua opera instancabile sotto l’intenso uoco nemico, scompariva nell’adempimento del dovere.
(Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del sottotenente di vascello Aldo Venticinque, nato a Roma il 12 giugno 1917:

“Imbarcato su cacciatorpediniere, gravemente colpito durante uno scontro notturno con preponderanti forze nemiche, coadiuvava il comandante con sereno coraggio e perizia nei provvedimenti intesi a fronteggiare l’attacco. Intervenuto l’ordine di abbandonare la nave in preda agli incendi, si prodigava per l’opera di salvataggio del personale, finché, esaurite le forze, scompariva in mare nell’adempimento del dovere”.

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del nocchiere di seconda classe Augusto Simonelli, nato a Dosolo (Mantova) il 18 agosto 1906:

“Imbarcato su cacciatorpediniere, gravemente colpito nel corso di un attacco notturno da parte di preponderanti forze nemiche, pur avendo riportato una ferita durante il combattimento, prestava con serenità e coraggio la sua opera per la messa in mare delle imbarcazioni. Mentre era intento alle operazioni di salvataggio, dolorante per la ferita e
stremato di forze, scompariva in mare nell’adempimento del dovere.
(Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del nocchiere Giuseppe Calafiore, nato a Messina il 6 maggio 1920:

“Imbarcato su cacciatorpediniere gravemente colpito in un attacco notturno da parte di preponderanti forze nemiche, rimaneva al suo posto di guardia al timone, incurante della intensa e prolungata azione di fuoco avversaria. Con sereno coraggio e ardimento assolveva il suo compito fino all’ordine di abbandonare la nave che era in procinto di affondare.
(Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capo meccanico di seconda classe Angelo Guglielmi, nato ad Isernia il 29 giugno 1907:

“Imbarcato su cacciatorpediniere, attaccato nella notte da forze nemiche superiori, si adoperava con energia e sereno coraggio per le operazioni di allagamento dei locali macchine colpiti. All’atto di abbandono della nave, si preoccupava più che della propria salvezza, di cbiedere ordini per la bandiera di combattimento, e scompariva con
l’unità che si inabissava, nell’adempimento del dovere”.

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del secondo capo meccanico Francesco Lezzi, nato a Novoli (Lecce) il 2 gennaio 1916:

“Imbarcato su cacciatorpediniere, gravemente colpito in uno scontro notturno con preponderanti forze nemiche, si adoperava con sereno coraggio e noncuranza del pericolo per lo spegnimento di un incendio nel locale caldaie, proseguendo con tenacia ed elevatissimo senso del dovere nella sua opera, nonostante fosse ferito alle mani ed al viso.
Scompariva in mare nell’affondamento dell’unità, nell’adempimento del proprio dovere.”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del tenente del Genio Navale Direzione Macchine Pasquale Astarita, nato a Meta (Napoli) il 5 maggio 1900:

“Imbarcato su cacciatorpediniere, attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche, si prodigava con sereno coraggio, perizia e noncuranza del pericolo nel tentativo di ripristinare l’efficienza dell’unità colpita e incendiata. Nell’adempimento del dovere impostosi, scompariva in mare poco tempo prima che la nave affondasse”.

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Vito Ninni, nato a Taranto:

“Ufficiale in 2a di cacciatorpediniere colpito in combattimento notturno contro superiori forze nemiche, coadiuvava il comandante attuando con calma e precisione, sotto l’intenso fuoco dell’avversario, i provvedimenti intesi a fronteggiare l’attacco.
Intervenuto l’ordine di abbandonare la nave, si prodigava nella salvezza dell’equipaggio con serenità e alto senso del dovere. Nella lunga permanenza in mare sulla zattera teneva contegno esemplare e coraggioso.
(Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente del Genio Navale Antonio Sponza, da Trieste:

“Imbarcato su cacciatorpediniere gravemente colpito in un’azione notturna contro preponderanti forze nemiche, eseguiva con serenità, sotto l’intenso fuoco avversario, l’ordine del comandante relativo all’allagamento dei locali macchine, rimanendo a bordo fino all’esplicito ordine di abbandonare la nave. Prodigava, quindi, la sua opera per la salvezza dell’equipaggio, con elevato senso del dovere.
(Mediterraneo Onentale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Michele Cimaglia, da Napoli:

“Imbarcato, quale Direttore di tiro, su cacciatorpediniere gravemente colpito nella notte in uno scontro con preponderanti forze nemiche, attuava con calma e perizia, sotto l’intenso fuoco avversario, le direttive del comandante intese a fronteggiare la situazione.
Ricevuto l’ordine di accelerare l affondamento della nave eseguiva personalmente nel deposito di munizioni la manovra prescritta, prodigando, quindi, con alto senso del dovere, la sua opera la salvezza dell’equipaggio. Nella lunga permanenza in mare sulla zattera era di esempio ai compagni per volontà, forza d’animo e sereno coraggio.
(Mediterraneo Centrale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello Michele Fontana, da Molfetta (Bari):

“Imbarcato, quale ufficiale di rotta, su cacciatorpediniere gravemente colpito durante un attacco notturno di preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità il comandante nel fronteggiare la situazione, incurante dell’intenso fuoco avversario. Resosi necessario l’abbandono della nave, si prodigava con elevato senso del dovere per la salvezza dell’equipaggio. Nella lunga permanenza in mare sulla zattera era di esempio ai compagni per volontà, forza d’animo e sereno coraggio.
(Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941).”

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al marinaio Mario Rebora, nato a Genova il 4 ottobre 1917:

“Imbarcato su C. T., attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche, coadiuvava volontariamente il D. T. scendendo nel deposito munizioni per tentame la distruzione, malgrado l‘unità gravemente colpita fosse in procinto di affondare. Raccolto su una zattera, prodigava per cinque giorni e cinque notti efcace assistenza ai camerati”.
  
Il Carducci a Venezia, il 17 settembre 1938 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)


Il ricordo del marinaio Cesare Montanari, da Cattolica (Rimini), imbarcato sul Carducci nella sua ultima missione (da “Matapan, un superstite racconta” di Franco G. Mascilongo, su www.gradara.bcc.it):

“Marinaio di leva, classe 1920, nel 1941 ero imbarcato sul Cacciatorpediniere Carducci, a posto di combattimento ero servente alle mitragliere contraeree. Quindi ero in coperta e potevo rendermi conto, meglio di tanti altri, di quello che succedeva attorno a noi, in mare ed in cielo. Il Carducci, Comandato dal CF Alberto Ginocchio (un valoroso ufficiale che si salvò, si comportò da eroe e sarà poi decorato con medaglia d’oro al valor di Marina), era un moderno Cacciatorpediniere della “classe poeti” (Alfieri, Carducci, Oriani, e Gioberti) da 1.400 tonnellate, 253 uomini di equipaggio. Questi formavano la 9a squadriglia Cacciatorpediniere di scorta alla 1a divisione Incrociatori Pesanti che era agli ordini dell’Ammiraglio di Divisione Carlo Cattaneo, con base a Taranto e costituita dagli incrociatori Zara (nave ammiraglia di Cattaneo), Fiume e Pola. In gran segreto, la nostra divisione lascia l’ormeggio di Taranto, la notte del 26 marzo 1941 per raggiungere il giorno dopo la zona di operazioni che era stata tenuta segretissima. Solo durante la navigazione veniamo a sapere che è in mare quasi tutta la flotta italiana (o meglio quella momentaneamente disponibile dopo i siluramenti, da parte degli aereosiluranti inglesi nel porto i Taranto di qualche mese prima) al comando dell’ammiraglio di Squadra Angelo Iachino imbarcato sull’Ammiraglia, la grande corazzata Vittorio Veneto. Navighiamo in linea di fila, in testa l’Alfieri caposquadriglia dei CC TT (Comandante e Capo Squadriglia CV Salvatore Toscano) poi gli altri CC TT e poi gli incrociatori, suona l’allarme sommergibili e si va al posto di combattimento. Gli incrociatori aumentano la velocità, zigzagando molto alla lunga, noi a tutta forza, forse 38 nodi [sic], giriamo attorno alla formazione e lanciamo qualche bomba di profondità. Poi cessa l’allarme, si torna al posto di navigazione (notturna), ma cambiamo formazione: l’Alfieri davanti agli incrociatori, noi sulla dritta, gli altri due, che non riesco a vedere, sono uno dietro e uno a sinistra. Dopo un’ora circa, nuovamente allarme sommergibili, eseguiamo le stesse manovre di prima, ma l’allerta dura molto meno anche se lanciamo un maggior numero di bombe di profondità. Qualcosa deve essere accaduto perché i sommergibili non vengono più rilevati. Comincia ad albeggiare, incontriamo dei banchi di foschia e qualche breve piovasco. I tedeschi ci avevano promesso la scorta degli aerei, ma non se ne vedono e tanto meno speriamo in quelli italiani che hanno un minore autonomia. La mattinata del 27 marzo va avanti sempre così. Nel pomeriggio allarme aereo, tutti ai posti di combattimento ed io vado alla mia mitragliera. Predisponiamo i caricatori mentre i puntatori brandeggiano le armi verso la linea dell’orizzonte e attendono gli ordini, ma di aerei neppure l’ombra. Cessa l’allarme, ma la calma dura poco, dopo una mezz’ora viene battuto posto di combattimento per allarme aereo. Mi precipito alla mitragliera, passano 15 o 20 minuti e la foschia aumenta poi cessa posto di combattimento e guardie franche libere, viene però rinforzato il servizio di vedetta. Poi cala la sera. Ho un amico radiotelegrafista che quando scende dal quadrato RT mi aggiorna sulle notizie che può racimolare, data la sua posizione di servizio, e questa volta dice che durante la notte raggiungeremo la zona di operazioni che ci è stata assegnata per la caccia ai convogli inglesi diretti in Grecia. Verso l’una di notte allarme generale e posto di combattimento, non lascerò la mitragliera fino alle 13, dodici ore dopo, e consumeremo colazione e pranzo “al volo” nei rispettivi posti di combattimento. Poco dopo l’alba, dello stesso 28 marzo, si ode un rombo di cannoni lontani (sono quelli della Divisione “Trento” che si sta scontrando con gli inglesi). Ora notiamo che la nostra formazione, al completo, sta invertendo la rotta ed aumenta di molto la velocità, poi nel primo pomeriggio cessa posto di combattimento. Il mio amico RT mi aggiorna che le operazioni sono annullate e che, forse, rientreremo alla base. Per ora ci stiamo ricongiungendo al resto della flotta in mare,. Poco dopo allarme aereo. Vediamo da dritta sei puntini neri verso la linea dell’orizzonte. Si avvicinano velocemente. Le navi iniziano il fuoco di sbarramento con i cannoni contraerei, tutta la divisione spara. I velivoli si avvicinano, ora si distinguono bene, sembrano giocattoli, sono aerosiluranti biplani, quelli con due ali, una sopra e una sotto. Intanto abbiamo raggiunto la squadra navale, anch’essa sotto attacco aereo, siamo sulla sua destra e la stiamo sorpassando lentamente (noi andiamo un po’ più forte). A questo punto apriamo il fuoco anche con le mitragliere, ma gli aerei che sopraggiungono non ce l’hanno con noi, ci passano di prua, li inseguiamo con le mitragliere mentre dirigono verso il grosso della squadra navale. “Di sicuro cercano la Vittorio Veneto”, afferma un sergente puntatore: ha ragione. Un altro gruppo di aerosiluranti sopraggiunge da poppa e si dirige anch’esso verso il centro della grande formazione mentre noi abbiamo diminuito la velocità e ci manteniamo al fianco di essa. Viene ordinato il cessate fuoco, tutto finisce, poi verso le 15 ancora un gruppo di quattro aerei da poppa, sempre aerosiluranti, si ripete il tiro contraereo. Ormai tutta la flotta spara con i cannoni contraerei a tiro rapido, partono i proiettili con detonazioni fitte e sorde: pom, pom, pom ed esplodono in alto formano tante nuvolette di colore grigio-scuro: sembrano fuochi d’artificio. Sopraggiunge una seconda squadriglia, ora sparano all’impazzata anche le mitragliere. Una terza formazione di aerosiluranti (sei o otto) proviene dalla direzione opposta e si sta alzando: ha già lanciato dall’altra parte. Uno di questi aerei esplode in aria come una palla di fuoco e poi tanto fumo e tanti rottami che cadono in mare. Un altro aerosilurante vola lasciando una lunga scia di fumo, poi si abbatte in mare. Cessare il fuoco!! Cessato allarme!! Solo ora notiamo che le navi del centro rallentano la marcia, e si intravvede la Vittorio Veneto, anche se lontana, che sembra fermarsi, anzi è ferma, alcune navi accostano, altre invertono la rotta. Anche noi riduciamo la velocità, ma manteniamo la nostra rotta. Poi vediamo la Vittorio Veneto che riprende velocità. È stata colpita gravemente e le divisioni navali assumono una formazione di protezione all’Ammiraglia. Mentre si aumenta progressivamente la velocità, la nostra divisione si dispone a protezione del lato destro, affianca, quindi, il resto della Squadra sulla dritta su due colonne parallele, all’interno, nell’ordine, Zara, Pola e Fiume, all’estrema destra, la fila dei CC TT nell’ordine: Alfieri, Gioberti, Carducci e Oriani, riusciamo a distinguere il Gioberti, che ci precede, l’Oriani, l’ultimo, che ci segue e poi sulla sinistra, di prua, il Pola e sempre sulla sinistra, verso poppa, il Fiume. Il Pola, poi, si distingue molto bene perché non ha il fumaiolo di provavia distaccato dal torrione come tutti gli altri incrociatori, ma ha una sagoma caratteristica e molto originale con quel fumaiolo che fa corpo unico con il torrione della plancia. Alle sette di sera un altro attacco aereo, ce la caviamo senza danni. Alle 17,30 ancora un altro attacco, sta facendosi buio e speriamo sia l’ultimo. Mentre la contraerea spara con cannoni e mitragliere, i CC TT accendono anche i riflettori e puntano i fasci di luce sugli aerei per disorientare i piloti. Gli aerosiluranti si avvicinano quasi a pelo d’acqua attraverso lo sbarramento del tiro dei cannoni antiaerei a tiro rapido e delle raffiche delle mitragliere, si avvicinano ancora e lanciano: uno, due, tre, quattro, cinque, sei siluri, forse tutti a vuoto, poi ci sorvolano e virano un po’ a destra e un po’ a sinistra alternati, uno di essi emette una piccola scia di fumo alternata a fiammate, ma riesce, per ora, a seguire gli altri.. Un altro sembra in difficoltà più serie, non vira, va dritto e perde quota, poi lo perdiamo di vista nel buio della notte. Poi finalmente tutto finisce, tutto sembra in ordine anche se, inspiegabilmente, il Pola, che vediamo bene per la sua vicinanza e per la sia caratteristica sagoma, ha perso velocità, lo sorpassiamo e ci scade di poppa, ma apparentemente non appare colpito. Noi proseguiamo la nostra rotta, ormai è completamente notte, passano le ore, il solito RT ci informa che il Pola è in serie difficoltà e sembra che la nostra divisione debba tornare indietro a raccogliere l’equipaggio e tentare il rimorchio. Poco dopo notiamo un intenso scambio di segnali a lampi di luce tra l’ammiraglia Zara e il capo squadriglia CC TT Alfieri. Poi lo Zara inverte la rotta, ci sfila controbordo a distanza ravvicinata e il Fiume lo segue. La nostra squadriglia si posiziona in coda agli incrociatori, nell’ordine: Alfieri sempre davanti, Carducci in seconda posizione e non più in terza, poi Oriani e Gioberti; questo cambio di posizione, come vedremo, ci sarà fatale. Ora ci dirigiamo a gran velocità verso il Pola che ha bisogno di aiuto. Verso mezzanotte distinguiamo le sagome di alcune grosse navi da guerra, cosa sta succedendo??? Un fatto è certo, il Pola non è solo. Non facciamo in tempo a renderci conto di questa nuova situazione che da distanza molto ravvicinata si accendono alcuni riflettori che illuminano prima il Fiume, poi lo Zara e, contemporaneamente, partono da poche miglia, forse tre, al massimo quattromila metri, le salve di decine di cannoni di grosso calibro. È un inferno di fuoco, di fumo e di scoppi assordanti, i due incrociatori ripetutamente colpiti, si incendiano con tante esplosioni a bordo. Intanto l’Alfieri, colpito, affonda, un proiettile ci prende in pieno, la coperta è tutta un fuoco tra morti e feriti, poi arriva un altro colpo e poi, credo, un altro ancora. Il Carducci è colpito a morte, ma ancora va a tutta forza ed il comandante Ginocchio ordina di stendere una densa cortina di nebbia artificiale per togliere dalla vista degli inglesi i caccia Oriani e Gioberti che, anche se colpiti, con morti e feriti a bordo, grazie a questo intervento potranno tornare indietro e raggiungere la Sicilia. Affondiamo velocemente, non c’è neanche il tempo di ordinare l’abbandono nave, ci troviamo in mare tra le esplosioni. Tanti feriti che gridano e implorano aiuto, si inabissano con la nave. Mi trovo in mare in mezzo ad un chiazza di olio e nafta nera, c’è una zattera lì vicino, nuoto e la raggiungo, a bordo alcuni marinai e due giovani ufficiali mi aiutano a salire. L’acqua è gelida ed io tremo dal freddo. Tanti altri marinai salgono sulla zattera, forse una ventina, troppi, siamo stipati come le sardine, non ce ne stanno più, quelli che restano in acqua, e tra loro tanti feriti, si lamentano e gridano aggrappati ai bordi esterni della zattera. Un ufficiale, forse il più anziano, un STV, ordina che si faccia posto ai feriti. La zattera, ormai piena d’acqua, si immerge ancora di più. Intanto ci avviciniamo con la corrente ad un’altra zattera più stipata della nostra, poi ad un’altra quasi vuota e tanti trasbordano su quella. Leghiamo insieme le tre zattere, saremo una quarantina oltre a quelli in acqua aggrappati fuori bordo. Il caos è indescrivibile, il mare è zeppo di relitti di ogni genere, di naufraghi vivi che si dibattono e urlano e di morti che non si muovono più, ma galleggiano sui salvagente. Tanti sono capitati nelle grandi chiazze di nafta incendiata, chi si trova dentro muore bruciato tra urla disumane. Nessuno può far niente. Lì vicino un cacciatorpediniere Greco e due Inglesi più lontani, con l’aiuto di fanali e riflettori, cominciano a recuperare i naufraghi che si trovano in acqua, senza curasi delle zattere. Il compito è difficile perché il mare non è calmo e con le eliche in moto si rischia di travolgere e maciullare i naufraghi in acqua. Verso l’alba iniziano a recuperare anche gli occupanti delle zattere più malmesse o troppo piene. Poi, improvvisamente, le tre navi se ne vanno a tutta velocità, sapremo poi che avevano avvistato degli aerei germanici. Ora inizia il vero dramma, specialmente per chi è rimasto in acqua, mentre le correnti disperdono e allontanano tra loro relitti e naufraghi. Sulle tre zattere siamo, come dicevo, oltre quaranta. Io mi spoglio e faccio asciugare la divisa al sole che è abbastanza forte. Il STV, il più alto in grado, ci dice che è necessario dare il cambio ogni tanto a quelli che sono in acqua. Lui stesso dà l’esempio per primo, non lo vedremo più. Purtroppo l’avvicendamento non avviene, molti salgono, ma nessuno scende e le zattere corrono il rischio di rovesciarsi. Arriva la notte, la prima delle cinque terribili notti. All’alba del giorno dopo, 30 marzo, non c’è quasi più nessuno aggrappato fuori bordo: non c’e l’hanno fatta o si sono lasciati andare. A bordo sei feriti gravi sono già morti, altri moriranno la notte successiva. Il 31, in acqua, non c’è più nessuno vivo, solo cadaveri che galleggiano con i salvagente. Restano quelli sulle zattere, centinaia e centinaia, sparsi per il mare, aggrappati alla speranza che si affievolisce sempre di più. (…) Ormai eravamo rimasti in sei, di cui uno in fin di vita, a un certo momento, nel primo pomeriggio, un marinaio si alza, indica con il dito verso l’orizzonte e grida. La! Laggiù! Il Colleoni, il Colleoni che è tornato a galla e ci viene a salvare!!! Ho saputo in seguito che anche altri naufraghi, presi dalla follia, hanno creduto di vedere il Colleoni che sorgeva dall’acqua. La vicenda dell’incrociatore leggero Bartolomeo Colleoni, affondato in combattimento dagli inglesi a Capo Spada nei primi mesi di guerra aveva scosso i marinai, il fatto era nella mente di tutti perché era stata la nostra prima grande nave affondata in guerra. Poi il marinaio si getta in mare e nuota furiosamente, si allontana, le forze gli vengono a meno e va a fondo. Il giorno dopo, eravamo rimasti vivi in quattro, un gabbiano si posa sul bordo della zattera, noi non abbiamo più le forze per muoverci. Ormai siamo convinti di non farcela più, l’unica speranza di rimanere ancora in vita o di prolungare di qualche giorno l’esistenza era rappresentata dalla cattura di uno di quei gabbiani che ci volavano sopra le teste. Non è un’impresa facile, noi cerchiamo di affinare e perfezionare le tecniche di cattura, tempo di pensare e di studiare ne abbiamo tanto durante la giornata. Teniamo a portata di mano un piccolo remo, molto leggero, ma, scartata l’ipotesi e la possibilità di prenderne uno al volo, cerchiamo di capire come si possa fare per catturare uno di quelli che qualche volta si posano sul bordo della zattera che, però, sono estremamente diffidenti. Finalmente, nel pomeriggio, se ne posano due sul bordo, io prendo il remo, lo alzo lentamente, poi lo calo giù verso il gabbiamo e lo colpisco. E’ fatta! Lo prendiamo, lo spezziamo in quatto parti e cominciamo a succhiarlo e poi a mangiarlo crudo. E’ la nostra salvezza, riprendiamo un po’ di forze Nel pomeriggio dell’ultimo giorno, dopo cinque giorni e cinque notti, vediamo improvvisamente qualcosa che si avvicina, lentamente distinguiamo una nave tutta bianca. Poi distinguiamo le croci rosse sui fumaioli e sulle fiancate,.non ci sono più dubbi, è una nave ospedale, il Gradisca. Si ferma e mette in mare una motolancia ed un motoscafo. Mentre la motolancia dirige verso altre zattere più lontane, il motoscafo punta su di noi. Già, puntava proprio su di noi!!!! La tragedia era finita in bene. Quando ho visto il motoscafo del Gradisca che si avvicinava ho delirato, non sono stato più padrone di me stesso, sono caduto nell’acqua all’interno della zattera che era semiaffondata, forse ho riso, forse ho cantato, sono svenuto, mi sono ripreso in braccio ad un Marinaio, un Tenente di Vascello mi porge le mani per aiutarmi a salire sul motoscafo, sentivo che mi diceva a voce bassa e dolce: forza marinaio, ce l’hai fatta, fatti forza, non cedere proprio ora... nel letto dell’ambulatorio, sotto la lampada un ufficiale medico mi visitava e dava i primi ordini ad un sergente infermiere e a due crocerossine che attorniavano il lettino, io chiedevo solo acqua, acqua, acqua, a parte il gabbiano succhiato, non bevevo da 5 giorni... Acqua... Mi passavano sulle labbra garze umide non so di cosa... poi acqua e aranciata (almeno credo) piano piano con un cucchiaino da caffè, mi sono trovato in un letto con un pigiama bianco, pulito e, quel che più conta asciutto. Grandi queste crocerossine piene di premure, sempre presenti, sempre vicine con acqua o liquidi di altro genere, sempre somministrati con garze, cucchiaini o al massimo cucchiai. Noi eravamo arsi dalla sete, una sete che ci prendeva alla testa, una sete infernale, e queste che ci dicevano: piano… poco…un poco alla volta... non potete più di così. E il dottore che ci visitava ogni tanto e ci chiedeva: come stai??... sto come il famoso pesce nel pagliaio. Col passare delle ore si migliorava, tornavano le forze ed i “sentimenti”, come diciamo a Cattolica (cioè la capacità intellettiva) e allora qualcuno scherzava, un dottore voleva sapere cosa voleva dire “un pesce nel pagliaio”. Una crocerossina disse allora: Mettere un pesce in un pagliaio ed un essere umano sottacqua sono la stessa cosa. Il giorno in cui mi diedero finalmente un tazza di brodo fu una gran festa... ma dopo la sete si sentiva ora la fame, la fame dei vent’anni sommata a vari giorni, cinque, di digiuno totale. Il personale sanitario ci rincuorava dicendoci: quando il malato ha fame vuol dire che è guarito. Bella soddisfazione!!!! Scampato il pericolo, ci avvicinavamo ai bisogni materiali, terreni, di poca spiritualità: calmare la fame. Anche se ora si gonfiavano gambe e braccia in un modo impressionante, per la lunga permanenza in acqua, e allora via con massaggi, frizioni e anche iniezioni per riattivare la circolazione. Ma, a dire il vero, tutto passò in poco tempo. Ci eravamo salvati, almeno per ora, in guerra non si sa mai. Le crocerossine in particolare avevano un entusiasmo ed una volontà pari alla gioia di averci salvato con questa nave bianca. Molte erano infatuate dalla propaganda dell’epoca, ci vedevano degli eroi e parlavano di “Vittoria e Destini della Patria”. Noi ci vergognavamo, anche se avevamo fatto il nostro dovere di italiani con coraggio e sacrificio, ci sentivamo dei poveri disgraziati e non vedevamo l’ora di tornare a casa, la nostra felicità non era dovuta tanto al fatto di essere ancora vivi, quanto che le nostre famiglie che non avrebbero dovuto piangerci morti o dispersi in mare. Tutti pensavamo alle mamme, alle mogli, ai figli e, a volte, anche alle difficoltà che avremmo trovato a casa, dovute alla miseria di quei tempi. Ma quando il Gradisca invertì definitivamente la rotta, la nostra felicità si trasformò in malinconia, pensando che laggiù, a sud, su quel mare che stava diventando scuro nella sera, oltre la riga dell’orizzonte, quanti compagni speravano ancora dopo otto giorni di lenta agonia, senza bere, senza mangiare, senza il conforto di nessuno, specialmente quelli rimasti soli, per quante ore ancora avranno urlato, pianto invano nel cuore della notte in attesa di una morte tremenda e orribile, forse avranno avuto il coraggio, come già tanti altri avevano fatto, di sganciarsi il salvagente e lasciarsi affondare. Noi preferimmo immaginarli già morti.”

Il Carducci nel 1939 (Coll. E. Bagnasco, dal libro di M. Brescia “Mussolini’s Navy: A Reference Guide to the Regia Marina 1930-1945”, Naval Institute Press, 2012)