venerdì 22 novembre 2019

Ciclone

La Ciclone (da “Le navi del re. Immagini di una flotta che fu” di Achille Rastelli, SugarCo Edizioni, 1988, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)

Torpediniera di scorta, capoclasse della classe omonima, con dislocamento standard di 1113 tonnellate, in carico normale 1652, a pieno carico di 1683 o 1695 tonnellate (altre fonti forniscono dati differenti: dislocamento standard di 1160 tonnellate, in carico normale di 1652 ed a pieno carico di 1800; oppure, dislocamento standard di 910 tonnellate ed a pieno carico di 1625; oppure, dislocamento standard di 1095 tonnellate ed a pieno carico di 1649).
Progettate dal Comitato Progetto Navi e concepite inizialmente come una mera ripetizione dell’ottima classe Pegaso (tanto da essere sovente menzionate anche come "Orsa seconda serie", essendo la classe Pegaso chiamata anche classe Orsa), delle quali riprendevano le forme dello scafo, le torpediniere (o avvisi scorta, come sono talvolta menzionate) della classe Ciclone vennero successivamente modificate in fase di progetto con l’allargamento di circa mezzo metro dello scafo (che passò così da una larghezza di 9,5 ad una di 9,9 metri), per migliorarne la stabilità e la tenuta al mare, e la predisposizione per l’aggiunta di un terzo cannone da 100/47 mm (in una controplancetta situata sulla tuga centrale, a poppavia del fumaiolo, che però fu installato solo su alcune unità della classe), il che andò a rallentarne l’approntamento. Il dislocamento risultò dunque maggiore (quello standard aumentò di oltre cento tonnellate, passando a 1130 tonnellate dalle 1016 delle Pegaso; quello a pieno carico, da 1600 a circa 1800 tonnellate, secondo "Mussolini’s Navy" di Maurizio Brescia, anche se le fonti ufficiali riportano un dislocamento a pieno carico di 1652 o 1695 tonnellate), così come il pescaggio (3,77 metri contro 3,1 delle Pegaso). La lunghezza fu invece leggermente ridotta, 87,8 metri fuori tutto a fronte di 89,3 sulle Pegaso. Sempre al fine di migliorare la stabilità, vennero eliminati i serbatoi laterali per il carburante.

La costruzione di questa classe – inizialmente concepita, come detto, come una semplice riproduzione della classe Pegaso, poi ingrandita e migliorata in base alle esperienze dei primi mesi di guerra – fu decisa dai vertici della Regia Marina nelle tarda estate del 1940, essendo divenuta evidente la necessità di dotarsi di moderne unità di scorta ed antisommergibili per la protezione dei convogli di rifornimenti inviati in Africa Settentrionale (uniche unità italiane specificamente progettate per questo scopo, nel 1940, erano appunto le quattro torpediniere della classe Pegaso, oltre al poco riuscito cacciasommergibili sperimentale Albatros). Le prime dodici unità della classe vennero ordinate nel settembre-ottobre 1940, seguite da altre quattro a inizio 1941 (secondo il sito Navypedia, la decisione di ordinare sedici unità venne presa a inizio 1941 per compensare le perdite di cacciatorpediniere e torpediniere subite nei mesi precedenti); le ordinazioni furono ripartite tra quattro cantieri, ad ognuno delle quali fu assegnata la costruzione di quattro unità: Ciclone, Tifone, Uragano e Fortunale ai CRDA di Trieste; Impavido, Indomito, Intrepido ed Impetuoso ai Cantieri del Tirreno di Riva Trigoso; Animoso, Ardente, Ardito ed Ardimentoso all’Odero di Sestri Ponente; Aliseo, Ghibli, Groppo e Monsone alla Navalmeccanica di Castellammare di Stabia. Si nota una diversa scelta dei nomi per i diversi gruppi di unità: i nomi delle quattro torpediniere costruite a Trieste si riferivano a tempeste e fenomeni meteorologici estremi; le quattro unità di Castellammare portavano nomi di venti; le otto realizzate a Riva Trigoso e Sestri Ponente erano battezzate con aggettivi che indicavano coraggio, inizianti per “I” nel caso delle prime e per “A” per le seconde. (Secondo una fonte, il tempo intercorso tra l’ordinazione e l’effettiva impostazione delle Ciclone sarebbe stato dovuto alle modifiche apportate al progetto originale).
Impostate nella tra l’aprile e l’agosto del 1941 (ad eccezione di Indomito ed Intrepido, impostate nel gennaio 1942), le Ciclone iniziarono ad entrare in servizio dalla metà del 1942; la costruzione di ciascuna di esse richiese tra i 12 ed i 23 mesi, con una media di 17 mesi e 13 giorni, sei mesi e mezzo in meno rispetto alle Pegaso (la cui costruzione aveva richiesto in media 24 mesi per nave). La costruzione delle navi ordinate ai CRDA procedette più speditamente rispetto a quelle ordinate negli altri cantieri: la Ciclone, impostata dopo le unità del gruppo “Animoso” (nel maggio 1941, mentre queste ultime furono impostate un mese prima: l’Animoso fu in assoluto la prima nave della classe ad essere impostata, ed è probabilmente per questo che nella "Illustrated Encyclopedia of 20th Century Weapons and Warfare" la classe Ciclone viene chiamata “classe Animoso”), venne completata molto prima (nel maggio 1942, cioè in poco più di un anno; anche le altre unità del suo gruppo vennero completate in 12-15 mesi, mentre le “Animoso” furono ultimate tra il giugno ed il dicembre 1942, con un tempo per unità di 14-20 mesi). Le torpediniere costruite a Castellammare furono costruite in 14-23 mesi, mentre ancor più tempo richiese la costruzione delle navi ordinate a Riva Trigoso (da 19 a 23 mesi).
 
Dettaglio della poppa (da www.navymodelling.com)

L’armamento contraereo e quello antisommergibili vennero notevolmente potenziati rispetto alla classe Pegaso. La composizione dell’armamento artiglieresco e contraereo variava da unità ad unità: la Ciclone era armata con due cannoni OTO 1937 da 100/47 mm in impianti singoli, uno a prua ed uno a poppa, e dieci mitragliere da 20/65 mm in impianti binati (altra fonte parla di mitragliere Scotti-Isotta Fraschini 1939 da 20/70 mm), così come Aliseo, Ardente, Fortunale, Groppo, Tifone ed Uragano; Ardito, Animoso, Ardimentoso ed Intrepido avevano anch’esse due pezzi da 100/47 ma un totale di dodici mitragliere da 20/65 mm (quattro in un impianto quadrinato di produzione tedesca, installato sulla tuga centrale al posto del terzo cannone, ed otto in impianti binati: ciò permise una difesa contraerea ravvicinata particolarmente efficace), mentre Impavido, Indomito, Impetuoso, Monsone e Ghibli erano armate con tre cannoni da 100/47 (uno a prua, uno a poppa ed il terzo nella tuga centrale, successivamente rimosso; il gruppo della Ciclone aveva invece sulla tuga centrale, al posto di tale cannone, un ulteriore impianto binato da 20/65 mm) ed otto mitragliere da 20/65 in tre impianti binati e due singoli. Questa differenza era motivata dal fatto che l’esperienza della guerra in corso aveva mostrato che l’armamento contraereo inizialmente progettato, per quanto più potente di quello delle Pegaso, era ancora insufficiente; pertanto sulla maggior parte delle Ciclone si era deciso di eliminare il terzo progettato cannone da 100/47 mm per installare un altro impianto binato o quadrinato di mitragliere da 20/65 mm. Uguale per tutte era invece l’armamento silurante – quattro tubi lanciasiluri da 450 mm in impianti binati laterali, in coperta –, mentre quello antisommergibili era costituito da due tramogge per bombe di profondità e quattro o sei lanciabombe laterali di produzione tedesca (a seconda della disponibilità, sempre in base alle esperienze della guerra che suggerivano un ulteriore incremento dell’armamento antisom; fu anche aumentata la dotazione di bombe da getto), più efficienti di quelli precedentemente in uso sulle unità italiane. Erano tutte munite di ecogoniometro. Erano anche dotate di attrezzature per trasportare e posare 20 mine.

L’apparato propulsivo era costituito da due gruppi turboriduttori Franco Tosi da 16.000 CV (11.900 kW) alimentati da due caldaie tipo Yarrow, che azionavano due turbine. La velocità massima in condizioni operative delle torpediniere classe Ciclone era di non più di 25-26 nodi, inferiore di due o tre nodi rispetto a quella delle Pegaso (che raggiungevano i 28 nodi con analogo apparato motore), ed alcune di esse non raggiungevano neanche tale velocità, indicata nel contratto di costruzione; ma dati i compiti di scorta convogli cui queste navi erano assegnate, essa risultava comunque più che adeguata. Anche l’autonomia – 2800 miglia a 14 nodi, contro le 4000 delle Pegaso, e 1400 miglia a 25 nodi contro le 2000 delle Pegaso, il tutto con una scorta di carburante di 442 tonnellate – era sensibilmente ridotta; questo calo delle prestazioni, oltre all’aumento dei pesi ed alle modifiche apportate rispetto al progetto delle Pegaso, è imputato al fatto che le Ciclone, a differenza delle Pegaso, furono costruite in tempo di guerra, in tutta fretta e con materiali “autarchici” di qualità inferiore (altra fonte afferma invece che l’autonomia fu deliberatamente ridotta, quando furono eliminati i serbatoi laterali per migliorare la stabilità, dal momento che i compiti di scorta convogli sulle rotte mediterranee assegnati alle unità di questa classe non avrebbero richiesto una maggiore autonomia). Ciononostante, risultarono delle unità molto riuscite, svolgendo al meglio i compiti di scorta per cui erano nate, e dimostrandosi temibili avversarie per i sommergibili britannici, dei quali ne affondarono tre o quattro nel giro di pochi mesi (il P 48 dall’Ardente, il P 222 dalla Fortunale, il Turbulent dall’Ardito, e forse l’Utmost dalla Groppo).
Dieci delle sedici unità della classe, compresa la Ciclone stessa, vennero dotate di radar Fu.MO 31/42 di fabbricazione tedesca.
Secondo alcune fonti, le Ciclone furono inizialmente classificate “torpediniere” e poi riclassificate “torpediniere di scorta” nel maggio 1943; parecchie fonti le menzionano invece come “avvisi scorta”, analogamente alle Pegaso.

Breve e parziale cronologia.

9 maggio 1941
Impostazione nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste (numero di costruzione 1267).
1° marzo 1942
Varo nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste.
Aprile 1942
Durante le prove in mare a tutta forza, compiute con un dislocamento medio di 1148 tonnellate, la Ciclone raggiunge una velocità massima di 25,4 nodi, con una potenza di 14.616 CV (inferiore ai 16.000 CV di progetto). Durante prove effettuate con dislocamento in carico normale (poco meno di 1500 tonnellate) la velocità massima in condizioni operative risulta di 23-24 nodi circa.

La Ciclone durante le prove di velocità al largo di Trieste, all’inizio della primavera del 1942 (Coll. Erminio Bagnasco, via “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia)


Due immagini della Ciclone durante le prove in mare al largo Trieste nel maggio 1942, poco prima dell’entrata in servizio (sopra: da www.navymodeling.com; sotto: g.c. STORIA militare)


21 maggio 1942
Entrata in servizio.
Giugno 1942
Terminato l’allestamento ed il periodo delle prove a mare, la Ciclone lascia per sempre Trieste.
L’allora sottocapo Alberto Ferrari, imbarcato sulla gemella Tifone che si trovava ancora in allestimento (lui ed altri amici del corso ecogoniometristi erano stati destinati in parte sulla Tifone ed in parte sulla Ciclone, in allestimento l’una accanto all’altra: tra i due gruppi, uno per nave, si era subito accesa una bonaria rivalità…), ricorda così la partenza della Ciclone nel suo libro "L’ultima torpediniera per Tunisi": “…il Ciclone aveva già fatto le prove di macchina, i tiri, e non era affondato, come aveva preconizzato Saravalle [uno dei membri del corso assegnati alla Tifone] a Sciommeri [uno dei membri del corso assegnati alla Ciclone]: aveva eseguito bene tutte le prove ed ora era pronto a salpare definitivamente. Lo attendevano la Sirte, Tripoli e la Grecia. Infine la Tunisia! Ci riunimmo per l’ultima volta con gli amici in Cittavecchia per gli auguri e rimediammo una bella sbronza. Durante la notte il Ciclone salpò silenzioso, non lo avremmo visto mai più. Sfortunato, magnifico Ciclone! Precedette la nostra fine di appena un mese (…) Ho ancora una sua vecchia fotografia, con i suoi sedicimila cavalli scatenati alle prove di macchina, i baffi fin sul castello e la poppa ribollente di schiuma. Non ho saputo più nulla dei vecchi amici”.
16 agosto 1942
Alle 9.30 la Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di Paola) e la vecchia torpediniera Generale Achille Papa salpano da Napoli per scortare a Palermo la nave cisterna Poza Rica, diretta in Africa Settentrionale con un carico di 6930 tonnellate di carburante. Vi è anche una scorta aerea con alcuni velivoli. I decrittatori britannici di "ULTRA" hanno intercettato e decifrato un messaggio italiano, dal quale risulta che «La rotta della Poza Rica lunedì 17 alle ore 02.00 sarà la seguente: Capo San Vito, Marsala, Sud Ovest Pantelleria. In seguito, alle ore 02.00 di martedì 18, probabilmente al largo di Punta Africa ed alle ore 07.00 a Kerkennah. Alle ore 08.00 dello stesso giorno, al largo di Ras Makhabez ed in seguito a Tripoli»; tuttavia, questo messaggio non contempla la sosta a Palermo, decisa da Supermarina solo in un secondo momento (viene comunicata alla Poza Rica solo alle 18 del 16 agosto), rendendo così inutile la decrittazione del messaggio.
17 agosto 1942
Ciclone, Papa e Poza Rica arrivano a Palermo nelle prime ore del mattino. La partenza è inizialmente fissata per le 17, ma viene poi rimandata alle 22 (alle 15.30) e poi sospesa del tutto (alle 20). Il giorno seguente la Poza Rica scarica a Palermo alcune delle centinaia di fusti di benzina sistemati a bordo in aggiunta al carburante contenuto nelle cisterne.
Intanto altre ricognizioni aeree e decrittazioni di "ULTRA" forniscono ai britannici notizie parziali e contraddittorie: da una decrittazione del 17 agosto risulta che "La petroliera Pozarica scortata dalla Ciclone doveva lasciare Napoli alle 09.30 del giorno 16 a 9 nodi e mezzo e dovrà raggiungere Tripoli alle 03.00 del 19", ma successivamente giungerà la notizia che "La petroliera Pozarica in trasferimento da Napoli a Tripoli è stata avvistata dalla ricognizione aerea su Palermo il giorno 17. I suoi futuri movimenti non sono noti".
19 agosto 1942
Alle 7.30 la Ciclone e la Poza Rica lasciano Palermo dirette verso Messina, unitamente ai cacciatorpediniere Maestrale e Lanzerotto Malocello, inviati a rinforzare la scorta. La Ciclone esce in mare prima della Poza Rica, unendosi a Maestrale e Malocello che sono in attesa subito fuori dal porto; non appena la Poza Rica esce a sua volta da Palermo, le tre siluranti ne assumono la scorta. "ULTRA" ha intercettato e decifrato anche le nuove comunicazioni relative a questo viaggio: «Petroliera Poza Rica scortata da CT Maestrale, Malocello e Ciclone lascerà Palermo per Bengasi alle ore 07.00 locali di oggi diciannove, velocità 8,5 nodi. Itinerario via Messina e stretto Messina, ove si unirà al piroscafo Dora».
Alle 14.30 un caccia Supermarine Spitfire del 69th Squadron della RAF decollato da Malta, impiegato come ricognitore ed inviato a cercare il convoglio in base alle indicazioni di “ULTRA”, avvista Poza Rica e scorta ad est di Palermo, mentre vola a 7000 metri di quota. Rientrato a Malta, comunica rotta e velocità delle navi avvistate.
Il convoglio, intanto, segue la costa settentrionale della Sicilia con rotta verso est; alle 16.22 le unità della scorta rilevano e segnalano un sommergibile verso poppavia, ma non si verificano attacchi.
A mezzanotte il convoglio arriva all’altezza di Punta Raineri, davanti a Messina, e qui rallenta per permettere ad alcune navi in uscita da Messina di unirsi ad esso. Si tratta del piccolo piroscafo tedesco Dora (carico di 181 tonnellate di rifornimenti, tra cui 57 di munizioni, e di 17 automezzi), dei cacciatorpediniere Aviere (caposcorta, capitano di vascello Gastone Minotti) e Camicia Nera e della torpediniera Climene (capitano di corvetta Raffaele Cerqueti). Queste navi vanno a formare un unico convoglio con Ciclone e Poza Rica, mentre Maestrale e Malocello lasciano la scorta ed entrano a Messina. La direzione della scorta del convoglio così formato viene assunta dall’Aviere.
Il convoglio, che segue la rotta di levante, costeggiando la Grecia e tenendosi il più lontano possibile da Malta, subisce attacchi aerei fin dalla partenza: il “pedinamento” da parte di "ULTRA", infatti, sta continuando.
20 agosto 1942
Il 20 agosto "ULTRA" riesce ad ottenere informazioni dettagliate grazie alla decrittazione di un particolareggiato messaggio delle 7.50 del 19, nel quale sono indicati tre punti in cui il convoglio dovrà passare, con i relativi orari: "Maestrale e Malocello interromperanno la scorta della Poza Rica fuori Messina ed entreranno in porto. Pozarica con Ciclone si unirà al piroscafo Dora, diretto a Tobruk, e scortati dai cacciatorpediniere Camicia Nera ed Aviere e dalla torpediniera Climene, procederanno in convoglio a 8,5 nodi fino al punto uno (non identificato). Poi alle ore 16.00 di giovedì passeranno al punto due, probabilmente 39°10’ Nord e 17°25’ Est [al largo di Crotone]. In seguito al punto tre, approssimativamente 39°35’ Nord e 18°30’ Est [al largo di Capo Santa Maria di Leuca], per poi raggiungere alle ore 04.00 di venerdì 21 il punto quattro, approssimativamente 39°55’ Nord e 19°10’ Est [a nordovest di Corfù]".
Procedendo nello stretto di Messina con rotta verso sud, all’1.20 il convoglio passa a sud del 38° parallelo, tra Reggio Calabria e Saline Ioniche, poi assume rotta nordest seguendo la costa calabra. All’alba le navi sono al largo di Bova Marina; intorno alle sette del mattino il convoglio viene avvistato da un Supermarine Spitfire del 69th Squadron RAF (inviato da Malta sulla scorta delle informazioni di "ULTRA") con compiti di ricognizione, il quale, non notato dalle navi, comunica la posizione del convoglio, che in quel momento sta zigzagando al largo di Capo Spartivento, dopo averlo superato.
Alle 10.54, tre miglia a nord di Punta Stilo (in posizione 38°29’ N e 16°38’ E, al largo di Siderno Marina), il convoglio viene attaccato da bombardieri ed aerosiluranti britannici provenienti da sudovest, cioè da poppavia sinistra. Si tratta di dodici aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron della Royal Air Force e di dieci caccia Bristol Beaufighter del 227th Squadron RAF, tutti decollati da Luqa (Malta) alle 8.40 di quel mattino, dopo la ricezione del segnale di scoperta dello Spitfire. I Beaufort, guidati dal tenente colonnello Reginald Patrick Mahoney Gibbs, devono attaccare il convoglio – specie la Poza Rica, obiettivo principale – coi siluri, mentre i Beaufighter hanno il duplice compito di distogliere dagli aerosiluranti la scorta aerea del convoglio e di bombardare le navi. A questo scopo, alcuni dei Beaufighter sono armati con bombe da 113 kg: sei dei dodici che erano inizialmente partiti, numero poi ridottosi a quattro perché due dei Beaufighter muniti di bombe sono stati costretti a tornare indietro poco dopo la partenza, uno (il "J") per malore del pilota e l’altro (l’"H") per un incendio ad un motore che l’ha costretto all’ammaraggio forzato, con una vittima tra l’equipaggio. È presente anche un ricognitore Martin Baltimore del 69th Squadron, incaricato di osservare lo svolgersi dello scontro da alta quota e scattare fotografie.
Non appena gli aerei britannici vengono avvistati, tutte le navi del convoglio, mercantili e militari, aprono contro di essi un violento fuoco di sbarramento; i velivoli della scorta aerea – sei caccia Macchi ed un idrovolante CANT Z. – ingaggiano i Beaufighters, alcuni dei quali si buttano in picchiata sganciando le loro bombe contro le navi. Mentre i Beaufighters attirano su di sé il grosso della reazione sia della contraerea (secondo le memorie di Gibbs, “i cacciatorpediniere, provocati dal fuoco dei cannoncini e dal fischio delle bombe, sparavano selvaggiamente al cielo sui Beaufighters in picchiata”) che della scorta aerea, i Beaufort lanciano i loro siluri contro il lato sinistro della Poza Rica, rimasto scoperto: ma l’attacco è un clamoroso fallimento, perché i siluri britannici sono regolati per una profondità eccessiva. La petroliera riesce ad evitare un primo siluro con la manovra; altri siluri mancano il bersaglio, ed almeno tre o quattro passano sotto lo scafo della Poza Rica senza esplodere.
Anche le bombe cadono tutte in mare o sulla costa, senza causare danni. Due dei caccia della Regia Aeronautica della scorta aerea rimangono danneggiati nel combattimento aereo.
Molto più pesanti le perdite britanniche: due Beaufort ed un Beaufighter vengono abbattuti (le perdite sono attribuite dai britannici ai caccia della scorta aerea, mentre da parte italiana le navi del convoglio e della scorta rivendicano l’abbattimento dei velivoli nemici con le proprie mitragliere). Il Beaufighter (aereo "S"), pilotato dal sottotenente neozelandese Donald Brixo con il sergente Douglas Paterson come navigatore, è stato colpito al motore destro dal tiro delle navi ed è costretto ad ammarare vicino alla costa; Brixo e Paterson sopravvivono e vengono fatti prigionieri. I Beaufort (aerei "F" e "T", pilotati rispettivamente dal sottotenente canadese Peter Roper e dal sottotenente australiano Condon) vengono abbattuti in mare ed i loro equipaggi – otto uomini in tutto – vengono anch’essi presi prigionieri (uno dei due è tratto in salvo dal Dora). Alle 11.03 l’attacco è concluso e gli aerei superstiti si allontanano verso est; atterreranno a Luqa tra le 13.05 e le 13.30. Il tenente colonnello Gibbs sarà pesantemente criticato, al suo rientro, per questo disastro. Il convoglio italiano riprende la regolare navigazione alle 11.10.
Alle 14.10 l’Aviere segnala un avvistamento sospetto e lancia delle bombe di profondità a scopo intimidatorio, mentre alle 15 il Camicia Nera lascia il convoglio per altro incarico (secondo altra fonte, avrebbe lasciato la scorta per via dei molti morti e feriti tra l’equipaggio, causati dal mitragliamento aereo di qualche ora prima). Alle 17 uno Spitfire del solito 69th Squadron RAF rintraccia il convoglio al largo di Capo Colonna, mentre naviga verso nordest con la scort di due idrovolanti e sei caccia.


Due particolari della Ciclone nel 1942 (da “Le armi delle navi italiane nella seconda guerra mondiale” di Erminio Bagnasco, via www.betasom.it)


21 agosto 1942
Alle cinque del mattino giunge a rinforzare la scorta il cacciatorpediniere Geniere, e quaranta minuti più tardi si unisce alla scorta anche la torpediniera Pegaso. Nuove decrittazioni di "ULTRA" permettono ai britannici di sapere che «La petroliera Poza Rica ed il Dora, scortati da Aviere, Camicia Nera, Ciclone e Climene, hanno lasciato Messina alle 23.45 del 19. Il convoglio deve passare lungo le coste greche e unirsi al Dielpi che uscirà da Patrasso alle 5.30 del 22. Alle 21.00 del 23 il convoglio si dividerà: Dielpi e Dora procederanno per Tobruk dove essi arriveranno alle 12.00 del 24; la Poza Rica dirigerà su Bengasi dove è attesa alle 17.00 del 24; Giorgio e Fassio [navi cisterna, già menzionate in un precedente dispaccio di "ULTRA"] fanno ora parte di questo convoglio»; altre ancora vedono la decifrazione di una serie di messaggi relativi alle scorte aeree e navali assegnate al convoglio, alle azioni antisommergibili preventive che dovranno essere condotte sulla sua rotta, ed ai segnali luminosi predisposti lungo la sua rotta ("Capo Dukato, Punta Vlioti, Capo Guiscardo, dalle 19.30 alle 23.00 di venerdì 21. Capo San Nicolò (Itaca) dalle 20.30 alle 23.55 dello stesso giorno. Capo Oxia dalle 23.00 del 21 alle ore 02.00 del 22 agosto. Capo Cataleo dalle 02.00 del 22 agosto sino all’alba").
Alle sette del mattino un altro Spitfire del 69th Squadron avvista il convoglio al largo di Capo Santa Maria di Leuca, con rotta verso Corfù, e infatti qualche ora più tardi un altro Spitfire di Malta riavvista le navi dell’Asse al largo dell’isola greca.
Nella tarda mattinata il convoglio giunge in vista di Corfù ed assume rotta sudest, per imboccare il canale tra tale isola e la costa greca; verso le due del pomeriggio le navi passano al traverso di Capo Sidero, imboccando il Canale di Corfù e venendo raggiunte dalla torpediniera Calliope, che va a rinforzare la scorta. All’altezza dell’isolotto di Sivota si aggrega al convoglio anche il piroscafo Richard, impiegato come nave pilota alle dipendenze di Marina Corfù.
Alle 16.17, al largo di Sivota e di Paxos, il convoglio viene nuovamente attaccato da aerosiluranti provenienti da Malta: si tratta di nuovo dei Beaufort del tenente colonnello Gibbs, deciso a vendicare lo smacco del giorno precedente. I Beauforts, sempre del 39th Squadron, sono nove, mentre i Beaufighter stavolta sono tredici: per garantire il successo, infatti, il tenente colonnello Gibbs ha chiesto e ottenuto un incremento della scorta di caccia, con la partecipazione di Beaufighters del 248th e del 252nd Squadron oltre a quelli del 227th. Il numero previsto di Beaufighters era anzi ancora superiore, quindici (sei del 227th Squadron e nove del 248th Squadron), ma due dei caccia del 227th Squadron sono rimasti a terra per dei guasti, mentre uno di quelli del 248th Squadron è dovuto tornare indietro poco dopo il decollo per problemi al motore. Mai prima d’ora i Beauforts si sono spinti così lontano da Malta: Gibbs ha scelto di attaccare il convoglio durante il transito nel Canale di Corfù perché più lontano dalle basi aeree italiane, e perché riteneva che per passare nel Canale il convoglio avrebbe assunto una formazione tale da agevolare l’attacco. Tutti gli aerei sono decollati tra le 12.45 e le 13: i Beauforts ed i Beaufighters del 227th Squadron da Luqa, i Beaufighters del 248th Squadron dall’aeroporto maltese di Ta Kali, loro abituale base.
Avvicinandosi al convoglio, gli aerei britannici avvistano uno Junkers Ju 88 tedesco intento a pattugliare il tratto di mare tra Corfù e Sivota: l’aereo della Luftwaffe lancia un razzo di segnalazione per avvisare il convoglio, ma viene poco dopo raggiunto e abbattuto da due Beaufighters.
Le navi del convoglio sono in allerta già dalle 15.55, quando l’Aviere ha comunicato a tutte le unità "Probabile attacco di aerosiluranti e bombardieri", e non tardano ad aprire un nutrito fuoco con le armi antiaeree. Gli attaccanti si avvicinano dalla direzione di Paxo (cioè da proravia): volando a bassa quota, gli aerosiluranti si scindono in due gruppi a circa un miglio dal convoglio, per attaccare da entrambi i lati, suddivisi in tre ondate. I Beaufighters, intanto, si buttano in picchiata sul convoglio mitragliandone le navi, specialmente le torpediniere, e sganciando le bombe senza successo; altri ingaggiano la nutrita scorta aerea, per tenerla lontano dai Beauforts. Gibbs scriverà in seguito che “Proprio mentre stavo raggiungendo la distanza per il lancio dei siluri, il fuoco [contraereo delle navi scorta] diminuì improvvisamente, e l’acqua attorno al convoglio si trasformò in un calderone di schiuma dal quale emersero una dopo l’altra enormi colonne d’acqua; i Beaufighter, calcolando il loro attacco alla frazione di secondo, avevano picchiato dal sole per spazzare di proiettili i cacciatorpediniere e per bombardare l’obiettivo”. Il tenente di vascello Giuseppe Muzio di Marina Corfù descriverà così l’attacco nel suo rapporto: “L’azione nemica [dei Beaufighter] fu molto intensa ed efficace (…) direttrice d’attacco da poppa a prora e viceversa; quota degli aerei metri 50. Subito dopo, ma quasi contemporaneamente, fu effettuato l’attacco degli aerosiluranti (…)”.
Degli otto Beaufighters del 248th Squadron, quattro attaccano le navi di scorta che si trovano in testa alla formazione, distogliendone il tiro dagli aerosiluranti, mentre gli altri quattro manovrano per attaccare le due navi di scorta di coda, ma s’imbattono nella scorta aerea e la ingaggiano in un duro combattimento aereo, nel quale ritengono – esagerando – di aver abbattuto cinque o sei aerei (due Piaggio P. 32 – modello in realtà non più in uso da tempo nella Regia Aeronautica –, due FIAT BR. 20, uno Junkers Ju 52 ed uno Junkers Ju 88).
Oltre all’armamento contraereo delle navi, che hanno iniziato a sparare non appena gli aerei sono stati avvistati, aprono il fuoco anche le mitragliere della stazione di vedetta di Capo Bianco (Corfù), che ritengono di aver abbattuto un aereo, il cui equipaggio viene poi recuperato e fatto prigioniero da un’imbarcazione con a bordo soldati dell’Esercito, accorsa sul posto.
Aviere e Geniere sono particolarmente presi di mira dai Beaufighter, venendo pesantemente mitragliati da poppa a prora e viceversa, subendo parecchi morti e feriti tra i loro equipaggi (lo stesso caposcorta Minotti rimane gravemente ferito); anche la Ciclone viene mitragliata a più riprese, con un morto e parecchi feriti tra l’equipaggio, e deve manovrare per evitare i siluri lanciati dagli aerei britannici. L’azione di mitragliamento da parte dei caccia sortisce così l’effetto desiderato di scompaginare e “sopprimere” la reazione di buona parte della scorta nel momento cruciale dell’attacco degli aerosiluranti, che sono così in grado di avvicinarsi con minor rischio e lanciare con maggior precisione: e infatti, alle 16.18 la Poza Rica viene colpita in rapida successione da ben tre siluri (uno sul lato di dritta, a proravia della plancia, e due su quello di sinistra, a poppavia della plancia, praticamente nello stesso punto). La motocisterna non s’incendia, ma inizia subito ad appruarsi e sbandare, perdendo pericolosamente benzina dagli squarci aperti nello scafo dai siluri.
Della scorta aerea, un aereo italiano viene abbattuto (il pilota riesce a paracadutarsi e viene recuperato da un motoveliero del locale Comando Marina, ma muore poco dopo) ed un secondo velivolo italiano ed un aereo tedesco sono costretti ad atterrare a Corfù con danni e feriti a bordo.
Da parte britannica, le perdite ammontano ad un Beaufighter (del 248th Squadron) ed un Beaufort abbattuti, ed un Beaufighter (del 227th Squadron) danneggiato ma rientrato alla base. La storia ufficiale dell’USMM attribuisce l’abbattimento di entrambi gli aerei al tiro della Pegaso. L’equipaggio del Beaufort (tenente Woolfe, sudafricano) sopravvive e viene preso prigioniero.
Il comandante del Geniere, capitano di fregata Marco Notarbartolo, assume il comando del convoglio al posto del ferito comandante Minotti dell’Aviere; viene deciso che tutte le navi entrino a Corfù, salvo la Poza Rica, che con le sue copiose perdite di benzina metterebbe a repentaglio tutte le altre navi presenti nel porto. Proprio la Ciclone riceve il compito di fornire assistenza e protezione alla petroliera danneggiata, che si trova in condizioni molto critiche: appruata, sbandata a sinistra, circondata da un mare di benzina fuoriuscita dalle cisterne danneggiate, ed abbandonata da oltre metà dell’equipaggio. Oltre alla Ciclone, vengono inviate per assistenza da Marina Corfù la motonave requisita Pola (impiegata come nave scorta ausiliaria) ed il rimorchiatore militare San Benigno; la Ciclone conduce la Poza Rica nella baia di Saiada (vicino a Corfù), dove la motocisterna giunge alle 20.10 e dà fondo all’ancora.
Le altre navi, intanto, arrivano a Corfù alle 20.30; tutti i feriti causati dal mitragliamento, complessivamente una quarantina (compresi quelli della Ciclone), vengono ricoverati nel locale ospedale.
La Ciclone, per effetto del mitragliamento aereo, ha dovuto lamentare un caduto – il marinaio cannoniere Giovanni Maiano, di 21 anni, da Imperia – e parecchi feriti tra l’equipaggio. Due di questi ultimi, i marinai cannonieri Antonio D’Acquisto (22 anni, da Santa Flavia) e Cleofino Ruffini (19 anni, da Termoli), sbarcati a Corfù e ricoverati nel locale ospedale, moriranno rispettivamente il 22 ed il 23 agosto per la gravità delle ferite riportate. Alla memoria del cannoniere armaiolo Cleofino Ruffini sarà conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare ("Caricatore di mitragliera di silurante, nel corso di un violento attacco di aerei nemici, benché gravemente ferito, continuava in ginocchio ad assolvere il suo incarico, fino all’estremo limite delle sue forze, permettendo alla sua arma di reagire efficacemente fino ad allontanare la minaccia avversaria. Ricoverato successivamente in ospedale, conservava sereno e stoico contegno fino al sacrificio della giovane vita, da lui offerta in olocausto alla Patria nel supremo adempimento del dovere"), mentre Giovanni Maiano ed Antonio D’Acquisto saranno decorati alla memoria con la Croce di Guerra al Valor Militare ("Imbarcato su silurante, di scorta a convoglio, assolveva con serenità e fermezza i propri incarichi, fino all’estremo sacrificio della vita, durante un intenso mitragliamento da parte di aerei nemici").
22-25 agosto 1942
Durante la giornata del 22 agosto vengono inviate a Saiada, per l’assistenza della Poza Rica, diverse unità da Argostoli e Prevesa: i rimorchiatori Alghero, Orion e Trapani, i motopescherecci requisiti Idrangela (attrezzato con mezzi antincendio) e Fanum Fortunae e le motovedette Caron e Satta della Regia Guardia di Finanza, impiegate come cacciasommergibili. Il mattino arriva sul posto anche l’ammiraglio di divisione Alberto Marenco di Moriondo, comandante militare marittimo della Grecia Occidentale (Marimorea, con sede a Patrasso), che si trattiene alcune ore per esaminare la situazione ed organizzare i lavori di recupero; successivamente giunge sul posto la nave cisterna Sanandrea, scortata dalla torpediniera Antares, mandata da Supermarina per trasbordarvi il carico della Poza Rica. La sera del 22 agosto, dinanzi al graduale incremento della sua immersione, la Poza Rica viene portata ad incagliare su un bassofondale onde evitarne l’affondamento.
Il mattino del 23 si reca a Saiada anche l’ammiraglio di divisione Guido Porzio Giovanola, comandante militare marittimo dell’Albania, che assume la direzione dei lavori di recupero. Arrivano altri mezzi: ufficiali del Genio Navale, palombari, le navi recuperi Artiglio II (il 23 agosto) e Raffio (il 24). Alle 9.30 del 23 agosto vengono celebrati a Corfù i funerali solenni di dieci marinai rimasti uccisi nell’attacco aereo di due giorni prima, alla presenza dell’ammiraglio Porzio Giovanola e delle autorità civili e militari del luogo; qualche ora dopo arrivano due aerei da soccorso sui quali vengono caricati dodici feriti gravi, che vengono trasferiti a Brindisi. Il mattino del 24 l’ammiraglio Porzio Giovanola lascia Corfù, affidando la prosecuzione dei lavori al tenente colonnello del Genio Navale Biagi; questi riesce a rimettere la Poza Rica in condizioni di galleggiabilità sbarcando 500 fusti di benzina che si trovavano a bordo e spostandone altri, mentre tentativo di allibo del carico contenuto nelle cisterne si rivelano infruttuosi. La sera del 24 la nave viene nuovamente fatta poggiare sul fondo a scopo precauzionale, e durante la notte viene attaccata infruttuosamente da un aereo che lancia spezzoni incendiari. Il mattino del 25 la Poza Rica si trasferisce da Saiada a Butrinto.

(da www.regiamarinaitaliana.it)

26 agosto 1942
Alle 00.50 la Ciclone salpa da Butrinto per scortare la Poza Rica a Porto Edda (Saranda, in Albania), come ordinato da Supermarina nel tardo pomeriggio del 25. La torpediniera esegue rastrellamento protettivo attorno alla Poza Rica, che muove a rimorchio dei rimorchiatori Trapani e Sant’Elia. Alle 4.30 la petroliera giunge nella baia di Limione, vicino a Porto Edda; successivamente riuscirà finalmente a trasbordare il carburante sulla cisterna militare Devoli per poi trasferirsi a tappe verso Venezia (scortata da altre unità), dove sarà sottoposta ai lavori di riparazione.
14 settembre 1942
Secondo una fonte la Ciclone sarebbe stata presente a Tobruk durante il fallimentare attacco britannico noto come operazione "Agreement", ed avrebbe contribuito, con le altre unità presenti, a respingere i tentativi di sbarco britannici, decimando le piccole unità ad essi adibite. Sembra in realtà probabile un errore, dal momento che non risulta che la Ciclone fosse tra le navi presenti a Tobruk in questa circostanza; erano invece presenti, e reagirono efficacemente contro le unità britanniche, le torpediniere Castore, Generale Antonino Cascino e Generale Carlo Montanari.
18 settembre 1942
La Ciclone salpa da Taranto alle 18.50, scortando, insieme al cacciatorpediniere Antonio Da Noli ed alle torpediniere Pallade e Centauro, la motonave Monginevro diretta a Bengasi (carica di 650 tonnellate di munizioni, 2354 di benzina e lubrificanti, 162 autoveicoli e tre carri armati, oltre a 82 militari di passaggio).
19 settembre 1942
Alle sette il convoglio cui appartiene la Ciclone si unisce ad un altro, proveniente da Brindisi, composto dalla motonave Apuania con la scorta dei cacciatorpediniere Freccia (capitano di fregata Alvise Minio Paluello, che diviene caposcorta del convoglio unico) e Nicolò Zeno e della torpediniera Calliope. Il convoglio segue le rotte costiere della Grecia Occidentale.
20 settembre 1942
Durante la notte (approssimativamente tra le 22.15 del 19 e le due di notte del 20) il convoglio, dopo essere stato illuminato da aerei britannici con lancio di bengala (le navi, peraltro, sono già ben visibili a causa della luna piena, con cielo sereno e mare calmo), viene pesantemente attaccato a più riprese da bombardieri, ma grazie alla reazione della scorta, che occulta i mercantili con cortine fumogene ed apre un violento tiro di sbarramento contro gli aerei nemici, nessuna nave viene colpita.
Alle nove del mattino il convoglio, che gode anche di nutrita scorta aerea, viene avvistato dal sommergibile britannico Taku (capitano di corvetta Jack Gethin Hopkins), il quale alle 9.25, in posizione 33°30’ N e 21°10’ E, lancia tre siluri da 1370 metri contro una delle motonavi, per poi scendere subito in profondità data la pericolosa vicinanza di una delle siluranti di scorta. Le navi del convoglio avvistano i siluri e riescono ad evitarli con la manovra: l’Apuania ne avvista ed evita uno, la Monginevro gli altri due.
Alle 17 il convoglio raggiunge indenne Bengasi; subito dopo la Ciclone riparte scortando la nave cisterna Caucaso, partita alle 16 e diretta al Pireo.
23 settembre 1942
Ciclone e Caucaso giungono al Pireo alle 4.15.
29 settembre 1942
La Ciclone salpa dal Pireo per Tobruk alle 23.35, insieme alle torpediniere Sirio (caposcorta, capitano di corvetta Romualdo Bertone), Libra e Solferino, scortando il piroscafo Tagliamento (avente a bordo 146 tra veicoli e rimorchi, 2246 tonnellate di munizioni e materiale d’artiglieria, 680 tonnellate di materiali vari e 115 soldati), e la nave cisterna Lina Campanella (avente a bordo 4000 tonnellate d’acqua), provenienti da Brindisi. Il convoglio dovrà fare scalo intermedio a Suda; inizialmente fanno parte del convoglio anche altri piroscafi, per i quali Suda rappresenta la destinazione finale.
Durante la notte il convoglio viene infruttuosamente attaccato da aerei.
30 settembre 1942
Alle sette del mattino la Solferino lascia il convoglio.
Nella notte successiva si verificano altri attacchi aerei, di nuovo senza risultato.
1° ottobre 1942
Giunto a Suda, il convoglio riparte in serata per Tobruk con Tagliamento e Lina Campanella scortati da Sirio, Ciclone e Libra. Le navi procedono alla velocità di 6,8 nodi.
Nel tardo pomeriggio si verifica un altro attacco, da parte di bombardieri, che nonostante la presenza di una scorta aerea italo-tedesca riescono a bombardare a più riprese le navi per oltre mezz’ora. Ciononostante, nessuna bomba va a segno.
2 ottobre 1942
Il convoglio raggiunge indenne Tobruk alle 12.15.
8 ottobre 1942
La Ciclone salpa da Tobruk alle 14.50 scortando la nave cisterna Proserpina, diretta in Italia.
Alle 20 si uniscono al convoglio anche la torpediniera Castore ed otto motozattere italiane da essa scortate, partite da Tobruk alle otto di quel mattino; la Ciclone mantiene il ruolo di caposcorta.
9 ottobre 1942
A ponente di Creta, alle 14.50, il sommergibile britannico Traveller (tenente di vascello Michael Beauchamp St. John) avvista su rilevamento 160° due aerei dai cui movimenti il comandante britannico intuisce correttamente che stanno scortando un convoglio in procinto di entrare nel canale di Antikythera. Il Traveller scende pertanto in profondità e si dirige verso sudest; alle 15.21 torna a quota periscopica ed avvista in posizione 35°45’ N e 23°13’ E il convoglio italiano (scambiando Ciclone e Castore per due cacciatorpediniere “classe Grecale”), su rilevamento 195°, aventi rotta 327° verso Kythera. Il sommergibile lancia allora quattro siluri da 1830 metri, contro la Proserpina (che valuta come in zavorra e stazzante circa 6000 tsl), e scende in profondità. Nessuna nave viene colpita; la Castore avvista la scia di un siluro e lancia tre pacchetti di bombe profondità, la Ciclone le ordina di restare sul posto fino al crepuscolo. In tutto vengono lanciate 29 bombe di profondità (secondo una fonte, anche velivoli della scorta aerea avrebbero lanciato delle bombe di profondità), che però causano solo danni minori al Traveller.
10 ottobre 1942
Il convoglietto raggiunge il Pireo alle 6.30 (le motozattere alle 10). Da qui la Proserpina proseguirà successivamente per Taranto con la scorta di altre unità.
12 ottobre 1942
La Ciclone viene fatta salpare dal Pireo per andare assumere la scorta della torpediniera Antares, gravemente danneggiata da un attacco aereo all’una di notte durante la scorta di un convoglio da Tobruk a Salonicco e Navarino. Giunta sul posto, la Ciclone assume la scorta dell’Antares, diretta a Suda a rimorchio della torpediniera Lupo.
13 ottobre 1942
Ciclone, Lupo ed Antares arrivano a Suda alle 13.

(foto tratta dal libro “British Submarine vs Italian Torpedo Boat” di David Greentree)

24 ottobre 1942
Alle 8.30 la Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di Paola) e la vecchia torpediniera Calatafimi (tenente di vascello di complemento Giuseppe Brignole) salpano da Suda scortando la motonave Tergestea, diretta a Tobruk con 1000 tonnellate di carburante ed altrettante di munizioni.
Alle 17.24 (o 17.30) Ciclone, Tergestea e Calatafimi si congiungono in mare aperto – più precisamente nel punto 36°18’ N e 23°11’ E, a nord di Suda – con un convoglio proveniente da Taranto, via il Pireo, e formato dalla nave cisterna Proserpina (con a bordo 4553 tonnellate di carburante) e dal piccolo piroscafo tedesco Dora (carico di 400 tonnellate di rifornimenti), scortati dalle torpediniere Lira (tenente di vascello Agostino Caletti), Partenope (caposcorta, capitano di corvetta Gustavo Lovatelli) e Monzambano (tenente di vascello di complemento Attilio Gamaleri). Viene allora formato, come prestabilito, un unico convoglio, denominato «TT» (Taranto-Tobruk), formato da ProserpinaDora e Tergestea e scortato da Ciclone, Lira, Partenope (caposcorta) e Calatafimi, mentre la Monzambano, che deve eseguire un’altra missione, viene lasciata libera dal caposcorta dopo la riunione, alle 17.45. Il convoglio fruisce anche di una nutrita scorta aerea da parte di numerosi caccia e bombardieri della Regia Aeronautica e della Luftwaffe: tra i tre ed i cinque aerei tedeschi costantemente in volo in tutte le ore diurne del 24 e 25, portati a dieci aerei (con il concorso della 5a Squadra Aerea della Regia Aeronautica) nella giornata del 26. L’arrivo a Tobruk è previsto per le 18.50 del 26 ottobre.
Sin dal 21 ottobre, tuttavia, i decrittatori britannici di «ULTRA» hanno intercettato e decifrato numerosi messaggi radio riguardanti il convoglio «TT», apprendendone così la composizione, i porti e gli orari di partenza e di arrivo, la velocità ed alcune informazioni sulla condotta della navigazione.
Alle 18 del 24 un primo gruppo di quattro Wellington del 38th Squadron RAF, guidati dal tenente colonnello Pratt, decolla per cercare il convoglio, con l’ordine di incontrarsi con un Wellington del 221st Squadron; forti tempeste elettriche costringono però gli aerei al rientro. Alle 23.30 altri due Wellington del 38th Squadron, pilotati dal capitano Wiggins e dal sergente Taylor, decollano per cercare il convoglio; Wiggins deve rientrare a causa del maltempo e viene costretto ad un atterraggio d’emergenza, mentre Taylor riesce a superare il maltempo, ma non a trovare il convoglio.
25 ottobre 1942
Alcuni ricognitori britannici vengono inviati a cercare il convoglio a nordest di Bengasi, sia per avere informazioni aggiornate sulla sua posizione e situazione che per coprire il ruolo di «ULTRA», inducendo a credere che l’avvistamento sia casuale.
A mezzogiorno, Supermarina informa il convoglio che è stato avvistato da aerei nemici; alle 15.05 i velivoli della scorta aerea segnalano aerei nemici in avvicinamento, che tuttavia non appaiono alla vista delle navi.
Nella notte tra il 25 ed il 26 ottobre il convoglio viene ripetutamente ed intensamente attaccato da bombardieri britannici Vickers Wellington e statunitensi Consolidated B-24 Liberator, che sganciano numerose bombe e siluri, ma senza riuscire a colpire niente. Contro il convoglio vengono inviati numerosi Wellington Mk Ic decollati dall’Egitto, ciascuno dotato di due siluri Mk XII; nove aerosiluranti del 38th Squadron di base a Gianaclis (Egitto); un Wellington del 221st Squadron dotato di radar ASV (Air to Surface Vessel, per la rilevazione delle navi da bordo di un aereo) ed uno del 458th Squadron della Royal Australian Air Force, decollato da Shallufa.
26 ottobre 1942
Dalle 00.35 alle 2 di notte del 26 si sente continuo rumore di aerei nei pressi del convoglio; alle due di notte un aereo lancia un siluro contro la Proserpina, ma non riesce a colpirla. Alle 2.15 un secondo aerosilurante ripete l’attacco, di nuovo senza successo; alle 2.24 un altro aereo lancia due siluri contro la Calatafimi, mancandola, e sei minuti più tardi un bombardiere sgancia un gruppo di sette bombe a poppa della Lira, facendo anch’esso cilecca. Durante tutti gli attacchi le navi del convoglio manovrano per evitare i siluri e rispondono con violento fuoco contraereo.
Intanto, però, ricognitori Martin Baltimore seguitano a pedinare il convoglio nella sua navigazione verso est. Dalle 3.18 alle 4.02, le navi del convoglio sentono aerei che volano continuamente nel loro cielo, senza attaccare; alle 4.27 sopraggiungono finalmente i primi aerei italiani della scorta notturna.
Un nuovo attacco aereo si sviluppa tra le 12.10 e le 12.30 del 26 ottobre, quando 18 bombardieri statunitensi Consolidated B-24 "Liberator" (del 98th Bombardment Group, di stanza a Fayid, in Egitto), ripartiti in tre «flying boxes» di sei velivoli ciascuna, sganciano le loro bombe da 6000-7000 metri con l’ausilio del congegno di puntamento «Norden». Secondo la storia ufficiale dell’USMM, si verificano tre distinti attacchi di Liberators, tra le 11.10 e le 11.32 (la differenza di un’ora è data dal fuso orario, mentre il numero complessivo di aerei contati differisce un poco da quello effettivo): il primo, da parte di un gruppo di 10 Liberators, alle 11.10, a 50 miglia da Tobruk; vengono sganciate circa 60 bombe, tutte cadute vicinissime alle navi – specie alla Proserpina – ma nessuna a segno, così che non vi sono danni. La scorta aerea attacca i bombardieri mentre questi si allontanano. Il secondo attacco si verifica alle 11.25, quando altri cinque Liberators sganciano dalla medesima quota circa 30 bombe, perlopiù cadute attorno a Dora e Ciclone senza causare danni; il terzo ha luogo alle 11.32, con l’impiego di undici Liberators che sganciano una salva di bombe ben centrate, che però non colpiscono nulla.
Alle 13.30, quando il convoglio è ormai a sole 30 miglia da Tobruk, la Proserpina viene colta da un’avaria di macchina e rimane indietro, scortata dalla Calatafimi, mentre il resto del convoglio prosegue.
Frattanto, alle 11.30, otto aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th e 47th Squadron RAF, al comando del tenente colonnello Richard Sprague (che tuttavia, data la sua scarsa esperienza negli attacchi siluranti, ha delegato la conduzione della squadriglia al più esperto capitano Ronald Gee, un veterano) sono decollati dall’aeroporto egiziano di Gianaclis. Ai Beaufort si sono uniti in volo anche cinque bombardieri Bristol Blenheim V del 15th Squadron della South African Air Force (ognuno dei quali ha a bordo quattro bombe GP da 250 libbre; li guida il maggiore Douglas W. Pidsley), decollati da Gianaclis alle 11.35, e nove caccia Bristol Beaufighter, quattro del 252nd Squadron e cinque del 272nd Squadron (tutti questi Squadrons fanno parte del 201st Group, con compiti di cooperazione aeronavale). La Proserpina, obiettivo principale, è assegnata ai Beaufort; gli altri mercantili ai Blenheim; ed i Beaufighter dovranno neutralizzare la scorta aerea.
I Beaufort volano bassi sul mare (ad appena 30 metri di quota), mentre i Beaufighter di scorta volano più alti, sopra di loro, a varie quote. La formazione aerea vola verso ovest fino a circa 50 miglia dalla costa nemica, venendo presa sotto il tiro di batterie contraeree pesanti durante l’avvicinamento a Tobruk, e poi s’imbatte in un grosso gruppo di traghetti che a loro volta aprono il fuoco (secondo una versione, abbattendo un Blenheim).
Alle 14.25 i Beaufighter avvistano il grosso del convoglio e lo segnalano ai Beaufort (che, volando più bassi, non lo hanno ancora visto) scuotendo le ali. Da parte italiana, le navi avvistano gli aerei attaccanti alle 14.30; tutti, mercantili e navi scorta, aprono il fuoco con l’armamento contraereo.
Il Dora procede primo in linea di fila, seguito dalla Tergestea; Ciclone e Partenope proteggono il lato che dà verso il mare aperto, mentre la Lira procede in coda al convoglio. Sul cielo del convoglio vola la scorta aerea formata da due bombardieri tedeschi Junkers Ju 88, due caccia italiani Macchi C. 202 ed un caccia tedesco Messerschmitt Bf 109. I Beaufighter si dirigono contro la scorta aerea, per attaccarla, mentre la maggior parte dei bombardieri punta sui mercantili.
I primi tre Blenheim, avendo scambiato il Dora, in quanto nave di testa, per la nave cisterna che cercano (la Proserpina), lo attaccano, ma le bombe mancarono il bersaglio ed uno dei bombardieri viene abbattuto, mentre gli altri due si allontanarono danneggiati (uno dei due precipiterà per i danni durante il volo di rientro, entrando in collisione con un Beaufort e causando anche la sua perdita).
Cinque Beaufort lanciano i loro siluri contro il Dora, mentre il sesto lancia contro la Tergestea. Un Blenheim ed un Beaufort vengono abbattuti, mentre altri due Blenheim ed un Beaufort sono danneggiati; uno dei Blenheim, come detto, precipiterà per i danni durante il volo di rientro, travolgendo nella sua fine un Beaufort. Parte degli aerei (sei, secondo il rapporto del caposcorta Lovatelli, anche se ciò risulta in contrasto con le fonti britanniche) passa sulla sinistra della Ciclone per andare ad attaccare la Proserpina.
I restanti due Beaufort (pilotati dal sottotenente Ralph V. Manning, canadese, e dal tenente Norman Hearn-Phillips), tuttavia, si rendono conto che la nave cisterna non c’è, quindi non attaccano e si mettono alla sua ricerca lungo la costa, insieme ai due Blenheim rimasti (quello del maggiore Pidsley e quello del tenente E. G. Dustow). Dopo qualche minuto la loro ricerca è premiata, ed avvistarono Proserpina e Calatafimi (riparata l’avaria, la petroliera sta per ricongiungersi al resto del convoglio; la Calatafimi la scorta sul lato mare): queste li accolgono con un muro di fuoco contraereo, cui si unisce anche la Lira. Il Beaufort di Hear-Phillips attacca per primo, ma viene danneggiato da un proiettile contraereo (che mette fuori uso l’impianto elettrico) e perde il proprio siluro (che si sgancia e cade in mare a causa di tali danni) prima di poterlo sganciare; rimane comunque sul posto per attirare su di sé il fuoco contraereo delle navi. Subito dopo l’aerosilurante di Manning, rimasto così l’unico Beaufort ancora dotato del suo siluro, attacca la Proserpina insieme ai due Blenheim. La petroliera vira a sinistra, verso il Beaufort di Manning, presentandogli la prua e così rovinandogli la mira, costringendolo a girare in cerchio sopra la terraferma, continuamente bersagliato dal tiro contraereo, per cercare un migliore angolo per l’attacco. A questo punto la Proserpina compie un’altra accostata per dare la prua al Beaufort; stavolta, però, l’accostata è verso dritta, e l’effetto contrario di questa e della precedente accostata a sinistra è che, per alcuni brevi momenti, la nave si trova pressoché immobile: abbastanza per dare a Manning l’opportunità di attaccare. Da una quota di 24 metri, volando a 140 nodi, il Beaufort si avvicina sino a circa 550-640 metri prima di sganciare il siluro, con un angolo di 45°; al tempo stesso, i due Blenheim aggirano le navi (che procedono con rotta parallela alla costa) per attaccarle dal lato della costa, mentre un Beaufighter si avventa sulla Calatafimi; l’aereo del tenente Dustow, attaccando per primo, sgancia le sue bombe, che cadono ai lati della prua della Proserpina, mancandola di poco. Subito dopo l’aereo di Dustow viene colpito dal fuoco contraereo della petroliera, urta con un’ala l’albero di trinchetto della Proserpina e precipita in mare, capovolgendosi più volte, con la perdita di tutto l’equipaggio. Pochi secondi più tardi, tre delle quattro bombe da 250 libbre (113 kg) sganciate dall’aereo di Pidsley (anch’esso crivellato di colpi dal tiro delle navi), che ha attaccato volando ad appena sei metri di quota (evita di stretta misura albero e fumaiolo della nave italiana), colpiscono la petroliera in prossimità della plancia; subito dopo la Proserpina viene colpita a prua sinistra anche dal siluro del rimanente Beaufort, e s’incendia immediatamente, a 20 miglia per 320° da Tobruk. Dopo una lunga agonia, affonderà alle 6.45 del 27 ottobre.
Durante il volo di ritorno alla base, la formazione aerea britannica verrà attaccata da dei Macchi C. 202, che danneggeranno un Beaufort (proprio quello di Manning, che però riuscirà a rientrare alla base). Durante l’attacco, inoltre, un Beaufighter è stato abbattuto ed un altro danneggiato da un Messerschmitt Bf 109, mentre uno Ju 88 è stato a sua volta danneggiato da un Beaufighter.
LiraCalatafimi vengono distaccate per provvedere al salvataggio dei naufraghi della Proserpina (in tutto vengono recuperati 62 dei 77 uomini che componevano l’equipaggio della petroliera), mentre il resto del convoglio – Ciclone, Partenope, Dora e Tergestea – prosegue.
Gli attacchi non sono finiti: i comandi britannici intendono distruggere completamente il convoglio, perciò una seconda ondata, formata da cinque Beaufort del 39th Squadron scortati da nove Beaufighter degli Squadrons 252 e 272, decolla da Gianaclis per attaccare le altre navi. Al largo della costa libica la formazione britannica s’imbatte in cinque bombardieri tedeschi Heinkel He 111, che vengono impegnati dai Beaufighter (nello scontro un Beaufighter viene abbattuto ed un altro danneggiato, mentre da parte britannica si rivendicano due Heinkel abbattuti ed uno danneggiato), mentre i Beaufort continuano a cercare il convoglio.
Terminato lo scontro con gli Heinkel, i Beaufighter si riuniscono ai Beaufort, che non hanno trovato il «TT» ma hanno infruttuosamente lanciato tre siluri contro un convoglio di traghetti.
Da parte britannica si vuole fare ancora un ultimo tentativo di distruggere il convoglio prima che arrivasse a destinazione: ormai, però, non ci sono più aerosiluranti idonei per attacco diurno disponibili, soltanto Wellington del 38th Squadron in grado di attaccare con buona sicurezza esclusivamente di notte, ma entro notte il convoglio sarebbe già giunto in porto. Si decide di mandare lo stesso i Wellington: il 38th Squadron tenterà per la prima volta un attacco al tramonto.
Tre aerosiluranti Vickers Wellington del 38th Squadron, guidati dal capitano Albert Wiggins, decollano alle 15.40 dall’aeroporto di Gambut, e volano a soli 30 metri (in modo da non essere avvistati se non all’ultimo momento) fino a 60 miglia dalla costa, poi virano verso ovest e volano parallelamente alla costa sin quando giungono 60 miglia a nordest di Tobruk, dove puntano dritti sul convoglio. Il tempo è buono, la visibilità ottima, con annuvolamento minimo.
Questa volta il convoglio viene avvistato, proprio quando è giunto davanti a Tobruk, ad un paio di miglia dal porto, e colto di sorpresa. I marinai si apprestano ad entrare in rada, quando vedono le sagome nere dei Wellington apparire all’orizzonte, a due miglia di distanza. Le sagome dei Wellington si confondono con il cielo scuro del crepuscolo, mentre la Tergestea – che si appresta a superare le ostruzioni della rada di Tobruk – si staglia perfettamente visibile contro il sole che tramontava.
Le unità della scorta aprono subito il fuoco ed iniziano freneticamente a fare segnalazioni alla Tergestea, ma i Wellington lanciano tutti i loro siluri, due per ogni aereo, da distanze comprese tra i 450 ed i 550 metri, tutti contro la motonave italiana, che agli equipaggi degli aerei sembra quasi ferma.
Uno dei tre bombardieri, pilotato dal sergente Viles, viene colpito e precipita vicino al porto (tre membri del suo equipaggio vengono catturati, ma due fuggiranno e raggiungeranno le linee britanniche l’11 novembre), e gli altri due aerei (quello di Wiggins e quello del sottotenente Bertram) vengono entrambi danneggiati, ma alle 18.16, nel punto 32°02’ N e 24°04’ E, almeno uno (forse anche tre) dei sei siluri lanciati colpisce la Tergestea a poppa. La sfortunata motonave si disintegra in una nuvola di fumo che si leva per oltre 900 metri, a un passo dalla salvezza; l’intero equipaggio di 80 uomini trova la morte nell’esplosione. Del convoglio «TT», pertanto, solo il Dora riesce a raggiungere la destinazione, entrando in porto alle 18.50 insieme a Ciclone e Calatafimi.
27 ottobre 1942
La Ciclone (caposcorta) e la Calatafimi lasciano Tobruk per Taranto alle 17.30, scortando la motonave tedesca Ankara.
28 ottobre 1942
Il convoglietto raggiunge il Pireo alle 21.15, sostandovi fino all’indomani mattina.
29 ottobre 1942
Ciclone, Ankara e Calatafimi ripartono dal Pireo alle 7.30 e raggiungono Patrasso alle 16.10, per poi sostarvi per due giorni.
31 ottobre 1942
Il convoglio lascia Patrasso a mezzanotte.
1° novembre 1942
Il convoglio, cui si sono aggregate anche la nave cisterna Giorgio e la torpediniera Climene, raggiunge Taranto alle 18.30.
22 novembre 1942
La Ciclone salpa Reggio Calabria per Biserta alle 12.30 scortando, insieme alle torpediniere Procione (caposcorta), Ardente ed Uragano, il traghetto Aspromonte.
Alle 14.25 le navi sono attaccate infruttuosamente da un sommergibile; l’Ardente reagisce, forse danneggiando l’attaccante.
23 novembre 1942
Il convoglietto giunge a Biserta alle 18.45.
25 novembre 1942
La Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di Paola) salpa da Napoli per Tunisi alle 4.30, scortando, insieme a Procione (capitano di corvetta Renato Torchiana, caposcorta) ed Ardente (tenente di vascello Rinaldo Ancillotti), un convoglio formato dai piroscafi Sant’Antioco ed Honestas, cui si aggrega poi anche la motozattera tedesca F 477 proveniente da Trapani. Sulle torpediniere sono imbarcate anche modeste aliquote di personale del Reggimento "San Marco", diretto in Tunisia.
26 novembre 1942
Alle 21.15 il convoglio viene avvistato da ricognitori nemici, ed a partire dalle 22 – a nordovest di Capo Bon – viene ripetutamente e pesantemente attaccato dal cielo (gli attacchi proseguiranno durante la notte); ma nessun mercantile viene colpito, grazie al violento fuoco di sbarramento aperto dalle torpediniere, che creano quasi una “barriera di fuoco” intorno ai trasporti.
27 novembre 1942
Alle 00.04 il convoglio viene avvistato (su rilevamento 235°) anche dal sommergibile britannico Una (tenente di vascello John Dennis Martin), che accosta per avvicinarsi, s’immerge alle 00.06 (mentre il convoglio accosta per 185°) ed alle 00.47 lancia tre siluri da 1370 metri di distanza, in posizione 37°34’ N e 10°33’ E (nella zona settentrionale del Golfo di Tunisi). Nessuna nave viene colpita; le unità del convoglio avvertono due esplosioni subacquee (forse i siluri a fine corsa: le esplosioni vengono sentite anche sull’Una, il cui comandante ne trae così l’erronea impressione di aver colpito il bersaglio, decidendo pertanto di non lanciare, contrariamente a quanto deciso in precedenza, un quarto siluro). L’Una intraprende azioni evasive, ma non si verifica alcun contrattacco.
Il convoglio giunge a Tunisi alle 8.
5 dicembre 1942
La Ciclone parte da Palermo per Biserta alle 4.15, in missione di trasporto truppe, con a bordo personale del Reggimento "San Marco". Giunge a destinazione alle 17.45.
7 dicembre 1942
Lascia Biserta alle 6.40 e raggiunge Palermo alle 17.

La Ciclone nel 1942 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net)

2-3 gennaio 1943
Nella notte tra il 2 ed il 3 gennaio, mentre la Ciclone si trova ormeggiata a Palermo, il porto del capoluogo siciliano viene attaccato da cinque "chariots" britannici, mezzi d’assalto copiati dai siluri a lenta corsa italiani, nell’ambito dell’operazione «Principal» (talvolta menzionata erroneamente come «Principle»), che rappresenta il primo impiego operativo di questo mezzo. E proprio la Ciclone, per poco, non ne rimane vittima.
Gli "chariots" sono stati portati fin davanti al porto da due sommergibili britannici, il Trooper (tenente di vascello John Somerton Wraith) ed il Thunderbolt (tenente di vascello Cecil Bernard Crouch), partiti da Malta il 29 dicembre 1942 insieme ad un terzo sommergibile, il P 311, avente anch’esso a bordo due "chariots" ma destinato invece ad attaccare La Maddalena (non ci arriverà mai: giunto al largo di Tavolara, urterà una mina ed affonderà con tutto l’equipaggio). Gli "chariots", trasportati in contenitori stagni fissati sulla coperta, sono identificati dai numeri XV, XVI, XIX, XXII e XXIII; il Trooper ha trasportato gli chariots XVI, XIX e XXIII, il Thunderbolt il XV ed il XXII. L’operazione, inizialmente pianificata per la notte tra il 1° ed il 2 gennaio, è stata poi rimandata alla notte successiva in seguito alla segnalazione, da parte della ricognizione aerea, della presenza di diverse siluranti italiane tra Marettimo ed il banco di Skerki: in conseguenza di questa notizia, Trooper e Thunderbolt sono stati trattenuti parecchie ore a sud di Pantelleria, in attesa di sapere dal P 311 (che li precedeva lungo la rotta, essendo partito per primo, il 28 novembre) se il Canale di Sicilia fosse “sgombro” dalla vigilanza antisommergibili italiana.
I due sommergibili sono giunti nelle acque antistanti Palermo la sera del 2 gennaio; il Thunderbolt per primo, e poi anche il Trooper, si sono portati in affioramento (con la torretta al di sopra della superficie ed i cilindri-contenitori a pelo d’acqua) a quattro miglia dal porto, da una posizione sottocosta vicino a Capo Gallo. In particolare il Thunderbolt, giunto nella posizione stabilita alle 21.38 del 2 gennaio, ha messo a mare i suoi "chariots" tra le 22.02 e le 22.16, seguito poco dopo dal Trooper. L’operazione stessa di messa a mare dei mezzi si rivela tutt’altro che agevole, anche a causa del mare piuttosto mosso (addirittura forza 5, secondo il libro "The Real X-Men" di Robert Lyman): l’equipaggio del chariot XII fatica parecchio a trascinare in acqua il suo mezzo e, quando finalmente ci riesce, evita di stretta misura di restare impigliato nel cavo antireti del sommergibile, che ha iniziato ad immergersi; i due uomini del chariot XV vengono spazzati in mare mentre stanno montando sul loro "chariot", e devono tenersi a galla aggrappandosi al loro mezzo, riuscendo successivamente a raddrizzarlo e mettere in moto verso Palermo. Dopo aver rilasciato gli "chariots", Trooper e Thunderbolt lasciano subito la zona per rientrare a Malta; poco più tardi – alle 2.50 – giunge invece sul posto il sommergibile P 46 (poi Unruffled, al comando del tenente di vascello John Samuel Stevens), partito il 30 dicembre da Malta con lo specifico incarico di per recuperare gli incursori al termine dell’operazione. Questo avvicendamento è dovuto alle minori dimensioni del P 46, un sommergibile classe U, ritenute più adatte ad un compito di “esfiltrazione”; Trooper e Thunderbolt, appartenenti alla più grande classe T, sono infatti ritenuti troppo voluminosi e vulnerabili.
Per tre dei cinque "chariots", la missione si conclude prima ancora di poter cominciare. Il numero XXIII, pilotato dal sottotenente di vascello H. L. H. Stevens e dal sottocapo Carter ed avente come obiettivo principale la motonave tedesca Ankara e come obiettivo secondario tre altre motonavi, perde quasi cinque ore a causa di difficoltà nell’individuare l’imboccatura del porto; poi il respiratore di Carter si guasta (altra fonte parla di avaria al "chariot" stesso) e vengono riscontrare anche infiltrazioni d’acqua nella muta del pilota, il che induce Stevens a lasciare Carter su una boa e tentare di proseguire da solo verso l’imboccatura del porto. Non riuscendo a trovarlo lo stesso, Stevens finisce col rinunciare all’attacco, riprendendo a bordo Carter e tornando indietro senza neanche essere entrato nel porto. Anche peggio va al chariot XV (sergente J. M. Milne, marinaio W. Simpson), incaricato di collocare le sue cariche esplosive sulle chiuse del bacino di carenaggio per distruggerle: prima di poter entrare nel porto, il mezzo affonda a causa dell’improvvisa esplosione della batteria; uno dei due operatori, Simpson, rimane incastrato nei rottami del mezzo ed affonda con esso (il suo corpo non verrà mai ritrovato), l’altro – Milne – riesce faticosamente a liberarsi quando già è sprofondato a quasi trenta metri ed a raggiungere la riva a nuoto, prendendo terra ad Isola delle Femmine, ma qui viene catturato. Lo chariot XIX (tenente di vascello H. F. Cook, marinaio Worthy), incaricato di minare e affondare la motonave Calino (obiettivo secondario sono tre cacciatorpediniere), riesce invece a penetrare nel porto, ma durante il superamento delle ostruzioni la muta del pilota Cook rimane lacerata, e questi inizia a risentire di forti dolori e vomito (secondo altre fonti, invece, Cook stava male già poco dopo aver lasciato il Trooper, probabilmente per effetto del mal di mare). Worthy si dirige allora verso terra con il "chariot", fa scendere Cook e tenta di proseguire da solo; resosi però conto di non riuscire a controllare il mezzo da solo, lo autoaffonda e poi torna dove aveva lasciato Cook, ma non lo trova più: l’ufficiale è annegato, anche il suo corpo non sarà mai ritrovato. Raggiunta la terra, Worthy viene fatto prigioniero.
Gli altri due chariots riescono invece a collocare le loro cariche esplosive. Lo chariot XVI (sottotenente di vascello Rodney G. Dove e sottocapo James M. Freel), in particolare, colloca la sua carica esplosiva principale sullo scafo della motonave Viminale, dopo di che i due operatori, esausti per lo sforzo sostenuto nel superamento delle reti all’ingresso del porto, rinunciano a collocare le mine adesive sulle altre navi (per altra fonte, non l’avrebbero fatto perché avevano perso le mine al momento di lasciare il Trooper, quando erano stati travolti da una violenta onda) e raggiungono direttamente la riva, dove sono fatti prigionieri.
La più efficace è però l’azione dello chariot XXII, pilotato dal tenente di vascello Richard Thomas Goodwin Greenland, con il sottocapo segnalatore Alex Mitchell Ferrier come secondo: loro obiettivo primario è l’incrociatore leggero Ulpio Traiano, in costruzione nei cantieri di Palermo (è stato varato poco più di un mese prima e si trova in fase di allestimento), loro obiettivo secondario sono quattro cacciatorpediniere. Dopo aver lasciato il Thunderbolt ed aver percorso le quattro miglia che li separano dall’imboccatura del porto in condizioni di mare piuttosto mosso, i due operatori si riposano brevemente riposati sulla costa, indi superano le due reti di sbarramento e poi vanno all’attacco: per prima cosa i due incursori superano le reti parasiluri tese attorno allo scafo dell’Ulpio Traiano e piazzano la loro carica principale (da 270 kg di esplosivo) sulla carena dell’incompleto incrociatore, operazione che richiede una decina di minuti, poi applicano le loro quattro mine adesive di minori dimensioni (“mignatte”) sugli scafi del piroscafo Gimma, del cacciatorpediniere Grecale e della Ciclone stessa. Secondo quanto raccontato da Ferrier molto tempo dopo, Ciclone e Grecale erano ormeggiate di poppa alla banchina; il "chariot" suo e di Greenland si portò tra le due navi e piazzò le prime tre mine sui loro scafi, e fu durante questo lavoro che si i due rischiarono di essere scoperti: nell’invertire la rotta, infatti, il "chariot" urtò con la poppa un cavo d’ancoraggio, e la sua elica fuoriuscì per pochi istanti dall’acqua, producendo un leggero sommovimento in superficie. Un marinaio su una delle navi italiane se ne accorse e si sporse dalla murata per dare un’occhiata, ma intanto Greenland era riuscito tempestivamente a riportare il mezzo sotto lo scafo, così il marinaio italiano non li vide e tornò, apparentemente, alla sua occupazione. Dopo aver minato Ciclone e Grecale, i due incursori cercarono altre siluranti da attaccare, essendo state queste designate come obiettivo secondario; non riuscendo però a trovarne altre, decisero di collocare l’ultima carica rimasta sullo scafo di un mercantile, cioè il Gimma. (Secondo una fonte, nel collocare le mine adesive su queste unità Greenland e Ferrier avrebbero perso troppo tempo, il che avrebbe impedito loro di giungere all’appuntamento con il P 46). Completata quest’operazione, Greenland e Ferrier riescono anche ad uscire dal porto con il loro "chariot" (non senza inconvenienti: durante il tragitto verso l’uscita il "chariot" va infatti a sbattere a tutta velocità contro una rete di protezione, e poi anche contro lo scafo di un mercantile) per raggiungere il P 46 in attesa al largo, e farsi riprendere a bordo; ma sono esausti, hanno respirato ossigeno puro per troppo tempo e dopo un po’ si rendono conto che stanno semplicemente girando in tondo davanti al porto perché la loro bussola si è rotta, mentre le batterie del loro mezzo si vanno esaurendo. A questo punto, pertanto, autoaffondano il loro "chariot" e poi raggiungono a nuoto la riva, dopo di che si tolgono le mute e cercano di lasciare la città per sottrarsi alla cattura. I due incursori riescono in effetti ad uscire indisturbati dal cantiere navale e ad allontanarsi dalla zona portuale prima che le cariche esplodano; lasciata la città, si dirigono verso le campagne con l’intenzione di attraversare la Sicilia verso sudest, impadronirsi di un’imbarcazione e raggiungere Malta, ma poco fuori Palermo s’imbattono in un carabiniere. In un primo momento Greenland e Ferrier tentano d’ingannarlo sostenendo di essere tedeschi, con apparente successo; dopo essersi allontanato, però, il militare ritorna insieme ad altri tre carabinieri. Di nuovo i due britannici sostengono di essere membri della Wehrmacht, mostrando ai carabinieri dei documenti tedeschi (ovviamente falsi); ma lo stratagemma non funziona, i due sono condotti presso la locale stazione dei Carabinieri, interrogati in varie lingue ed infine smascherati con l’arrivo di un tenente della Luftwaffe, convocato dai carabinieri. Ricondotti a Palermo e consegnati alla Regia Marina (Junio Valerio Borghese, comandante dei loro “colleghi” italiani della X Flottiglia MAS, chiederà e otterrà di incontrarli), Greenland e Ferrier vengono interrogati e poi mandati in un campo di prigionia.
Dei dieci operatori, pertanto, soltanto due riescono a sfuggire alla cattura: si tratta di Carter e Stevens, i due operatori del "chariot" che è tornato indietro, i quali vengono recuperati in mare aperto alle 4.35, sei ore dopo aver lasciato il Trooper, dal P 46, in attesa a tre miglia e mezzo dall’imboccatura del porto di Palermo. Degli altri otto, due (Cook e Simpson) hanno perso la vita, ed i restanti sei sono stati fatti prigionieri. Uno degli "chariots" verrà poi recuperato intatto da parte italiana.
Le cariche a contatto magnetico applicate allo scafo della Ciclone, così come quelle piazzate su Gimma e Grecale, non si attivano (forse perché piazzate troppo frettolosamente dagli operatori britannici, mentre per altra fonte Greenland e Ferrier si sarebbero dimenticati di armarle, probabilmente perché intontiti dal troppo ossigeno puro respirato; secondo Greenland, lui ed i suoi compagni non avevano mai visto prima, nemmeno durante le esercitazioni, un “detonatore a matita” del tipo di quelli delle mine adesive loro fornite per l’attacco, né ricevuto istruzioni in merito, e da parte italiana, dopo averle esaminate, verranno espressi dubbi sull’efficacia di spolette di questo tipo per delle mine subacquee) e vengono scoperte e rimosse da subacquei italiani il mattino stesso del 3 gennaio, senza alcun danno per le tre navi. Sulla Ciclone, il comandante Di Paola si occupa personalmente della rimozione delle mine, imbarcandosi su un battellino ed ispezionando le unità minate, per poi tempestivamente rimuovere le mine che vengono individuate (sarà per questo decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: "Mentre si verificavano esplosioni dovute a mezzi insidiosi avversari, si portava audacemente con battello presso unità militari e mercantili, sullo scafo delle quali risultavano applicati ordigni esplosivi, e si prodigava con coraggio e perizia per effettuarne la tempestiva rimozione. Con tale ardito gesto assicurava l’incolumità delle navi, dimostrando alto senso del dovere e noncuranza del pericolo").
Le mine applicate sugli scafi di Ulpio Traiano e Viminale, invece, esplodono dopo alcune ore. Per prima scoppia, alle 5.45, la carica collocata sullo scafo della Viminale, che subisce gravi danni, anche se rimane a galla; due ore dopo, alle 7.58, esplode anche la carica sistemata sullo scafo dell’Ulpio Traiano, con effetti più gravi: l’incrociatore, ancora incompleto, si spezza in due e affonda rapidamente. Lo scoppio di questa carica danneggia gravemente anche l’adiacente banchina del cantiere navale, che crolla parzialmente per un tratto di circa trenta metri, e provoca 5 vittime (quattro operai italiani ed un soldato tedesco) e 21 feriti.
Greenland e Ferrier, prigionieri in Italia fino all’8 settembre 1943 e poi in Germania fino alla fine della guerra, saranno decorati rispettivamente con il Distinguished Service Order e con la Conspicuous Gallantry Medal per l’azione di Palermo.

La Ciclone al traverso (da www.navymodeling.com)

19 gennaio 1943
Alle 10.30 la Ciclone, in navigazione a circa 25 miglia da Lampedusa, avvista e soccorre 6 naufraghi. Si tratta di superstiti del piccolo trasporto militare Stromboli, affondato la notte precedente dai cacciatorpediniere britannici Nubian e Pakenham e dal greco Vasilissa Olga; tra di essi vi è anche il comandante dello Stromboli, capo nocchiere di prima classe Leonardo Carofiglio, rimasto ferito. Dei 33 uomini che componevano l’equipaggio dello Stromboli, oltre ai 6 recuperati dalla Ciclone, 10 sono stati salvati dopo l’affondamento dalle stesse unità affondatrici, mentre 17 hanno perso la vita.
La Ciclone raggiunge poi Lampedusa alle 15 dello stesso giorno.
27 gennaio 1943
All’una di notte la Ciclone (capitano di corvetta Luigi Di Paola) salpa da Palermo diretta a Biserta, aggregandosi alla scorta di un convoglio proveniente da Napoli e formato dai piroscafi Noto e Spoleto, scortati dai cacciatorpediniere Lampo (caposcorta, capitano di corvetta Loris Albanese) e Saetta (capitano di corvetta Enea Picchio).
Alle 4.15, circa cinque miglia a nord di Trapani, il convoglio viene attaccato da un singolo aerosilurante, che lancia infruttuosamente il suo siluro.
Alle 8.22 il convoglio viene avvistato dal sommergibile britannico Turbulent (capitano di fregata John Wallace Linton), che apprezza il convoglio come composto da due mercantili di 6000 e 10.000 tsl, scortati da tre torpediniere classe Spica ed una dozzina di aerei, perlopiù da caccia. Alle 8.55, in posizione 37°46’ N e 11°14’ E, il Turbulent lancia quattro siluri da 2750 metri contro i due mercantili, che in quel momento si stanno “sovrapponendo” nel periscopio, per poi scendere in profondità.
Subito dopo il lancio (le fonti italiane indicano le 8.54, con leggerissima discrepanza rispetto all’orario di lancio indicato dal Turbulent), i velivoli della scorta aerea segnalano al convoglio le scie dei quattro siluri, in arrivo da sinistra: il caposcorta ordina a tutte le navi di accostare ad un tempo di 90° a dritta, manovra che viene prontamente eseguita, permettendo così di evitare tutti i siluri, uno dei quali passa 200 metri a poppavia della Ciclone. Due corvette in zona per una crociera antisommergibili si occupano di dare subito la caccia all’attaccante (senza però riuscire a danneggiarlo: nessuna delle bombe di profondità esplode vicino al Turbulent), mentre il convoglio prosegue.
Le navi entrano a Biserta alle 16.30.
5 febbraio 1943
Alle 15 la Ciclone e la torpediniera Pallade sostituiscono le torpediniere Libra ed Orione nella scorta ad un convoglio formato dalle motonavi Ines Corrado (italiana) e Pierre Claude (tedesca) e dal trasporto militare tedesco KT 3, partiti da Napoli alle quattro di quel mattino e diretti a Biserta. Il convoglio entra a Palermo alle 21 e vi sosta per alcune ore.
6 febbraio 1943
La Ciclone ed il resto del convoglio lasciano Palermo alle tre di notte, senza più la Pallade, ma con l’aggiunta delle torpediniere Fortunale e Calliope. Il convoglio raggiunge Biserta alle 23.30.
7 febbraio 1943
Ciclone, Fortunale (caposcorta) e Calliope salpano da Biserta per Napoli alle 9, scortando le motonavi Manzoni ed Alfredo Oriani.
Alle 23.30 iniziano i primi attacchi di bombardieri ed aerosiluranti, che si protrarranno senza sosta fino all’1.30 dell’8. Nessuna nave viene colpita.
8 febbraio 1943
Il convoglio giunge a Napoli alle 10.30.
25 febbraio 1943
Alle 15 la Ciclone salpa da Napoli insieme alle torpediniere Sirio (caposcorta), SagittarioCastore, Pegaso e Generale Antonino Cascino ed ai cacciasommergibili tedeschi UJ 2209UJ 2210 e UJ 2220, per scortare a Biserta i piroscafi Teramo e Forlì.
Sei ore dopo la partenza, il convoglio viene avvistato da ricognitori avversari.
26 febbraio 1943
Individuato da ricognitori avversari, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti alle 3.30, 38 miglia a sudovest da Punta Licosa; nessuna nave viene colpita.
Alle 14.30 esso subisce un nuovo attacco, stavolta da parte di 18 bombardieri, 38 miglia a nord di Capo Zaffarano. Nessuna nave è colpita tranne l’UJ 2209, lievemente danneggiato da schegge ed assistito dalle altre unità della squadriglia.
Nelle acque antistanti Palermo, si uniscono al convoglio anche le navi cisterna Bivona e Labor ed il piroscafo Volta, nonché le torpediniere Groppo ed Orione, la corvetta Gabbiano ed il dragamine tedesco R 15; si forma così un unico convoglio, scortato da Groppo (caposcorta), CicloneOrione, PegasoCascinoGabbiano e R 15Sirio e Sagittario, al pari dei tre cacciasommergibili tedeschi, rientrano invece a Napoli, mentre la Castore è costretta ad entrare a Palermo e restarvi a causa di un’avaria.
Al largo di Trapani la Gabbiano lascia la scorta.
27 febbraio 1943
Alle 10.40 un aereo da caccia italiano, di scorta al convoglio, precipita per avaria; l’Orione ne salva il pilota.
28 febbraio 1943
Il convoglio giunge a Biserta all’1.45.

L’affondamento

Alle 6.20 del 7 marzo 1943 la Ciclone, al comando del capitano di corvetta Luigi Di Paola, salpò da Biserta per andare incontro ad un convoglio in arrivo dall’Italia, che avrebbe dovuto pilotare sulla rotta di sicurezza che conduceva appunto a Biserta. Lasciatosi alle spalle il porto tunisino, la torpediniera assunse rotta 19°, ossia opposta a quella del convoglio in arrivo, lasciandosi esattamente di poppa l’isola di Zembra.
Il convoglio, partito da Napoli alle 2.30 del 6 marzo, era stato in origine composto dalla motonave italiana Ines Corrado e dai piroscafi tedeschi (ex francesi) Henry Estier e Balzac, scortati dalle torpediniere Groppo (caposcorta, capitano di corvetta Beniamino Farina), ArditoCignoOrione e Generale Antonino Cascino; ma attacchi aerei subiti il mattino del 7 marzo avevano causato la perdita dell’Ines Corrado, mentre Orione, Ardito (che poche ore prima aveva affondato il sommergibile HMS Thunderbolt, che aveva tentato di attaccare il convoglio) e Cascino erano state distaccate per il recupero dei naufraghi. Il convoglio che la Ciclone incontrò al largo di Zembra, pertanto, era ridotto ai soli Estier e Balzac scortati da Groppo e Cigno (capitano di corvetta Carlo Maccaferri). Quando la Ciclone incontrò queste quattro navi, esse stavano procedendo a 9 nodi in linea di fila, con in testa la Groppo seguita nell’ordine da Cigno, Balzac ed Estier. La riunione avvenne alle 12.25; quando le altre navi la raggiunsero, la Ciclone si trovava già con la prua sull’isola di Zembra, navigando a lento moto su rotta 199° in attesa dell’arrivo delle navi da pilotare.
La rotta di sicurezza prescritta (rotta vera 199° con prua su Zembra) passava tra i campi minati difensivi italiani X 2 e X 3: tra l’estremità settentrionale del primo e quella meridionale del secondo esisteva un passaggio libero ampio appena quattro miglia e mezzo. Zembra distava venti miglia da tale varco, a nord del quale era avvenuta la riunione tra la Ciclone ed il convoglio.
Il caposcorta Farina della Groppo ordinò alla Ciclone di accodarsi al convoglio, che intanto aveva ridotto la velocità a 6 nodi, ed assunse personalmente la conduzione diretta della navigazione.
Pochi minuti dopo la riunione del convoglio con la Ciclone, alle 12.32, l’Henry Estier venne scosso da un’esplosione; rapidamente incendiatosi, il piroscafo colò a picco in breve tempo, tra lo sconcerto dei comandanti delle altre navi. Non si riusciva a capire che cosa avesse provocato l’esplosione, una mina oppure un siluro: l’Estier era la quarta nave della formazione e seguiva esattamente in linea di fila Groppo, Cigno e Balzac, dunque sembrava strano che, se ci fosse stata una mina, non fosse stata una delle tre navi che precedevano l’Estier ad attivarla. D’altra parte, nessuno aveva avvistato scie di siluri. Farina ordinò alla Ciclone di mettere a mare la propria motobarca per recuperare i naufraghi.
Poco dopo, alle 12.40, furono dei bombardieri ad attaccare il convoglio: ben quattro formazioni distinte di quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, che arrivarono in rapida successione da direzioni diverse, volando ad alta quota, ed iniziarono a sganciare una pioggia di bombe sul convoglio prima ancora di essere avvistati dalle navi (erano stati inviati sulla base di informazioni ottenute tramite la decrittazione di messaggi italiani intercettati poche ore prima dall’organizzazione "ULTRA", nei quali erano indicati porti ed orari di partenza e destinazione del convoglio: «Ines Corrado, Henri Estier, Balzac (…) sono partiti da Napoli alle 03.00 del giorno 6. (…) Balzac ed Henri Estier devono essere a Tunisi alle 15.30 del giorno 7 (…)»). Molte bombe caddero vicinissime ai bersagli; non appena si resero conto di essere sotto attacco, le navi aprirono subito il fuoco con i propri cannoni, e la Cigno invertì la rotta per diradare la formazione, mentre la Groppo restava vicino al Balzac, unico piroscafo superstite. Tutto inutile: alle 12.42, esattamente dieci minuti dopo l’affondamento dell’Estier, anche il Balzac venne colpito in pieno da diverse bombe, esplose ed affondò rapidamente. Non paghi, i bombardieri continuarono imperterriti il loro diluvio di bombe, sganciate a gruppi, indirizzate adesso contro le torpediniere. Grazie a pronte contromanovre, tutte e tre le siluranti riuscirono ad uscirne del tutto indenni. Ma ormai il convoglio non esisteva più: senza più una nave da scortare, al caposcorta Farina non rimase che ordinare a Ciclone e Cigno di provvedere al salvataggio dei superstiti di Estier e Balzac. Così fu fatto, ma le sventure di quella funesta giornata non erano ancora finite.

Alle 13.09, mentre Farina stava domandando al comandante Di Paola se egli ritenesse che anche l’Estier fosse stato colpito da bombe, la Ciclone, che in quel momento stava avvicinandosi al punto in cui era affondato l’Estier (oppure al relitto in affondamento del piroscafo, non è del tutto chiaro se si fosse già inabissato) per recuperarne i naufraghi, procedendo ad appena tre o quattro nodi, con l’ecogoniometro in funzione, venne a sua volta scossa a poppa da un’improvvisa esplosione, che fece sussultare tutta la nave. Alcuni uomini rimasero uccisi; altri, alcuni dei quali feriti, vennero lanciati in mare dall’esplosione. Questa volta si comprese subito che si era trattato di una mina: il convoglio era finito in un campo minato, l’Estier ne era stato la prima vittima e la Ciclone sarebbe stata la seconda. L’esplosione fu vista anche a bordo delle altre torpediniere: sulla Groppo il caposcorta Farina annotò che «alle 13.10 sulla poppa della Tp Ciclone si nota una colonna d’acqua. Si presume sia lo scoppio di una mina. Cigno conferma tale ipotesi». In quel momento, la Ciclone si trovava 18 miglia a nord di Zembra.
Pur essendo rimasta immobilizzata, leggermente appoppata e sbandata a sinistra, la torpediniera sembrò resistere abbastanza bene allo scoppio della mina: solo la poppa era stata interessata dall’esplosione, vi erano delle infiltrazioni d’acqua in sala macchine e vie d’acqua anche in altri punti, ma nel complesso la situazione era tale da far ritenere al comandante Di Paola che la nave sarebbe potuta rimanere a galla per parecchio tempo; pensò di poter riuscire a salvarla. Verso le 13.30 vennero issati a bordo gli uomini che l’esplosione aveva gettato in mare; il personale indenne che non aveva incarichi specifici venne radunato sul castello a dritta, mentre si approntava la braga da rimorchio prodiera nella speranza di potersi far prendere a rimorchio e portare in salvo. Groppo e Cigno, però, si stavano allontanando, con rotta verso sud.
Alle 13.50 circa (le 13.51 secondo il rapporto della Groppo) la situazione precipitò improvvisamente quando la Ciclone, andando alla deriva, urtò con la poppa una seconda mina, provocando una nuova esplosione. Lo scoppio asportò quello che restava della poppa e lanciò ovunque schegge, che ferirono altri membri dell’equipaggio; nella sala macchine poppiera aumentò l’ingresso di acqua dagli assi e soprattutto dalla paratia stagna, danneggiata dalla duplice detonazione. Dalle informazioni pervenute in plancia si sospettò che vi fosse anche un’altra via d’acqua sotto lo scafo. La Ciclone aumentò il suo appoppamento, sbandò ancor più sulla sinistra; la situazione si era tanto aggravata che il comandante Di Paola, che appena pochi minuti prima era stato convinto che la nave sarebbe potuta galleggiare ancora per molto, aveva ora l’impressione che la sua unità potesse affondare da un momento all’altro. Farina, nel suo rapporto, è ancora più esplicito, scrivendo di ritenere la Ciclone, dopo questa seconda esplosione, «ormai finita». Dal rapporto di Farina emerge anche il motivo dell’allontanamento di Groppo e Cigno dalla nave danneggiata: avendo osservato le due esplosioni a poppa della Ciclone alle 13.10 ed alle 13.51, seguite poco dopo da altre due esplosioni nelle vicinanze, Farina aveva giustamente compreso che la Ciclone doveva essere finita in mezzo ad un esteso campo minato avversario. Addentrarvisi per portare aiuto alla “collega” immobilizzata avrebbe rischiato di fare più male che bene: la possibilità che le unità soccorritrici finissero semplicemente col saltare a loro volta sulle mine era tutt’altro remoto. Quelle stesse acque erano già state oggetto, nei mesi precedenti, di tragedie simili: il 9 gennaio 1943 il cacciatorpediniere Corsaro era affondato su mine mentre tentava di soccorrere il cacciatorpediniere Maestrale, danneggiato da una mina; il 31 gennaio la torpediniera Generale Marcello Prestinari aveva fatto la stessa fine per cercare di soccorrere la corvetta Procellaria; il 3 febbraio era toccato al cacciatorpediniere Saetta, saltato mentre tentava di avvicinarsi alla torpediniera di scorta Uragano – gemella della Ciclone – che aveva perso la poppa su una mina. Con questi precedenti in mente, Farina giudicò saggiamente che fosse meglio non avvicinarsi alla Ciclone, dunque ordinò alla Cigno di seguire la Groppo e contattò Biserta per chiedere l’invio di mezzi veloci di salvataggio. In attesa dell’arrivo di questi ultimi, nonché di ulteriori disposizioni da parte di Supermarina, le due torpediniere si diressero a nord di Zembra e presero a pendolare in quelle acque. Essendosi guastata la radio della Groppo, Farina ordinò alla Cigno di informare Supermarina.

A bordo della Ciclone, intanto, la situazione appariva grigia. Dal castello della torpediniera venne avvistato alle 13.55 uno degli ordigni responsabili di tanta distruzione, chiaramente visibile a pochissima distanza: immobile, inerte, inanimata ed al contempo più pericolosa di qualsiasi nemico “umano”, una mina faceva minacciosa mostra di sé a soli cinque o sei metri dallo scafo della torpediniera, tre o quattro metri sotto la superficie del mare. Il comandante Di Paola la descrisse così nel suo rapporto: «…caratteristiche: un disco centrale del diametro di circa 10 cm leggermente sopraelevati dalla superficie della torpedine; non si notano urtanti. Lo stato di conservazione della torpedine è ottimo: nessuna traccia di ossidazione e vegetazione sulla sua superficie». Né avrebbe potuto essercene, di vegetazione: quella mina, così come le altre che la Ciclone e l’Estier avevano urtato, era lì da neanche tre giorni. Il posamine veloce britannico Abdiel (capitano di vascello David Orr-Ewing) aveva infatti posato un campo minato (indicato dalle fonti italiane come “numero 11”) in quelle acque, dieci miglia ad est di Capo Bon, nella notte tra il 4 e il 5 marzo. Questo nuovo campo minato era stato posato vicinissimo ai due sbarramenti difensivi italiani, X 2 e X 3, tra i quali passava la rotta di sicurezza che il convoglio aveva imboccato: l’Abdiel aveva posato le sue 160 mine a nord dello sbarramento X 2 e ad est dell’X 3, cioè proprio sulla rotta di sicurezza di Zembra. Non era un caso: i britannici conoscevano la posizione degli sbarramenti difensivi italiani, grazie alle intercettazioni di "ULTRA" ed a documenti catturati, ed avevano appositamente inviato l’Abdiel a posare le sue mine nel “corridoio” sicuro che le navi attraversavano. Andando incontro al convoglio, anzi, la Ciclone doveva aver inconsapevolmente attraversato il campo minato, senza causare esplosioni per puro caso. (Interessanti, in proposito, le annotazioni sul diario di guerra della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine: in merito alla perdita di Estier, Balzac e Ciclone, vi venne riportato in un primo momento che “in base ad un rapporto dell’aviazione sulla posizione, è possibile che il BALZAC, l’ESTIER e la torpediniera siano stati affondati dalle nostre stesse mine”, mentre successivamente fu annotato che “le mine sono state probabilmente posate da un sommergibile lungo la rotta di traffico [che passa] tra i nostri campi minati. Nelle presenti condizioni è improbabile che le nostre navi potessero urtare le nostre mine”).
Alle 14.05, ritenendo che fosse imminente un’altra esplosione, Di Paola diede ordine di abbandonare la nave. L’equipaggio scese ordinatamente sulle zattere e sulle imbarcazioni, mantenendo la massima calma; il comandante Di Paola s’imbarcò sulla motolancia, sulla quale aveva fatto portare la carta di navigazione, alcune altre carte nautiche, i brogliacci radio e di navigazione, la cassetta dei documenti segreti che si trovava in plancia, il foglio assegni della contabilità del mese di febbraio, e la cartella di guerra che conteneva tutte le notizie utili alla navigazione. La carta "Mirafiori", sulla quale erano indicati i campi minati del Canale di Sicilia, venne invece bruciata. Alle 14.30 non c’era più nessuno sulla Ciclone; tra quell’ora e le 14.30 e le 17.30 la motolancia al comando di Di Paola setacciò il mare attorno all’ormai deserta torpediniera, raccogliendo i naufraghi e prendendo a rimorchio le altre imbarcazioni e le zattere; poi si allontanò di circa un chilometro dalla Ciclone, sempre portandosi a rimorchio il resto dei galleggianti carichi di naufraghi. Verso le 17 un idrovolante CANT Z. 506 ammarò vicino a due imbarcazioni che la Cigno aveva lasciato in mare prima di allontanarsi, due o tre chilometri più a sud del punto in cui si erano radunate le imbarcazioni della Ciclone; l’idrovolante ripartì dopo circa venti minuti.
I mezzi di soccorso richiesti dalla Groppo arrivarono finalmente alle 18.30 (per altra fonte, verso le 18): i MAS 552 e 554 e le motosiluranti MS 13 e MS 21, partite da Biserta al comando del capitano di corvetta Luigi Ghittoni (secondo il diario operativo della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine, avrebbero partecipato ai soccorsi anche motodragamine tedeschi della 6. Räumboots-Flottille). Il comandante Di Paola fece trasbordare sulle motosiluranti i feriti e la quasi totalità dei naufraghi illesi presenti sulle zattere, mentre le scialuppe contenenti gli altri naufraghi della Ciclone ed anche quelli di Estier e Balzac vennero da queste prese a rimorchio. Terminato il trasbordo, Di Paola disse a Ghittoni che sarebbe rimasto sulla motolancia insieme al comandante in seconda e ad otto uomini validi, con l’intenzione di restare vicino alla Ciclone – che nonostante tutto continuava a galleggiare –, aspettando che arrivassero mezzi idonei a tentarne il rimorchio. Ghittoni gli mise a disposizione per questo scopo il MAS 554, dunque alle 19 Di Paola e gli altri nove uomini trasbordarono dalla motolancia su questo MAS; il comandante di quest’ultimo, capo nocchiere di seconda classe Giuseppe Prati, informò Di Paola della posizione in cui si trovavano, e da ciò il comandante della Ciclone poté stimare che la sua torpediniera era andata scarrocciando verso sudest di cinque o sei miglia. Intanto le due motosiluranti ed il MAS 552 avevano fatto rotta per Biserta, dove giunsero alle 23.30, sbarcando i naufraghi della Ciclone e dei due piroscafi.
A frustrare le speranze di un salvataggio della Ciclone ci si misero anche le condizioni meteorologiche: alle 19 il vento, che fino allora aveva soffiato da Maestrale, girò improvvisamente a scirocco, aumentando gradualmente di forza; alle 22 anche lo stato del mare era in peggioramento, ed entro le due di notte (per altra fonte, le 00.25) dell’8 marzo le condizioni del mare erano diventate insostenibili per il MAS. Di Paola decise pertanto di fare rotta su Biserta, sperando d’incontrare per strada qualche mezzo di soccorso diretto verso la Ciclone, sul quale sarebbe potuto trasbordare. Ma le sue aspettative rimasero deluse: non trovò nessuno, e giunse a Biserta alle 7.30 di quel mattino. Ma qui non rimase che mezz’ora; trasbordato sulla MS 21 con i suoi nove uomini, Di Paola ripartì da Biserta già alle 8.05 dell’8 marzo per raggiungere nuovamente la sua nave.

Groppo e Cigno, intanto, essendo finite col trovarsi più vicino a Tunisi che non a Biserta, erano entrate in quella rada – anche per sbarcarvi alcuni naufraghi feriti dei mercantili affondati, che la Cigno aveva recuperato – e vi avevano sostato per parecchie ore; prima dell’alba presero nuovamente il mare per cercare la Ciclone, che per effetto del vento e del mare era scarrocciata di parecchie miglia verso nord. Allo stesso scopo salparono due dragamine da Tunisi ed un rimorchiatore da Biserta.
Alle 10.25 la Groppo e la Cigno raggiunsero finalmente la Ciclone; la Groppo prese immediatamente a rimorchio la torpediniera danneggiata, facendo rotta per Marettimo, mentre la Cigno ne assunse la scorta. Alle 11.40 giunse sul posto anche la MS 21 con il comandante Di Paola.
Il rimorchio si protrasse per un paio d’ore, ma alle 12.48 il mare grosso provocò la rottura del cavo: il capitano di corvetta Di Paola coi suoi nove uomini tentò di trasbordare sulla Ciclone per ristabilire il rimorchio, ma le condizioni del mare e l’assetto della torpediniera, la cui agonia era ormai giunta alla fine, non gli consentirono di risalire a bordo. Alle 13.25 la Ciclone levò la prua verso il cielo e colò a picco nel punto 37°40’ N e 10°59’ E (quasi al centro del Canale di Sicilia, leggermente spostato verso nord: a nord di Capo Bon, 70 miglia a nordest di Biserta ed a sudovest delle Egadi, quasi esattamente a metà strada tra Trapani e Biserta), circa cinque miglia a sud del punto in cui erano affondati Estier e Balzac.

Lo stesso 8 marzo "ULTRA" intercettò e decifrò comunicazioni italiane sull’accaduto, che permisero ai comandi britannici di apprendere del successo degli attacchi lanciati: «Nel convoglio di tre navi che dirigeva verso i porti tunisini nella giornata del 7 la Ines Corrado è stata colpita da bombe (…) incendiata e fermata (…) mentre entro le 15 del 7 (…) l’Henri Estier ed il Balzac sono stati affondati. La Ciclone, una torpediniera di scorta, è stata danneggiata da una mina a 18 miglia a nord di Zembra». Il giorno seguente, nuove decrittazioni aggiunsero che «La torpediniera Ciclone, che scortava l’Henri Estier ed il Balzac e che era incappata sulle mine, è affondata intorno alle 14.00 dell’8».

Dei 158 uomini che componevano l’equipaggio della Ciclone, quattordici (quindici secondo il volume "La guerra di mine" dell’USMM) avevano perso la vita, uccisi dalle due esplosioni delle mine che avevano demolito la poppa.

I loro nomi:

Enzo Bachini, sottocapo silurista, da Reana del Rojale (disperso)
Giulio Bendoricchio, marinaio torpediniere, da Dignano d’Istria (disperso)
Giuseppe Bosia, marinaio cannoniere, da Asti (deceduto)
Spartaco Corsini, marinaio cannoniere, da Pistoia (disperso)
Domenico D’Arrigo, marinaio, da Catania (disperso)
Egidio Dragogna, marinaio torpediniere, da Albona (disperso)
Vincenzo Infante, marinaio cannoniere, da Minori (disperso)
Francesco Lai, marinaio fuochista, da Sassari (disperso)
Giovanni Madaro, sottocapo cannoniere, da Francavilla Fontana (disperso)
Napoleone Masini, marinaio fuochista, da Roma (disperso)
Pasquale Massa, sottocapo fuochista, da Napoli (disperso)
Carmelo Pulvirenti, marinaio, da Acireale (disperso)
Duilio Resti, sottocapo silurista, da Montevarchi (deceduto)
Mario Schiavone, marinaio fuochista, da Bari (disperso)


Alla memoria di tutte le vittime fu conferita la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione: "Imbarcato su naviglio silurante, partecipava a numerose rischiose missioni di scorta convogli in acque fortemente insidiate dall’avversario. Nel corso di una di esse, in seguito ad urto della propria Unità contro torpedini avversarie, mentre un furioso attacco aereo si abbatteva sul convoglio, coronava l’opera di dovere sempre serenamente compiuta con l’estremo tributo della propria vita".
L’albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale elenca anche un altro caduto della Ciclone, il Giovanni Dori da Pola, che tuttavia sarebbe deceduto il 28 maggio 1944, a più di un anno dall’affondamento della torpediniera, e per di più “in Jugoslavia”. È forse possibile che si trattasse di un superstite della Ciclone rimasto gravemente ferito nell’affondamento, e deceduto oltre un anno dopo (dal momento che nell’Albo in questione il “territorio metropolitano” italiano e la “Jugoslavia” sono definiti nei confini postbellici, il termine “Jugoslavia” potrebbe anche riferirsi alla stessa Pola); oppure, più semplicemente, si tratta di un errore dell’Albo.
I 144 superstiti della Ciclone, sbarcati a Biserta, vi rimasero per tre giorni, dopo di che vennero trasferiti a Tunisi e da lì rimpatriati per via aerea una settimana più tardi, raggiungendo Taranto dopo scali intermedi a Palermo e Messina.