Il Brenta in Sudafrica nella seconda metà degli anni ’30 (John H. Marsh
– Maritime Research Centre di Capetown, via Mauro Millefiorini e www.naviearmatori.net)
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Piroscafo da carico da 5400 tsl, 3319 tsn e 8550 tpl, lungo 118,85 metri e largo 16,44, pescaggio 9,75 metri, velocità 10,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino (con sede a Trieste), matricola 92 al Compartimento Marittimo di Trieste.
Breve e parziale cronologia
1917
Varato nei cantieri
San Rocco di Muggia come Narenta per la Navigazione Libera Triestina, all’epoca
ancora austroungarica. I lavori vengono ritardati dalla guerra ancora in corso,
al termine della quale la Navigazione Libera Triestina diverrà una compagnia
italiana.
1920
Completato come Brenta per la Navigazione Libera
Triestina. Ha quattro gemelli: Laguna,
Maiella, Cherca ed Isonzo.
19 maggio 1921
Il Brenta viene speronato dal piroscafo Tampa della Inter-Ocean Company, finito
fuori controllo a seguito di un’avaria al timone, al largo di Chalmette Point
(New Orleans). La collisione apre una falla nella prua del Brenta, che deve essere portato a posarsi su un basso fondale
fangoso nei pressi del luogo dell’incidente.
1923-1925
Viene noleggiato dal
Lloyd Triestino, per il quale viaggia con il nome di Brenta II. A seguito del
ritorno al servizio per la NLT, nel 1925, la nave riassumerà il nome di Brenta.
27 dicembre 1926
Il Brenta viene sottoposto a sequestro
giudiziario negli Stati Uniti a causa di una disputa legale tra la NLT e le
compagnie statunitensi United States Steel Products Company, Vacuum Oil Company
e Bunge North American Grain Corporation.
Partito da Valencia
il 15 novembre 1926 con un carico di cipolle ed altro (pomodori, olio d’oliva)
nella stiva numero 2 (oltre che negli interponti 1, 4, 5 e 6) e 900 tonnellate
di carbone nella stiva numero 3, diretto a New York, il Brenta vi è infatti arrivato il 4 dicembre e si è scoperto che le
cipolle, partite in buone condizioni, si sono deteriorate; le compagnie
destinatarie accusano gli armatori e l’equipaggio di negligenza.
Risulterà poi,
tuttavia, che il carico ha subito degli spostamenti, ma non a causa di errato
stivaggio (è stato stivato correttamente), bensì del tempo particolarmente
avverso incontrato, che ha anche prolungato il viaggio di quattro giorni
rispetto al normale, oltre ad impedire di tenere continuamente aperti i
portelloni per ventilare il carico. Il 20 novembre è scoppiato a bordo un
incendio, causato da combustione spontanea del carbone nella stiva numero 3; le
fiamme sono state prontamente domate, ma il carico di cipolle ha subito
ulteriori danni.
Alla fine viene
concluso che nessuno dei problemi sorti durante il viaggio, ed il
danneggiamento del carico, sono dovuti a negligenza da parte dell’equipaggio od
inadeguatezza della nave, che pertanto viene rilasciata.
14 ottobre 1927
Alle otto del mattino
il Brenta, durante la navigazione
verso la Columbia britannica, soccorre l’equipaggio della goletta statunitense Flowerdew nel Mar dei Caraibi, 200
miglia al largo di Savannah. I sei uomini dell’equipaggio della goletta, in
lento affondamento a causa di vie d’acqua apertesi nello scafo, stanno tentando
da tre giorni di tenere la loro nave a galla: quando avvistano il fumo del Brenta in lontananza, la Flowerdew è quasi completamente
sommersa. L’equipaggio della goletta issa un segnale per chiedere aiuto, e la
nave italiana risponde che sta dirigendosi a soccorrerli; i sei uomini
abbandonano la Flowerdew, che
successivamente affonda, su una scialuppa, e vengono issati a bordo del Brenta. Dato che quest’ultimo è diretto
nella Columbia britannica, mentre l’equipaggio della Flowerdew vorrebbe essere sbarcato a Portland, si decide di
trasbordarlo sulla prima nave diretta verso est che verrà incontrata: i
naufraghi vengono così trasferiti in serata sul piroscafo Santa Veronica. Dopo
il salvataggio, il Brenta annuncia
anche l’accaduto via radio.
22 febbraio 1931
Porta da Napoli a
Castellammare di Stabia, dove arriva alle 9.30, un centinaio di ospiti di
riguardo invitati alla cerimonia del varo del veliero scuola Amerigo Vespucci.
1935
Il Brenta è in servizio sulla linea
Adriatico-Africa Orientale.
1937
Con l’assorbimento
della Navigazione Libera Triestina nel Lloyd Triestino, il Brenta passa nella flotta di quest’ultima compagnia.
Maggio 1940
Ad inizio del mese il
Brenta viene sottoposto a temporaneo
fermo per controllo da parte delle autorità alleate. Il risultato è che, per il
ritardo causato dai controlli, gran parte del carico (orzo e grano) viene
rovinato dagli insetti.
Massaua
Quando l’Italia entrò
nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, il Brenta era tra la ventina di navi mercantili italiane che si
trovavano nel porto eritreo di Massaua, sul Mar Rosso, nella colonia
dell’Africa Orientale Italiana.
La fine, per queste
navi bloccate fuori dal Mediterraneo e senza nessuna possibilità di recarsi
altrove, era solo rimandata rispetto alle decine di mercantili italiani
catturati od autoaffondati in tutto il mondo subito dopo la dichiarazione di
guerra.
Come tutti gli altri
mercantili rimasti in Eritrea, il Brenta
passò i successivi dieci mesi fermo ed inattivo nel porto di Massaua, attendendo
passivamente il susseguirsi degli eventi che alla fine, inevitabilmente,
avrebbero portato alla caduta dell’Africa Orientale Italiana, circondata da
colonie britanniche e del tutto priva di qualsiasi possibilità di rifornimento.
Dopo l’iniziale avanzata del giugno 1940, le truppe italiane dovettero
ripiegare sulla difensiva e poi arretrare sempre più: la Somalia cadde nel
febbraio 1941, di lì a due mesi sarebbe toccato all’Eritrea.
La fine venne
nell’aprile del 1941: ad inizio aprile era ormai evidente che nel giro di pochi
giorni le forze britanniche avrebbero preso Massaua. Già da tempo era stata
presa in esame la questione di cosa fare del naviglio italiano in Eritrea,
nella quasi totalità concentrato nel porto di Massaua: tra fine febbraio e
marzo furono fatte partire le poche navi che avevano scafi e macchine in buone
condizioni, velocità non troppo bassa ed autonomia sufficiente a raggiungere
porti amici o benevolmente neutrali in Francia (per i sommergibili) ed in
Giappone (per le navi di superficie). Presero così il mare le motonavi India ed Himalaya, la nave coloniale Eritrea,
i sommergibili Perla, Guglielmotti, Ferraris ed Archimede, il
piroscafo Piave e gli incrociatori
ausiliari RAMB I e RAMB II. L’India ed il Piave furono
costretti a tornare indietro, il RAMB I
fu affondato nell’Oceano Indiano, mentre le altre unità riuscirono a
raggiungere le loro destinazioni.
Per tutte le altre
navi, che non potevano lasciare l’Eritrea, l’unica sorte possibile era la
distruzione: i cacciatorpediniere rimasti partirono per un’ultima missione
suicida contro Porto Sudan, mentre per il naviglio mercantile ed ausiliario,
parte a Massaua e parte nelle poco distanti Isole Dahlak, venne deciso
l’autoaffondamento in massa, con il duplice scopo di non far cadere intatte le
navi in mano nemica e di bloccare e rendere inutilizzabile per lungo tempo il
porto di Massaua. Il piano predisposto dal comandante superiore navale
dell’A.O.I., contrammiraglio Mario Bonetti, prevedeva che l’imboccatura del
porto militare venisse ostruita da una fila di cinque navi (i mercantili Moncalieri, XXIII Marzo, Oliva ed Impero e la torpediniera Giovanni Acerbi) oltre a due bacini
galleggianti da affondare più internamente; altre quattro navi (i mercantili Crefeld, Ostia, Gera ed Adua) ed un pontone gru si sarebbero
autoaffondate in ordine sparso lungo il più ristretto accesso al porto
commerciale, mentre l’imboccatura del porto meridionale, quella più grande,
sarebbe stata bloccata da una fila di sette mercantili (Alberto Treves, Niobe, Vesuvio, Frauenfels, Brenta, Colombo e Liebenfels).
Fu questa la fine del
Brenta: il 4 aprile 1941 il piroscafo
si autoaffondò all’imboccatura del porto meridionale di Massaua, secondo
l’ordine prestabilito, in linea di fila, tra il transatlantico italiano Colombo (a poppa) ed il mercantile
tedesco Frauenfels (a prua).
Tre foto del relitto del Brenta, per g.c. di Edward (Ted)
Ellsberg Pollard, nipote di Edward Ellsberg, autore del recupero e delle
fotografie. Lo scafo rovesciato in secondo piano è quello del transatlantico Colombo, dietro al quale si vede il
relitto del piroscafo tedesco Liebenfels.
Una foto cronologicamente
successiva dei relitti del Brenta e
del Colombo: Liebenfels e Frauenfels
sono scomparsi, già recuperati (g.c. Ted Pollard).
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Quattro giorni dopo,
l’8 aprile, le forze britanniche occuparono Massaua, trovandovi nel porto un
autentico cimitero di navi: 18 mercantili e navi ausiliarie tra italiane e
tedesche, una torpediniera, un posamine e 13 unità di minori dimensioni,
insieme a due grossi bacini galleggianti ed ad un pontone gru, si erano
autoaffondati secondo il piano del contrammiraglio Bonetti.
L’equipaggio del Brenta venne internato. Il marinaio chersino
Giuseppe Pavolini, un membro dell’equipaggio del piroscafo, morì in prigionia
il 21 febbraio 1945 ad Embatkalla, in Eritrea.
A Massaua, dopo
l’occupazione, le autorità britanniche avviarono le operazioni di bonifica del
porto (affidate dapprima al tenente di vascello Peter Keeble della riserva
della Royal Navy e successivamente, nell’aprile 1942, ad una squadra di
specialisti al comando del capitano di fregata Edward Ellsberg dell’US Navy),
per rimuovere i relitti e rendere il porto nuovamente agibile, ma solo a
partire dal maggio 1942 il porto di Massaua divenne nuovamente utilizzabile.
Il recupero del Brenta si rivelò uno dei più pericolosi:
nella stiva prodiera, infatti, prima di autoaffondare la nave, era stata
collocata una trappola esplosiva composta da una mina navale innescata ed
appoggiata sulle testate di tre siluri. Oltre a ciò, erano state sistemate
nelle stive della nave parecchie altre mine e testate di siluri; per
disinnescarle e rimuoverle, prima di procedere al recupero della nave, al
tenente di vascello Keeble dovette essere affiancato il sottotenente di
vascello Cox della Royal Australian Navy, un ufficiale specializzato nelle
operazioni di sminamento. Le operazioni continuarono poi sotto la direzione del
comandante Ellsberg, che rimosse sei mine ed una ventina di testate di siluri nel
novembre 1942.
Da alcune lettere del
comandante Ellsberg:
11 novembre 1942:
“(…) Locally we are still soaked up in salvage. My salvage ship which lately
raised the Tripolitania in a week, has gone back to work on the Brenta, which job we suspended
temporarily while we were examining the unexploded mines and torpedo warheads
we had already removed from the forehold of that vessel. Another salvage ship
began rigging up for lowering the second pair of pontoons on our sunken derrick.
My third ship is working sealing up the submerged deck of the XXIII Marzo (Mussolini could explain
what that means) which we shall try to lift with compressed air, as the holes
in her bottom are quite terrific. And my fourth salvage ship is wintering as you
know, in the salubrious climate of the West Indies. Perhaps Mrs. Whiteside’s
letter (when I get it from you) will help to explain why. (…)”
13 novembre 1942:
“Tomorrow we sink our third pontoon on our sunken derrick. A busy day for me, I
imagine. Today we removed a second mine from the hulk of the Brenta (we have already removed one and
eight torpedo warheads) but find on closer examination of the hold that there
are four more mines and about a dozen warheads still left to hoist out.”
Sopra: l’acqua viene pompata
fuori dallo scafo del Brenta durante
il recupero. Sotto: recupero di mine dal relitto del Brenta. Tutte le foto sono di Ted Pollard.
Il relitto del Brenta, recuperato dagli occupanti britannici, venne dichiarato buona preda e demolito nel 1951.
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