Piroscafo da carico
da 5857 tsl, 3408 tsn e 8650 tpl, lungo 120,1 metri e largo 15,5, pescaggio di
8,5 metri, velocità 9,5 nodi. Appartenente all’armatore genovese Giovanni
Gavarone ed iscritto con matricola 1200 al Compartimento Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
1923
Costruito dalla
Società Anonima Cantieri Cerusa di Genova (numero di cantiere 104) per il Lloyd
Mediterraneo – La Meridionale di Navigazione, anch’essa con sede a Genova, come
Valcerusa.
1926-1927
Viaggia tra Italia e Nordeuropa,
Stati Uniti, Canada, Spitzbergen, Falkland, Argentina.
Ad inizio dicembre
1926 il Valcerusa s’incaglia al largo
della costa canadese ed imbarca acqua, venendo costretto a rientrare a Quebec.
Un’altra immagine del varo del Valcerusa (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net) |
Il Valcerusa subito dopo il varo (g.c. Nedo B. Gonzales, da una pubblicazione dei Cantieri Cerusa) |
Settembre 1933
Il Valcerusa, mentre si trova ancorato
presso Capo Goose, viene speronato dal piroscafo Pengarrow, riportando seri
danni: la nave italiana riesce infatti ad arrivare a Quebec con i propri mezzi,
ma con quasi cinque metri d’acqua nella stiva numero 4, tanto che 200
tonnellate del carico devono essere sbarcate prima che la nave possa portarsi
all’ormeggio. I danni, valutati in 24.500 dollari, vengono riparati entro la
prima decade di ottobre.
1935
Essendo il Lloyd
Mediterraneo in crisi (scomparirà di lì a tre anni), il Valcerusa, insieme ad altri cinque piroscafi della compagnia (Valfiorita, Vallescura, Vallarsa, Valleluce e Valprato), viene acquistato dall’armatore genovese Giovanni
Gavarone, titolare delle Industrie Navali Società Anonima (INSA) e ribattezzato
Grazia.
Il Grazia con i colori dell’armatore Gavarone (g.c. Claude Rabault/www.archeosousmarine.net)
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La prima vittima
Prima dello scoppio
della seconda guerra mondiale, il Grazia
effettuava traffico locale tra il porto britannico di Dover e quello polacco di
Gdynia, spingendosi saltuariamente sino in Italia, ma la guerra e l’occupazione
della Polonia misero rapidamente fine a questo servizio.
Il mattino del 19
novembre 1939, poco più di due mesi dopo l’inizio della guerra, il Grazia, partito da Newcastle al comando
del capitano Giovanni Raimondi, un lupo di mare genovese, e diretto a Trieste
con un carico di carbone ed un equipaggio di 32 uomini, si stava dirigendo
nella zona dove le unità britanniche svolgevano i controlli sui carichi
trasportati dai mercantili neutrali, al largo di Newcastle. I venti di guerra
ancora non soffiavano per l’Italia, le cui navi mercantili continuavano a viaggiare
tra i porti di tutto il mondo, ma occorreva comunque prestare attenzione,
specie nel Mare del Nord, cosparso di mine, che non operavano alcuna
distinzione tra navi nemiche, amiche e neutrali. Il mare era agitato, con onde
alte e vento forza 4, ma questo non ostacolava la visibilità, che rimaneva
discreta.
Intorno alle 10.45
ora britannica (11.45 ora italiana; per altra versione 10.45, o 11) del mattino
il comandante Raimondi aveva finito da appena cinque minuti di scrivere una
lettera alla famiglia, con cui diceva che ormai il Grazia era al di fuori della zona di pericolo (ormai era una
questione di controlli di formalità, poi la nave sarebbe proseguita senza
problemi verso Trieste), quando al largo di Foreland il piroscafo urtò con la
prua una mina che sollevò una colonna d’acqua e rottami. L’esplosione fu
sentita anche da terra, a sei miglia di distanza, da dove poi si vide levare
una colonna di acqua e fumo.
Raimondi
immediatamente lanciò il segnale di abbandono nave (sette colpi di sirena a
breve intervallo) ed ordinò all’equipaggio di andare alle scialuppe, ma mentre
l’ordine veniva eseguito il Grazia
urtò una seconda mina a centro nave, e subito dopo una terza che ne devastò la
poppa.
Il radiotelegrafista
Francesco Boschi, che aveva da poco mangiato ed era stato sorpreso dallo
scoppio della prima mina mentre si accingeva a salire una scala che portava in
plancia per raggiungere la stazione radio, corse su per una scaletta ed irruppe
nella stazione radio – intenzionato a lanciare l’SOS se necessario – solo per
scoprire che l’esplosione ed il contraccolpo avevano strappato dalla paratia e
gettato in pezzi, sul tavolo e sul pavimento, tanto la radio principale quanto
quella d’emergenza, sia trasmittente che ricevente. Proprio allora il
comandante Raimondi, che si trovava nell’adiacente timoniera, gli ordinò di
lanciare l’SOS, comunicando che la nave stava affondando sei miglia a
nord-nord-est da North Foreland: Boschi non poté che rispondergli che era
impossibile perché la radio era fuori uso, e Raimondi, dopo essersi affacciato
alla porta che metteva in comunicazione i due locali ed averlo constatato di
persona, gli ordinò di andare a poppa per imbarcarsi sulle lance. Il Grazia stava affondando rapidamente, ma
Boschi cercò prima di recuperare il brevetto da marconista che teneva in un
cassetto: il cassetto, tuttavia, era incastrato, ed il radiotelegrafista
dovette rinunciare e precipitarsi a poppa sul ponte lance, punto di raduno
dell’equipaggio.
Nel farlo, però,
Boschi sentì un carbonaio invocare aiuto: era rimasto intrappolato nella
cambusa, la cui porta era bloccata da ferri contorti. Con non poco lavorio
Boschi riuscì a liberare il carbonaio, poi entrambi si diressero di corsa a
poppa, separandosi per dirigersi verso le rispettive lance cui erano assegnati
proprio mentre si verificava la seconda tremenda esplosione. Cinque uomini
furono gettati in mare dall’esplosione, che spezzò in due la nave.
L’equipaggio mantenne
calma e freddezza; una delle tre lance di salvataggio fu travolta, mentre le
altre due poterono essere calate (per altra fonte fu possibile usare solo le
due scialuppe di poppa a causa dello sbandamento). Il direttore di macchina Lorenzo
Vassallo, da Imperia, riuscì frattanto a mettersi in contatto mediante una
piccola radio con il cacciatorpediniere britannico Gipsy, informandolo dell’accaduto e ricevendo risposta. Anche da
terra, dopo aver osservato l’esplosione, fu ordinato ai cacciatorpediniere Gipsy e Griffin di dirigere alla massima velocità sul luogo del disastro;
prese il mare anche un rimorchiatore di salvataggio, ed in un secondo momento
fu fatto decollare un aereo per segnalare alle unità soccorritrici la posizione
dei naufraghi.
Il radiotelegrafista
Boschi stava per calarsi nella sua scialuppa quando si verificò a poppa la
terza esplosione, che lo fece finire in acqua a sei o sette metri dalla lancia.
Nuotando nel mare grosso, il marconista raggiunse l’imbarcazione e fu tirato a
bordo dai compagni, poi la lancia si allontanò dalla nave agonizzante.
Il comandante
Raimondi lasciò in cabina la troppo ottimistica lettera appena scritta, sul
tavolo, e con essa i pantaloni, che contenevano dei cari ricordi di famiglia ma
che in acqua sarebbero stati solo d’intralcio, impedendo di nuotare. Come da
tradizione abbandonò per ultimo la sua nave, che affondò un quarto d’ora dopo
aver urtato le mine, 5 miglia a nord di Foreland.
Il capitano Raimondi
portò in braccio il marinaio Baldassarre Sanfilippo, gravemente ferito dagli
scoppi, sino alle scialuppe, lo depose in una lancia e diresse la messa a mare
delle due imbarcazioni.
Copertina del giornale “Il Mattino Illustrato” ritraente il comandante Raimondi che abbandona per ultimo la nave portando in braccio il corpo esanime di Baldassarre Sanfilippo (da www.portodiravenna.com) |
Una volta in acqua,
gli occupanti delle due lance dovettero lottare per impedire che le scialuppe
fossero capovolte dalle onde o travolte dal risucchio della nave in
affondamento. Le onde continuavano a riversare acqua nelle lance, che doveva
essere sgottata di continuo.
Baldassarre
Sanfilippo morì tra le braccia del comandante Raimondi prima di arrivare a
Dover.
Il pronto arrivo dei
cacciatorpediniere Gipsy e Griffin permise il salvataggio di 26
uomini, ma altri cinque, oltre a Sanfilippo, risultarono mancanti all’appello: uccisi
dalle esplosioni o scomparsi nelle fredde ed agitate acque del Mare del Nord. Il
rimorchiatore di salvataggio avvistò uno dei corpi, ma il mare mosso vanificò
ogni tentativo di recuperarlo.
Gli uomini nella
lancia con il radiotelegrafista Boschi, dopo aver lottato per un’ora con la
furia degli elementi, vennero tratti in salvo dal Griffin, quelli dell’altra imbarcazione dal Gipsy, i cui marinai diedero ai naufraghi italiani vestiti asciutti
ed ogni assistenza. Solo dopo aver avuto la certezza che in mare non vi fosse
più nessuno che potesse essere salvato, i sopravvissuti accettarono di essere
portati a terra.
Quindici naufraghi,
tra cui il comandante Raimondi, furono recuperati dal Gipsy e sbarcati per primi a Dover il 19 novembre, mentre il Griffin raggiunse a sua volta Dover alle
dieci del 20 novembre, con altri undici sopravvissuti.
La salma di
Baldassarre Sanfilippo, recuperata dal Gipsy
insieme ai 15 superstiti, venne portata in camera mortuaria a Dover. I corpi
dei cinque dispersi, invece, non vennero mai ritrovati.
I 26 sopravvissuti
del Grazia, grazie alle premure sia
delle autorità britanniche che del commissario consolare italiano di
Folkestone, Ronco, raggiunsero Londra il 21 novembre (dove arrivarono alla
stazione di Charing Cross e si recarono nel pomeriggio a deporre presso il
consolato italiano) e furono rimpatriati da Modane il 26 novembre 1939,
arrivando alla stazione di Piazza Principe a Genova alle 15 di quel giorno: ad
attenderli c’erano i loro parenti, l’armatore Giovanni Gavarone ed il
segretario provinciale della Federazione della gente di mare (che li accolse a
nome del presidente della Federazione Lembo). Il capitano Raimondi, dopo aver
elogiato il comportamento tenuto dai suoi uomini, si recò con il resto
dell’equipaggio nella Capitaneria di Porto, dove tenne una “conferenza stampa”
sull’accaduto.
I sopravvissuti del Grazia a Genova. In prossimità del limite sinistro del monumento, in giacca e cravatta, sono l’armatore Giovanni Gavarone (al centro), il capitano Giovanni Raimondi (a destra di Gavarone per chi guarda al foto), il direttore di macchina Lorenzo Vassallo (a sinistra di Gavarone) e, in secondo piano tra Gavarone e Vassallo, il primo ufficiale Carlo Remaggi (Archivio storico La Stampa).
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La nave salvatrice
dei naufraghi del Grazia, il Gipsy, aveva le ore contate: il 21
novembre 1939, infatti, il cacciatorpediniere britannico fece la stessa fine
della nave italiana, saltando su una mina ed affondando davanti ad Harwich.
Il Grazia fu la prima nave italiana ad
affondare nella seconda guerra mondiale. Le mine su cui era affondato erano
state posate dai cacciatorpediniere tedeschi Hans Lüdemann e Karl Galster
al largo dell’estuario del Tamigi, nella notte tra il 12 ed il 13 novembre
1939, nel corso di una più ampia operazione di minamento di quelle acque.
Il relitto del
piroscafo giace 5 miglia a nord di Foreland, in posizione 51°28’3826 N e
001°27’3836 E.
Morirono nell’affondamento del Grazia:
Michele Fodale, da Genova (primo ufficiale di
macchina)
Luigi Hauswirth, da Campomorone (cameriere)
Giuseppe Gherzi, da Varazze (carbonaio)
Leopoldo Gugliotta, da Pozzallo (marinaio)
Giuseppe Ognio, da Alghero (fuochista)
Baldassarre Sanfilippo, da Palermo (marinaio)
Furono i primi della
lunghissima schiera di marittimi della Marina mercantile, 7164 uomini, che
avrebbero trovato la morte in guerra nei sei anni a venire.
Una serie di articoli della "Stampa" sull'affondamento del Grazia:
Un dipinto ritraente l’affondamento del Grazia (da www.portodiravenna.com) |
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