sabato 22 marzo 2014

Grazia

3 ottobre 1923: varo del piroscafo Valcerusa, futuro Grazia (g.c. Nedo B. Gonzales, da una pubblicazione dei Cantieri Cerusa)

Piroscafo da carico da 5857 tsl, 3408 tsn e 8650 tpl, lungo 120,1 metri e largo 15,5, pescaggio di 8,5 metri, velocità 9,5 nodi. Appartenente all’armatore genovese Giovanni Gavarone ed iscritto con matricola 1200 al Compartimento Marittimo di Genova.
 
Breve e parziale cronologia.
 
1923
Costruito dalla Società Anonima Cantieri Cerusa di Genova (numero di cantiere 104) per il Lloyd Mediterraneo – La Meridionale di Navigazione, anch’essa con sede a Genova, come Valcerusa.
1926-1927
Viaggia tra Italia e Nordeuropa, Stati Uniti, Canada, Spitzbergen, Falkland, Argentina.
Ad inizio dicembre 1926 il Valcerusa s’incaglia al largo della costa canadese ed imbarca acqua, venendo costretto a rientrare a Quebec.

Un’altra immagine del varo del Valcerusa (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net)

Il Valcerusa subito dopo il varo (g.c. Nedo B. Gonzales, da una pubblicazione dei Cantieri Cerusa)

Settembre 1933
Il Valcerusa, mentre si trova ancorato presso Capo Goose, viene speronato dal piroscafo Pengarrow, riportando seri danni: la nave italiana riesce infatti ad arrivare a Quebec con i propri mezzi, ma con quasi cinque metri d’acqua nella stiva numero 4, tanto che 200 tonnellate del carico devono essere sbarcate prima che la nave possa portarsi all’ormeggio. I danni, valutati in 24.500 dollari, vengono riparati entro la prima decade di ottobre.
1935
Essendo il Lloyd Mediterraneo in crisi (scomparirà di lì a tre anni), il Valcerusa, insieme ad altri cinque piroscafi della compagnia (Valfiorita, Vallescura, Vallarsa, Valleluce e Valprato), viene acquistato dall’armatore genovese Giovanni Gavarone, titolare delle Industrie Navali Società Anonima (INSA) e ribattezzato Grazia.
 
Il Grazia con i colori dell’armatore Gavarone (g.c. Claude Rabault/www.archeosousmarine.net)

La prima vittima
 
Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, il Grazia effettuava traffico locale tra il porto britannico di Dover e quello polacco di Gdynia, spingendosi saltuariamente sino in Italia, ma la guerra e l’occupazione della Polonia misero rapidamente fine a questo servizio.
Il mattino del 19 novembre 1939, poco più di due mesi dopo l’inizio della guerra, il Grazia, partito da Newcastle al comando del capitano Giovanni Raimondi, un lupo di mare genovese, e diretto a Trieste con un carico di carbone ed un equipaggio di 32 uomini, si stava dirigendo nella zona dove le unità britanniche svolgevano i controlli sui carichi trasportati dai mercantili neutrali, al largo di Newcastle. I venti di guerra ancora non soffiavano per l’Italia, le cui navi mercantili continuavano a viaggiare tra i porti di tutto il mondo, ma occorreva comunque prestare attenzione, specie nel Mare del Nord, cosparso di mine, che non operavano alcuna distinzione tra navi nemiche, amiche e neutrali. Il mare era agitato, con onde alte e vento forza 4, ma questo non ostacolava la visibilità, che rimaneva discreta.
Intorno alle 10.45 ora britannica (11.45 ora italiana; per altra versione 10.45, o 11) del mattino il comandante Raimondi aveva finito da appena cinque minuti di scrivere una lettera alla famiglia, con cui diceva che ormai il Grazia era al di fuori della zona di pericolo (ormai era una questione di controlli di formalità, poi la nave sarebbe proseguita senza problemi verso Trieste), quando al largo di Foreland il piroscafo urtò con la prua una mina che sollevò una colonna d’acqua e rottami. L’esplosione fu sentita anche da terra, a sei miglia di distanza, da dove poi si vide levare una colonna di acqua e fumo.
Raimondi immediatamente lanciò il segnale di abbandono nave (sette colpi di sirena a breve intervallo) ed ordinò all’equipaggio di andare alle scialuppe, ma mentre l’ordine veniva eseguito il Grazia urtò una seconda mina a centro nave, e subito dopo una terza che ne devastò la poppa.
Il radiotelegrafista Francesco Boschi, che aveva da poco mangiato ed era stato sorpreso dallo scoppio della prima mina mentre si accingeva a salire una scala che portava in plancia per raggiungere la stazione radio, corse su per una scaletta ed irruppe nella stazione radio – intenzionato a lanciare l’SOS se necessario – solo per scoprire che l’esplosione ed il contraccolpo avevano strappato dalla paratia e gettato in pezzi, sul tavolo e sul pavimento, tanto la radio principale quanto quella d’emergenza, sia trasmittente che ricevente. Proprio allora il comandante Raimondi, che si trovava nell’adiacente timoniera, gli ordinò di lanciare l’SOS, comunicando che la nave stava affondando sei miglia a nord-nord-est da North Foreland: Boschi non poté che rispondergli che era impossibile perché la radio era fuori uso, e Raimondi, dopo essersi affacciato alla porta che metteva in comunicazione i due locali ed averlo constatato di persona, gli ordinò di andare a poppa per imbarcarsi sulle lance. Il Grazia stava affondando rapidamente, ma Boschi cercò prima di recuperare il brevetto da marconista che teneva in un cassetto: il cassetto, tuttavia, era incastrato, ed il radiotelegrafista dovette rinunciare e precipitarsi a poppa sul ponte lance, punto di raduno dell’equipaggio.
Nel farlo, però, Boschi sentì un carbonaio invocare aiuto: era rimasto intrappolato nella cambusa, la cui porta era bloccata da ferri contorti. Con non poco lavorio Boschi riuscì a liberare il carbonaio, poi entrambi si diressero di corsa a poppa, separandosi per dirigersi verso le rispettive lance cui erano assegnati proprio mentre si verificava la seconda tremenda esplosione. Cinque uomini furono gettati in mare dall’esplosione, che spezzò in due la nave.
L’equipaggio mantenne calma e freddezza; una delle tre lance di salvataggio fu travolta, mentre le altre due poterono essere calate (per altra fonte fu possibile usare solo le due scialuppe di poppa a causa dello sbandamento). Il direttore di macchina Lorenzo Vassallo, da Imperia, riuscì frattanto a mettersi in contatto mediante una piccola radio con il cacciatorpediniere britannico Gipsy, informandolo dell’accaduto e ricevendo risposta. Anche da terra, dopo aver osservato l’esplosione, fu ordinato ai cacciatorpediniere Gipsy e Griffin di dirigere alla massima velocità sul luogo del disastro; prese il mare anche un rimorchiatore di salvataggio, ed in un secondo momento fu fatto decollare un aereo per segnalare alle unità soccorritrici la posizione dei naufraghi.
Il radiotelegrafista Boschi stava per calarsi nella sua scialuppa quando si verificò a poppa la terza esplosione, che lo fece finire in acqua a sei o sette metri dalla lancia. Nuotando nel mare grosso, il marconista raggiunse l’imbarcazione e fu tirato a bordo dai compagni, poi la lancia si allontanò dalla nave agonizzante.
Il comandante Raimondi lasciò in cabina la troppo ottimistica lettera appena scritta, sul tavolo, e con essa i pantaloni, che contenevano dei cari ricordi di famiglia ma che in acqua sarebbero stati solo d’intralcio, impedendo di nuotare. Come da tradizione abbandonò per ultimo la sua nave, che affondò un quarto d’ora dopo aver urtato le mine, 5 miglia a nord di Foreland.
Il capitano Raimondi portò in braccio il marinaio Baldassarre Sanfilippo, gravemente ferito dagli scoppi, sino alle scialuppe, lo depose in una lancia e diresse la messa a mare delle due imbarcazioni.

Copertina del giornale “Il Mattino Illustrato” ritraente il comandante Raimondi che abbandona per ultimo la nave portando in braccio il corpo esanime di Baldassarre Sanfilippo (da www.portodiravenna.com)

Una volta in acqua, gli occupanti delle due lance dovettero lottare per impedire che le scialuppe fossero capovolte dalle onde o travolte dal risucchio della nave in affondamento. Le onde continuavano a riversare acqua nelle lance, che doveva essere sgottata di continuo.
Baldassarre Sanfilippo morì tra le braccia del comandante Raimondi prima di arrivare a Dover.
Il pronto arrivo dei cacciatorpediniere Gipsy e Griffin permise il salvataggio di 26 uomini, ma altri cinque, oltre a Sanfilippo, risultarono mancanti all’appello: uccisi dalle esplosioni o scomparsi nelle fredde ed agitate acque del Mare del Nord. Il rimorchiatore di salvataggio avvistò uno dei corpi, ma il mare mosso vanificò ogni tentativo di recuperarlo.
Gli uomini nella lancia con il radiotelegrafista Boschi, dopo aver lottato per un’ora con la furia degli elementi, vennero tratti in salvo dal Griffin, quelli dell’altra imbarcazione dal Gipsy, i cui marinai diedero ai naufraghi italiani vestiti asciutti ed ogni assistenza. Solo dopo aver avuto la certezza che in mare non vi fosse più nessuno che potesse essere salvato, i sopravvissuti accettarono di essere portati a terra.
Quindici naufraghi, tra cui il comandante Raimondi, furono recuperati dal Gipsy e sbarcati per primi a Dover il 19 novembre, mentre il Griffin raggiunse a sua volta Dover alle dieci del 20 novembre, con altri undici sopravvissuti.
La salma di Baldassarre Sanfilippo, recuperata dal Gipsy insieme ai 15 superstiti, venne portata in camera mortuaria a Dover. I corpi dei cinque dispersi, invece, non vennero mai ritrovati.
I 26 sopravvissuti del Grazia, grazie alle premure sia delle autorità britanniche che del commissario consolare italiano di Folkestone, Ronco, raggiunsero Londra il 21 novembre (dove arrivarono alla stazione di Charing Cross e si recarono nel pomeriggio a deporre presso il consolato italiano) e furono rimpatriati da Modane il 26 novembre 1939, arrivando alla stazione di Piazza Principe a Genova alle 15 di quel giorno: ad attenderli c’erano i loro parenti, l’armatore Giovanni Gavarone ed il segretario provinciale della Federazione della gente di mare (che li accolse a nome del presidente della Federazione Lembo). Il capitano Raimondi, dopo aver elogiato il comportamento tenuto dai suoi uomini, si recò con il resto dell’equipaggio nella Capitaneria di Porto, dove tenne una “conferenza stampa” sull’accaduto.  
 
I sopravvissuti del Grazia a Genova. In prossimità del limite sinistro del monumento, in giacca e cravatta, sono l’armatore Giovanni Gavarone (al centro), il capitano Giovanni Raimondi (a destra di Gavarone per chi guarda al foto), il direttore di macchina Lorenzo Vassallo (a sinistra di Gavarone) e, in secondo piano tra Gavarone e Vassallo, il primo ufficiale Carlo Remaggi (Archivio storico La Stampa).

La nave salvatrice dei naufraghi del Grazia, il Gipsy, aveva le ore contate: il 21 novembre 1939, infatti, il cacciatorpediniere britannico fece la stessa fine della nave italiana, saltando su una mina ed affondando davanti ad Harwich.
Il Grazia fu la prima nave italiana ad affondare nella seconda guerra mondiale. Le mine su cui era affondato erano state posate dai cacciatorpediniere tedeschi Hans Lüdemann e Karl Galster al largo dell’estuario del Tamigi, nella notte tra il 12 ed il 13 novembre 1939, nel corso di una più ampia operazione di minamento di quelle acque.
Il relitto del piroscafo giace 5 miglia a nord di Foreland, in posizione 51°28’3826 N e 001°27’3836 E.
 
Morirono nell’affondamento del Grazia:
 
Michele Fodale, da Genova (primo ufficiale di macchina)
Luigi Hauswirth, da Campomorone (cameriere)
Giuseppe Gherzi, da Varazze (carbonaio)
Leopoldo Gugliotta, da Pozzallo (marinaio)
Giuseppe Ognio, da Alghero (fuochista)
Baldassarre Sanfilippo, da Palermo (marinaio)
 
Furono i primi della lunghissima schiera di marittimi della Marina mercantile, 7164 uomini, che avrebbero trovato la morte in guerra nei sei anni a venire.
 
 Una serie di articoli della "Stampa" sull'affondamento del Grazia:
 
 
 
 
 

 
Un dipinto ritraente l’affondamento del Grazia (da www.portodiravenna.com)

 

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