La nave fotografata quando
portava il suo originario nome di Pinna
(fonte: Steamship Historical Society of America)
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Piroscafo cisterna da 6205 tsl, 3659 tsn e 8825 tpl, lunga 128,1 m,
larga 15,9 e pescante 9,81, con velocità di 9 nodi. Appartenente alla Compagnia
Italiana Marittima (CIMAR, con sede a Venezia), armatore Loris Frizziero;
immatricolato con matricola 240 al Compartimento Marittimo di Venezia.
Breve e parziale
cronologia.
8 dicembre 1900
Varata come Pinna nei
cantieri Armstrong Whitworth & Co. Ltd. di Low Walker, Newcastle (numero di
costruzione 705).
Marzo 1901
Completata per la Shell Tankers U.K./Shell Transport & Trading
Company Ltd., di Londra. Stazza lorda originaria 6288 tsl, bandiera britannica.
Luglio 1902
Trasporta il primo carico di petrolio della Texas Oil, futura Texaco.
1907
Venduta alla Petroleum Steam Ship Company Ltd. (in gestione a Lane
& Macandrew) di Londra.
Un’altra
immagine della Pinna (g.c. Mauro
Millefiorini via www.naviearmatori.net)
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11 febbraio 1917
La Pinna, in navigazione da
Newport News (proveniente da Port Arthur, dopo aver caricato petrolio da porti
del Golfo del Messico) verso la Gran Bretagna, viene silurata nottetempo senza
preavviso, 7,5 miglia a sud-sud-est di South Bishops sulla costa irlandese, dal
sommergibile tedesco UC 65 (tenente
di vascello Otto Steinbrinck). I membri dell’equipaggio, molti dei quali
gettati fuori dai loro letti (gli alloggi sono situati nel castello di prua)
dall’esplosione del siluro, accorrono faticosamente in coperta tra fiumane di
petrolio che esce dalle cisterne danneggiate. Tutto l’equipaggio, senza
vittime, abbandona la nave, che ritiene perduta, allontanandosi sulle
scialuppe. In realtà la Pinna potrà
essere portata ad incagliare presso Milford Haven e successivamente recuperata
e riparata.
Giugno 1917
Rivenduta alla British Tanker Company Ltd. di Londra e ribattezzata British Earl; nel corso dello stesso
mese viene requisita dall’Ammiragliato britannico e posta in servizio come nave
ausiliaria nella Royal Fleet Auxiliary, ricevendo il numero 306.
La
nave con il nome di British Earl (John
Crossland via www.tynebuiltships.co.uk)
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1918
Derequisita e restituita agli armatori.
8 dicembre 1918
Il direttore di macchina F. W. Parkinson annega in mare.
1918-1920
Naviga tra Avonmouth, Newport News, Norfolk, Port Arthur, Pensacola,
Cardiff, New Orleans e New York.
11 luglio (o 10
settembre) 1921
Al largo del faro di Bishop Rock la British
Earl recupera i naufraghi del piroscafo britannico Western Front, affondato 30 miglia a sudovest delle Isole Scilly
dopo un’esplosione causata da un incendio in una stiva contenente resina e
trementina, durante la navigazione da Jacksonville ad Amburgo con un carico di
materiali per la Marina e carburante. Due membri dell’equipaggio del Western Front risultano dispersi, i
superstiti vengono trasferiti a mezzo lancia a St. Mary’s nelle Scilly.
13 febbraio 1926
La British Earl, in
navigazione con fitta nebbia sulla rotta da Londra a Newcastle, sperona il
piroscafo Marie Thereze, della Città
Libera di Danzica, al largo della nave faro di Cross Sands, nel Mare del Nord,
provocandone l’affondamento al largo di Lowerstoft. È la stessa British Earl a trarre in salvo tutti i
23 membri dell’equipaggio del Marie
Thereze, che vengono poi sbarcati a Grimsby.
2 settembre 1929
Acquistata dalla Tankschiff Reederei G.m.b.H. di Julius Schindler e
ribattezzata Tankschindler.
1931
Acquistata dalla Società Anonima Imprese Navali & Affini,
registrata a Venezia e ribattezzata Trottiera.
1934
La società armatrice diviene Compagnia Industrie Marittime Affini Roma
(CIMAR).
1938
La società armatrice diviene Compagnia Italiana Marittima.
Puerto Cabello
La Trottiera, assieme ad
altre due delle quattro petroliere della CIMAR (la Todaro e la Burano), fu nel
numero delle oltre duecento navi mercantili italiane che il 10 giugno 1940,
all’atto della dichiarazione di guerra dell’Italia, si trovavano al di fuori
del Mediterraneo, in porti stranieri, spesso nemici. Al pari di altre
petroliere italiane (la Teresa Odero,
la Bacicin Padre e la Jole Fassio, cui si aggiunsero in un
secondo momento la Dentice e l’Alabama, attaccate e danneggiate da navi
francesi ma successivamente recuperate), la Trottiera,
al comando del capitano Bruno G. Battista, fu sorpresa dall’ingresso in guerra
dell’Italia a Puerto Cabello, nel Venezuela (oppure vi si rifugiò subito dopo
la dichiarazione di guerra, per evitare la cattura da parte delle navi francesi
che incrociavano nel golfo del Venezuela). Qui la nave rimase, venendo
internata.
Il 27 giugno 1940, nonostante si trovasse internata a migliaia di
chilometri dall’Italia, la Trottiera
venne requisita dalla Regia Marina, senza essere iscritta nel ruolo del
naviglio ausiliario dello Stato.
A seguito del decreto di neutralità emesso dal Venezuela, la Trottiera e le altre navi italiane
internate a Puerto Cabello subirono la rimozione di componenti fondamentali, in
modo da evitare che potessero tentare di lasciare il porto senza autorizzazione
(come fecero, in altre nazioni dell’America meridionale e nel resto del mondo,
altri mercantili italiani che forzarono il blocco e raggiunsero la Francia
occupata). L’ambasciatore italiano, il 29 gennaio 1941, protestò a nome del
governo italiano in una lettera al ministro degli esteri del Venezuela, Borges,
affermando che “i mezzi adottati dal governo venezuelano riguardo al naviglio
italiano rifugiatosi nel porto neutrale non corrispondono a nessun fondamento
del diritto internazionale riconosciuto”. Il 5 febbraio Borges replicò che
tutte le navi rifugiatesi in porti venezuelani erano sottoposte al regime
dell’asilo marittimo indicato nell’articolo 7 del Decreto 13 settembre 1939
(quello appunto che stabiliva la neutralità del Venezuela), che “il ministro
italiano ben conosceva e che aveva accettato nel chiedere il permesso di
rifugio per le navi”, aggiungendo: “ogni Stato ha il diritto di aprire o
chiudere i suoi porti e passi marittimi delle sue acque territoriali
all'accesso di navi straniere e ha il diritto di fissare, come ritenga più
opportuno le regole, condizioni restrizioni o proibizioni di ingresso, di permanenza
e di uscita (...) sia per le navi da guerra sia per i battelli commerciali, il
paese neutrale può adottare tutti i provvedimenti restrittivi che
ritiene opportuni” e “quando una nave entra in un porto e prolunga oltre
il termine necessario la sua permanenza cercando un rifugio che la
protegga dal nemico la nave cessa di essere uno strumento di commercio (...)
e deve sottostare al regime eccezionale dell'asilo”.
Nei mesi successivi, i marittimi italiani e tedeschi vissero in
relativa tranquillità a Puerto Cabello, i cui cittadini li accolsero e li
trattarono da ospiti. Sovente ufficiali e marinai visitavano i bar e cinema
locali, s’intrattenevano con la popolazione del posto e ricevevano regolarmente
i loro stipendi tramite il governo venezuelano. Il 25 dicembre 1940 dovettero
però celebrare il primo Natale lontano dalle case e dalle famiglie, senza
sapere quando avrebbero potuto fare ritorno.
Questo periodo di surreale tranquillità mentre il mondo era in fiamme,
però, non sarebbe durato a lungo.
Il 31 marzo 1941 gli Stati Uniti, pur essendo ancora neutrali, confiscarono
arbitrariamente tutte le navi italiane presenti nei loro porti, e presto la
notizia giunse anche in Venezuela. C’era ragione di ritenere che presto anche
il Venezuela avrebbe agito similmente agli Stati Uniti, così come altri Stati
dell’America centrale e meridionale: anche i bastimenti presenti nei porti del
Venezuela ricevettero così l’ordine di autoaffondarsi per evitare la cattura.
Ai comandanti fu detto che in nessuna circostanza le loro navi sarebbero dovute
cadere in mano nemica.
La notte del 31 marzo 1941, pertanto, la Trottiera venne incendiata a Puerto Cabello dal proprio equipaggio.
Delle navi italiane presenti nel porto, solo altre due, la Jole Fassio e la Teresa Odero
(al pari del piroscafo tedesco Sesostris),
riuscirono ad incendiarsi, mentre Dentice,
Alabama e Bacicin Padre vennero catturate dalle autorità venezuelane prima di
poter fare lo stesso.
Gli incendi delle navi italiane e tedesca scatenarono a Puerto Cabello
grande allarme e confusione: alle otto di sera nutrite masse di persone
andavano affollandosi nel porto, osservando con stupore e sgomento le navi
divorate dalle fiamme. Quando si diffuse la notizia che non si era trattato di
un incidente, lo stupore si trasformò in rabbia: dopo aver ospitato per tanti
mesi i marinai italiani tedeschi, la popolazione della città si sentì “tradita”
nel vedere che avevano incendiato le loro navi, rischiando di danneggiare anche
le strutture portuali sulle quali si fondava gran parte dell’economia locale
(la Trottiera e le altre navi
incendiate erano scariche, ma la Bacicin
Padre aveva a bordo 8000 tonnellate di carburante, il cui incendio avrebbe
potuto causare gravi danni). I cittadini di Puerto Cabello, radunatisi sul
lungomare, scatenarono un moto popolare contro l’Asse, che si concluse con
l’incendio di un albergo di proprietà tedesca, l’Hotel Gambrinus (i cui
proprietari, al pari di altri uomini d’affari tedeschi, si erano già dati
precipitosamente alla fuga); i marinai italiani e tedeschi dovettero gettarsi
in mare per sfuggire alla furia della folla, che diede loro la caccia fino a
tarda notte. Il mattino successivo una folla di abitanti si radunò attorno alla
casa numero 5 della via commerciale, dove si diceva che si nascondessero
diversi marinai italiani; fu l’intervento della polizia venezuelana ad impedire
che i cittadini assaltassero la casa e ne linciassero gli occupanti. Per
riportare l’ordine dovette essere stabilita la legge marziale; fortunatamente
nessun marittimo italiano o tedesco fu ucciso (un tedesco fu però ferito da una
bottigliata). Alla fine tutti gli ufficiali e marinai italiani e tedeschi, in
tutto circa 300, furono arrestati, e, dato che il commissariato di polizia non
poteva ospitarli tutti, furono alloggiati in varie località (principalmente
nella cittadina di San Esteban). Anche un negoziante del posto venne arrestato,
per aver dato rifugio ad un marinaio italiano. Il 21 aprile le autorità
giudiziarie venezuelane spiccarono un mandato d’arresto per il comandante
Battista della Trottiera e per i
comandanti della Jole Fassio, della Teresa Odero e del Sesostris.
In seguito tutti i marittimi furono processati dalle autorità
venezuelane, con l’accusa di aver messo a repentaglio le installazioni portuali
e di aver violato il patto con il quale le autorità venezuelane li avevano
accolti come rifugiati. Il 14 agosto i comandanti vennero condannati a quattro
anni di carcere, tutti gli altri membri degli equipaggi a due anni; le autorità
statunitensi fecero pressione per farli trasferire nel campo di prigionia di
Fort Missoula, nel Montana, dove già si trovavano gli equipaggi delle navi
catturate negli Stati Uniti, ma il governo venezuelano si oppose. I comandanti
vennero trasferiti dalle carceri pubbliche alla stazione di polizia, dove
ricevettero un trattamento migliore, per poi essere confinati a San Esteban. Dopo
non molto tempo i marittimi italiani furono graziati dalle autorità del
Venezuela, mentre i tedeschi non ebbero analoga fortuna e dovettero scontare la
pena per intero. Il direttore di macchina della Trottiera, Michelangelo Naccari, di Pirano, morì il 4 luglio 1942
durante l’internamento in Venezuela.
Nonostante tutto, parecchi ufficiali e marinai italiani e tedeschi, a
guerra finita, rimasero in Venezuela, dove si stabilirono e sposarono donne di
Puerto Cabello, talvolta fondandovi anche delle attività.
Sopra:
Trottiera (a destra) e Teresa Odero (a sinistra) dopo l’autoaffondamento;
sotto: particolare del relitto della Trottiera.
Da giornali venezuelani dell’epoca, via www.forosegundaguerra.com)
La
prima pagina del giornale venezuelano “La Esfera” del 2 aprile 1941 (da www.forosegundaguerra.com)
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La
stessa notizia su un altro giornale venezuelano (da www.mundosgm.com)
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Comandanti
e ufficiali delle navi autoaffondate a Puerto Cabello, tratti in arresto, “posano”
per la stampa nel cortile della caserma di polizia della città (da www.forosegundaguerra.com)
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Il governo venezuelano fece recuperare la Trottiera, che il 20 marzo 1942 fu sequestrata dalle autorità del
Venezuela ed il 6 giugno 1942 fu venduta agli Stati Uniti e registrata sotto
bandiera panamense, venendo ribattezzata dapprima Orissa nel 1942 (sotto il controllo della United States Maritime
Commission) e poi, il 3 novembre 1943, Malvern
(in gestione alla United States War Shipping Administration). Stessa sorte
toccò alle altre navi italiane catturate od recuperate a Puerto Cabello,
eccetto la Teresa Odero (venduta
all’Argentina): in tutto la War Shipping Administration pagò 2.125.000 dollari
al governo venezuelano, che vendette le navi, invece di rimetterle in servizio
da sé, perché una loro rimessa in efficienza, dopo il lungo periodo di
inattività ed i sabotaggi, avrebbe avuto costi troppo elevati.
Il 10 maggio 1944 la Malvern
fu acquisita dalla Marina statunitense dalla War Shipping Administration (che
la diede in “gestione” come «bareboat charter»), entrando in servizio il giorno
seguente come «floating storage tanker» o «mobile station tanker» (cioè
deposito galleggiante di carburante, da usarsi in basi prive di adeguate
infrastrutture) a Majuro (Isole Marshall) e ricevendo la sigla IX-138. Nella US Navy, dopo lavori
effettuati a Galveston (Texas), la Malvern,
con un dislocamento di 13.250 tonnellate, ebbe un equipaggio di 84 uomini (8
ufficiali e 76 sottufficiali e marinai) e venne armata con un cannone da 100/50
mm, uno a doppio scopo da 76/50 mm ed otto mitragliere contraeree da 20 mm (per
altra fonte, due cannoni da 76 mm ed otto mitragliere da 20 mm). La velocità
era scesa a soli sette nodi; la capacità era di 55.000 barili.
La Malvern venne assegnata al
Service Squadron 8 della Flotta del Pacifico, e nel giugno 1944 fu rimorchiata
a Subic Bay e poi nell’atollo di Eniwetok, dove rimase per qualche tempo.
Il 4 ottobre 1944, nell’ambito del trasferimento del Service Squadron
Ten ad Ulithi, la Malvern (tenente di
vascello H. C. Pollock) lasciò Eniwetok diretta ad Ulithi in convoglio con
altre 24 navi ausiliarie: navi officina, navi deposito, altre “station tankers”
e chiatte cariche di carburante e munizioni, gran parte delle quali trainate da
rimorchiatori. Nave capo formazione era la nave officina Vestal (capitano di vascello J. B. Good). La navigazione incontrò
varie difficoltà a causa del maltempo; il 7 ottobre la Malvern ebbe un’avaria al timone e rimase indietro rispetto alla
sua posizione assegnata in formazione, che riuscì a riassumere solo il giorno
seguente, dopo aver richiesto l’invio, a mezzo rimorchiatore, di una squadra di
riparazione dalla Vestal.
Successivamente la Malvern ebbe nuovi
problemi con gli apparati di governo, ma riuscì a tornare in posizione
governando manualmente. Diverse altre navi del gruppo, compresa la stessa Vestal, furono afflitte da avarie ed
inconvenienti, ma dopo una lunga navigazione a 5 nodi il 15 ottobre la
formazione raggiunse Ulithi, dove si ancorò nella laguna.
La permanenza ad Ulithi durò circa un mese, poi la Malvern ripartì a rimorchio del rimorchiatore militare USS Ashomawi, giungendo a Manila il 19
novembre 1944. A dicembre la cisterna era però nuovamente ad Ulithi,
nell’ancoraggio settentrionale, poi tornò a Manila, dove rimase sino a ben
oltre la fine delle ostilità.
Il 16 febbraio 1946, a guerra finita, la nave venne disarmata a Manila,
e dieci giorni dopo fu radiata dai quadri della US Navy e restituita alla War
Shipping Administration (o Maritime Commission), riprendendo il nome di Orissa.
Il 16 marzo 1948, in base all’Executive Order 9935 firmato dal
presidente statunitense Harry Truman, l’Orissa,
al pari di altre tredici navi mercantili italiane catturate in America nel
1941, venne restituita al governo italiano. Nel corso dello stesso 1948 la
petroliera fu rivenduta alla Henderson Trippe Corporation per raggiungere Hong
Kong, ma quasi mezzo secolo di servizio e due guerre mondiali avevano ormai
logorato la vecchia nave. L’ex Trottiera
lasciò Subic Bay l’11 marzo 1950 solo per il suo ultimo viaggio: fu demolita a
Shanghai nel 1950 dalla Asia Development Corporation.
Ancora
una foto della cisterna quando si chiamava Pinna
(Richard Cox via www.tynebuiltships.co.uk)
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