Il Vesuvio (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net)
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Piroscafo da carico
da 5430 tsl e 3391 tsn, lungo 120,38 metri, largo 15,75 e pescante 8,38, con
velocità di crociera di 10,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima Nova
Genuensis (gruppo Ravano), con sede a Genova, ed iscritto con matricola 711 al
Compartimento Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
1914
Costruito dai
cantieri Fiat San Giorgio del Muggiano (La Spezia) per la Navigazione Generale
Italiana, con sede a Genova. Stazza lorda e netta originaria, 5459,19 tsl e 3492,30
(o 4037) tsn.
28 luglio 1918
Il Vesuvio, nell’ambito di un viaggio da
Livorno a Karachi, salpa alle 19.30 da Siracusa, diretto a Malta in convoglio
con altre quattro navi, scortate dai cacciatorpediniere britannici Usk e Ribble (che ne ha assunto la scorta alle 7.30, al largo di
Siracusa). Durante la navigazione nel Mar Ionio viene attaccato dal
sommergibile tedesco UC 25 (al
comando nientemeno che del tenente di vascello Karl Dönitz, futuro comandante
della flotta subacquea tedesca nella seconda guerra mondiale), che gli lancia
due siluri. Alle 20.48, in posizione 37°00’ N e 15°00’ E, una delle armi
colpisce il Vesuvio sul lato sinistro
(tra la «deep tank» ed il locale caldaie), mentre l’altra passa tra il Vesuvio ed il Ribble. I due cacciatorpediniere britannici contrattaccano con
bombe di profondità, mentre il convoglio viene fatto rientrare a Siracusa; alle
22.45 il timone del Vesuvio viene
collegato con un cavo al Ribble, ma
alle 23.05 il cavo si spezza. Mentre l’Usk
viene mandato a raggiungere il convoglio, per indirizzarlo nuovamente verso il
mare aperto, sopraggiungono alcuni rimorchiatori italiani, che, sotto la
protezione del Ribble, prendono a
rimorchio il danneggiato Vesuvio. La
nave viene portata a posare con la prua su un bassofondale vicino alla riva:
l’esplosione del siluro e la successiva ricaduta della nave hanno infatti
“piegato” lo scafo, lasciando la poppa sollevata ed “oscillante” e la nave
quasi insellata.
Dopo lunga e
laboriosa opera di recupero – per prima si prosciuga la stiva numero 1, quindi
si costruisce una paratia di fortuna e si procede a prosciugare la stiva numero
2, più grande – si riuscirà a “raddrizzare” e riunire lo scafo, sino a
rimettere la nave in condizioni di efficienza.
Il Vesuvio gravemente danneggiato ed incagliato dopo il siluramento…
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…ed una rappresentazione
grafica delle fasi del suo recupero (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net)
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192…
Acquistato dalla Nova
Genuensis Società Anonima per l’Industria e il Commercio Marittimo.
20 settembre 1928
Il Vesuvio, mentre è in manovra nel porto
di Montreal, scarico e diretto al magazzino 9 (dove deve caricare grano da
trasportare a Genova), sperona accidentalmente – nonostante la navigazione stia
avvenendo sotto la direzione di un pilota locale – il piroscafo norvegese Older (anch’esso avente a bordo un
pilota), nel canale presso il molo Laurier. Entrambe le navi rimangono
danneggiate: il Vesuvio ha la prua
contorta dalla collisione, l’Older
riporta uno squarcio a centro nave. Per uno degli ufficiali del Vesuvio questa è la seconda collisione
in acque canadesi nel giro di un anno: è stato infatti naufrago del piroscafo Vulcano, della stessa compagnia,
affondato per collisone al largo di Rimouski il 18 ottobre 1927.
La nave a Capetown nel 1933
(John H. Marsh Maritime Research Centre di Capetown, via Mauro Millefiorini e www.naviearmatori.net)
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Massaua
Anche il Vesuvio fu uno dei tanti mercantili che
l’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, sorprese al di fuori del
Mediterraneo: nel suo caso, quanto meno in territorio controllato dall’Italia,
la colonia dell’Eritrea. La nave si trovava a Massaua, e a Massaua rimase per i
mesi a seguire, condividendo la “prigionia” in un porto amico assieme ad una
trentina di altri bastimenti mercantili, tra italiani e tedeschi.
Ma la “quiete” – se
così è lecito dire di un porto soggetto a ripetuti attacchi aerei britannici –
di Massaua venne rotta nella primavera del 1941, con il crepuscolo dell’Africa
Orientale Italiana. Conquistata la Somalia italiana nel febbraio di quell’anno,
le forze del Commonwealth lanciate contro l’Eritrea vennero fermate per quasi
due mesi (dal 2 febbraio al 27 marzo) nella sanguinosissima battaglia di
Cheren. Il 27 marzo, dopo aver lasciato sul campo più di 12.000 tra italiani ed
ascari eritrei, le forze del generale Nicolangelo Carnimeo dovettero però
cedere e ripiegare: ai britannici si apriva così la via ad Asmara e Massaua,
che furono raggiunte in pochi giorni.
A Massaua il
comandante della piazza, contrammiraglio Mario Bonetti, dovette selezionare le
poche navi che si potevano salvare e prendere la triste decisione di
distruggere tutto il resto, onde evitarne la cattura da parte nemica. Partiti i
cacciatorpediniere per un’ultima, suicida missione contro Porto Sudan, salpati
i sommergibili per la Francia occupata e le poche navi con autonomia
sufficiente per il Giappone, tutto il resto si dovette autoaffondare: una parte
delle navi lo fece nel vicino arcipelago delle isole Dahlak, un’altra parte nel
porto stesso di Massaua. Il Vesuvio
rientrò in quest’ultimo gruppo.
Bonetti organizzò l’autoaffondamento
in modo che non solo i britannici non mettessero mano sulle navi italiane, ma
neppure potessero riutilizzare (almeno per lungo tempo) il porto: fece disporre
le navi lungo i tre accessi al porto, in corrispondenza dei quali creò altrettante
barriere con i loro relitti. Ricevettero ordine di autoaffondarsi
all’imboccatura del porto militare i mercantili italiani Moncalieri e XXIII Marzo,
il piroscafetto Impero, il mercantile
tedesco Oliva, due bacini
galleggianti ed il relitto devastato della vecchia torpediniera Giovanni Acerbi; si dovettero
autoaffondare all’imbocco del porto commerciale il mercantile italiano Adua, il posamine Ostia, un pontone gru, i mercantili tedeschi Gera e Crefeld; per
ostruire l’accesso del porto meridionale, il più grande, fu predisposta una
barriera costituita da una lunga fila di relitti, da nord verso sud: il
piroscafo italiano Alberto Treves, la
cisterna militare Niobe, il Vesuvio, il piroscafo tedesco Frauenfels, l’italiano Brenta, il transatlantico Colombo ed un altro piroscafo tedesco,
il Liebenfels.
Qua e là, senza una
assegnazione precisa, si autoaffondarono anche la torpediniera Vincenzo Giordano Orsini (dopo aver
sparato fino all’ultimo colpo contro le colonne britanniche in avanzata), le
piccole cannoniere Giuseppe Biglieri
e Porto Corsini, i vecchi MAS 204, 206, 210, 213 (non prima di aver silurato
l’incrociatore leggero HMS Capetown)
e 216, i rimorchiatori militari Formia, San Giorgio e San Paolo.
Le cisterne per acqua Sile, Sebeto e Bacchiglione vennero risparmiate dall’autodistruzione, perché
potessero continuare a servire ai bisogni della popolazione civile anche dopo
l’occupazione britannica.
Il suicidio di massa
delle navi italiane ebbe inizio il 3 aprile 1941: il 4 aprile il Vesuvio si autoaffondò all’imboccatura
meridionale del porto di Massaua, tra la Niobe
ed il Frauenfels. Massaua cadde
quattro giorni dopo.
Gli equipaggi dei
mercantili autoaffondati vennero inizialmente internati dai britannici in
Eritrea, ma molti di essi incontrarono successivamente un tragico destino: il
16 novembre 1942 molti dei marittimi, insieme ad altri civili italiani
internati in Africa Orientale ed ad alcuni prigionieri di guerra pure italiani,
furono imbarcati sul piroscafo britannico Nova
Scotia, che avrebbe dovuto trasportarli in Sudafrica, verso nuovi campi
d’internamento. Il 28 novembre, il Nova
Scotia venne silurato dal sommergibile tedesco U 177 ed affondò in soli dieci minuti a sudest di Lourenço Marques.
Molti affondarono con la nave, molti altri scomparvero nell’oceano, annegati,
periti di stenti, o divorati dagli squali (i corpi di oltre 120 furono portati
dalle onde sulle spiagge del Sudafrica, e sepolti in fosse comuni). L’U 177, pur avendo scoperto di aver
affondato una nave carica di italiani (alleati della Germania), dovette
allontanarsi senza soccorrere nessuno (tranne due marittimi italiani) in
ottemperanza alle disposizioni da poco impartite (di non prestare soccorso ai
naufraghi) a seguito di un attacco aereo subito due mesi prima dall’U 156 mentre era intento al salvataggio
dei superstiti del piroscafo Laconia,
anch’esso carico di prigionieri italiani.
Solo il 30 novembre
giunse sul posto l’avviso portoghese Alfonso
De Albuquerque, che trasse in salvo 181 o 194 superstiti, tra cui 117 o 130
internati italiani, che sbarcò in Mozambico. Non ebbero la stessa fortuna altri
655 internati italiani, che scomparvero in mare insieme a 88 guardie
sudafricane, 107 membri dell’equipaggio britannico e tredici passeggeri (cinque
civili ed otto militari).
Tra le vittime del Nova Scotia vi fu anche un marittimo del
Vesuvio, il triestino Umberto D’Este,
ufficiale di macchina.
Le operazioni di
recupero dei relitti e ripristino del porto di Massaua, affidate ad una squadra
al comando dell’ufficiale statunitense Edward Ellsberg, ebbero inizio solo
nell’aprile 1942; il porto della città iniziò lentamente a ridiventare agibile
dopo un mese e mezzo di lavori.
Il relitto del Vesuvio fu uno degli ultimi ad essere
recuperati dai britannici, nell’aprile del 1953; a differenza di quasi tutte le
altre navi perdute in Eritrea, rivide l’Italia, ma solo per esservi demolito.
Salve, complimenti per il blog. Ho trovato molto interessante la cronologia sul piroscafo Vesuvio. Qual è la fonte di queste notizie? Mi piacerebbe poterla consultare!
RispondiEliminaSalve, molto interessante. Mi piacerebbe sapere qual è la fonte di queste notizie sul piroscafo "il Vulcano". Grazie
RispondiEliminaBuonasera,
RispondiEliminale fonti sono molteplici, le principali sono in questo caso quelle linkate in fondo alla pagina.