Il Battisti (da “Cacciatorpediniere in guerra” di Carlo De Risio,
supplemento alla “Rivista Marittima” dell’ottobre 2009, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)
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Cacciatorpediniere
della classe Sauro (1130 tonnellate di dislocamento standard e 1650 a pieno
carico). Effettuò in guerra una decina missioni di intercettazione di convogli
britannici in Mar Rosso, senza cogliere successi.
Breve e parziale cronologia.
9 febbraio 1924
Impostazione nei
cantieri Odero di Sestri Ponente.
11 dicembre 1926
Varo nei cantieri
Odero di Sestri Ponente, madrina Anita Sauro.
13 aprile 1927
Entrata in servizio.
24-30 giugno 1928
Il Battisti (a bordo del quale presta
servizio quale guardiamarina Eugenio di Savoia) si reca in visita alle Baleari
insieme ai gemelli Francesco Nullo, Nazario Sauro e Daniele Manin.
1929
Il Battisti ed i gemelli Francesco Nullo, Nazario Sauro e Daniele Manin
formano la III Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla IV Squadriglia
(quattro unità classe “Sella”) ed all’esploratore Pantera (conduttore), compongono la 2a Flottiglia della
I Divisione Siluranti, inquadrata nella 1a Squadra Navale di base a
La Spezia.
1930
Entra in collisione
con il Manin.
1931
Il Battisti, il capoclasse Nazario Sauro, i meno recenti Francesco Crispi e Quintino Sella ed il più grande Tigre
formano la II Flottiglia Cacciatorpediniere della 2a Divisione della
I Squadra Navale.
Settembre 1935
Battisti e Sauro si trovano
dislocati a Rodi, insieme ai cacciatorpediniere Giovanni Nicotera e Bettino
Ricasoli, agli esploratori Guglielmo Pepe, Alessandro Poerio, Aquila
e Falco ed ai MAS 212 e 418.
Un’altra immagine della nave
(g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)
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1935-1936
In preparazione alla
sua dislocazione in Mar Rosso, essendo stato assegnato al servizio coloniale,
subisce grandi lavori per dotare i locali interni di climatizzazione. A causa
del conseguente appesantimento, la velocità massima cala da 35 a 31,7 nodi e
l’autonomia da 2600 miglia a 14 nodi a 2000 miglia alla stessa velocità.
1939
Lascia La Spezia per
il Mar Rosso, dov’è stato destinato, giungendo a Massaua all’inizio di
settembre. Non tornerà mai più in Italia.
10 giugno 1940
All’ingresso
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Battisti fa parte della III Squadriglia Cacciatorpediniere, di base
a Massaua, insieme ai gemelli Francesco
Nullo, Nazario Sauro e Daniele Manin.
27 giugno 1940
Viene mandato a
soccorrere il sommergibile Perla,
incagliatosi – dopo che gran parte dell’equipaggio è stato intossicato da
perdite di cloruro di metile – e danneggiato dal cacciatorpediniere britannico Kingston.
26 (o 30-31) luglio 1940
Battisti, Nullo ed il
sommergibile Guglielmotti lasciano
Massaua per cercare un mercantile britannico (segnalato come proveniente da
Suez ed in navigazione nel Mar Rosso), che non troveranno. È la prima missione
offensiva di ricerca del traffico britannico compiuta in Mar Rosso.
Battisti e Sauro a Massaua nel 1939 (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net) |
30-31 agosto 1940
Compie un’uscita
notturna unitamente al Manin, senza
trovare alcuna nave.
5-6 settembre 1940
In missione offensiva
insieme a Sauro e Manin, cerca vanamente un convoglio tra
Suez ed Aden.
6-7 settembre 1940
Inviato assieme a Tigre, Leone e Sauro a cercare
il convoglio britannico «BS. 4», proveniente da Suez e scortato
dall’incrociatore leggero Leander,
dall’incrociatore antiaereo Carlisle,
dal cacciatorpediniere Kingston e
dagli sloops Grimsby, Auckland, Clive e Parramatta. Durante
la missione vengono lanciati siluri contro un cacciatorpediniere britannico,
che viene tuttavia mancato.
19 settembre 1940
Salpa da Massaua
insieme a Manin, Leone e Pantera per
attaccare il convoglio britannico «BN 5», formato da 23 trasporti con la scorta
dell’incrociatore leggero neozelandese Leander
e degli sloops Auckland (britannico),
Yarra (australiano) e Parramatta (australiano).
21 settembre 1940
Non avendo trovato il
convoglio, i cacciatorpediniere devono tornare a mani vuote alla base.
5-6 ottobre 1940
Nuova infruttuosa
missione offensiva di Battisti e Manin.
21 ottobre 1940
Secondo alcune fonti
anche il Battisti avrebbe
partecipato, in questa data, all’infruttuoso attacco al convoglio britannico
nel «BN 7» costato la perdita del Nullo,
ma probabilmente si tratta di un errore.
11 novembre 1940
Attacco aereo su Massaua, dalle 12.15 alle 13, da parte di tre bombardieri Bristol Blenheim britannici, con obiettivo le navi in porto; vengono in realtà colpite alcune costruzioni a terra. Muore il marinaio cannoniere Luigi Giarretti: è il primo caduto tra l'equipaggio del Battisti.
11 novembre 1940
Attacco aereo su Massaua, dalle 12.15 alle 13, da parte di tre bombardieri Bristol Blenheim britannici, con obiettivo le navi in porto; vengono in realtà colpite alcune costruzioni a terra. Muore il marinaio cannoniere Luigi Giarretti: è il primo caduto tra l'equipaggio del Battisti.
Il Battisti nella foto ufficiale (USMM)
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Epilogo in Mar Rosso
Nella primavera del
1941 risultava ormai evidente che l’Africa Orientale Italiana, isolata e
circondata su tutti i confini dalle forze del Commonwealth, non avrebbe potuto
resistere ancora a lungo: all’inizio di aprile appariva inevitabile che Massaua
sarebbe presto stata occupata dalle truppe britanniche. Si era perciò stabilito
che le poche navi autonomia sufficiente a raggiungere la Francia od il Giappone
avrebbero tentato la sorte, mentre tutte le altre avrebbero dovuto essere
distrutte per evitare la cattura. I sei cacciatorpediniere di Massaua (Battisti, Sauro, Manin, Tigre, Leone e Pantera) non
avevano un’autonomia abbastanza elevata, ed inoltre presentavano problemi alle
macchine, ormai usurate dopo tanti anni di servizio, armamento obsoleto e
strumentazioni non più perfettamente efficienti. Ma la loro sorte non sarebbe
stata l’autoaffondamento a Massaua o nelle isole Dahlak: il contrammiraglio
Mario Bonetti (comandante delle forze navali in A.O.I.), con il benestare di
Supermarina, aveva deciso di lanciarle in un’ultima missione senza ritorno, un
attacco contro Suez e Porto Sudan per fare quanto più danno possibile prima di
andare perduti.
I tre
cacciatorpediniere più grandi (Tigre,
Leone e Pantera, che formavano la V Squadriglia), aventi maggiore
autonomia, avrebbero risalito il Mar Rosso per attaccare Suez, mentre l’obiettivo
dei tre più piccoli Battisti, Sauro e Manin (che formavano la III Squadriglia ed avevano un’autonomia di
600-700 miglia) sarebbe stato Porto Sudan, più vicino. Non era prevista
copertura aerea: le navi, già menomate nell’efficienza, avrebbero dovuto procedere
per due giorni in acque nemiche, esposte ad attacchi aerei e navali nel Mar
Rosso, dove le forze britanniche regnavano ormai pressoché incontrastate. Indipendentemente
dalla riuscita dell’attacco, non ci sarebbe stato alcun ritorno a Massaua: sia
che avessero avuto successo, sia che non avessero potuto raggiungere gli
obiettivi, i cacciatorpediniere avrebbero dovuto raggiungere la costa araba (in
modo che gli equipaggi si sarebbero potuti rifugiare in terra neutrale) per poi
autoaffondarsi.
I comandi britannici,
avendo previsto la possibilità di un simile attacco, avevano rafforzato le
difese sia di Suez che di Port Sudan: in quest’ultima località erano stati
dislocati gli esperti gruppi di volo della portaerei Eagle (che non era potuta entrare essa stessa in Mar Rosso,
trovandosi in Mediterraneo, per via delle mine posate da aerei tedeschi nel
canale di Suez).
Il 31 marzo, i tre
cacciatorpediniere della V Squadriglia lasciarono Massaua per primi (quelli della
III Squadriglia avrebbero preso il mare l’indomani, essendo il loro obiettivo
più vicino), ma nelle acque delle Dahlak il Leone
s’incagliò su una scogliera sommersa non segnata sulle carte e fu costretto
all’autoaffondamento, dopo di che Tigre
e Pantera rientrarono a Massaua. Come
se non bastasse la Luftwaffe, incaricata di lanciare un bombardamento diversivo
su Suez, fece sapere che non avrebbe più potuto partecipare all’operazione.
Ciò obbligò a mutare
i piani: tutti e cinque i cacciatorpediniere residui avrebbero attaccato Porto
Sudan, dove avrebbero dovuto cannoneggiare le strutture portuali; le unità avrebbero
navigato alla massima velocità per compiere l’intero tragitto (265 miglia) di
notte, così da non essere avvistate. La nafta nei serbatoi – l’ultima rimasta
ad Assab, appositamente trasportata a Massaua, per la missione, dalla nave
cisterna Niobe – bastava solo per
l’andata.
Nel primo pomeriggio
del 2 aprile 1941 Sauro, Battisti, Manin (caposquadriglia della III Squadriglia), Tigre e Pantera
(caposquadriglia della V Squadriglia e capo formazione) lasciarono Massaua per
l’ultima volta: alle 13 partirono per primi Tigre
e Pantera, seguiti un’ora più tardi
da Battisti, Sauro e Manin. Al
comando del Battisti era il capitano
di corvetta Riccardo Papino, che la sera precedente aveva sostituito il comandante titolare, capitano di corvetta Aldo Naccari, improvvisamente ammalatosi; a bordo del cacciatorpediniere vi erano 182 tra ufficiali, sottufficiali
e marinai.
(Almeno uno degli
uomini del Battisti, tuttavia, rimase
a terra: si trattava del fuochista Sereno Bellin, torinese. La sua sorte
avrebbe finito coll’essere più tragica di quella dei commilitoni rimasti sulla
nave: catturato alla caduta dell’Eritrea, venne imbarcato nel novembre 1942 sul
piroscafo britannico Nova Scotia diretto a Durban, ma trovò la morte, insieme a
centinaia di altri prigionieri ed internati civili italiani, nel suo
affondamento da parte del sommergibile tedesco U 177, il 28 novembre 1942.)
Già a nord di Massaua
i cacciatorpediniere furono individuati da ricognitori britannici della Fleet
Air Arm (appartenenti alla Eagle ma
ora assegnati a basi terrestri), vanificando l’effetto sorpresa e provocando,
circa due ore dopo la partenza, un (inefficace) attacco aereo contro di esse.
Prima “vittima” della
missione, e delle proprie mediocri condizioni – anzianità, intensa attività e
scarsa manutenzione – prima ancora che del nemico, fu proprio il Battisti: le sue caldaie subivano
perdite d’acqua eccessive, che lo costringevano a ridurre la propria velocità a
non più di 15 nodi, oltre naturalmente ad accorciarne l’autonomia. Non era
possibile andare avanti così: la nave non sarebbe mai potuta nemmeno giungere
in vista di Port Sudan, e sarebbe anzi stata un peso per le altre. Verso le due
di notte fu chiesta al caposquadriglia, capitano di fregata Araldo Fadin (del Manin), l’autorizzazione per raggiungere
direttamente la costa araba ed autoaffondarvisi; questi la concesse.
Alle 3.15 del 3
aprile, pertanto, il Battisti uscì
dalla formazione, lasciando proseguire verso il proprio tragico destino gli
altri cacciatorpediniere.
Come ordinato dal
caposquadriglia Fadin, il Battisti
fece rotta verso Gedda, nella neutrale e non molto lontana Arabia, per sbarcare
l’equipaggio ed autoaffondarsi. Secondo un superstite, il fuochista artefice
Parigi Betti, per un tratto la nave fu anche inseguita da un’unità britannica,
che la attaccò senza risultato.
Giunto al largo di
Scio Aiba (un centinaio di chilometri a sud di Gedda), il Battisti venne abbandonato da quasi tutto l’equipaggio, che portò
con sé anche il materiale ritenuto utile e salvabile. Poi, alle nove del
mattino, vennero aperte le valvole Kingston, le prese a mare ed ogni altra
apertura attraverso la quale l’acqua potesse riversarsi più agevolmente
all’interno della nave. L’equipaggio rimase sul posto per verificare che la
nave affondasse davvero, ma l’agonia del cacciatorpediniere fu lunga:
s’inabissò solo alle due del pomeriggio.
Così morì il Battisti, in sordina, a migliaia di
chilometri dall’Italia: scivolò sotto la superficie, per poi adagiarsi su un
fondale di una cinquantina di metri.
Scrisse sulla fine
del Battisti Ennio Giunchi, ufficiale
del Pantera, che apprese
dell’accaduto dal racconto dei naufraghi dell’altro cacciatorpediniere, durante
il successivo internamento: “…seguendo la costa, il comandante Papino diresse
per nord finché ritenne di aver raggiunto un punto distante poche miglia da
Gedda. L’ufficiale di rotta stimava che la distanza fosse ancora di sessanta
miglia, e i fatti dovevano confermare che aveva ragione; ma il comandante non
volle proseguire. (…) Vennero inutilizzate tutte le armi di bordo, poi
l’equipaggio, prendendo posto sui natanti disponibili, raggiunse la spiaggia.
Rimasero a bordo il comandante, il capo servizio Genio Navale e il capo
silurista per affondare la nave. Posta e regolata una bomba di profondità in
ogni deposito munizioni, essi aprirono gli allagamenti e con un battello
lasciarono la nave. Il Battisti
cominciò ad affondare lentamente, sbandando sul fianco sinistro ed immergendo
la poppa, mentre la prora, in forza sulla catena dell’ancora, s’impennava.
Infine scoppiarono le bombe, e quando si dissipò l’altissima colonna di acqua e
di fumo prodotta dall’esplosione la nave era scomparsa. L’equipaggio aveva
assistito in silenzio alla fine della sua nave. Qualche guancia era rigata di
lacrime. La sorte era stata ingrata col Battisti…”.
Dopo che parte
dell’equipaggio si fu gettato in acqua, un aereo britannico sganciò delle bombe
poco lontano, senza colpire nulla. Dopo essersi accertati dell’affondamento, i
naufraghi raggiunsero, in parte su lance e zattere, altri a nuoto, una spiaggia
deserta sulla costa araba.
Dei cinque ufficiali
e dei 177 tra sottufficiali, sottocapi e marinai che componevano l’equipaggio
del Battisti, uno solo risultò mancante
all’appello: il marinaio Silvestro Cipriano. Fu forse proprio il fuochista
Parigi Betti ad essere unico testimone della sua fine: Betti vide infatti un
giovane commilitone di sua conoscenza, in acqua forse ad una ventina di metri
da lui, sparire sott’acqua dopo essere stato attaccato da degli squali.
I superstiti si
misero in cammino verso l’interno, per raggiungere qualche centro abitato,
dividendosi in più gruppi così che i più deboli e lenti non rallentassero
quelli che avevano ancora le loro forze intatte. Il gruppo composto dagli
uomini più giovani e veloci, dopo aver marciato per tre giorni e tre notti
senza cibo né acqua, incontrò infine una donna che portava dell’acqua, che gli
uomini del Battisti comprarono con i
pochi soldi che avevano. I naufraghi raggiunsero poi una tenda beduina, i cui
occupanti, appreso che i marinai erano italiani e viste le loro pietose
condizioni, li accolsero benevolmente. Poco dopo sopraggiunse tuttavia un
autocarro con soldati arabi, che arrestarono i marinai italiani per portarli in
un campo d’internamento. Analoga sorte ebbe il resto dell’equipaggio, che, dopo
aver camminato per una settimana nel deserto senza cibo né acqua – fu solo un
violento temporale ad impedire che morissero di sete –, raggiunse infine un piccolo
villaggio vicino a Scio Aiba.
Ancora Ennio Giunchi:
“Cominciò la marcia verso Gedda, nel deserto. Un passo dopo l’altro si faceva
strada nei marinai la convinzione che la meta era molto più lontana del
previsto. La stanchezza spingeva a disfarsi di quel po’ di vestiario e persino
dei viveri di cui ciascuno era stato provvisto; dell’acqua no, l’acqua era
troppo preziosa per buttarla [da altro racconto sembra che cibo ed acqua non ci
fossero proprio]. La marcia, interrotta dall’avvistamento di un aereo che
perlustrava la costa, durò fino a notte. All’alba i naufraghi furono svegliati
da un violento acquazzone provvidenziale, che offrì agli assetati un po’
d’acqua di pozzanghera. Ancora un giorno, ancora una notte di marcia, e Gedda
pareva allontanarsi, diventare irraggiungibile. Il mattino del 5 il comandante
suddivise i marinai in gruppi, in modo che coloro i quali si trovavano nelle
migliori condizioni fisiche potessero procedere più spediti e, raggiunta Gedda,
inviare soccorsi. Nelle prime ore del pomeriggio i gruppi più avanzati
trovarono un pozzo d’acqua salmastra e poterono dissetarsi e, rinfrancati,
marciare più velocemente. Frattanto sui ritardatari la sete e la stanchezza
cominciavano a produrre i loro effetti. Mi hanno descritto quell’ultimo giorno di
marcia come una sorta di allucinazione: stomaco vuoto, gola arsa, paura di
perdersi, muscoli intorpiditi… Chi s’accascia e non vuol più camminare; chi
grida di gioia improvvisa, corre traballando, s’inginocchia dove il miraggio o
il desiderio gli fanno vedere una pozza d’acqua fresca, e raccoglie sabbia nel
cavo delle mani tremanti; uno procede impettito, come un automa, recitando
versetti della Bibbia… Un gruppo fu assalito, coltelli alla mano, da alcuni
Beduini che credevano di metter le mani su chi sa quali ricchezze. Un altro
gruppo s’impadronì a forza di un cammello per sgozzarlo e dissetarsi, prestando
fede a quel che si narra dalla “nave del deserto” e della sua provvista d’acqua
fresca: dalla ferita sgorgò un liquido fumante e fetido. Infine, nella notte
del 6, un automezzo portò i primi soccorsi; anche quelli del Battisti avevano finito il loro
calvario”.
Le autorità arabe, in
virtù della neutralità del loro paese, procedettero infatti all’internamento
dei marinai italiani, che furono confinati sull’assolata isoletta sabbiosa di
Abu Sa’ad (o più precisamente in due isolotti, Abu Sat ed Alu Ast), ad otto
miglia da Gedda ed a circa un miglio e mezzo dalla costa. Non sarebbero rimasti
soli a lungo: nei giorni successivi si unì a loro anche l’equipaggio del Tigre, mentre quello del Pantera e parte di quello del Manin – tutti i cacciatorpediniere erano
stati affondati od autoaffondati nel tentativo di raggiungere Port Sudan –
furono internati nella vicina isola di El Wasta.
Qui sarebbero rimasti
per quasi due anni, in condizioni simili più alla prigionia che
all’internamento: alloggiati in capannoni aperti e senza pavimentazione e
nutriti con cibo avariato – di regola una brodaglia di farina di fecola, avena
ed insetti –, tanto da costringere molti a catturare i topi, che infestavano il
luogo (giungendo nottetempo a mordere piedi ed orecchi degli internati, i quali
dovevano dormire sulla sabbia), per cucinarli con spezie locali e mangiarli.
Non era comunque il
tempo che mancava, ed i marinai lo misero a frutto migliorando la propria
sistemazione con mezzi di fortuna: vennero realizzate baracche per ufficiali e
marinai, mensa, cucina, forno ed un’officina che a sua volta realizzò per prima
cosa utensili (ricavati dalle parti più disparate: una lima venne ottenuta da
una balestra di automobile, pezzi di imbarcazioni furono usati come chiodi) e
poi pentole e stoviglie; venne ideato un motore a vento per caricare gli
accumulatori. La legazione italiana in Arabia Saudita fornì una radio
ricevente. Vennero realizzati persino una palestra per fare ginnastica ed un
teatrino, dove gli internati organizzarono regolari rappresentazioni per
passare il tempo. Nonostante tutto, comunque, la situazione restava piuttosto
precaria.
Uno degli uomini del Battisti non sopravvisse all'internamento: Giuseppe Bianchi, sergente specialista in direzione del tiro, morì infatti ad Abu Sa'ad il 30 dicembre 1942.
Qualche naufrago del Battisti riuscì a sfuggire; uno di essi
riuscì anche a tornare in Etiopia dove si sarebbe poi stabilito, sposando
anche, anni dopo, una nipote del Negus Hailè Selassiè.
Nel giugno 1942
Italia e Regno Unito, con la mediazione della Turchia, avviarono negoziati per
uno scambio di prigionieri: in cambio della liberazione di 838 prigionieri di
guerra britannici, australiani e sudafricani in mano italo-tedesca, la Gran
Bretagna avrebbe acconsentito al rilascio, da parte dell’Arabia Saudita, di 788
internati italiani e tedeschi, ossia i superstiti di Battisti, Tigre, Pantera e Manin più un certo numero di marittimi tedeschi e di civili e
militari italiani fuggiti in Arabia alla caduta dell’Eritrea. L’accordo era
stato sollecitato dall’Arabia Saudita – all’epoca ancora paese arretrato e di
risorse limitate, non ancora divenuta la ricca nazione petrolifera oggi
conosciuta –, desiderosa di disfarsi di tante “bocche da sfamare” (nonché da
alloggiare e curare) capitate indesideratamente sul proprio territorio, e che
altrimenti avrebbe dovuto mantenere per il resto della guerra. Da parte sua, il
Regno Unito avrebbe voluto evitare che centinaia di marinai ancora abili
potessero tornare in forza alla regia Marina, ma d’altra parte non gradiva la
presenza di tanti militari nemici, sebbene internati e disarmati, non lontani
dalle linee di comunicazione britanniche tra Egitto ed India.
Fu proprio la Turchia
a suggerire ai britannici come risolvere il secondo problema compensando il
primo: cioè scambiando gli internati italiani con prigionieri britannici. La proposta
turca, fatta nel giugno 1942 e che accolse il favore dell’Arabia, venne
accettata dai governi britannico ed italiano rispettivamente l’11 ottobre 1942
(pochi giorni dopo essere stata ad esso sottoposta dalla Turchia) ed il 22
gennaio 1943.
Lo scambio ebbe luogo
tra il 20 ed il 21 marzo 1943 nel porto di Mersina, nella neutrale Turchia, dove
i 788 internati italo-tedeschi furono trasportati dal piroscafo britannico Talma, che li aveva imbarcati a Gedda.
Nel porto turco era contemporaneamente giunta la nave ospedale italiana Gradisca, con gli 838 prigionieri del
Commonwealth: prigionieri ed internati vennero poi trasbordati da Talma a Gradisca e viceversa mediante delle chiatte.
Lo scambio era
avvenuto al di fuori delle regole stabilite dalla Convenzione di Ginevra del
1929 (articolo 74: i prigionieri scambiati non possono più essere impiegati in
servizi militari attivi), così gli uomini scambiati tornarono nuovamente a
combattere, e morire: tra di essi vi fu anche l’ex comandante del Battisti, il capitano di corvetta
Riccardo Papino. Assegnato al comando della torpediniera Lince, vi avrebbe trovato la morte nel siluramento da parte del
sommergibile britannico Ultor il 28
agosto 1943. Ennio
Giunchi, ricordandone la morte nel suo libro "Epilogo in Mar Rosso", rievocava
un breve momento trascorso ad Abu Sa’ad, l’ultimo dell’anno del 1942: "…negli
intervalli di silenzio udivo il rombo perenne del mare sulla barra; pareva che
quella voce possente si avventasse sull’isola come un’oscura minaccia, come un
sinistro commento ai nostri sogni umani. Il comandante Papino e il direttore
Pasino scherzavano presso la porta della mia stanza. Pasino sosteneva che il prossimo
Capodanno l’avremmo festeggiato in Italia; Papino scommetteva che entrambi, di
lì a un anno, si sarebbero ritrovati in quello stesso punto a far progetti per
l’anno dopo. Posta della scommessa, una cena. A Capodanno del 1944, Pasino era
di nuovo internato, in Spagna. Ma il comandante Papino forse quella notte si è
ritrovato all’appuntamento, all’angolo della mia stanza di Abu Sa’ad. Forse ha
vagato inquieto per l’isola, cercando i compagni. Tante volte misurammo insieme
quei quattro passi di scoglio, parlando di comuni ricordi, di speranze, dei
nostri bimbi. Papino è morto in mare, presso Punta Alice, poche settimane prima
dell’armistizio…"
(foto Falzone, via g.c. Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
Il ricordo del
fuochista artefice Parigi Betti, classe 1918, da un articolo di Gaetano Rossi
sul periodico “Ariminum” del Rotary Club di Rimini, anno XII, n. 2
(marzo-aprile 2005):
"(…) Ma l’impresa più
epica, sia nostra che dei nostri sommergibilisti, avvenne proprio quando gli
Inglesi, da terra, caduta Cheren, si apprestarono ad occupare Massaua. Da
Supermarina venne allora l’ordine di autoaffondare le navi in porto, ma noi
rifiutammo l’idea e decidemmo di vender cara la pelle e di non dar loro
quest’ultima soddisfazione. L’unico MAS rimasto efficiente (MAS 213, Guardiamarina Valenza) prima di
autoaffondarsi, uscì al largo ed attaccò, da solo, un intero gruppo di navi
inglesi che come avvoltoi aspettavano da lontano che il porto cadesse. Riuscì a
silurare un incrociatore [il Capetown,
nda] rendendolo inservibile. Quanto a noi dei cacciatorpedinieri [sic] si
decise un’impresa disperata. All’ordine: "Partenza senza ritorno!", consapevoli
che nessuno o quasi si sarebbe salvato, progettammo l’idea di tentare di
raggiungere Port Sudan per bombardarlo, se ci fossimo riusciti, con la certezza
che saremmo affondati almeno combattendo. Il pomeriggio del 2 aprile, a bordo
dei CT Battisti, Pantera, Tigre, Sauro e Manin (rispettivi comandanti: Papino, Gasparini, Tortora, Moretti
degli Adimari, Fadin), infischiandocene dell’intimazione inglese di resa,
uscimmo dal porto sapendo bene a cosa andavamo incontro. Si trattava di eludere
il blocco assediante, percorrere 300 miglia in acque controllate dal nemico e
giungere davanti a Port Sudan di giorno per evitare le insidiose scogliere affioranti
che ne proteggevano l’ingresso, ed infine combattere contro navi, batterie
costiere ed aerei che non ci avrebbero lasciato scampo. Ma almeno saremmo stati
uccisi o presi prigionieri combattendo con onore. La missione era pressoché
impossibile, ardita, temeraria, suicida; ma ne valeva la pena. Purtroppo la
nostra nave dopo alcune ore andò in avaria rallentò l’andatura e perdemmo i
contatti con le altre. Dopo poco dovemmo avvicinarci alla costa araba per
sfuggire ad un incrociatore che ci aveva individuato e ci inseguiva lanciando
siluri che però non ci colpirono mai. Giunti in prossimità di alcune isolette
il comandante decise di autoaffondarci per non far cadere l’unità nelle mani
nemiche; quanto a noi, la costa non era lontana ed avremmo potuto raggiungerla
a nuoto. Dopo che ci fummo gettati in mare un aereo inglese prese a lanciare
bombe nelle nostre vicinanze. In un primo tempo lo maledicemmo ritenendola una
vigliacca maramalderia alla quale ci avevano abituato altri loro comportamenti;
ma poi capimmo che invece lo faceva per aiutarci, per allontanare gli squali
che pullulano in quel mare. Infatti a non più di venti metri da me un ragazzo
fu ghermito da uno di quei mostri; lo sentii gridare disperatamente “mamma!
mamma!” e poi lo vidi scomparire sott’acqua gesticolando. Lo conoscevo bene e
conoscevo i suoi ma non ho mai avuto il coraggio di raccontare alla madre di
come morì. Come Dio volle giungemmo a riva, ma era zona di pieno deserto.
Eravamo rimasti in 195. Ci dividemmo, a seconda delle forze per non rallentarci
a vicenda. Noi giovani, più spediti, camminammo per tre giorni e tre notti
prima di vedere un’anima viva: una donna che trasportava acqua e che ce la
vendette per pochi soldi. Poi giungemmo ad una tenda beduina. Constatato il
nostro miserevole stato e saputo che eravamo italiani, ci accolsero con grande
cordialità. Poco dopo giunse però un camion con soldati inglesi [in realtà
arabi, nda] che ci presero in consegna per poi portarci in campo di
concentramento su due isolotti fetidi ed assolati Abu Sat e Alu Ast, dove si
viveva in capannoni privi di pareti e di pavimento, insieme a qualche altro
centinaio di prigionieri. Il cibo era pessimo e le vivande regolarmente
avariate. “Pasta e carne a volontà” diceva il cuoco quando, gettata nella brodaglia
che bolliva nel grande calderone la farina di fecola o l’avena o qualche altra
porcheria, iniziavano a galleggiarvi decine di insetti d’ogni tipo. Per fortuna
c’erano i topi, che di notte venivano a morderci piedi ed orecchi (visto che
dovevamo dormire sulla nuda terra), e che invece prendevamo e cucinavamo a
dovere, a mò di conigli in porchetta, date le dimensioni, insaporendoli con
spezie ed aromi arabi. Qualcuno storcerà il naso, ma è a quella dieta di
proteine “particolari” che molti di noi devono la vita! (…)"
Il Battisti ed il gemello Nullo
in una cartolina (g.c. Giuseppe Garufi via www.naviearmatori.net)
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Bsera Lorenzo. Il CC Riccardo Papino, nato a Torino il 10 ottobre 1908, era ammogliato con un figlio. Ufficiale in spe dal 1929, era stato promosso nel 1941.
RispondiElimina... La sera del 1 aprile Papino sostitui' nel comando del Battisti il CC Aldo Naccari, improvvisamente ammalatosi. Grazie
RispondiEliminaGrazie, sistemo.
EliminaMio nonno era su quella nave. Si chiamava giuseppe elia
RispondiEliminamio nonno ci raccontava di come gli squali si portarono i suoi compagni. ci portava a letto e dopo averci addormentati, si assopiva e cominciava a gridare: Corrado aiutami! Corrado Balducelli si chiamava, fu restituito colla scambio di prigionieri inglesi in Turchia.
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