La Monsone (Coll. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net) |
Torpediniera di
scorta della classe Ciclone (dislocamento standard 1113 tonnellate, a pieno
carico 1683 t). Ebbe una breve ma intensa vita sulle rotte dei convogli tra
l’Italia ed il Nordafrica.
Breve e parziale cronologia.
18 giugno 1941
Impostazione nei
cantieri Navalmeccanica di Castellammare di Stabia.
7 giugno 1942
Varo nei cantieri
Navalmeccanica di Castellammare di Stabia.
28 novembre 1942
Entrata in servizio.
31 gennaio 1943-2 febbraio 1943
Parte da Napoli alle
4.30 del 31 gennaio insieme al cacciatorpediniere Saetta ed alle torpediniere Sirio,
Clio ed Uragano, per scortare a Biserta, via Palermo, le moderne motonavi
da carico Manzoni, Mario Roselli ed Alfredo Oriani.
Il 31 gennaio il convoglio viene infruttuosamente attaccato (con lancio di
siluri), a nordovest della Sicilia, dal sommergibile britannico Turbulent.
Alle 17.45 del 1°
febbraio le navi giungono a Palermo, dove sostano sino alle 00.30 del 2, poi
ripartono alla volta di Biserta. Il convoglio giunge nel porto tunisino alle 15
del 2 febbraio.
3-4 febbraio 1943
Monsone, Uragano, Sirio (caposcorta CV Corrado
Tagliamonte), Clio e Saetta ripartono da Biserta alle 5.30
del 3 febbraio per scortare a Napoli (via Trapani) la grande motonave cisterna Thorsheimer, di ritorno scarica. Il
cielo è sereno, con mare agitato per vento da Maestrale, e mediocre visibilità
(poi peggiorato con mare forza 4-5 e poi 5 da nordovest, vento di Maestrale
forza 6 e foschia); le unità del convoglio seguono inizialmente in linea di
fila la Sirio a bassa velocità, poi
accelerano sino a raggiungere la velocità prefissata per la traversata, quindi,
alle 6.50 (al traverso dell’Isola dei Cani, circa dieci miglia a nordest di
Biserta) si portano in formazione su file parallele distanziate di 300 metri, e
fanno rotta verso nord. La Monsone
procede in testa al convoglio, conducendo la navigazione, seguita di 1500 metri
dalla Thorsheimer, protetta a dritta
da Uragano e Saetta ed a sinistra da Sirio
e Clio.
Alle 8.17 Monsone ed Uragano – uniche unità della scorta ad essere dotate di
ecogoniometro, essendo anche le più moderne – riferiscono che il mare agitato
disturba parecchio la ricerca con l’ecogoniometro a frequenza acustica «Safar»
di cui sono dotate (il quale, sistemato nel casotto di rotta, non fornisce più
indicazioni quando la nave rolla, oltre ad essere rumoroso, poco illuminato ed
affetto da echi accessori).
Tra le 8.40 e le
9.26, le navi rollano e scarrocciano violentemente, ed il rollio ostacola
l’impiego dello scandaglio, oltre ad impedire, insieme alla foschia, di
calcolare la posizione con precisione per capire se si stia seguendo la rotta
(le unità del convoglio non lo sanno, ma sono già scadute di un miglio più ad
est della rotta prevista). Alle 9 la Thorsheimer
segnala che aveva dovuto abbassare la velocità a dieci nodi.
Alle 9.38 il
convoglio ha appena accostato a dritta per dirigere su Marettimo, quando l’Uragano, nel punto 37°35’ N e 10°37’ E,
urta una mina (appartenente ad uno sbarramento di 160 ordigni posato il 9
gennaio 1943 dal posamine britannico Abdiel
a sud di Marettimo ed al largo del banco di Skerki, circa 40 miglia a nordest
di Biserta) e rimane immobilizzata, con la poppa semidistrutta.
Le altre navi, avendo
visto l’imponente colonna di fumo ed acqua sollevatasi a poppa della
torpediniera al momento dell’esplosione, cercano di contattare l’Uragano con la radio ad onde ultracorte,
ma inizialmente non vi è alcuna risposta, poi la nave segnala “colpito da
mina”.
Alle 9.40 il
caposcorta, compreso che l’Uragano ha
urtato una mina, ordina alla Clio ed
al Saetta, che procedono in linea di
fila con un intervallo di 500 metri tra di loro, di avvicinarsi all’Uragano per darle assistenza; il Saetta fa presente di essere la nave con
il maggiore pescaggio, dunque più vulnerabile alle mine, ma non riceve risposta.
Mentre avviene questo scambio di messaggi, anche la Monsone comunica alla Sirio,
tramite l’apparato ad onde ultracorte, “ritengo di essere un po’ a sinistra”,
ma il caposcorta Tagliamonte, ritenendo invece – da quanto accaduto all’Uragano – che il convoglio si trovi a
dritta, e vedendo la Monsone venire a
dritta, le ordina di tornare sulla propria rotta, a meno che non rilevi degli
echi di mine all’ecogoniometro.
Intanto il Saetta, ridotta la velocità a mezza
forza, inizia l’accostata con tutta la barra a sinistra come ordinato, ma alle
9.48, giunto a 200 metri dalla nave danneggiata, urta a sua volta una mina,
spezzandosi in due e colando a picco in una cinquantina di secondi, portando
con sé gran parte dell’equipaggio.
Alle 9.50 la Clio riferisce che il Saetta ha urtato una mina, ed alle 9.51
la Sirio ordina alla Clio, che non si può avvicinare di più
per non fare la stessa fine, di fermarsi e raccogliere i naufraghi con il
proprio battello, mentre il resto del convoglio procede sulla rotta; il
maltempo frustra però anche il tentativo della Clio, ed alle 10 il caposcorta, constatata l’impossibilità
dell’intervento da parte di questa unità (mare e vento la farebbero
scarrocciare, ed impedirebbero l’utilizzo del battello), deve ordinare anche ad
essa di rinunciare al soccorso e di seguire la Sirio nella scia.
Alle 10 Supermarina,
che, avendo ricevuto notizia alle 9.55 di quello che è successo al Saetta, nonché dell’impossibilita di
soccorrere i naufraghi a causa del vento e del mare forza 5, ordina al resto
del convoglio di tornare in formazione e proseguire verso Napoli.
Il convoglio
riorganizza la propria formazione, passando in linea di fila e poi in file
parallele, con la Monsone in testa,
la Thorsheimer nella sua scia, la Clio a dritta della cisterna e la Sirio alla sua sinistra. Alle 12.05 il
caposcorta segnala di nuovo a Supermarina la situazione disperata dell’Uragano, chiedendo a Biserta di mandare
mezzi di soccorso.
Alle 12.20 vengono
avvistati undici tra bombardieri ed aerosiluranti angloamericani scortati da
quattro caccia, che alle 12.25 passano all’attacco: la scorta aerea tedesca,
però, intercetta gli attaccanti, che vengono anche presi sotto il tiro delle
armi contraeree delle navi dl convoglio. Uno dei velivoli nemici viene
abbattuto e precipita in mare; nessuna nave viene colpita.
Alle 13.33 il
convoglio riceve l’ultimo messaggio dell’Uragano,
che ribadisce la propria critica posizione. Poi più nulla: la torpediniera è
affondata.
Alle navi del
convoglio non rimane che proseguire la navigazione, zigzagando in linea di
fila. Le navi passano al traverso dell'Isola Formica e di Capo San Vito, poi,
giunte al traverso dell'Isola delle Femmine, fanno rotta per Napoli. Alle 23 la
Clio è colta da un’avaria di
macchina, che la costringe a riparare a Palermo. Monsone, Sirio e Thorsheimer proseguono, venendo
ripetutamente sorvolate da aerei. Viene più volte ordinato il posto di
combattimento, e la navigazione viene rallentata anche da varie avarie che
colpiscono le pompe della Sirio.
Alle 6.20 del 4
febbraio vengono avvistate a dritta due motosiluranti italiane, ed alle 12.50
quel che resta del convoglio entra nel porto di Napoli, ormeggiandosi infine
alle 13.15 di punta al Molo San Vincenzo.
Il bilancio finale
sarà pesante: sono scomparsi in mare 114 uomini dell’Uragano e 170 del Saetta,
con soli 15 e 39 sopravvissuti.
15-16 febbraio 1943
La Monsone (CC Emanuele Filiberto
Perrucca-Orfei) salpa alle 11.20 del 15 da Palermo unitamente alla torpediniera
Sirio (caposcorta), all’anziano
cacciatorpediniere Augusto Riboty ed
alle nuovissime corvette Gabbiano ed Antilope, per scortare a Biserta un
convoglio formato dai piroscafi Alcamo,
Frosinone e Chieti e dalla piccola motocisterna Labor. Dopo otto ore di navigazione la scorta perde il Riboty, costretto al rientro da delle
avarie.
Alle 23.28
l’ecogoniometro della Monsone rileva
il rumore generato da due motori a scoppio distanti circa 3000 metri, su
rilevamento polare 300°: sono le motosiluranti britanniche MTB 77 e MTB 82 e la
motocannoniera MGB 61 (quest’ultima,
essendo sprovvista di siluri, aggirerà il convoglio ed attirerà su di sé
l’attenzione della scorta, in modo da agevolare l’attacco delle motosiluranti),
che stanno per attaccare il convoglio. Subito dopo la torpediniera avvista anche
visivamente le tre unità nemiche, ma non può comunicarlo al resto del convoglio
perché la radio ad onde ultracorte si è guastata; comunque, quasi
contemporaneamente anche la Gabbiano
le avvista, vedendo che hanno messo in moto e stano dirigendo verso il
convoglio.
Tutte le unità della
scorta, ed anche i mercantili, aprono il fuoco, cui le piccole unità
britanniche, che procedono velocissime, rispondono con il tiro delle proprie
mitragliere, i cui proiettili hanno codette luminose azzurre e rosse poco luminose.
Le due motosiluranti, pur venendo colpite più volte (da bordo delle navi
italiane si vede un’esplosione a prua di una di esse), serrano le distanze,
penetrano nel perimetro del convoglio e compiono diversi giri. La MTB 77 lancia un siluro da 400 metri
contro l’Alcamo, mancandolo, poi
accosta per lanciare contro il Chieti
ma viene colpita, ed il siluro non parte; la motosilurante mitraglia il Chieti mentre gli passa davanti prima di
allontanarsi inseguita dal tiro delle unità italiane, che la colpiscono più
volte. La MTB 82 lancia a sua volta
un siluro contro l’Alcamo, poi deve
ritirarsi a causa dell’intenso fuoco italiano, seguendo la MTB 77 e venendo colpita da un proiettile a poppa.
L’Antilope vede passare a poppavia,
lontani, uno o forse due siluri. Le due motosiluranti (la motocannoniera si è
dileguata) si ritirano verso sudest lanciando in mare due piccoli segnali
luminosi, vanamente inseguite dalla Sirio,
cui si unisce in seguito anche la Monsone.
Alle 00.40 le due motosiluranti
tornano alla carica, venendo avvistate dalla Sirio su rilevamento polare 205°, ma la reazione della scorta
(preciso fuoco di mitragliere) le respinge nuovamente senza che si abbiano a
lamentare danni al convoglio. All’1.30 una singola motosilurante attacca per la
terza volta, ma di nuovo deve invertire la rotta ed andarsene dopo essere stata
bersagliata dal preciso tiro delle mitragliere. In mattinata si unisce alla
scorta la torpediniera Clio, inviata
a sostituire il Riboty.
Le navi italiane
dovranno superare anche alcuni attacchi aerei, prima di poter finalmente
giungere a Biserta, senza danni, alle 23.45 del 16.
24-25 febbraio 1943
Il 24 la Monsone, insieme alle gemelle Fortunale ed Animoso, lascia Biserta per scortare a Napoli i piroscafi Alcamo, Chieti e Stella che tornano
scarichi in Italia. Nella notte tra il 24 ed il 25 (bene illuminata dalla luce
lunare), a nord di Trapani e 45 miglia a nordovest di Ustica, il convoglio viene
assalito da tre aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron
della RAF. Uno dei Beaufort (maggiore Richard S. O. Marshall, capo formazione)
lancia infruttuosamente contro un’unità della scorta ed un altro (sergente
Richard J. S. Dawson) viene abbattuto con la morte di tutto l’equipaggio, ma il
Beaufort pilotato dal tenente John Cartwright, all’1.30, colpisce con il
proprio siluro l’Alcamo. Il piroscafo
rimane immobilizzato, e deve essere preso a rimorchio dalla Monsone.
Qualche ora dopo,
però, avviene un nuovo attacco aereo sempre ad opera del 39th
Squadron, ed alle 3.15 l’Alcamo viene
colpito da un secondo siluro e da diverse bombe: il piroscafo affonda infine nel
punto 39°14’ N e 12°30’ E. Gli attaccanti perdono un aerosilurante Bristol
Beaufort, precipitato in mare: è la Monsone
a recuperare da un battellino in lento sgonfiamento i tre superstiti del suo
equipaggio (i sergenti A. J. Coles, R. Bradford e A. L. Brice, mentre il pilota,
sottotenente James Cecil William Hewetson, è rimasto ucciso nell’ammaraggio,
così come il sergente William B. Richards) che sbarcherà poi a Napoli.
L’affondamento
Il 1° marzo 1943 la Monsone, al comando del capitano di
corvetta Emanuele Filiberto Perrucca Orfei, si trovava ormeggiata nel porto di
Napoli, quando la città partenopea subì un bombardamento da parte di nove aerei
della 9th USAAF (ne erano decollati 19, ma gli altri si erano
dispersi, ed uno era andato perduto), aventi come obiettivo il porto e le navi.
Le bombe centrarono sia gli obiettivi che la città stessa, dove provocarono
trenta morti tra la popolazione civile.
La Monsone, ormeggiata alla banchina
torpediniere, venne colpita da alcune bombe e, dopo una breve agonia, affondò
dov’era ormeggiata intorno alle sei di sera. L’unità fu l’unica vittima del
bombardamento, che però danneggiò anche la motonave Alfredo Oriani ed il piroscafo Rhea,
gravemente, e la motonave Ines Corrado
ed altre due torpediniere, lievemente.
Maro Miccinesi,
all’epoca imbarcato come aspirante guardiamarina sulla torpediniera Animoso, gemella della Monsone, descrisse – romanzandolo in
alcuni particolari ed omettendo il nome della nave – l’affondamento della nave,
che si trovava ormeggiata accanto all’Animoso,
in un capitolo (“Una tomba d’acqua”) del suo libro “La rotta insanguinata”. La Monsone era stata colpita a prua,
probabilmente da una bomba che ne aveva attraversato tutti i ponti per poi
esplodere sotto la chiglia, appena a proravia della sala macchine: le
sovrastrutture prodiere erano state distrutte, lasciando il posto ad una
voragine che scendeva fin nello scafo, il cannone prodiero era stato sradicato
e piegato al punto che la volata toccava il ponte di coperta, le mitragliere
della tuga erano sparite, strappate dalle loro sedi, ed un incendio si era
sviluppato dove si trovavano in precedenza le sovrastrutture della plancia,
demolite dalla bomba. La torpediniera, devastata in ogni sua parte, aveva
iniziato ad affondare di prua. Ma non era questo il peggio.
Tre uomini del
servizio di sicurezza – la ridotta parte dell’equipaggio che aveva l’incarico
di restare a bordo a tenere la nave sotto controllo durante i bombardamenti in
porto (un maggior numero di uomini non sarebbe servito a nulla, essendo
impossibile difendersi con le armi di bordo da bombardieri che volavano a
diverse migliaia di metri d’altezza) – erano rimasti feriti ed intrappolati nel
castello di prua, perché la porta stagna attraverso la quale sarebbero potuti
uscire si era incatastata e non poteva più essere aperta. Non appena
l’incursione era finita, mentre i feriti venivano caricati sulle barelle e
sulle ambulanze, sia il superstite equipaggio della Monsone che gli uomini dell’Animoso,
guidati dal loro comandante (capitano di corvetta Camillo Cuzzi), avevano
iniziato a tendere numerose cime e cavi tra le due navi, assicurandole ovunque
possibile – verricelli, basamenti delle mitragliere – sull’Animoso, nel tentativo di mantenere la Monsone a galla abbastanza a lungo da poter liberare gli uomini
intrappolati. Analogamente, altri cavi e cime venivano alati, tesi ed
assicurati ad una seconda nave, ormeggiata sul lato opposto della Monsone rispetto all’Animoso, ed anche alla banchina.
Miccinesi ricevette
l’ordine di salire sulla Monsone e
portarsi a prua, e così fece – attraverso una passerella di fortuna gettata a
poppa, mentre quella originaria era stata lanciata via dalle esplosioni –,
superando faticosamente la barriera costituita dai rottami contorti delle
sovrastrutture prodiere. Qui un grosso cavo da rimorchio in acciaio, passato
dall’Animoso, venne assicurato ad un
verricello. La Monsone continuava
però ad appruarsi: a prua si era già abbassata di più mezzo metro; quando il
cavo si fu teso, la velocità dell’appruamento sembrò rallentare, ma poi il cavo
si spezzò e la prua sprofondò di altri 20 centimetri.
Miccinesi venne
allora mandato in arsenale a cercare delle fiamme ossidriche: si intendeva
aprire dei varchi sia in corrispondenza della porta stagna bloccata che del
ponte di coperta. Tornato con quattro fiamme ossidriche, spinte di corsa dagli
uomini sui carrelli fino alla banchina torpediniere, trovò che, forse per il
cedimento di una paratia, la Monsone si
era abbassata sull’acqua di oltre un metro, non più solo a prua, ma anche a
poppa, dove sino ad allora era rimasta in assetto normale. Tutti gli ormeggi ed
i cavi tesi con la banchina e le altre due navi si erano spezzati, ed un
marinaio aveva avuto una gamba fratturata. Intanto tutti gli uomini che erano
stati a terra in libera uscita o nei rifugi erano tornati alle navi, e tutti si
davano da fare. Altri cavi stavano venendo preparati; gli operai dell’officina
dell’arsenale accesero le fiamme ossidriche, due delle quali furono portate in
coperta, mentre altre due furono calate nella voragine aperta a prua dalle
bombe, in fondo alla quale si trovava la porta stagna bloccata che comunicava
con il castello di prua. Ma la Monsone
stava affondando rapidamente; i tre uomini intrappolati potevano mettere le
teste fuori dagli oblò, che però non erano abbastanza larghi perché vi
potessero passare con tutto il corpo, mentre gli altri marinai cercavano di
farli calmare. I tre uomini cercarono in ogni modo di uscire attraverso gli
oblò – ad un certo punto, due di essi spinsero il terzo cercando di farlo
uscire con le gambe in avanti – ma non servì a nulla. Intanto erano arrivate
altre due fiamme ossidriche, che si aggiunsero a quelle già all’opera; altri
due uomini avevano iniziato a prendere a mazzate la porta stagna, che tuttavia
l’esplosione aveva deformato tanto da rendere impossibile la sua apertura.
Arrivò anche un pontone gru, che si unì agli sforzi per tenere la Monsone a galla, ma la nave continuava
ad affondare. L’acqua era arrivata a meno di mezzo metro dagli oblò da cui i
tre uomini si affacciavano; quando raggiunse le fiamme ossidriche che stavano
lavorando alla porta stagna, queste dovettero essere issate in coperta, e tutti
gli sforzi si concentrarono nel tentativo di aprire un varco dal ponte. Alla
fine, quando non mancavano che cinque centimetri perché gli oblò fossero
raggiunti dall’acqua, i cavi tesi a poppa si spezzarono sotto l’immane peso
della nave allagata; le ultime paratie cedettero con un boato “sordo e
lamentoso”. Gli uomini radunati in coperta e sulle banchine, che avevano
continuato a gridare incitazioni a fare presto ed incoraggiamenti agli uomini
bloccati, tacquero. Un ufficiale a prua dell’Animoso si tolse il berretto, tutti si misero sull’attenti; gli
operai al lavoro sulla Monsone
dovettero gettarsi in acqua e raggiungere a nuoto il pontone. La torpediniera
continuò ad affondare con esasperante lentezza, poi, con un ultimo scossone, si
adagiò sul fondale, lasciando emergere solo il fumaiolo. “Una bolla d’aria
provoca un risucchio, l’acqua vortica, torna tranquilla. Il silenzio è totale,
gli uomini fissano lo specchio d’acqua su cui, ancora una volta – orrenda,
crudele – ha celebrato il suo guerresco trionfo la morte”.
Otto furono in tutto
le vittime tra l’equipaggio della Monsone,
mentre altri 18 uomini rimasero feriti. Il bilancio sarebbe stato molto più
pesante se a bordo, invece del solo servizio di sicurezza, si fosse trovato
tutto l’equipaggio.
Le vittime:
Giuseppe Apuzzo, sottocapo S. D. T., deceduto
Ionio Cateni, marinaio segnalatore, deceduto
Carmelo De Felice, marinaio, deceduto
Paolo Garoglio, capo furiere di terza classe,
deceduto
Santo Latella, marinaio, deceduto in
territorio metropolitano il 3.3.1943
Antonio Spadafora, marinaio fuochista,
deceduto
Bartolomeo Tarzariol, sergente cannoniere,
deceduto
Ferruccio Venturini, fuochista, deceduto in
territorio metropolitano il 4.3.1943
Il relitto della
torpediniera venne recuperato nel 1946 solo per essere demolito.
La bandiera di
combattimento della Monsone è
oggi conservata nel suo cofanetto al Sacrario delle Bandiere del Vittoriano.
mio nonno era fuochista sulla monsone, qualcosa mi raccontò
RispondiEliminaSalve, ottimo e documentatissimo articolo! Potrei cortesemente chiederle quali fonti usa con riguardo al numero dei bombardieri americani? Mi interessa in particolare da quale fonte risulta il numero di nove aerei che effettivamente sganciarono i loro ordigni, e le circostanze che portarono i rimanenti dieci bombardieri a disperdersi, sto cercando di figurarmi in dettaglio che avvenne la mattina del 1° marzo 1943 a Napoli. Nell'articolo si scrive anche :" Le bombe centrarono sia gli obiettivi che la città stessa, dove provocarono trenta morti tra la popolazione civile." questo passaggio ha un riscontro esatto nelle cronache del 1943?
RispondiEliminaBuongiorno,
Eliminale informazioni sia sul numero degli aerei in totale, che sul numero di quelli arrivati, che sui danni e vittime tra la popolazione civile sono tratte dal libro "Bombardate l'Italia. Storia della guerra di distruzione aerea 1940-1945" di Marco Gioannini e Giulio Massobrio, e più precisamente dall'appendice online (sul sito Rizzoli, ma oggi non più disponibile) di tale libro, nel quale per ogni bombardamento sulle maggiori città italiane erano indicati i dati fondamentali (numero di aerei partecipanti, arrivati, perduti; obiettivi; cosa effettivamente fu colpito; vittime civili). Non conosco il motivo del mancato arrivo degli altri bombardieri; potrebbe essere stato dovuto, ad esempio, a maltempo che abbia portato alla parziale dispersione della formazione e che abbia impedito agli altri bombardieri di raggiungere l'obiettivo.
Grazie. Ho potuto verificare il dato dalla pubblicazione di Marco Gioannini e Giulio Massobrio con quelli disponibili sul web e relativi ai reparti di bombardieri americani americani impiegati nel bombardamento del primo marzo 1943 (cioè il 98th Heavy Bombardemente Group e il 376th Heavy Bombardement Group). Il dato mi pare corretto, i velivoli americani giunti su Napoli partirono dalla Libia (campi di Benina e Soluch) arrivando sulla città alle ore 16.30 circa, i primi due due velivoli isolati, poi tra le ore 18.00 e le 18.30 circa la seconda formazione di circa sette velivoli.
EliminaSaluti
Antonio
Salve Lorenzo. Il CC comandante del Monsone, era Perucca Orfei, nato a Firenze il 5 ottobre 1909, che era stato sul Pleiadi e poi passo' al comando dell'Indomito...
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