La nave a Taranto nel 1939 (Coll. E. Bagnasco via M. Brescia ed Associazione Venus) |
Cacciatorpediniere della classe Oriani (“classe Poeti”, dislocamento standard 1750 tonnellate, 2130 in carico normale, 2320 a pieno carico). Durante il secondo conflitto mondiale effettuò 35 missioni di guerra (8 con le forze da battaglia, 5 addestrative, 4 di scorta convogli, 3 di bombardamento contro costa e 15 di altro tipo), percorrendo in tutto 16.710 miglia e passando solo 26 giorni ai lavori.
Breve e parziale cronologia.
4 aprile 1936
Impostazione nei
cantieri Odero Terni Orlando di Livorno.
20 dicembre 1936
Varo nei cantieri
Odero Terni Orlando di Livorno.
1° dicembre 1937
Entrata in servizio.
Negli anni precedenti
l’entrata in guerra effettua intensa attività addestrativa.
1938
Scorta la nave reale Savoia durante il viaggio di Vittorio
Emanuele III in Libia.
Il cacciatorpediniere a
Venezia il 17 settembre 1938 (foto Aldo Fraccaroli, coll. Maurizio Brescia, via
Associazione Venus)
|
1939
Prende parte alla
crociera della I Squadra Navale (della quale fa parte insieme alle unità
gemelle Oriani, Gioberti e Carducci,
colle quali forma la IX Squadriglia Cacciatorpediniere) in Portogallo e Spagna
ed a Tangeri.
6-7 aprile 1939
Partecipa alle
operazioni di occupazione dell’Albania (Operazione "Oltre Mare
Tirana", OMT), assegnata al II Gruppo Navale, quello principale,
incaricato dello sbarco a Durazzo: oltre all’Alfieri, lo compongono i gemelli Oriani, Gioberti e Carducci, gli incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia, le torpediniere Lupo, Lince, Libra e Lira, la nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia – carica di carri
armati –, la nave officina Quarnaro,
le cisterne militari Tirso ed Adige ed i mercantili requisiti Adriatico, Argentario, Barletta, Palatino, Toscana e Valsavoia.
Il II Gruppo
(ammiraglio di divisione Ettore Sportiello; truppe da sbarco al comando del
generale Alfredo Guzzoni) deve sbarcare il grosso delle forze, incaricate di
conquistare Tirana.
Le navi da guerra
giungono a Durazzo già nel pomeriggio del 6 aprile (e la torpediniera Lupo, prima di ricongiungersi alle altre
unità, raggiunge il molo per recuperare il personale militare e diplomatico
italiano), mentre quelle mercantili ed ausiliarie (ossia le navi con le truppe
ed i materiali da sbarcare) solo alle 4.50 del 7, con mezz’ora di ritardo a
causa della nebbia incontrata. Alle 5.25 ha inizio lo sbarco, che procede pur
con qualche inconveniente (ordini di precedenza non rispettati per il ritardo
di alcuni trasporti, impossibilità per alcuni di essi di entrare in porto a
causa dell’eccessivo pescaggio).
Le prime truppe a
prendere terra sono i distaccamenti da spiaggia e le compagnie da sbarco delle
navi da guerra: a dispetto della calma apparente (la città è illuminata), non
appena i militari italiani scendono sui moli divengono il bersaglio di violento
tiro di fucili e mitragliatrici appostate tra i vicini edifici portuali.
La difesa albanese è
comandata dal maggiore Abaz Kupi della gendarmeria e dal suo parigrado Alibali
dell’esercito albanese; a contrastare lo sbarco vi sono un battaglione di
guardia di frontiera, un battaglione dell’esercito albanese, un plotone di
fanteria di Marina, una compagnia del Genio, una batteria da montagna (con due
cannoni da 75/13 mm) e numerosi volontari, armati di fucili oltre a tre
mitragliatrici Schwarzlose ed appoggiati dalla batteria costiera
"Prandaj" (dotata di quattro cannoni Skoda da 75/27 mm, al comando
del maggiore Gaqe Jorgo). Quest’ultima apre il fuoco sulle navi italiane, colpendo,
secondo alcune fonti, la catapulta dell’idrovolante del Fiume; anche la Lupo
viene colpita dal tiro proveniente da terra, senza riportare danni di rilievo
ma subendo perdite tra l’equipaggio.
La forza attaccante, al comando del generale Giovanni Messe, consiste in due battaglioni del 3° Reggimento Granatieri di Sardegna, un battaglione del 47° Reggimento Fanteria, cinque battaglioni di Bersaglieri (due del 2° Reggimento Bersaglieri, uno del 3°, uno del 7° ed uno dell’11°), due battaglioni di carri leggeri L3/35, una batteria d’artiglieria da 65/17 mm ed una batteria contraerei da 20/65 mm.
La forza attaccante, al comando del generale Giovanni Messe, consiste in due battaglioni del 3° Reggimento Granatieri di Sardegna, un battaglione del 47° Reggimento Fanteria, cinque battaglioni di Bersaglieri (due del 2° Reggimento Bersaglieri, uno del 3°, uno del 7° ed uno dell’11°), due battaglioni di carri leggeri L3/35, una batteria d’artiglieria da 65/17 mm ed una batteria contraerei da 20/65 mm.
Gli scontri a Durazzo
sono piuttosto accesi e si protraggono per alcune ore, con perdite da entrambe
le parti ed anche combattimenti corpo a corpo; l’intervento delle artiglierie
delle navi, ordinato dal capitano di vascello Carlo Daviso di Charvensod,
risolve la situazione in favore delle truppe italiane, che conquistano la città
entro le nove del mattino (grazie anche allo sbarco dei carri armati ed alle
incursioni dei bombardieri IMAM Ro. 37). L’Alfieri bombarda
le posizioni costiere albanesi a Durazzo, in appoggio allo sbarco.
Quella vista a
Durazzo è stata la più intensa resistenza opposta dalle truppe albanesi allo
sbarco italiano. Contrastanti i dati sulle perdite: secondo le fonti italiane
dell’epoca, vi sarebbero stati 25 morti e 97 feriti da parte italiana, e 160
morti e diverse centinaia di feriti da parte albanese; da parte albanese si
parla di circa 400 italiani uccisi. Forse entrambe le stime sono alterate;
quella italiana al ribasso, quella albanese al rialzo.
1939-1940
Subisce lavori di
modifica con cui le quattro mitragliere contraeree binate da 13,2/76 mm vengono
sostituite da otto più efficienti Breda singole da 20/65 mm mod. 1939-1940.
10 giugno 1940
All’entrata
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Vittorio Alfieri (capitano di vascello Lorenzo Daretti) è caposquadriglia della IX Squadriglia Cacciatorpediniere,
che forma insieme ai gemelli Alfredo
Oriani, Vincenzo Gioberti e Giosuè Carducci. Ne sarà caposquadriglia
pressoché ininterrottamente sino alla sua perdita, con la quale la IX
Squadriglia cesserà di esistere. La IX Squadriglia è assegnata alla I Divisione
incrociatori (I Squadra Navale).
L’Alfieri in testa alla sua squadriglia (secondo nella fila è il Gioberti) in entrata a Taranto nel 1940 (g.c.
STORIA militare)
|
12 giugno 1940
L’Alfieri (caposquadriglia), con il resto
della IX Squadriglia, la XVI Squadriglia (Nicoloso
Da Recco, Emanuele Pessagno ed Antoniotto Usodimare) e la I (incrociatori
pesanti Zara, Fiume e Gorizia) e VIII
Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), salpa da Taranto alle 00.20 in appoggio alla formazione
navale (incrociatore pesante Pola,
III Divisione Navale, XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita da
Messina per intercettare due incrociatori britannici (il Caledon ed il Calypso)
avvistati da dei ricognitori a sud di Creta, diretti verso ovest (gran parte
della Mediterranean Fleet, al pari di una squadra navale francese, è infatti uscita
in mare a caccia, infruttuosa, di naviglio italiano). Alle 9, dato che nuovi
voli di ricognizione non sono più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le
unità italiane ricevono ordine di tornare in porto. Durante la navigazione di
ritorno nel Mar Ionio si verificano ben cinque infruttuosi attacchi subacquei
contro gli incrociatori della I e della VIII Divisione: i cacciatorpediniere
della scorta contrattaccano e ritengono di aver danneggiato od affondato i
sommergibili attaccanti, ma si sbagliano.
22-24 giugno 1940
Alfieri (caposquadriglia) e IX Squadriglia prendono il mare insieme alle
Squadriglie Cacciatorpediniere X e XII, alle Divisioni incrociatori I, II e III
ed all’incrociatore pesante Pola (tutta
la II Squadra Navale, più la I Divisione) per fornire copertura alla VII
Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere
un’incursione contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo
occidentale. Le forze della II Squadra, partite da Messina (Pola e III Divisione), Augusta (I
Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21 ed il 22) e Palermo (II
Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto dello stesso giorno a nord
di Palermo. L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.
2 luglio 1940
L’Alfieri, le unità gemelle, la I
Divisione (Zara, Fiume e Gorizia), gli
incrociatori leggeri Giovanni delle Bande
Nere e Bartolomeo Colleoni e la X
Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale,
Grecale, Libeccio e Scirocco)
forniscono scorta indiretta ai trasporti truppe Esperia e Victoria, di
ritorno vuoti da Tripoli a Napoli con la scorta delle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso.
7-11 luglio 1940
La IX Squadriglia, al
comando del capitano di vascello Lorenzo Daretti, imbarcato sull’Alfieri, prende il mare insieme al resto
della II Squadra Navale (incrociatore pesante Pola, I, III e VII Divisione incrociatori con nove unità in tutto e
XI, XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere) per scortare a distanza un
convoglio diretto in Libia (motonavi da carico Marco Foscarini, Francesco
Barbaro e Vettor Pisani, motonavi
passeggeri Esperia e Calitea, con la scorta diretta dei due
incrociatori leggeri della II Divisione, dei quattro cacciatorpediniere della X
Squadriglia, delle quattro torpediniere della IV Squadriglia e delle vecchie
torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Missori). La I Squadra Navale
(V Divisione con le corazzate Giulio
Cesare e Conte di Cavour, IV e
VIII Divisione con sei incrociatori leggeri, VII, VIII, XV e XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere con 13 unità) esce anch’essa in mare a sostegno
dell’operazione. Le unità della I e della II Squadra salpano tra le 12.30 e le
18 del 7 luglio da Augusta (Pola, I e
II Divisione), Messina (III Divisione), Palermo (VII Divisione) e Taranto (IV,
V e VIII Divisione).
La II Squadra si pone
35 miglia ad est del convoglio, tranne la VII Divisione con la XIII
Squadriglia, che viene invece posizionata 45 miglia ad ovest.
L’operazione va a
buon fine, ma alle 15.20 dell’8 luglio, a seguito dell’avvistamento di una
formazione britannica – anche la Mediterranean Fleet, infatti, è in mare a
protezione di convogli – la I e la II Squadra Navale dirigono per intercettare
le navi nemiche (che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di
impegnarle in combattimento almeno un’ora prima del tramonto.
Alle 19.20, però, in
seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a
differenza dell’ammiraglio Campioni – comandante superiore in mare – ha avuto
modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità
dei movimenti britannici) la flotta italiana accosta per 330° per rientrare
alle basi, con l’ordine di non impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi
vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con
intenso tiro contraereo. La navigazione notturna di rientro si svolge senza
grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi siluranti contro la III
Divisione; la II Squadra (eccetto la VII Divisione, che è ancora separata da
essa) accosta verso nord all’1.23.
Già dalle 22 dell’8,
però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet
intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina
alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a
sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio. Alle 6.40 del 9 luglio la III
Divisione si ricongiunge con Pola e I
Divisione, alle 8 viene avvistato un idroricognitore Short Sunderland che
pedina la flotta italiana (la caccia italiana, chiamata ad intervenire, non
verrà però inviata ad attaccarlo).
Nella tarda mattinata
del 9, dato che tre cacciatorpediniere (due dei quali della VII Squadriglia,
che è stata così dimezzata) sono dovuti rientrare per avarie e che alcune
squadriglie inviate a rifornirsi (VIII e XV) non sono ancora tornate, la IX
Squadriglia, facente parte della II Squadra, viene distaccata ed assegnata alla
VIII Divisione.
La IX Squadriglia
Cacciatorpediniere, insieme alla XIV Squadriglia (giunta da Taranto nel primo
pomeriggio del 9) ed alla IV e VIII Divisione incrociatori, va così a formare
la colonna sinistra dello schieramento italiano, posta ad est della V Divisione
costituita dalle corazzate Giulio Cesare
e Conte di Cavour.
Alle 14.05 ha inizio
l’avvicinamento alla flotta britannica: alle 15.15 gli incrociatori aprirono il
fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate. La VIII Divisione, appena
avvistato il nemico, accosta per 70° ed incrementa rapidamente la velocità a 30
nodi, per poi aprire il fuoco alle 15.20 (da 20.000 metri, con rotta 10°,
contro la 7th Cruiser Division britannica). Già dalle 15.16 (15.26
per una fonte britannica), però, l’Alfieri
ed il resto della IX Squadriglia sono divenuti il bersaglio del tiro
dell’incrociatore leggero britannico Orion:
alle 15.08 gli incrociatori britannici della 7th Division, subito dopo aver
avvistato la squadriglia dell’Alfieri,
mettono la prua verso di essa, riducono le distanze sino a 18.000 metri e poi
accostano a dritta per poter puntare il maggior numero possibile di cannoni
contro la VIII Divisione e la IX Squadriglia. Gli incrociatori britannici
aprono poi il fuoco con i loro pezzi da 152, mentre l’Alfieri e gli altri cacciatorpediniere (che comunicano
l’avvistamento alle 15.16) non possono rispondere al fuoco con i loro cannoni
da 120, non essendo la distanza abbastanza ridotta per la loro gittata. L’Alfieri, che già alle 15.08 ha
comunicato «Avvisto il nemico per Rb. 80», accosta verso nord (70°) allo scopo
di poter meglio riconoscere la formazione che ha avvistato, ed alle 15.19 avvista
fumo e sagome di altre navi maggiori non identificabili; a quell’ora comunica
pertanto «Il gruppo nemico avvistato è composto di quattro incrociatori e tre
cacciatorpediniere. Dietro incrociatori avvisto altre tre unità di tipo
imprecisato».
Essendo vincolata dai
suoi compiti informativi, e comunque appoggiata dalla VIII Divisione, la IX
Squadriglia non contromanovra per allontanarsi fino a quando, calata la
distanza a 16.000 metri, non viene ricevuto l’ordine del comandante della VIII
Divisione di raggiungere il posto assegnato nel dispositivo di combattimento.
La IX Squadriglia accosta perciò in fuori e si posiziona come da ordini.
Incrociatori e corazzate
cessano poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per poi
riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15
(incrociatori). In questo frangente, dalle 15.23, la IV e la VIII Divisione
vengono inquadrate da dieci salve da 381 mm sparate dalle corazzate britanniche
Warspite e Malaya, che cadono molto vicine, costringendo alle 15.33 le due
divisioni a portarsi fuori tiro accostando a sinistra (la VIII passa, con
questa manovra, tra la I e la II Squadra, per poi assumere rotta verso nord). Durante
questa fase, in cui gli opposti schieramenti si scambiano cannonate da grande
distanza senza costrutto, la IX Squadriglia non ha parte rilevante. Alle 15.59,
però, la Cesare, la nave ammiraglia,
viene danneggiata da un proiettile da 381 mm, dovendo ridurre la velocità. A
seguito di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante superiore in
mare delle forze italiane, decide di rompere il contatto per rientrare alle
basi, ed alle 16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie di
cacciatorpediniere di attaccare con il siluro le navi della Mediterranean
Fleet, in modo da facilitare lo sganciamento delle navi maggiori.
Già alle 15.45, prima
ancora di ricevere l’ordine, la IX Squadriglia si trova un miglio a
nord-nord-est dell’incrociatore pesante Bolzano
(la nave in testa alla formazione navale), con rotta nord, intenta a manovrare
con rotta dapprima 40° e poi 60° per ridurre le distanze con il nemico a
sufficienza per lanciare. Alle 16 la IX Squadriglia viene presa sotto il tiro
degli incrociatori britannici, aprendo a sua volta il fuoco alle 16.01 ma cessandolo
già alle 16.05; alle 16.07 l’Alfieri
viene colpito di striscio da un proiettile da 152 mm sparato dall’Orion (nave ammiraglia dell’ammiraglio
John Cronyn Tovey, comandante del 7th Cruiser Squadron), che lo colpisce
all’estrema prua per poi scoppiare in mare senza causare danni di rilievo. La
nave viene anche raggiunta da diverse schegge; due membri dell’equipaggio
rimangono feriti.
L’Alfieri è così l’unica unità della IX Squadriglia,
ed una delle tre sole navi in tutta la flotta italiana (le altre sono la Cesare ed il Bolzano), ad essere colpita durante la battaglia, non subendo
comunque danni apprezzabili. Proprio alle 16.05 viene ricevuto l’ordine di
attacco, ed un minuto dopo le unità della IX Squadriglia lanciano cinque siluri
da una distanza di 13.500 metri (sono i primi cacciatorpediniere dello
schieramento italiano a lanciare i siluri), con beta 32°, verso gli
incrociatori britannici di testa, per poi ripiegare verso ovest-nord-ovest
coprendo la propria ritirata con cortine nebbiogene. Alle 16.16 le navi
britanniche cessano di sparare contro la IX Squadriglia, che si ricongiunge poi
con la VIII Divisione.
Nessuno dei siluri
lanciati va a segno; sono probabilmente proprio dei siluri della IX Squadriglia
le scie che, alle 16.10, vengono viste passare nella formazione della 14th
Destroyer Flotilla britannica, in procinto di contrattaccare. Tra le 16.19 e le
16.30 tre squadriglie di cacciatorpediniere britannici (2th, 10th
e 14th Flotilla) aprono il fuoco contro quelli italiani da
11.250-12.500 metri, appoggiati tra le 16.39 e le 16.41 dal tiro dei pezzi
secondari da 152 mm delle corazzate Warspite
e Malaya. Alle 16.49 la “mischia” tra
cacciatorpediniere, svoltasi a grande distanza, ha termine senza che nessuna
unità sia stata colpita.
Terminata la
battaglia, la flotta italiana si avvia alle proprie basi. L’aliquota più
consistente delle unità italiane, compreso l’Alfieri, dirige su Augusta: nel pomeriggio del 9 luglio la
corazzata Conte di Cavour, gli
incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume e Gorizia, gli
incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano,
Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi ed i 36
cacciatorpediniere delle Squadriglie VII, VIII, IX, XI, XIV, XV e XVI fanno il
loro ingresso nella base siciliana. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito
dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che fanno
presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato
ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo
essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di
assegnazione (Napoli e Taranto). La IX Squadriglia, insieme ala Cavour con i quattro incrociatori pesanti
ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII e VIII partono per prime, alle 00.55
del 10 luglio, alla volta di Napoli.
L’Alfieri visto al traverso (g.c. Giacomo Toccafondi via
miles.forumcommunity.net)
|
30 luglio-1° agosto 1940
L’Alfieri fornisce protezione a distanza,
insieme alle unità gemelle, agli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume, Trento e Gorizia, agli
incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano,
Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Eugenio
di Savoia, Raimondo Montecuccoli
e Muzio Attendolo ed alla XII, XIII e
XV Squadriglia Cacciatorpediniere (undici unità in tutto), a due convogli
diretti in Libia (partiti da Napoli e diretti l’uno a Tripoli e l’altro a
Bengasi) e comprensivi in tutto di dieci trasporti (Maria Eugenia, Gloria Stella,
Mauly, Bainsizza, Col di Lana, Francesco Barbaro, Città di
Bari, Marco Polo, Città di Napoli e Città di Palermo), quattro cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) e dodici torpediniere (Orsa, Procione, Orione, Pegaso, Circe, Climene, Clio, Centauro, Airone, Alcione, Aretusa ed Ariel). L’operazione è denominata
«Trasporto Veloce Lento». Entrambi i convogli raggiungono senza danni le loro
destinazioni tra il 31 luglio ed il 1° agosto.
1° settembre 1940
A seguito della
riorganizzazione delle due Squadre Navali, la IX Squadriglia (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci) rimane dislocata a Taranto,
assegnata alla I Divisione Navale.
1-2 settembre 1940
La IX Squadriglia
parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio e Vittorio Veneto), alla V Divisione
(corazzate Caio Duilio, Conte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi solo il
1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia), all’VIII Divisione
(incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca
degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi)
ed ad altri 23 cacciatorpediniere per contrastare l’operazione britannica
«Hats». Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi
e Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III, VII e VIII Divisione e 39
cacciatorpediniere. Alle 22.30 la formazione italiana riceve l’ordine di
impegnare le forze nemiche a nord della congiungente Malta-Zante, dunque deve
cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto
con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la
congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già
in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca, che
costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere
non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative.
Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle
rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle
sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare.
7-9 settembre 1940
La flotta italiana (5
corazzate, 6 incrociatori e 19 cacciatorpediniere) lascia Taranto alle 16 del 7
diretta a sud della Sardegna, per intercettare la Forza H britannica che si
presume diretta verso Malta. La ricognizione aerea, tuttavia, non avvista
nessuna nave nemica (la Forza H, infatti, aveva lasciato Gibilterra per
un’operazione da svolgersi non nel Mediterraneo ma nell’Atlantico), dunque alle
16 dell’8 settembre la formazione italiana, arrivata a sud della Sardegna,
inverte la rotta e raggiunge le basi del Tirreno meridionale, da dove il 10
tornerà nelle basi di dislocazione normale (Taranto e Messina).
29 settembre-2 ottobre 1940
La sera del 29
settembre escono in mare da Taranto il Pola,
le divisioni I, V, VII, VIII e IX e 19 cacciatorpediniere (il Pola con la I Divisione e 4
cacciatorpediniere alle 18.05 e le altre unità alle 19.30) e da Messina la III
Divisione con 4 cacciatorpediniere per contrastare un’operazione britannica in
corso. La formazione uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18 nodi,
riunendosi con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre. In
mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti
della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una
burrasca da scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta
velocità verso sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di
rinunciare a contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire
la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi
(dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere
il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella
burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del
mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di
un’eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove
informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2
ottobre, le navi riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.
6 ottobre 1940
Salpa da Taranto in
mattinata insieme al resto della IX Squadriglia, al Pola (nave di bandiera della II Squadra Navale) ed alla I Divisione
(Zara, Fiume e Gorizia), in
appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero delle
due veloci e moderne motonavi Calitea
e Sebastiano Venier, cariche di
rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e scortate dalla XII
Squadriglia Cacciatorpediniere. L’operazione (il convoglio è partito la sera
del 5, ed il 6 mattino, oltre al gruppo cui appartiene l’Alfieri, sono salpate da Messina anche la III Divisione con Trento, Trieste e Bolzano e la XI
Squadriglia Cacciatorpediniere) viene però interrotta il mattino stesso del 6
ottobre, dopo che la ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate,
due incrociatori e sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta
Alessandria-Caso, ossia dove dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso.
Tutte le unità italiane vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà
più.
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11-12 novembre 1940
Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci sono presenti a Taranto (ormeggiati a nordovest del centro
del Mar Grande, ad est del recinto retale che racchiude le navi della I
Divisione – Zara, Fiume, Gorizia –) durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda
la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (“notte
di Taranto”). Le unità della IX Squadriglia non subiscono danni.
Tra le 14.30 e le
16.45 del 12 novembre la IX Squadriglia, insieme alla XI Squadriglia, al Pola ed alla I Divisione, lascia
Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere Napoli.
16-18 novembre 1940
Alle 10.30 del 16
prendono il mare le corazzate Vittorio
Veneto e Cesare, la I Divisione
(da Napoli) e la III Divisione (da Messina) e le Squadriglie Cacciatorpediniere
IX, XII, XIII e XIV per intercettare una formazione britannica diretta verso
est. Raggiunto alle 16.30 un punto prestabilito 45 miglia a nord-nord-est di
Ustica, la formazione italiana dirige poi verso ovest ed alle 17.30 arriva 35
miglia a sudovest di Sant’Antioco. Dopo aver navigato per un po’ in direzione
dell’Algeria, la squadra italiana riceve l’ordine rientrare.
26-28 novembre 1940
Tra le 11.50 e le
12.30 del 26 l’Alfieri (capitano di vascello Lorenzo Daretti) lascia Napoli
unitamente alle altre unità della IX Squadriglia (Oriani, Gioberti e Carducci), di cui è caposquadriglia, alla
I Divisione (Fiume e Gorizia) ed al Pola (prendono il mare al contempo anche le corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare e le
Squadriglie Cacciatorpediniere VII e XIII con rispettivamente tre e quattro
unità). La formazione italiana (vi sono anche la III Divisione e la XII
Squadriglia Cacciatorpediniere partite da Messina) si riunisce 70 miglia a sud
di Capri alle 18.00 del 26 novembre, assumendo poi rotta 260° e velocità 16
nodi, per intercettare un convoglio britannico diretto a Malta. Tra le 8.30 e
le 9.10 la I Squadra, rimanendo indietro rispetto agli incrociatori (che
formano la II Squadra), a poppavia dei quali sta procedendo, accelera a 17 e
poi a 18 nodi per ridurre la distanza. Alle 9.50 le corazzate avvistano un
ricognitore britannico Bristol Blenheim, contro cui aprono il fuoco alle 10.05
(il velivolo si allontana). Alle 11 la formazione inverte la rotta ed aumenta
la velocità da 16 a 18 nodi, ed alle 11.28 assume rotta 135°, per intercettare
la formazione britannica che (dalle segnalazioni dei ricognitori) risulta avere
posizione differente da quella prevista. Alle 12.07, in seguito alla
constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana
(i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità)
l’ammiraglio Inigo Campioni, al comando della flotta italiana, ordina di
assumere rotta 90° per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e
di aumentare la velocità. Alle 12.15, tuttavia, vengono avvistate le
sopraggiungenti navi britanniche, pertanto viene ordinato di incrementare
ancora la velocità (che è di 25 nodi per la I Squadra e di 28 per la II
Squadra, che deve riunirsi alla I essendo più indietro). Alle 12.16 è proprio
l’Alfieri, che con la IX Squadriglia
si trova circa 3 km a sud degli incrociatori della II Squadra, a segnalare alla
Vittorio Veneto (dove il messaggio
viene ricevuto alle 12.27) di aver avvistato una corazzata e tre incrociatori
britannici su rilevamento 180° (verso sud). Alle 12.20 gli incrociatori della
II Squadra aprono il fuoco da 21.500-22.000 metri (il tiro degli incrociatori
sarà intenso dalle 12.20 alle 12.42, intermittente dalle 12.42 alle 12.49 a
causa delle continue accostate eseguite per disturbare degli aerosiluranti
britannici frattanto sopraggiunti, che poi attaccheranno le corazzate, di nuovo
intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi più sporadico dalle 12.53 alle 13.05, a
causa delle distanze crescenti). Alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da poco meno di 29.000 metri, ma le
unità britanniche subito accostano a dritta e la distanza aumenta a 31.000
metri, costringendo la corazzata a cessare il fuoco già alle 13.10. Alle 13.05,
su richiesta del Fiume (nave di
bandiera dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci, comandante la I Divisione), le
unità della IX Squadriglia stendono una cortina nebbiogena, disturbando il tiro
degli incrociatori britannici contro quelli italiani. Alle 13.15, essendo la
distanza (della II Squadra dalle forze britanniche) salita a 26.000 metri, il
tiro viene cessato anche dagli incrociatori, viene rotto il contatto. Ha così
fine l’inconclusiva battaglia di Capo Teulada. Alle 15.20 le unità della II
Squadra vengono attaccate da nove aerosiluranti decollati dalla portaerei Ark
Royal: l’attacco si protrae per dieci minuti, ma nessun siluro (lanciati tutti
contro Pola, Fiume e Gorizia) va a
segno. Alle 21 del 27 novembre le navi italiane assumono rotta nord a 15 nodi e
procedono sino alle 00.30, poi dirigono verso est fino alle 7.30 del 28, dopo
di che seguono le rotte costiere, arrivando a Napoli tra le 13.25 e le 14.40
del 28.
La IX Squadriglia
lascia Napoli alle 20.35 del 28 stesso per scortare a Messina la III Divisione,
che ha “perso” la propria Squadriglia Cacciatorpediniere – la XII – a seguito
del danneggiamento in battaglia del caposquadriglia Lanciere, poi dirottato su
Cagliari insieme al gemello Ascari.
15 dicembre 1940
Intorno alle 17 la IX
Squadriglia, le Squadriglie Cacciatorpediniere VII e XIII, le corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto e gli incrociatori pesanti Zara e Gorizia lasciano
Napoli diretti a La Maddalena, dove le navi sono state temporaneamente
trasferite per sottrarle ad altri attacchi aerei britannici dopo che, nelle
settimane precedenti, vari bombardamenti hanno causato vari danni. Le unità
rimangono a La Maddalena, porto non molto più al sicuro di Napoli dagli
attacchi aerei, solo per i pochi giorni necessari all’approntamento a Napoli di
adeguate contromisure contro i bombardamenti (tra cui impianti per
l’annebbiamento del porto).
20 dicembre 1940
Le navi rientrano a
Napoli.
28 dicembre 1940
L’Alfieri, insieme a Gioberti e Carducci, effettua un’azione di bombardamento delle
posizioni costiere greche nel settore di Himara (Albania) a supporto delle
operazioni truppe di terra italiane (la XI Armata), impegnate a fronteggiare
una violenta offensiva greca avente l’obiettivo di conquistare Valona. Azioni
di bombardamento costiero come questa vengono eseguite principalmente per
motivi di ordine psicologico, servendo soprattutto ad incrinare il morale
dell’avversario: le intercettazioni di messaggi greci e gli interrogatori dei
prigionieri mostrano un crescente nervosismo, da parte greca, nei confronti dei
bombardamenti navali, ed è proprio questo, insieme alla gravità del momento – si
è all’acme della battaglia per Valona, dal cui esito possono dipendere le sorti
dell’intera campagna –, a spingere i comandi italiani ad intensificare azioni
di questo tipo.
30 dicembre 1940
Alfieri, Gioberti e Carducci bombardano di nuovo il settore
di Himara con le loro artiglierie, stavolta con l’appoggio a distanza dell’VIII
Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi, ai quali è stato temporaneamente aggregato anche l’Armando Diaz).
6 gennaio 1941
Alfieri (caposquadriglia), Gioberti
e Carducci (la IX Squadriglia, meno
l’Oriani), cui è stato aggregato il
cacciatorpediniere Fulmine, partono
da Valona insieme alla XIV Squadriglia Torpediniere (Pallade, Partenope, Andromeda, Altair) e bombardano all’alba le posizioni greche nel settore
costiero di Porto Palermo (Albania), per poi tornare a Valona prima di
mezzogiorno.
Per altra versione il
bombardamento sarebbe avvenuto il 7 gennaio, e vi avrebbe preso parte anche un
altro cacciatorpediniere, il Folgore,
mentre non avrebbero partecipato la Pallade
e l’Altair. Le navi si sarebbero così
ripartite i compiti: Alfieri, Gioberti e Carducci avrebbero bombardato le prime linee greche, mentre Folgore e Fulmine avrebbero cannoneggiato Himara, ed Andromeda e Partenope
avrebbero cannoneggiato la strada costiera situata più sud, interrompendo il
traffico nemico lungo di essa.
Pochi giorni dopo, il
10 gennaio, l’offensiva greca si esaurisce senza che Valona sia stata
conquistata.
L’Alfieri in navigazione (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
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Capo Matapan
Alle 23 del 26 marzo
1941 l’Alfieri, al comando del
capitano di vascello Salvatore Toscano (caposquadriglia della IX Squadriglia),
salpò da Taranto insieme al resto della IX Squadriglia al completo (Oriani, Gioberti e Carducci) ed
alla I Divisione (Zara, Pola, Fiume) per raggiungere un punto di riunione fissato circa 55 miglia
a sudest di Capo Spartivento Calabro. Nelle stesse ore presero il mare anche la
corazzata Vittorio Veneto, scortata
dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale,
Grecale, Libeccio e Scirocco, poi
rilevati da Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della
XIII Squadriglia), da Napoli, la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) con la XII Squadriglia (Ascari, Corazziere, Carabiniere)
da Messina e la Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi)
con la XVI Squadriglia (Nicoloso Da Recco,
Emanuele Pessagno) da Brindisi.
Tutte queste unità si
sarebbero riunite nel punto prestabilito per poi partecipare all’operazione
«Gaudo», un’incursione contro il naviglio britannico nel Mediterraneo
orientale, a nord di Creta.
Il capitano di
vascello Toscano, che fino al 10 marzo 1941 aveva ricoperto l’incarico di capo
di Stato Maggiore del Comando Militare Marittimo di Messina, aveva assunto solo
da pochi giorni il comando dell’Alfieri
e della IX Squadriglia Cacciatorpediniere, rimpiazzando il parigrado Lorenzo
Daretti. Anche il direttore di macchina dell’Alfieri, nonché capo servizio Genio Navale della IX Squadriglia, il
capitano del Genio Navale Giorgio Modugno, era nuovo a bordo: aveva preso
imbarco sull’Alfieri solo cinque
giorni prima della partenza, dovendo sostituire con urgenza il capo servizio
Genio Navale della IX Squadriglia Cacciatorpediniere per l’operazione del 26-29
marzo in Mediterraneo orientale. Modugno, brillante ufficiale in Marina dal
1932 (volle la sorte che il suo primo imbarco fosse stato sullo Zara allora nuovo), che divideva il
tempo libero a bordo tra lo studio di problemi legati alle navi ed ai loro
macchinari (aveva anche ideato un apparato installato su numerose navi della
Regia Marina) e la realizzazione di schizzi a pastello, veniva da una famiglia
di radicate tradizioni marinare: sia suo padre (tenente generale del Genio
Navale) che suo fratello erano infatti ufficiali della Regia Marina. Modugno
era stato scelto per l’incarico di capo servizio Genio Navale della IX
Squadriglia – per il quale normalmente sarebbe stato necessario un periodo di
familiarizzazione con l’apparato motore delle unità poste sotto il suo
controllo, per il quale non vi era ora tempo sufficiente prima della partenza –
proprio in considerazione della sua esperienza e conoscenza degli apparati
propulsivi, dei quali era specialista.
Aveva invece lasciato
da poco l’Alfieri, dopo averci
trascorso un anno e mezzo a bordo, il corrispondente di guerra Guido Minchilli.
Proprio nel 1945 Minchilli, nel suo libro “Il comandante aspetta l’alba”,
avrebbe narrato della sua esperienza sull’Alfieri,
della vita a bordo del cacciatorpediniere, e, tramite le testimonianze dei
pochi superstiti da lui raccolte, della drammatica fine della nave e di tanti
suoi uomini che erano diventati suoi amici.
La navigazione
proseguì senza incidenti sino alle 12.25 del 27 marzo, quando il Trieste comunicò che la III Divisione
era stata avvistata da un ricognitore britannico Short Sunderland; in seguito a
questo, la squadra italiana, poco dopo le 14, accostò per 150° (prima la rotta
era 134°) per trarre in inganno il velivolo, e seguì questa rotta sino alle 16,
per poi riaccostare per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità
a 23 nodi, in modo da arrivare nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba
del 28. Alle 22 del 27 Supermarina annullò l’attacco a nord di Creta, dato che
dalla ricognizione era risultato che non vi erano convogli da attaccare.
Alle 6.35 del mattino
del 28 un idroricognitore catapultato dalla Vittorio
Veneto avvistò la Forza B britannica (composta dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex), in navigazione con rotta stimata
135° e velocità 18 nodi una quarantina di miglia ad est-sud-est dall’ammiraglia
italiana. Alle 6.57, mentre la III Divisione riceveva l’ordine di assumere
rotta 135° e velocità 30 nodi (per raggiungere gli incrociatori britannici, poi
dirigere verso la Vittorio Veneto ed
attirarli così verso la corazzata), il resto della formazione italiana aumentò
la velocità a 28 nodi (in quel momento il gruppo «Zara» – che avrebbe dovuto
congiungersi con la Vittorio Veneto
all’alba –, di cui la IX Squadriglia faceva parte, si trovava in leggero
ritardo; alle 6.30 era circa 16 miglia a nordovest delle altre unità, ed alle
6.57 ricevette ordine dalla nave ammiraglia di accelerare).
Alle 7.55 la III
Divisione avvistò la Forza B, ma dato che anche la Forza B intendeva cercare di
attirare le navi italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet (tra cui le
corazzate Barham, Valiant e Warspite e la portaerei Formidable,
della cui presenza in mare gli italiani sono del tutto all’oscuro), e pertanto
si ritirò, la manovra pianificata dall’ammiraglio di squadra Angelo Iachino
(comandante la squadra italiana) non si concretizzò, e furono invece le navi
italiane ad inseguire quelle britanniche. Ebbe così inizio lo scontro di Gaudo.
Terminato l’infruttuoso inseguimento e scambio di cannonate, le navi italiane
alle 8.55 accostarono per 270° ed assunsero rotta 300° e velocità di 28 nodi,
seguite a distanza dalla Forza B, che tenne informato il resto della
Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Essendosene reso conto,
alle 10.02 l’ammiraglio Iachino ordinò alla III Divisione di proseguire sulla
sua rotta, mentre la Vittorio Veneto
e le altre navi invertirono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle
spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando
verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione
italiana) ed impedirne la ritirata. Le unità della Forza B erano però più a
nord di quanto ritenuto (e segnalato) e pertanto l’incontro avvenne alle 10.50:
alle 10.56 la Vittorio Veneto aprì il
fuoco da 23.000 metri, e la Forza B subito accostò verso sud e si ritirò
inseguita dalle navi italiane, ma le distanze andarono aumentando ed il tiro
della Vittorio Veneto risultò
inefficace. Alle 10.57 vennero avvistati sei aerei che si rivelarono poi essere
aerosiluranti britannici (decollati dalla Formidable),
che alle 11.18 attaccarono: la corazzata italiana accostò sulla dritta, e la
XIII Squadriglia si portò in posizione adatta ad impedire l’attacco, aprendo
intenso fuoco contraereo; alle 11.25 gli aerosiluranti lanciarono, ma furono
costretti a farlo da una distanza eccessiva, ed i siluri non andarono a segno.
Nel frattempo, alle 11.07, la I Divisione avvistò un sommergibile a 3000 metri
per 280°, segnalandolo alla nave ammiraglia.
Successivi messaggi e
segnalazioni, che confermavano l’assenza di traffico convogliato britannico da
attaccare, fecero decidere all’ammiraglio Iachino di proseguire nella
navigazione di ritorno verso le basi italiane.
Alle 13.23 la I
Divisione si trovava a 56 miglia per 266° da Gaudo. Alle 15.17 il gruppo «Zara»
venne attaccato da bombardieri britannici, poi ancora alle 15.26, alle 16.30 ed
infine alle 16.44. Nello stesso lasso di tempo anche la Vittorio Veneto e la III Divisione subirono ripetuti attacchi
aerei: uno solo causò danni, ma bastò a pregiudicare le sorti della battaglia.
Alle 15.19, infatti,
tre aerosiluranti britannici attaccarono la Vittorio
Veneto, mentre dei caccia attaccavano le unità della XIII Squadriglia
mitragliandone la coperta; anche dei bombardieri in quota parteciparono
all’attacco. L’intenso tiro contraereo dei cacciatorpediniere della XIII
Squadriglia colpì uno degli aerosiluranti (pilotato dal capitano di corvetta
John Dalyell-Stead), che però, prima di precipitare in mare con la morte dei
tre uomini di equipaggio (così divenendo l’unica perdita britannica nella
battaglia), riuscì a ridurre le distanze con la Vittorio Veneto a meno di 1000 metri ed a lanciare un siluro, che
colpì la nave da battaglia a poppa, in posizione 35°00’ N e 22°01’ E. Alle
15.30 la Vittorio Veneto, che aveva
imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si immobilizzò, ma dopo sei minuti rimise in
moto, sebbene a fatica: solo alle 17.13 riuscì a sviluppare una velocità di 19
nodi.
La flotta italiana
diresse su Taranto, ed alle 16.38 l’ammiraglio Iachino, in previsione di altri
attacchi aerei in arrivo al tramonto, ordinò che le altre unità si disponessero
intorno alla danneggiata Vittorio Veneto
per proteggerla da altri attacchi. Proprio a quell’ora la I Divisione ricevette
l’ordine di riunirsi al resto della formazione e portarsi presso la Vittorio Veneto; alle 18.18 la I
Divisione ricevette dalla nave ammiraglia l’ultimo messaggio contenente le
istruzioni sulla formazione da assumere, ed alle 18.40 il gruppo «Zara»
raggiunse il posto assegnato, completando così lo schieramento. La formazione
era su cinque colonne di unità disposte in linea di fila: da destra a sinistra,
la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri
in testa, seguito nell’ordine da Gioberti,
Carducci ed Oriani), la I Divisione (Zara,
Pola, Fiume), la Vittorio Veneto
preceduta da Granatiere e Fuciliere e seguita da Bersagliere ed Alpino, la III Divisione (Trieste,
Trento, Bolzano) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Corazziere, Carabiniere, Ascari).
Già alle 18.10, da
bordo della Vittorio Veneto, fu
comunicato a tutte le altre navi che a breve, dopo il tramonto, la squadra
italiana sarebbe stata attaccata da aerosiluranti: il reparto di crittografi
imbarcati sulla corazzata aveva infatti intercettato un messaggio britannico
che ordinava attacchi di aerosilurati da Maleme per il tramonto.
La previsione si
avverò appena tredici minuti più tardi: alle 18.23 (nel frattempo la velocità
della Vittorio Veneto era scesa a 15
nodi) vennero avvistati nove aerosiluranti britannici, che si tennero a
distanza ad est delle navi italiane, fuori tiro e bassi sul mare (tranne uno
che, restando in quota dalla parte del sole, comunicò agli altri la posizione e
gli elementi del moto delle unità italiane). Alle 18.51 tramontò il sole: per
cinque di quelle navi non sarebbe mai pù sorto. Alle 18.58 Iachino ordinò a
tutte le navi di tenersi pronte ad accendere i proiettori e stendere cortine
nebbiogene, alle 19.15 la formazione italiana accostò per conversione ed
assunse rotta 270° (in modo che le navi fossero meno illuminate possibile dal
sole che tramonta) e nove minuti più tardi i cacciatorpediniere in coda
iniziarono a stendere cortine nebbiogene. Alle 19.28 gli aerosiluranti si
avvicinarono – le navi più esterne accesero perciò i proiettori su ordine di
Iachino – ed alle 19.30, su ordine dell’ammiraglio Iachino, vi fu una nuova
accostata per conversione (rotta assunta 300°). Sei minuti dopo tutti i
cacciatorpediniere emisero cortine fumogene ed aprirono il fuoco, mentre gli
aerei passavano all’attacco: molti, non riuscendo ad oltrepassare la barriera
costituita dal tiro dei cacciatorpediniere, dai fasci dei proiettori e dalle
cortine nebbiogene, sganciarono in maniera imprecisa, ma intorno alle 19.50 il Pola venne colpito ed immobilizzato da
un siluro. Cessato l’attacco, e calato il buio, alle 19.50 si spensero i
proiettori e fu cessato il fuoco contraereo, ed alle 20.11 cessò anche
l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05 l’ammiraglio Iachino, inconsapevole
di quanto accaduto al Pola (alle
20.07 l’ammiraglio aveva chiesto alle Divisioni se vi fosse niente di nuovo),
ordinò alla I Divisione di posizionarsi 5000 metri a prua. Proprio in quel
momento, però (anche se il messaggio giunse nelle mani dell’ammiraglio Iachino
solo alle 20.16), lo Zara comunicò
alla Vittorio Veneto la ferale
notizia: il Pola era stato silurato,
ed ora era fermo. Era l’inizio della fine.
Alle 20.16
l’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, comandante la I Divisione (con
bandiera sullo Zara), comunicò che
salvo contrordini avrebbe distaccato due cacciatorpediniere (della IX
Squadriglia) per scortare il danneggiato Pola.
Era probabilmente la decisione più sensata: inviare al soccorso del Pola l’intera I Divisione sarebbe stato
di scarsa utilità e sproporzionato ai rischi, dato che era in mare, a sole 55
miglia di distanza (Iachino pensava 75, a causa di errori nelle rilevazioni
radiogoniometriche usate per localizzare le navi nemiche), una formazione
britannica di dimensioni sconosciute, chiaramente all’inseguimento delle navi
italiane. Era il gruppo che comprendeva Barham,
Valiant, Warspite e Formidable, ma
Iachino pensava che l’entità della formazione britannica fosse molto minore, e
che nessuna corazzata ne facesse parte.
Un paio di
cacciatorpediniere sarebbero probabilmente bastati, l’uno per prendere il Pola a rimorchio e l’altro per
scortarlo, e, nel caso fossero stati raggiunti dalle navi britanniche, per
evacuarlo ed affondarlo con i siluri; al più si sarebbe potuta inviare al suo
soccorso tutta la IX Squadriglia. Iachino, però, era di diversa opinione
(affermò in seguito che due cacciatorpediniere avrebbero potuto solo affondare
il Pola, non sarebbero nemmeno
bastati a salvarne l’equipaggio e non avrebbero avuto l’autorità necessaria a
decidere se affondare o meno l’incrociatore), ed alle 20.18 ordinò che tutta la
I Divisione (Zara, Fiume e IX Squadriglia) si recasse a
soccorrere la nave danneggiata, reiterando l’ordine alle 20.38 («ZARA FIUME
et 9a squadriglia vada soccorrere POLA»), dal momento che Cattaneo, essendosi reso conto – dalle
segnalazioni dei ricognitori tedeschi e dalle intercettazioni delle
comunicazioni radio britanniche – che una squadra britannica stava seguendo
quella italiana, tardava ad eseguire l’ordine. Alle 20.24 Cattaneo, che sulle
prime era stato riluttante a tornare indietro con tutte le sue navi, chiese se
poteva invertire la rotta per assistere il Pola,
ed alle 21 Iachino rispose affermativamente. Già prima di questa conferma
finale, probabilmente in seguito alla ricezione dell’ordine delle 20.38, la I
Divisione accostò ad un tempo di 180° sulla dritta ed invertì la rotta alle
21.06, dirigendosi verso il Pola.
Da bordo delle altre
navi le videro allontanarsi in linea di fila: lo Zara, nave ammiraglia, in testa, seguito dal Fiume, poi l’Alfieri come
caposquadriglia della IX Squadriglia, quindi il Gioberti, dietro il Carducci,
e l’Oriani in coda. Non le avrebbero
mai più riviste.
La I Divisione
assunse quindi rotta 135°, ed alle 21.07 Cattaneo ordinò di portare la velocità
a 16 nodi, che aumentò a 22 nodi alle 21.25 per poi ridurla nuovamente a 16
alle 22.03. Questa velocità, non particolarmente elevata, era dovuta al fatto
che i cacciatorpediniere della IX Squadriglia erano ormai a corto di carburante
(fatto che fu segnalato allo Zara,
che a sua volta comunicò a Iachino alle 21.50, nel suo ultimo messaggio:
“L’autonomia rimasta alla Squadriglia Alfieri
è molto limitata e non permette un ingaggio d’emergenza, che pensiamo essere
quasi certo”), rimasto in quantità appena sufficiente a tornare alla base:
durante la navigazione il comandante Toscano si interessò dell’autonomia
residua degli altri cacciatorpediniere, e fu particolarmente preoccupato dalla
poca nafta che era rimasta al Carducci,
che alle 21 aveva solo 125 tonnellate di carburante nei serbatoi (il 28 % del
totale, e bastante per meno di 200 miglia alla velocità da tenere in
battaglia), mentre gli altri tre ne avevano 145 ciascuno. Per quest’ultimo,
Toscano discusse con i sottoposti anche la possibilità di farlo rifornire da un
incrociatore.
La ridotta riserva di
combustibile rimasta ai cacciatorpediniere fu anche uno dei motivi per i quali
Cattaneo, essendosi trovato con la IX Squadriglia a poppavia dei suoi
incrociatori a seguito dell’inversione di rotta, non ordinò loro di portarsi a
proravia di questi ultimi, dato che per portarsi nuovamente in testa allo
schieramento i cacciatorpediniere di Toscano avrebbero dovuto incrementare
considerevolmente la velocità, consumando così più carburante.
La formazione assunta
da Cattaneo, con la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori, invece che a
proravia degli stessi, avrebbe in seguito destato molte perplessità e
polemiche, dal momento che, se i cacciatorpediniere fossero stati posizionati
in posizione di scorta avanzata notturna (4 km a proravia degli incrociatori,
con un intervallo di 2 km tra ogni cacciatorpediniere), gli eventi successivi
avrebbero potuto prendere una piega differente. Da molte parti, ancor oggi, si
sostiene che ponendo la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori Cattaneo
contravvenne alle regole vigenti sulla navigazione notturna in tempo di guerra,
che prevedevano invece che i cacciatorpediniere venissero posizionati a
proravia delle navi maggiori, formando uno schermo difensivo. In realtà,
tuttavia, le norme di Squadra (come evidenziato dallo storico Francesco Mattesini,
autore di una monumentale opera su Capo Matapan), prevedevano un’eccezione alla
summenzionata regola: quella di condizioni pessime di visibilità notturna. In
tal caso, le norme stabilivano che i cacciatorpediniere dovessero navigare – in
singola o doppia linea di fila – a poppavia delle navi maggiori, anziché a
proravia, perché in caso di incontro improvviso con unità nemiche avrebbero
dovuto essere le navi maggiori ad aprire il fuoco per prime (un controsenso, in
effetti, se si pensa che gli equipaggi di tali navi, a differenza di quelli dei
cacciatorpediniere, non erano addestrati al combattimento notturno, e gli
incrociatori di notte viaggiavano con i cannoni per chiglia, del tutto
impreparati ad un’azione di fuoco): l’articolo 68 della direttiva SM-11-S del
gennaio 1936 disponeva che “All’approssimarsi della notte le Unità del naviglio
sottile che il C.C. [Comandante in Capo] intende far navigare in unione con le
unità maggiori, vengono inviate di poppa alla formazione di queste, in unica e
doppia linea di fila”. Tanto che Supermarina, nelle relazioni sul disastro, non
diede alcuna importanza al fatto che la IX Squadriglia si fosse trovata dietro
e non davanti agli incrociatori (il primo a sollevare tale questione fu invece,
nel dopoguerra, l’ammiraglio Iachino, che cercava di alleggerire la propria
responsabilità dell’accaduto imputandolo anche ad errori commessi da Cattaneo).
E “pessime condizioni di visibilità notturna” definiva esattamente la fatidica
notte del 28 marzo, una notte senza luna, estremamente buia, con alcune nuvole
che riducevano molto la visibilità, specie verso est. Dunque Cattaneo non
contravvenne alle regole, ma vi si attenne alla lettera, anche in
considerazione del fatto che la carente visibilità avrebbe potuto causare
errori di riconoscimento con i cacciatorpediniere, qualora fossero stati posti
a proravia, e specialmente sarebbe stata d’intralcio al tiro degli incrociatori
in caso d’incontro con le unità britanniche. Peraltro, Cattaneo stesso (come
Iachino) si aspettava di incontrare le unità britanniche – che anche lui
pensava essere solo incrociatori e cacciatorpediniere, non corazzate – molto
più tardi, quando il Pola fosse già
stato preso a rimorchio, ed i cacciatorpediniere sarebbero stati disposti
tutt’attorno agli incrociatori per proteggerli su tutti i lati.
Alle 21.24 Iachino
autorizzò Cattaneo ad abbandonare il Pola
qualora attaccato da forze nemiche di entità superiore, e dieci minuti più
tardi iniziò lo scambio di informazioni tra Zara
e Pola per preparare le operazioni di
rimorchio, una volta le navi di Cattaneo fossero giunte sul posto.
All’insaputa di
Cattaneo e di Iachino, però, già dalle 20.15 il radar dell’incrociatore
britannico Orion, inviato con il
resto della Forza B alla ricerca della formazione italiana, aveva individuato
il relitto galleggiante del Pola.
Dopo aver effettuato vari rilevamenti radar senza essere riuscito ad
identificare il contatto (il Pola non
era infatti stato visivamente avvistato), l’ammiraglio Pridham-Wippell,
comandante della Forza B, avendo comunicato al suo comandante in capo
(l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet ed
imbarcato sulla Warspite) la
posizione della nave sconosciuta perché decidesse sul da farsi, decise di
proseguire senza curarsene ulteriormente.
Il tenente di
vascello Italo Bimbi, direttore del tiro dell’Alfieri, avrebbe in seguito scritto nella sua relazione che
nessuno, a bordo, riteneva che si sarebbe incontrato il nemico: la navigazione
procedeva normalmente e la situazione appariva tranquilla, tanto che Bimbi si
ritirò nell’alloggio dei contabili, sotto la plancia, per riposare un poco. Di
diverso avviso erano i sottotenenti di vascello Vito Sansonetti, ufficiale al
tiro, ed Oberto Manfredi, segretario di Squadriglia, che dopo l’inversione di
rotta avevano discusso, mentre si trovavano sull’ala di plancia di sinistra, la
possibilità di un incontro con forze nemiche. Sansonetti – che era il figlio
del comandante della III Divisione, ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti,
anch’egli in mare quella notte per l’operazione nel Mediterraneo orientale: le
sue navi erano rimaste con la Vittorio
Veneto – non era in servizio in quel momento, ma si era egualmente
trattenuto in plancia; lui e Manfredi si aspettavano entrambi che da un momento
all’altro le unità della IX Squadriglia Cacciatorpediniere sarebbero state
mandate in scorta avanzata.
Alle 21.55 (od alle
21.15, o poco dopo le 22) un altro degli incrociatori di Pridham-Wippell, l’Ajax, rilevò un nuovo contatto radar:
stavolta erano tre navi, che si trovavano cinque miglia a sud della Forza B
(che era in quel momento nel punto 35°19’ N e 21°15’ E), su rilevamento
compreso tra 190° e 252°. Erano probabilmente il Gioberti, il Carducci e
l’Oriani, che assieme al resto della
I Divisione stavano procedendo su rotta opposta a quella della Forza B,
rispetto alla quale erano effettivamente poco più di cinque miglia a sud:
Pridham-Wippell, però, pensò trattarsi di tre degli otto cacciatorpediniere
della 14th Destroyer Flotilla del capitano di vascello Philip Mack,
inviati anch’essi alla ricerca delle navi italiane: lo stesso pensò il
comandante Mack, che aveva ricevuto la comunicazione radio dell’avvistamento, e
rispose all’Ajax che le navi da loro
avvistate dovevano essere le sue. La Forza B, pertanto, alle 22.02 accostò
verso nord per allontanarsi, onde evitare incidenti con le navi di Mack. Le
navi di Cattaneo superarono quindi indenni ed ignare sia la Forza B (passando a
sud di essa) sia le navi di Mack (ad una decina di miglia di distanza), procedendo
su rotta opposta.
Verso le 22.10 il
secondo capo S.D.T. Edvino Reppi, di guardia in plancia dell’Alfieri, avvistò a poppavia del traverso
le sagome di due cacciatorpediniere, che seguivano una rotta di avvicinamento
alla I Divisione: Reppi ne informò subito Sansonetti, il quale guardò a sua
volta e poi rispose: “Ma sono i nostri caccia!”. In seguito, Reppi si sarebbe
dichiarato convinto che le navi da lui viste fossero nemiche, in quanto, disse,
quella di prora ad un certo punto accese un proiettore per qualche secondo,
illuminando uno degli incrociatori della I Divisione ed iniziando subito il
tiro illuminante. Sansonetti, da parte sua, aveva già osservato i
cacciatorpediniere della IX Squadriglia in linea di rilevamento e non a
distanza, cosa di cui aveva avvisato il comandante Toscano; nel dopoguerra, la
Commissione d’Inchiesta Speciale istituita sulla perdita dell’Alfieri, esaminando le deposizioni degli
ufficiali di quella e di altre navi ed i rapporti di Oriani e Gioberti,
avrebbe giudicato che i cacciatorpediniere avvistati da Reppi non fossero
nemici, bensì unità della IX Squadriglia finite fuori formazione a causa delle
accostate e mutamenti di velocità compiuti dalla I Divisione durante la
navigazione verso il Pola.
Il comandante Toscano
ordinò al sottotenente di vascello Sansonetti di verificare che le navi della
formazione fossero disposte in corretta linea di fila, e vide invece con
sorpresa che apparivano sparpagliate su una formazione a rastrello piuttosto
ampia. Solo diversi anni dopo Sansonetti avrebbe appreso che, con ogni
probabilità, le navi che aveva visto erano quelle britanniche. (Per altra
versione, verso le 22.20 Toscano chiese a Sansonetti se vedesse gli altri
cacciatorpediniere, e quest’ultimo controllò e notò che essi erano in linea di
rilevamento piuttosto disordinata, cosa che lui imputò ad una probabile
riduzione di velocità non segnalata. Non è chiaro se l’episodio in parola sia
lo stesso o se si parli di due momenti differenti).
Verso le 22.30
Sansonetti entrò nel casotto di rotta per controllare a quale ora sarebbe
dovuto avvenire l’incontro tra la I Divisione ed il Pola. Il sottotenente di vascello Manfredi aveva appena fatto il
punto: glielo mostrò, aggiungendo che proprio in quell’ora avrebbero potuto
incontrare il nemico.
Ricevuta la
segnalazione di Pridham-Wippell sul relitto del Pola (che ancora non si sapeva essere tale), Cunningham assunse con
le sue navi (Barham, Valiant, Warspite, Formidable ed i
cacciatorpediniere Stuart, Havock, Griffin e Greyhound)
rotta 280° per scoprire la sua identità, e distruggerlo. Dopo un’ora la Valiant, unica corazzata munita di
radar, che subito dopo il mutamento di rotta aveva iniziato a scandagliare la
zona con il suo radar per cercare la nave immobilizzata, localizzò il Pola 6 miglia a prua sinistra, e tutte
le navi di Cunningham accostarono di 40° a sinistra. L’ammiraglio britannico
pensò di trovarsi di fronte alla Vittorio
Veneto: di conseguenza, ordinò ai suoi cacciatorpediniere di scorta (Stuart ed Havock erano a dritta delle corazzate, Greyhound e Griffin a
sinistra) di spostarsi tutti a dritta per liberare il campo di tiro verso
sinistra, mentre 24 cannoni da 381 mm – l’armamento principale delle tre
corazzate – venivano puntati verso il punto in cui il radar della Valiant aveva localizzato la nave
ignota, pronti ad aprire il fuoco non appena fosse stata avvistata con i
binocoli.
Alle 22.23, prima di
completare la manovra di spostamento per liberare il campo di tiro delle
corazzate, lo Stuart segnalò
urgentissimamente a Cunningham “Unità sconosciuta per 250° a 4 miglia di
distanza”, seguito alle 22.25 da un’altra nave che comunicò “J – 300 – 6”, cioè
“rilevo unità di superficie nemica per rombo 300° a distanza 6”: erano le navi
del gruppo «Zara», che venivano a soccorrere il Pola.
Prima ancora che il
messaggio dello Stuart fosse ricevuto
sulla Warspite, comunque, fu il
commodoro J. H. Edelsten, capo di Stato Maggiore di Cunningham, ad avvistare le
navi italiane. Mentre tutte le vedette, i puntatori e gli ufficiali britannici
cercavano nel buio a sinistra, dove il radar della Valiant aveva localizzato il relitto del Pola, Edelsten stava tranquillamente controllando l’orizzonte sulla
destra, con un binocolo, dalla plancia ammiraglio della Warspite. Alle 22.25 Edelsten disse con calma a Cunningham di aver
avvistato due grandi incrociatori, preceduti da uno di dimensioni minori, che
stavano attraversando la rotta della formazione britannica a proravia della
stessa, ad una distanza di un paio di miglia, sulla dritta. Il comandante della
Mediterranean Fleet si accertò egli stesso dell’esattezza dell’avvistamento, ed
il capitano di fregata Power, esperto nel riconoscimento delle navi italiane,
confermò che fossero due incrociatori classe Zara e (erroneamente) uno da
5000-6000 tonnellate, probabilmente tipo Colleoni. Erano le navi di Cattaneo,
in navigazione in linea di fila su rotta 130°.
Le navi britanniche
erano tutte munite di colorazione mimetica, che ne diminuiva di molto la
probabilità di avvistamento, mentre quelle italiane, a parte il Fiume, avevano ancora la loro
colorazione grigio chiaro, senza mimetizzazione, che le rendeva molto più
visibili di notte.
Proprio in quei
minuti, alle 22.29, le navi di Cattaneo avevano avvistato un razzo Very rosso
levarsi nel cielo a poca distanza, a 40° di prora sinistra: l’aveva lanciato il
Pola, per farsi vedere, temendo che
le sagome scure che aveva visto transitare nei suoi pressi poco prima fossero
le navi di Cattaneo, e che non l’avessero visto (in realtà erano le corazzate
di Cunningham). Di conseguenza la I Divisione, ridotta la velocità a 16 nodi,
iniziò ad accostare a sinistra, verso il punto da cui era partito il razzo.
Anche da bordo dell’Alfieri, che seguiva il Fiume con rotta 130° e velocità di 16
nodi, venne avvistato il Very rosso del Pola:
anzi, dalla plancia del cacciatorpediniere (dove si trovavano il comandante
Toscano, l’assistente di squadriglia, capitano di corvetta Pietro Busolli, il
comandante in seconda Zancardi, l’ufficiale di rotta, sottotenente di vascello
Francesco Mascini, ed altri ufficiali) vennero visti non uno, ma ben due Very
rossi accendersi a breve intervallo di tempo: il primo alle 22.30 circa, a
circa 50° dalla prora a sinistra, e poco dopo un secondo al traverso.
Cunningham ordinò che
la formazione accostasse ad un tempo di 40° sulla dritta, ricostituendo la
linea di fila sul rombo 280°; poi le torri dei cannoni delle tre corazzate
vennero puntate nella direzione da cui provenivano le navi della I Divisione.
La Formidable ricevette l’ordine di
uscire dalla formazione ed allontanarsi verso destra, essendo al momento
inutile ed anzi a rischio di essere coinvolta in un combattimento notturno nel
quale non avrebbe avuto modo di difendersi adeguatamente se attaccata. Ancora
pochi minuti di attesa, prima che iniziasse il tiro.
Sulle navi italiane
nessuno sospettava di niente…
Alle 22.30 la Warspite aprì il fuoco per prima, da
3500 metri di distanza. Subito la seguirono la Valiant e la Barham:
ventiquattro cannoni da 381 mm riversarono un diluvio di proiettili sui due
incrociatori della I Divisione, mentre i proiettori del cacciatorpediniere Greyhound e delle corazzate illuminavano
lo Zara, il Fiume e l’Alfieri.
Lo Zara ed il Fiume, colti completamente alla sprovvista, non ebbero nemmeno il
tempo di abbozzare una reazione: entrambi gli incrociatori furono ridotti, in
capo a tre minuti, a due relitti galleggianti, devastati dall’uragano di fuoco
che si era abbattuto su di loro.
Alle 22.35 (o 22.33)
la Barham aprì il fuoco per ultima,
ed il suo comandante, capitano di vascello Cooke, ordinò di aprire il fuoco
contro un cacciatorpediniere che era appena apparso nel fascio del proiettore
del Greyhound, a prora sinistra della
corazzata: era l’Alfieri, che divenne
il bersaglio delle prime due salve da 381 della corazzata.
Poco dopo i proiettori
delle navi britanniche avvistarono tre dei quattro cacciatorpediniere della IX
Squadriglia: agli inglesi sembrò che questi, sbucati da dietro gli
incrociatori, si fossero diretti verso la formazione britannica e poi,
probabilmente dopo aver lanciato i siluri, avessero accostato a dritta per poi
allontanarsi coprendosi la ritirata con cortine fumogene. Niente di tutto
questo era in realtà avvenuto: le quattro unità della IX Squadriglia, benché –
a differenza degli incrociatori – avessero le proprie artiglierie ed i propri
tubi lanciasiluri armati e pronti al fuoco (come di norma per la navigazione
notturna delle siluranti in tempo di guerra), furono talmente colte di sorpresa
e frastornate da quanto stava accadendo – all’iniziale sorpresa seguirono violente
e rapide raffiche di proiettili da 152 mm – che non spararono un colpo né
tentarono il contrattacco silurante, bensì accostarono subito tutte a dritta ed
accelerarono tentando di fuggire coprendosi con cortine nebbiogene, senza
capire cosa stesse accadendo, investite dal tiro delle navi britanniche ed
abbagliate dai fasci luminosi dei proiettori puntati su di esse.
Il supposto attacco
silurante dei cacciatorpediniere italiani portò però le corazzate (o forse solo
la Warspite) ad aprire il fuoco con i
cannoni di medio calibro (152 mm) verso le navi del comandante Toscano, mentre
i cacciatorpediniere britannici – Stuart,
Havock, Griffin e Greyhound – si
lanciavano al contrattacco aprendo il fuoco con i propri cannoni. Nella
confusione generale, anzi, l’Havock
scordò di accendere i fanali di riconoscimento in uso nelle azioni notturne e
venne perciò scambiato per italiano e fatto segno di due salve da 152 della Warspite, uscendone tuttavia indenne.
L’Alfieri, che, essendo il
caposquadriglia, procedeva in testa alla linea di fila dei cacciatorpediniere,
subito a poppavia del Fiume (ed a
proravia del Gioberti), fu il primo
ad essere avvistato e bersagliato dal tiro da 152 delle corazzate. Era passato
poco dall’avvistamento dei due presunti Very rossi a sinistra, quando da bordo
del cacciatorpediniere si assistette all’improvvisa apertura del fuoco contro Zara e Fiume, con tiro illuminante e battente da parte delle corazzate
britanniche. Il sottotenente di vascello Sansonetti, uscendo dalla sala nautica
dopo aver parlato con Manfredi, aveva appena aperto la porta della plancia
quando vide attraverso il vetro un enorme incendio svilupparsi sulla poppa del Fiume (soprattutto a dritta), poche
centinaia di metri a proravia dell’Alfieri,
e poi sentì improvvisamente delle esplosioni e corse fuori, mentre schegge
infuocate di ogni dimensione si levavano nel cielo. Non trascorsero che pochi
istanti, che l’Alfieri divenne a sua
volta un bersaglio, contro cui fu fatto fuoco non solo con i pezzi secondari da
152 delle corazzate (il cui effetto fu poco inefficace, in quanto la Warspite, per un problema al sistema
d’illuminazione automatico EBI, aprì il fuoco in ritardo, solo alle 22.31, da
una distanza di 2290 metri – ritenuta eccessiva –, tirando la prima salva a
vuoto e colpendo uno dei cacciatorpediniere con la seconda, mentre la terza e
la quarta mancarono l’Havock), ma
anche con quelli da 381 della Barham:
la prima salva da 381 della Barham,
sparata da soli 2800 metri di distanza, mise un colpo a segno sotto la plancia
della nave di Toscano, ed il direttore del tiro della Barham, osservando i risultati della prima salva sull’Alfieri, disse “È stato il migliore tiro
notturno che abbia mai fatto”. Il comandante della Barham si trovò d’accordo. Poi la corazzata spostò il suo tiro
sullo Zara.
Sulla plancia dell’Alfieri, non appena ebbe inizio il tiro
battente ed illuminante da parte nemica, il comandante Toscano gridò “Che
succede?” e subito dopo ordinò “Tutta la barra a dritta! Avanti massima!”.
Questo venne riferito in seguito dal sottotenente di vascello Francesco
Mascini, l’ufficiale di rotta, il quale spiegò che Toscano intendeva sottrarsi
al tiro nemico che aveva sorpreso tutti, riunire la squadriglia (l’intera
squadriglia avrebbe dovuto portarsi fuori dall’immediato tiro avversario) e poi
contrattaccare con i siluri nel modo più opportuno. Tale semplice piano venne
rapidamente formulato da Toscano insieme all’assistente di squadriglia,
capitano di corvetta Pier Gaetano Busolli, alla presenza di Mascini e Manfredi,
subito dopo che Toscano aveva ordinato di mettere le macchine avanti tutta e
portare tutto il timone a dritta (questi ordini furono sentiti anche da
Sansonetti). Per lo stesso motivo, il comandante Toscano ordinò subito di
emettere una cortina nebbiogena con cui occultarsi; ma, prima di poter emettere
la cortina, l’Alfieri venne raggiunto
a poppa ed al centro da diverse salve che lo danneggiarono gravemente,
immobilizzandolo con la barra bloccata a 15° a dritta (risulterebbe, secondo la
Commissione d’Inchiesta Speciale istituita nel 1946, che la nave avesse fatto
in tempo ad eseguire l’accostata a dritta prima di essere colpita, che Toscano
ordinò di emettere nebbia solo dopo che l’Alfieri
era stato colpito, e che quest’ultimo ordine non poté essere eseguito a causa
dei danni subiti). Per effetto dell’abbrivio, l’Alfieri andò verso il nemico prima di arrestarsi del tutto. Tutto
ciò risulta dalla successiva deposizione di Mascini (confermata anche da quella
di Sansonetti), mentre il tenente di vascello Italo Bimbi, direttore del tiro,
diede una versione del tutto differente degli ordini e propositi di Toscano:
secondo la sua deposizione, Toscano diresse verso il punto da cui partivano le
salve nemiche (accostando cioè a sinistra, invece che a dritta) allo scopo di
avvicinarsi alle navi britanniche, che non si riusciva a vedere, per poter
lanciare e sparare contro di esse.
In ogni caso, ciò non
cambia quello che seguì. Alle 22.32, pochi secondi dopo l’inizio dell’azione,
mentre veniva dato l’ordine di seguire gli indici elettrici per iniziare il
tiro con i cannoni da 120 mm, un proietto da 381 mm sparato dalla Barham colpì l’Alfieri, passò da parte a parte il deposito di nafta n. 20 ed
esplose a centro nave e nel locale macchina poppiero, mettendo fuori uso le
trasmissioni dei timoni, che rimasero bloccati a dritta, e spezzando le tubolature
della sala macchine, dalle quali fuoriuscì copiosamente vapore, che sfogò
all’esterno attraverso il boccaporto. Saltò anche la corrente, lasciando la
nave al buio ed impedendo di comunicare dalla plancia con i locali inferiori.
Sul ponte di comando, la ruota del timone era in folle: la nave, ingovernabile,
iniziò a girare in cerchio verso dritta, con velocità decrescente, pertanto il
comandante Toscano ordinò al comandante in seconda, il tenente di vascello
Pietro Zancardi, di andare a poppa per azionare il governo a mano. Al contempo,
il comandante diede ordine al direttore di macchina, capitano del Genio Navale
Giorgio Modugno, di rimettere in moto la nave con la sola motrice prodiera:
Modugno suggerì di fermare la macchina di dritta, in modo da intercettare il
vapore a centro nave, e tentare di proseguire usando solo la macchina prodiera
ed una caldaia funzionante. Era l’unica manovra possibile in quelle condizioni.
Toscano ordinò perciò di fermare la macchina di dritta, mentre con le manovre
effettuate dalla stazione poppiera il timone – rimesso in funzione grazie agli
sforzi del capitano Modugno – veniva portato a 15° a dritta: ciò non sortì però
il risultato sperato, dato che il cacciatorpediniere aveva velocemente ridotto
l’abbrivio, girando in cerchio. Inutili i tentativi di rimettere le macchine in
funzione. Alla luce dei bengala, il sottotenente di vascello Sansonetti vide
due cacciatorpediniere della IX Squadriglia che accostavano sulla dritta,
imitando la manovra dell’Alfieri; un
incendio scoppiò sulla prua del Carducci.
Il capitano Modugno
(che pure era stato ferito al mento sin dal primo colpo caduto a bordo),
coadiuvato dal tenente del Genio Navale Salvatore Ferraro, diresse i vani
tentativi di far fronte ai tremendi danni subiti dalla nave, e poi, essendo
molti dei suoi uomini rimasti uccisi o feriti, partecipò personalmente
all’esecuzione dei provvedimenti necessari a tenere in efficienza il
cacciatorpediniere fino alla fine, passando noncurante tra le fiamme dei
numerosi incendi, gli scoppi delle munizioni ed il vapore che dilagava dentro e
fuori lo scafo. “Coraggio ragazzi, tra poco saremo di nuovo pronti a muovere”:
così si rivolse ai suoi uomini per incoraggiarli.
Mentre in coperta ed
intorno a lui infuriava il combattimento, il capo radiotelegrafista Giovanni
Costamagna rimase al suo posto nella stazione radio: non fu mai più rivisto.
Con le macchine fuori
uso a pochi istanti dall’inizio dell’attacco l’Alfieri, spinto solo dall’abbrivio, continuò per un poco a
spostarsi verso dritta rispetto alla formazione. Da bordo si vedevano
confusamente le sagome di navi britanniche grandi e piccole, ed il comandante
Toscano ordinò di sparare con tutte le armi che ancora funzionassero.
Pochi secondi dopo le
fallite manovre per governare la nave sopraggiunse, provenendo da prora dritta,
lo Stuart, che aprì il fuoco contro
l’Alfieri defilando di controbordo a
300-400 metri di distanza. Un proiettile colpì il fumaiolo e distrusse la motolancia,
spazzando la coperta sottostante con una pioggia di schegge, che uccisero,
ferirono, mutilarono. Dappertutto c’erano morti e feriti, le cui grida
cessarono per sempre dopo poco tempo. Il comandante Toscano esclamò “Andiamo a
fondo ma combattiamo fino all’ultimo!”; ordinò l’accensione del segnale di
mischia, nonché di rispondere al fuoco. Il complesso binato poppiero da 120 mm,
però, era completamente avvolto dalla nube di vapore bollente che usciva dal
boccaporto, risultando così inutilizzabile, al pari dell’impianto lanciasiluri
poppiero (anch’esso a causa del vapore). Il complesso prodiero da 120, rimasto
indenne, sparò invece tre salve a punteria contro lo Stuart, che stava defilando di controbordo sulla dritta a poca
distanza (meno di 2000 metri secondo il direttore del tiro, tenente di vascello
Italo Bimbi, e addirittura meno di 500 secondo il comandante in seconda
Zancardi); anche le mitragliere da 20 mm del lato di dritta dell’Alfieri aprirono un intenso tiro contro
l’unità nemica. Dei serventi dell’impianto da 120, solo in sei si sarebbero
alla fine salvati, tra cui il tenente di vascello Bimbi, che si era precipitato
all’impianto prodiero per rispondere al fuoco. Il cannoniere Rocco Rizzi
sarebbe stato decorato con la Medaglia di bronzo al Valor Militare per il suo
ruolo in quest’azione.
Il tiro di cui l’Alfieri veniva fatto continuamente segno
venne poi a cessare per circa cinque minuti, dopo di che il sottotenente di
vascello Sansonetti – dopo aver sentito il comandante Toscano dire “Andiamo a
fondo ma combattiamo fino all’ultimo” – scorse all’improvviso sulla sinistra un
cacciatorpediniere nemico – era lo Stuart
– che si avvicinava rapidamente sparando con il complesso prodiero, per poi
accostare solo all’ultimo momento e passare sulla dritta, come se si fosse
accorto solo allora della presenza dell’Alfieri
(ed era proprio così: lo Stuart vide
improvvisamente la nave italiana apparire e passargli vicinissima sulla dritta,
tra di essa e l’Havock ed ad una
distanza di meno di cento metri, e dovette virare bruscamente per evitare la
collisione, poi sparò tre salve contro l’Alfieri,
che sparò anch’esso; i proiettili dello Stuart
colpirono a prua, a poppa e nelle sovrastrutture). Sansonetti, che era presso
l’impianto lanciasiluri centrale, non ebbe il tempo di brandeggiare i tubi per
lanciargli contro i siluri prima che scomparisse nell’oscurità, ma dopo pochi
attimi lo Stuart riapparve, questa
volta sulla dritta, sparando con tutti i cannoni: l’Alfieri fu colpito nel fumaiolo, a prua ed anche vicino a dove si
trovava Sansonetti, che – subito dopo aver ordinato di brandeggiare i tubi
sulla sinistra – sentì delle grida di dolore, fu coperto di cenere calda di
provenienza sconosciuta e venne quasi scaraventato giù dall’impianto
lanciasiluri a causa dello spostamento d’aria. L’Alfieri era notevolmente sbandato sulla dritta. Dato che lo Stuart stava passando sulla dritta, a
meno di duecento metri di distanza, Sansonetti, di propria iniziativa, ordinò
il brandeggio a mano dei tubi lanciasiluri verso dritta, da effettuarsi il più
rapidamente possibile, ma il silurista Raffaele Aruta, incaricato del
brandeggio a mano, crollò esausto, dicendo di essere ferito, perciò fu
Sansonetti stesso ad aiutarlo a brandeggiare, poi ordinò “fuori”. Fu il
sottocapo silurista Arturo Martinotti, circondato dai corpi dei suoi compagni,
mentre i colpi nemici esplodevano tutt’intorno, le fiamme divampavano vicino a
lui ed il complesso veniva investito dal vapore, ad effettuare con calma il
lancio dei siluri.
Partirono due siluri,
ma il lancio era stato effettuato in tali condizioni, e la distanza era così
scarsa, che non era pensabile di riuscire ad ottenere un successo: Sansonetti
aveva lanciato meramente perché convinto che alla sua nave fosse rimasto poco
da vivere. (Il marinaio palombaro Olvino Colavi dichiarò in seguito che il
lancio era stato effettuato all’ordine e con elementi conosciuti dalla plancia,
che erano stati comunicati al complesso lanciasiluri, ma ciò contrasta con
quanto affermato da Sansonetti, il quale riferì di aver lanciato ad occhio e
con angolazione dei siluri non conosciuta).
Poco dopo Sansonetti,
con il quale erano rimasti solo due o tre uomini abili, lanciò il terzo ed
ultimo siluro contro un cacciatorpediniere piuttosto lontano (non è chiaro se
si trattasse sempre dello Stuart),
mancandolo. Lo Stuart, dopo aver
colpito ancora l’Alfieri con varie
salve, che appiccarono ulteriori incendi e fecero sbandare fortemente a dritta
la nave italiana (almeno uno dei proiettili colpì sotto la linea di galleggiamento,
determinando il forte sbandamento), defilò rapidamente di controbordo e
scomparve.
Subito il direttore
di tiro Bimbi fece rapidamente brandeggiare l’impianto binato da 120 mm di prua
sul lato opposto al precedente, verso sinistra, e quel complesso sparò la sua
quarta ed ultima salva contro l’Havock,
che fu visto per pochi secondi avvicinarsi da prua sinistra e poi accostare e
sparare a bruciapelo sull’Alfieri, da
meno di una cinquantina di metri. Anche le mitragliere tirarono intensamente
contro l’Havock, che passò tanto
vicino che gli uomini della nave italiana ne videro il comandante in plancia,
intento a fumare una sigaretta mentre impartiva ordini.
L’Alfieri divenne così l’unica nave del
gruppo «Zara» ad avere tentato una reazione, nonostante la sorpresa iniziale ed
i gravissimi danni subiti. Il suo comportamento destò attenzione ed ammirazione
tra gli stessi inglesi, come avrebbe riscontrato nel 1944 l’ex ufficiale di
rotta, Mascini, durante una missione in Inghilterra nel corso della
cobelligeranza: vari ufficiali britannici, parlando con lui, misero in risalto
la condotta dell’Alfieri, e chiesero
molti particolari sul defunto comandante Toscano. (Nella medesima circostanza,
Mascini ebbe modo anche di apprendere da un ufficiale britannico il quale, la
notte di Matapan, si era trovato sulla plancia della Warspite, che ad avvistare le navi italiane era stato
“personalmente Cunningham, senza l’ausilio del radar” – in realtà non
Cunningham ma il commodoro Edelsten, ma la sostanza restava la stessa –, notizia
che gli fu confermata da altre fonti, sia ufficiali che private, durante il suo
soggiorno in Inghilterra. Cunningham gli fece chiedere più volte, in quel
periodo, quali fossero stati i danni subiti dalle unità italiane, quali navi
italiane avessero sparato e con quali calibri, e perché da parte italiana si
fosse tardato ad inviare soccorsi dopo che lui aveva personalmente segnalato la
posizione dei naufraghi – in realtà, a onor del vero, la Gradisca era stata inviata sul posto immediatamente, ma pur essendo
la più veloce tra le navi ospedale italiane la sua velocità rimaneva non molto
elevata, ragion per cui erano passate trenta ore prima che arrivasse sul
posto). A conclusione dei suoi lavori, la Commissione d’Inchiesta Speciale
istituita nel dopoguerra sulla perdita dell’Alfieri
avrebbe giudicato che, nell’ultimo combattimento del cacciatorpediniere, “Tutti
gli avvenimenti si sono svolti secondo le più alte tradizioni della Marina”.
L’Alfieri continuava però ad essere
colpito dal tiro britannico, e dovette così cessare ogni reazione con le
proprie armi, tranne che per l’unica mitragliera rimasta intatta, che continuò
a fare fuoco di quando in quando. La sua reazione si era protratta dalle 22.40
alle 22.45. A bordo divampavano violenti incendi, i danni erano gravissimi,
scoppiavano a tratti le riservette di munizioni.
Non ebbero molto
miglior sorte le altre unità della IX Squadriglia. Il Carducci, nel tentativo di coprire la ritirata delle altre navi con
una cortina fumogena, fu a sua volta centrato ed immobilizzato, venendo così
costretto all’autoaffondamento, mentre l’Oriani,
gravemente danneggiato, ed il Gioberti,
miracolosamente illeso, furono le uniche navi, tra quelle della formazione
dell’ammiraglio Cattaneo, che riuscirono a scampare alla distruzione quella
notte.
Le tre corazzate di
Cunnigham, frattanto, spensero i proiettori alle 22.32 ed accostarono ad un
tempo di 90° sulla dritta per evitare gli ipotetici (ma inesistenti) siluri
lanciati dalla IX Squadriglia (in questa fase la Warspite tirò alla cieca una salva da 381 contro i
cacciatorpediniere italiani, cui era più vicina), dopo di che si allontanarono
rapidamente dal luogo dello scontro (o più realisticamente del massacro).
L’azione delle navi da battaglia era durata appena tre minuti: tanto era
bastato a ridurre due dei migliori incrociatori della Regia Marina a due
rottami crivellati di colpi.
Su ordine di
Cunningham, Stuart, Havock, Griffin e Greyhound erano
rimasti sul posto per dare il colpo di grazia alle navi semidistrutte, mentre
le tre corazzate e la Formidable si
riunivano e riformavano la linea di fila, assumendo rotta 10°, per poi
allontanarsi verso nordest (le unità britanniche sarebbero tornate sul posto il
mattino successivo, per recuperare i naufraghi delle navi italiane, precedute
nella notte dagli otto cacciatorpediniere del comandante Mack, che avrebbero
partecipato all’affondamento dei relitti rimasti ancora a galla). I quattro
cacciatorpediniere britannici incrociarono a lungo nelle acque del disastro,
attaccando saltuariamente i relitti galleggianti delle navi italiane.
Sull’Alfieri, intanto, il comandante Toscano, nonostante le
condizioni della sua nave fossero già sufficiente fonte di preoccupazioni, aveva
pensato anche alle unità dipendenti: alle 22.42 l’Alfieri cercò infatti di contattare, uno per volta, gli altri tre
cacciatorpediniere della IX Squadriglia sull’onda 145,63, ma nessuno rispose.
Poi diede ordine di mettersi in contatto con le unità superiori, Zara e Vittorio Veneto: alle 22.55 e poi ancora alle 22.59 l’Alfieri tentò di contattare per radio il
Comando della I Divisione, sull’onda 141,18, ma di nuovo senza successo. Poi,
proprio mentre il tenente di vascello Mascini stava per entrare nella stazione
radio, questa venne colpita in pieno da una cannonata nemica.
Ormai la situazione dell’Alfieri
era disperata: le fiamme divampavano da prua a poppa, lo sbandamento verso
dritta continuava ad aumentare, e poco dopo la fine dello scontro con Stuart ed Havock il comandante Toscano, che aveva
ancora il pieno controllo dell’equipaggio, dovette ammettere che non c’era
speranza di salvare la nave. Quando gli fu riferito che ormai la nave era ferma
da venti minuti, Toscano ordinò ai sottotenenti di vascello Mascini e Manfredi di
gettare in mare i documenti dell’archivio segreto. Poi, con la sua nave
agonizzante, il comandante della IX Squadriglia Cacciatorpediniere scese dalla
plancia e dal castello di dritta, per farsi sentire meglio, e gridò a pieni
polmoni: “Viva l’Alfieri! Viva il re!
Viva l’Italia! Abbandono della nave!” (questo secondo il ricordo del tenente di
vascello Mascini; altra versione riporta le parole di Toscano come “Saluto al
re, viva l’Italia, tutti a mare”, la sostanza non cambia). L’equipaggio
superstite ripeté il grido di Toscano, poi si apprestò ad abbandonare la nave.
I sottotenenti di vascello Mascini e Manfredi si recarono nella cabina di poppa
del comandante, presero le apposite cassette metalliche in cui rinchiudere i
documenti segreti da gettare in mare, e le calarono in acqua.
Mentre i suoi uomini iniziavano ordinatamente a scendere sulle
zattere (quasi tutte le imbarcazioni erano andate distrutte, e le zattere
stesse erano piene di buchi causati dal combattimento), il comandante Toscano disse
che voleva restare a bordo. Risalì lentamente la scaletta della plancia; i suoi
ufficiali gli chiesero insistentemente di salvarsi e salire sulla loro zattera,
ma Toscano, che inizialmente aveva fatto loro credere che sarebbe venuto con
loro, cambiò idea e si limitò a chiedere loro un’ultima sigaretta, poi ordinò
cortesemente di essere lasciato solo. Voleva, disse, rimanere a bordo per
assicurarsi che la nave affondasse. Mascini, l’ufficiale di rotta, descrisse
poi quei momenti: «Tutti gli ufficiali sono intorno al comandante sereno ma
decisissimo ed irremovibile nella scelta del suo destino. Ogni argomento cede
di fronte alla sua volontà. Il comandante ora è in plancia, mi chiede una
sigaretta, l’ultima, poi mi ordina deciso di buttarmi a mare e di lasciarlo
solo con la sua nave piena di feriti e di morti…».
L’ultimo a vedere il comandante Toscano in vita fu il suo secondo,
tenente di vascello Zancardi. Questi stava salendo sul castello quando il
comandante diede l’ordine di abbandonare la nave, e lo sentì dire
all’assistente di squadriglia, capitano di corvetta Busolli, “No, andate, io
resto!”. Zancardi si diresse subito a centro nave ed a poppa per dare
esecuzione all’ordine di abbandonare la nave; poi, quando non vide più nessuno,
andò in plancia per parlare con Toscano, il quale gli raccomandò di accertarsi personalmente
che l’Alfieri sarebbe
affondato, mai caduto in mano nemica. Così Zancardi descrisse quell’ultimo
incontro: «Lo trovai [Toscano] vicino all’obice e gli dissi di venire con noi.
Egli mi rispose molto calmo, mentre stava fumando: “Andate, ragazzi! Io resto.
Piuttosto vorrei essere sicuro dell’affondamento della nave”. Gli risposi che
si poteva tentare di accendere le micce delle bombe [le cariche di
autodistruzione sistemate nel deposito munizioni poppiero, nda]; quindi il
comandante salì in plancia e non lo rividi più». Preso commiato dal suo
comandante, Zancardi corse a poppa ad accendere la miccia, dopo di che
abbandonò la nave. Toscano rimase in plancia, fumando, aspettando la fine. Il
tenente medico Andrea Araneo, nonostante l’ordine di abbandonare la nave,
preferì restare con i feriti per continuare ad assisterli, fino alla fine.
Una volta che l’equipaggio ebbe abbandonato l’Alfieri (per altra versione, mentre ancora gli
uomini stavano salendo sulle zattere), l’Havock si avvicinò al cacciatorpediniere in
affondamento e lo finì con raffiche di tiro a breve distanza – giungendo a fermarsi nei suoi pressi per
tirare con maggior precisione: i naufraghi dell’Alfieri lo videro e ne fraintesero la sigla come H32, in realtà appartenente all’HMS Havant, affondato a Dunkerque nel 1940 –
e con il lancio di quattro siluri da ridottissima distanza, uno dei quali andò
a segno alle 23.15. Il tiro dell’Havock aggravò i vasti incendi che già
divampavano sulla nave italiana (la cui plancia già bruciava furiosamente) e ne
scatenò degli altri: il fuoco si estese con rapidità e fece scoppiare a più
riprese, con violenza, le riservette delle mitragliere.
(Per altra fonte, fu lo Stuart a finire l’Alfieri con un siluro, mentre l’Havock affondò il Carducci: alle 22.59 lo Stuart, mentre si dirigeva
verso Zara e Fiume per finirli, avvistò un incrociatore
immobilizzato ed in fiamme a due miglia di distanza – lo Zara –, con un’altra unità, che ritenne
essere un altro grosso incrociatore, all’apparenza illeso, che gli girava
intorno. Lo Stuart si portò ad una distanza favorevole
per un attacco e lanciò tutti ed otto i siluri che aveva contro le due navi
italiane, osservando poi una sorda esplosione sotto l’incrociatore indenne, che
reputò di aver colpito. Quest’ultimo, probabilmente, non era un incrociatore ma
l’Alfieri, che stava girando in cerchio a causa dei danni riportati al
timone: lo Stuart gli si avvicinò a 25 nodi e constatò
alle 23.05 che era tutt’altro che illeso, bensì danneggiato e fermo a 1,5
miglia di distanza, con un forte sbandamento. Lo Stuart sparò due salve da 120 mm contro di
esso, colpendolo in plancia ed in altri punti e provocando una forte esplosione
ed un incendio, dopo di che sopraggiunse il Carducci,
che fu impegnato da Stuart ed Havock alle 23.08 ed affondato alle 23.30. L’Havock riportò che l’Alfieri si era capovolto nell’affondare,
mentre secondo Sansonetti ed altri superstiti la nave affondò in assetto di
navigazione).
Intorno a
mezzanotte, infine, l’Alfieri esplose
ed affondò, portando con sé il comandante Toscano, che aveva voluto affondare
con la sua nave, i tanti feriti che non si era potuti portare in salvo, ed il
tenente medico Araneo che era rimasto con loro. Alla memoria del comandante
Toscano sarebbe stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare; anche il
tenente medico Araneo fu decorato alla memoria.
Sull’ora esatta dell’affondamento esistono delle divergenze: per
altra versione l’Alfieri s’inabissò
alle 23.30, mentre un’altra ancora – probabilmente erronea – indica
l’affondamento come avvenuto tra le 22.55 e le 23. Il direttore del tiro Bimbi
dichiarò poi che l’Alfieri scomparve
alla vista dei naufraghi circa mezz’ora dopo che questi avevano abbandonato la
nave; l’ufficiale di rotta Mascini precisò che il comandante Toscano aveva
ordinato di abbandonare la nave intorno alle 23.30, e che l’Alfieri s’inabissò verso le 23.45. Il
comandante in seconda Zancardi asserì di essersi tuffato in mare alle 23.15
(ora in cui si era fermato il suo orologio) e stimò che l’Alfieri fosse affondato alle 23.30 circa. La Commissione
d’Inchiesta Speciale istituita nel 1947 giudicò che si potesse desumere «con
tutta certezza» che l’affondamento fosse avvenuto alle 23.30 circa, orario che
è riportato dal volume U.S.M.M. "Navi militari perdute".
La C.I.S. tentò anche di determinare la posizione dell’Alfieri, al momento dell’affondamento,
rispetto alle altre navi. Inizialmente la C.I.S. istituita sulla perdita dello Zara, che esaminò brevemente anche le
vicende dei cacciatorpediniere della IX Squadriglia, determinò che l’Alfieri fosse affondato ad est di Zara e Fiume, per via della sua maggiore velocità; esaminando però le
testimonianze con più attenzione, la C.I.S. sulla perdita dell’Alfieri sovvertì tale giudizio. Dato che
– in base alla testimonianza di Sansonetti – il cacciatorpediniere stava
procedendo a 12 nodi, e che venne immobilizzato pochi secondi dopo aver
iniziato l’aumento di velocità e l’accostata sulla dritta, venne giudicato
improbabile che, essendo la sua massa molto minore di quella degli incrociatori,
l’abbrivio da solo potesse avergli consentito di superarli.
Il Vittorio Alfieri s’inabissò nel punto 35°21'
N e 20°57' E.
In mezzo al mare,
nella notte buia e fredda, restavano ora decine di naufraghi, stipati su
zattere instabili prese d’assalto dagli uomini che erano in acqua, che
continuavano ad aggrapparvisi ed a cercare di salire, ottenendo solo di
rovesciarle di continuo. Con il capovolgimento delle zattere sparivano le
dotazioni di acqua e provviste… e gli uomini. Non c’era posto per tutti sulle
zattere: quelli che restavano in acqua sapevano di essere condannati, ed a
decine scomparvero già prima che l’alba fosse sorta, molti altri anche il
mattino del 29. Un naufrago su una zattera gridò “Si deve fare così” e si gettò
in mare: venne ripreso in tempo, ma più tardi cercò nuovamente di liberarsi.
Sarebbe scomparso durante la seconda notte alla deriva.
Il capitano del Genio
Navale Modugno, ferito, dopo aver abbandonato la nave tra gli ultimi raggiunse
a nuoto uno zatterino stracarico di naufraghi (erano in trentacinque) e vi si
arrampicò sopra, ma poi, constatando che erano in troppi a bordo, nonostante lo
sfinimento e le ferite, ridiscese in mare per dare la precedenza ai feriti, ed
organizzò ed esortò il soccorso ai feriti più gravi ed ai superstiti più
indeboliti. Gli uomini sulla zattera lo esortarono a salire a bordo, ma lui
rispose di lasciarlo morire e di pensare a salvare sé stessi: lui, come
ufficiale, doveva restare in mare per lasciare il suo posto sulla zattera ad un
marinaio. Incoraggiò i suoi uomini e tentò di fare in modo che nessuno dovesse
restare continuamente in mare, facendo scendere quanti erano sulla zattera da
lungo tempo per permettere di salire a quelli che sino ad allora erano dovuti
restare in mare. Continuò sino all’esaurimento delle forze, tenuto nelle
braccia di un marinaio che si sforzava di impedire che andasse alla deriva: poi
– si approssimava l’alba –, come ricordò il sottotenente di vascello
Sansonetti, che era sulla zattera, “Fu allora che Modugno, che era nelle
braccia di un marinaio che si sforzava di mantenerlo sulla zattera, mi tese la
mano guardandomi fisso ed io capii che se ne andava. Mantenni la sua mano
stretta nella mia per molto tempo, finché un marinaio mi disse: Perché lo
teniamo ancora? Ché già da mezz'ora il nostro giovane Direttore di Macchina era
dolcemente finito”. Giorgio Modugno fu tra le ultime vittime di quella notte,
quando già il numero dei naufraghi era stato terribilmente sfoltito dal freddo
e dalle ferite: se non fosse rimasto in mare per tutto il tempo, probabilmente
sarebbe sopravvissuto, secondo i marinai della sua zattera (che, dopo l’alba,
avvistarono altre zattere vuote che galleggiavano nei pressi e vi si
trasferirono in parte, in modo da essere meglio distribuiti). La Medaglia d’Oro
al Valor Militare riconobbe il suo sacrificio: fu la prima medaglia d’oro
conferita ad un ufficiale del Genio Navale durante la seconda guerra mondiale.
A lui fu anche intitolata la piazza principale dell’Arsenale di Cattaro,
denominazione destinata a durare poco a causa delle sorti del conflitto.
Non fu, quello di
Modugno, l’unico caso di altruistico sacrificio di naufraghi dell’Alfieri: il cannoniere Arturo Penitenti,
pur avendo raggiunto un’imbarcazione di salvataggio, cedette spontaneamente il
posto ai feriti ed ai più deboli, per poi scomparire in mare. Anche il tenente
commissario Adriano Vecchiotti si prodigò per salvare i suoi uomini, prima di
scomparire in mare.
Il capitano del Genio Navale Giorgio Modugno (USMM, restauro a cura di Matteo Fornoli) |
Quando sorse
finalmente il sole, i superstiti poterono riscaldarsi un poco, e si accese la
speranza di essere salvati. Il mattino del 29 marzo, i naufraghi dell’Alfieri videro finalmente delle navi
intente a perlustrare la zona degli affondamenti, e poi un cacciatorpediniere
britannico che si avvicinava per prenderli a bordo: ma nello scoramento
generale, poterono solo stare a guardare mentre un aereo della Luftwaffe
appariva nel cielo e la nave salvatrice si allontanava abbandonandoli in mare,
a 160 miglia dalla terra più vicina.
Le unità della
Mediterranean Fleet erano infatti tornate sul luogo della distruzione della I
Divisione alle otto del mattino del 29, ed alcuni cacciatorpediniere avevano
iniziato a recuperare i naufraghi delle navi affondate: quest’opera (furono
recuperati in tutto 1062 uomini, su 3644 imbarcati sulle cinque – anche il Pola era stato infine silurato dai
cacciatorpediniere – navi affondate) era però stata interrotta alle undici,
quando, avendo avvistato dei ricognitori tedeschi, Cunningham decise di
lasciare la zona temendo che un attacco aereo fosse in arrivo.
Più tardi, alle 17.30
del 29 marzo, un idrovolante britannico in ricognizione segnalò delle
imbarcazioni cariche di superstiti 90 miglia a sudovest di Capo Matapan, per
cui fu inviato sul posto un cacciatorpediniere greco, l’Hydra, che, nonostante le avverse condizioni meteorologiche,
recuperò altri 111 superstiti italiani (dando la precedenza ai feriti), tra cui
solo 23 uomini dell’Alfieri (gli
altri erano dello Zara e del Fiume): tra questi erano il sottotenente
di vascello Sansonetti ed il tenente del Genio Navale Ferraro. Dei 35 uomini
che erano stati sulla zattera di Sansonetti, solo in otto erano ancora vivi,
nonostante non fossero passate che ventiquattr’ore dall’affondamento. I
naufraghi raccolti dall’Hydra furono
sbarcati all’arsenale di Atene ed avviati alla prigionia nei pressi della
capitale greca (prigionia che sarebbe però stata di breve durata, in quanto la
Grecia si arrese all’Asse due mesi dopo, ed i prigionieri furono liberati e
tornarono in Italia). Per gli altri aveva inizio un calvario che sarebbe durato
quattro giorni.
Il cacciatorpediniere
passò vicino ad una delle zattere dell’Alfieri,
i cui occupanti gridarono per farsi notare, ma non furono sentiti: anzi per
poco la nave avversaria non travolse la zattera, che sobbalzò nella scia
sollevata dal suo passaggio. Questo scatenò il caos: alcuni tra i più deboli,
di quelli che erano in mare ed aggrappati al bordo della zattera, persero la
presa e scomparvero, gli altri, spaventatisi, vollero salire sulla zattera, quelli
che già erano a bordo si rifiutarono di cedere il posto (nonostante fossero
stati stabiliti dei turni per stare in acqua e per stare a bordo), ed ebbe
inizio una lotta spietata per trovare un posto sulla zattera. Invano gli
ufficiali tentarono di calmare gli animi e riportare la situazione sotto
controllo: anche uomini che si erano già dimostrati altruisti e pronti a
sacrificarsi, avendo esortato due ufficiali feriti a prendere i loro posti di
turno sulla zattera, reagirono ora con violenza. Tutti presero ad arrampicarsi
gli uni sugli altri, ammucchiandosi, consumando le proprie forze e facendo alla
fine capovolgere la zattera. Nemmeno questo fece cessare la lotta, che riprese
a tratti tra grida, a tratti senza che nessuno aprisse bocca, tra rantoli e
voci roche di chi non ce la faceva più e si lasciava andare. E così il gruppo
di superstiti andò riducendosi: qualcuno restava bloccato sotto la zattera
capovolta ed annegava, altri venivano respinti lontano e non riuscivano più ad
avvicinarsi, e non erano più visti.
Disse poi un
superstite dell’Alfieri: «Eravamo
soli. Nessuno aveva voglia di parlare e tutti sapevano perché. La nostra vita
si presentava tutta intera, come un bel sogno, alla nostra mente. (…) come se
quella solitudine e quell’abbandono desolato sul mare ci avessero liberato di
tante distrazioni che nascondevano i ricordi e le gioie di giorni lontani e
felici. Poi i cervelli cominciarono a dissecarsi e si ebbero i primi segni di
un delirio insensato». Dopo tre o quattro giorni, anche gli ufficiali, che
avevano sino ad allora cercato di mantenere l’ordine, impazzirono, volendo
gettarsi in acqua, per nuotare fino alla costa.
Il sottotenente di
vascello Manfredi, alto, forte e buon nuotatore, si tenne lontano dalla sua
zattera, per non aggrapparvisi, ma alla fine fu costretto dallo sfinimento a
risalire a bordo. Dei 35 uomini che erano in origine sulla zattera, erano
rimasti in venti. Passò un altro giorno, mentre la sete che – oltre alla fame –
torturava i naufraghi si aggravava di ora in ora. Manfredi s’immerse nei suoi
pensieri, fu preso da irrequietezza, abbracciò un amico, poi disse di aver
visto un’altra zattera che galleggiava lontana, e si gettò in acqua per
lasciare spazio agli altri. Ebbe qualche esitazione, poi esaurì le forze e
scomparve. Molti uomini cedettero alla follia provocata da sole e dalla sete e
si gettarono in acqua, ed altrettanti morirono sulle zattere per esaurimento:
tra questi ultimi anche il capitano di corvetta Pier Gaetano Busolli,
l’assistente di squadriglia del comandante Toscano.
Alle 21 del 31 marzo
la nave ospedale Gradisca, inviata a
soccorrere i sopravvissuti delle navi italiane, sentì delle grida, e poco dopo
avvistò, nel punto 35°41’ N e 21°11’ E, una zattera dalla quale furono
recuperati quattro superstiti dell’Alfieri,
due ufficiali e due marinai. Quando i sopravvissuti, trasbordati sul motoscafo
della Gradisca ed avvolti in coperte
di lana, giunsero sottobordo alla nave ospedale, gridarono più volte “Viva
l’Italia!”. Una volta a bordo, stremati ed assetati (due erano in condizioni
piuttosto serie), chiesero continuamente acqua alle crocerossine, per placare
la terribile sete. I naufraghi – erano i primi dei soli 161 superstiti
complessivi di Alfieri, Carducci, Zara e Fiume che la Gradisca avrebbe trovato – suggerirono
ai loro soccorritori di proseguire le ricerche in zona, e la Gradisca rimise in moto a velocità
dimezzata, cercando altri superstiti.
Per gli uomini che
erano stati sulla zattera del tenente di vascello Manfredi, invece, sarebbe
passato ancora un giorno alla deriva. Poi, finalmente, il mattino del 1°
aprile, vennero avvistati dalla nave ospedale. All’arrivo della Gradisca, solo otto dei 35 originari
occupanti della zattera furono trovati ancora in vita.
Queste due zattere ed
i loro occupanti erano quanto restava dell’equipaggio dell’Alfieri, esclusi i 23 uomini che erano stati recuperati dall’Hydra: dodici superstiti.
Tra questi erano
anche il direttore del tiro Bimbi ed il comandante in seconda Zancardi, che fu
decorato con la Medaglia d’argento al Valor Militare per il suo contegno ed il
suo impegno per tenere in vita i naufraghi durante i quattro terribili giorni
trascorsi sulla zattera.
Alla
fine, i sopravvissuti, compresi quelli presi prigionieri, furono 35 su un
equipaggio di 245 uomini. 210 uomini dell’Alfieri
avevano trovato la morte, non è dato sapere quanti in combattimento e quanti in
mare nelle ore e nei giorni successivi. Tra gli scomparsi vi erano anche i
siluristi Raffaele Aruta ed Arturo Martinotti, che avevano partecipato con
Sansonetti al lancio dei siluri, ed il cannoniere Rocco Rizzi, che aveva
partecipato con Bimbi all’azione di fuoco dell’impianto prodiero da 120.
Anche il sottocapo
meccanico Nicola Sernicola, da Cava de’ Tirreni, fu tra gli scomparsi. Ai suoi
genitori Matteo e Teresa Auriemma restava ora solo il fratello Vincenzo, di due
anni più giovane: ma questi, anch’egli in Marina, avrebbe trovato la morte il 9
settembre 1943 nell’affondamento della corazzata Roma.
Oltre al comandante
Toscano, al direttore di macchina Modugno ed al tenente medico Araneo, furono
decorati alla memoria (con la Medaglia di bronzo al Valor Militare) anche Rocco
Rizzi, Giovanni Costamagna, Arturo Martinotti ed Arturo Penitenti.
Perirono con l’Alfieri:
Ludovico Abate, sottocapo segnalatore
(disperso)
Antonio Addis, capo cannoniere (disperso)
Giulio Alberti, marinaio (disperso)
Aldo Antonucci, cannoniere (disperso)
Andrea Arone (o Araneo), tenente medico (disperso)
(decorato)
Giuseppe Artico, cannoniere (deceduto)
Raffaele Aruta, silurista (disperso)
Mario Ascione, fuochista (disperso)
Angelo Balderi, motorista navale (disperso)
Elio Balò, cannoniere (disperso)
Renzo Bartaini, meccaico (disperso)
Bianco Bartolucci, fuochista, da Numama
(disperso)
Giordano Battelini, cannoniere (disperso)
Erminio Battistini, fuochista (deceduto)
Carlo Bellante, fuochista (disperso)
Flaviano Bernardi, cannoniere (disperso)
Quinto Bertozzini, fuocista (disperso)
Vincenzo Bilotti, marinaio (disperso)
Nunzio Bonaiuto, sottocapo cannoniere
(disperso)
Andrea Bonavita, silurista (disperso)
Aldo Borezzi, cannoniere (disperso)
Angelo Borsato, fuochista (disperso)
Attilio Bracciale, sottocapo cannoniere
(disperso)
Niccolò Bradizza, marinaio (disperso)
Zoel Brandinelli, capo meccanico (disperso)
Pasquale Brando, fuochista (disperso)
Giovanni Bricca, radiotelegrafista (disperso)
Nello Bronzi, marinaio (disperso)
Luigi Bruna, fuochista (disperso)
Ettore Bruni, fuochista (disperso)
Pietro Gaetano Busolli, capitano di corvetta
(disperso)
Agostino Cacace, fuochista (disperso)
Lino Cadia, segnalatore (disperso)
Salvatore Caldacci, fuochista (disperso)
Rodolfo Campana, elettricista (disperso)
Renato Campi, cannoniere (disperso)
Giuseppe Carbone, sottocapo meccanico
(disperso)
Carlo Carillo, fuochista (disperso)
Giacomo Caristi, cannoniere (disperso)
Marcello Carlesso, sergente meccanico
(disperso)
Gustavo Carlomagno, sergente radiotelegrafista
(disperso)
Cornelio Carpeneti, specialista direzione tiro
(disperso)
Oreste Caruso, marinaio (disperso)
Augusto Castardi, fuochista (disperso)
Alighiero Ciacci, cannoniere (disperso)
Cataldo Cigliola, cannoniere (disperso)
Pasquale Cioffi, marinaio (disperso)
Gaetano Cippolletta, marinaio (deceduto)
Raffaele Colella, cannoniere (disperso)
Vittorio Conte, cannoniere (disperso)
Angelo Corbaccio, torpediniere (disperso)
Giuseppe Cordoni, fuochista (disperso)
Calogero Corsini, fuochista, 22 anni, da Porto
Empedocle (disperso)
Giovanni Costamagna, capo radiotelegrafista
(disperso) (decorato)
Giuseppino Crespi, torpediniere (disperso)
Giovanni Daniele, fuochista (disperso)
Pietro D’Augenti, marinaio (disperso)
Giuseppe Davi, fuochista (disperso)
Marino De Giorgi, marinaio (disperso)
Salvatore De Sio, fuochista (disperso)
Alfiero De Stefani, sergente meccanico
(disperso)
Mario De Zorzi, meccanico (disperso)
Pietro Dell’Isola, cannoniere (disperso)
Calogero Destro, marinaio (disperso)
Pietro Di Capua, specialista direzione del
tiro (disperso)
Vincenzo Di Franco, marinaio (disperso)
Leonardo Di Pierro, marinaio (disperso)
Antonio Di Pinto, marinaio (disperso)
Michele Di Sante, marinaio (disperso)
Enzo Doddi, sottocapo cannoniere (disperso)
Arturo D’Onofrio, capo meccanico (disperso)
Pietro Dotto, sottocapo specialista direzione
del tiro (disperso)
Giuseppe D’Urso, fuochista (disperso)
Antonio Elia, cannoniere (disperso)
Roberto Erramonti, elettricista (disperso)
Luigi Evangelista, capo elettricista
(disperso)
Pacifico Fala, fuochista (disperso)
Darlo Falcone, fuochista (disperso)
Aldo Fani, cannoniere (disperso)
Ettore Fasolin, sottocapo cannoniere
(disperso)
Carlo Femminili, furiere (disperso)
Furano Ferrarese, marinaio (disperso)
Rodolfo Ferraro, sottocapo specialista
direzione del tiro (disperso)
Agostino Ferrazzi, sergente silurista
(disperso)
Ferruccio Ferreri, sergente radiotelegrafista
(disperso)
Luigi Fumagalli, sergente radiotelegrafista
(disperso)
Ermanno Fuser, elettricista (disperso)
Alessandro Gambini, fuochista (disperso)
Aldo Gams, marinaio (disperso)
Gaetano Gangarossa, fuochista, 21 anni, da
Porto Empedocle (disperso)
Osvaldo Garbati, fuochista (disperso)
Fortunato Genangeli, sergente meccanico
(disperso)
Alfonso Ghezzi, capo meccanico, 31 anni, da
Prata Camportaccio (disperso)
Claudio Giannini, sergente cannoniere
(deceduto)
Italo Giannini, sottocapo cannoniere
(disperso)
Giuseppe Giordano, sottocapo elettricista
(disperso)
Alfeo Giorgetti, fuochista (disperso)
Bruno Giubilei, nocchiere (disperso)
Pietro Giugliano, fuochista (disperso)
Enrico Giuntini, cannoniere (disperso)
Angelo Grassi, sottocapo cannoniere (disperso)
Ciro Grossi, secondo capo furiere (disperso)
Giovanni Ierala, sottocapo infermiere
(disperso)
Antonio Improta, specialista direzione del
tiro (disperso)
Accursio Indelicato, marinaio (disperso)
Francesco Isgrò, marinaio (disperso)
Salvatore La Rosa, fuochista (disperso)
Vincenzo Lamia, nocchiere (disperso)
Castone Lanza, secondo capo meccanico
(disperso)
Michele Lavafila, cannoniere (disperso)
Vittorio Levi, fuochista (disperso)
Salvatore Licata, marinaio, 23 anni, da Licata
(disperso)
Antonio Limpido, fuochista (disperso)
Pietro Livigni, silurista (disperso)
Felice Lorenzut, marinaio (disperso)
Giulio Lotterò, fuochista (disperso)
Antonio Maddaluno, sottocapo cannoniere
(disperso)
Luigi Maio, cannoniere (disperso)
Mauro Malone, cannoniere (disperso)
Oberto Manfredi, sottotenente di vascello
(disperso)
Giuseppe Mangione, sottocapo specialista
direzione del tiro (disperso)
Raffaele Mantone, sottocapo segnalatore
(disperso)
Marcello Marangoni, sottocapo elettricista
(disperso)
Mario Marini, sergente silurista (disperso)
Emanuele Marini, marinaio (disperso)
Arturo Martinotti, sottocapo silurista
(disperso) (decorato)
Bruno Marzolla, fuochista (disperso)
Giuseppe Masiello, sottocapo radiotelegrafista
(disperso)
Carlo Masotti, capo meccanico (disperso)
Giuseppe Mattei, secondo capo meccanico
(disperso)
Giuseppe Mazzilli, capo meccanico (disperso)
Giovanni Millo, elettricista (disperso)
Luigi Minetto, specialista direzione del tiro
(disperso)
Luigi Miniussi, fuochista (disperso)
Pietro Misuraca, sottocapo silurista
(disperso)
Mario Mittino, elettricista (disperso)
Giorgio Modugno, capitano del Genio Navale
(direttore di macchina) (deceduto) (MOVM)
Giuseppe Monaldini, fuochista (disperso)
Giovanni Mondera, nocchiere (disperso)
Michele Montalto, marinaio (disperso)
Umberto Morelli, segnalatore (disperso)
Giovanni Moretta, secondo capo cannoniere
(disperso)
Vittorio Mucci, cannoniere (disperso)
Francesco Musicò, cannoniere (disperso)
Italo Naitana, nocchiere (disperso)
Sicialfredo Navilli, cannoniere (disperso)
Giovanni Negrich, marinaio (disperso)
Renzo Nesti, sottocapo cannoniere (disperso)
Vittorio Nicoli, cannoniere (disperso)
Onofrio Nocerino, marinaio (disperso)
Aldo Novelli, cannoniere (disperso)
Ivan Occhiali, cannoniere (deceduto)
Alessandro Ottolino, marinaio (disperso)
Tommaso Ottonello, marinaio (disperso)
Giuseppe Panarinfo, maestrino ufficiali
(deceduto)
Egidio Panigo, capo cannoniere (disperso)
Nicola Paparella, cannoniere (disperso)
Bartolomeo Parodi, capo (disperso)
Giuseppe Parrella, secondo capo
radiotelegrafista (deceduto)
Arturo Penitenti, cannoniere (disperso)
(decorato)
Salvatore Peraino, specialista direzione del
tiro (disperso)
Giacinto Perfetti, fuochista (disperso)
Pietro Piacquadio, sottocapo cannoniere
(disperso)
Duilio Picchianti, marinaio (disperso)
Gastone Picciolut, fuochista (disperso)
Andrea Polatri,
fuochista (disperso)
Francesco Ponticiello, capo segnalatore
(disperso)
Paolo Proietto, marinaio (disperso)
Antonio Protopapa, fuochista (disperso)
Giovanni Raffaelli, elettricista (disperso)
Gaetano Reitano, marinaio (disperso)
Alessandro Rezzi, meccanico (disperso)
Rosario Ritunno, marinaio (disperso)
Rocco Rizzi, specialista direzione del tiro
(disperso) (MBVM)
Domenico Robusto, marinaio (disperso)
Giovanni Romano, cuoco ufficiali (disperso)
Siro Rossi, capo meccanico (deceduto)
Beniamino Ruggero, secondo capo
radiotelegrafista (deceduto)
Romeo Salvi, elettricista (disperso)
Francesco Sanfilippo, fuochista (disperso)
Luigi Sarnataro, fuochista (disperso)
Giovanni Savini, marinaio (disperso)
Giuseppe Scaglia, silurista (disperso)
Mario Scavo, radiotelegrafista (disperso)
Gilberto Schillani, fuochista (disperso)
Alfredo Schiocchetti, capo meccanico
(disperso)
Vincenzo Scialone, fuochista (disperso)
Antonio Sciutto, sergente cannoniere
(disperso)
Vincenzo Scoglio, marinaio (disperso)
Vittor Ugo Scortichini, sottocapo
radiotelegrafista, 21 anni, da Fabriano (disperso)
Vincenzo Scuderi, cannoniere (disperso)
Nicola Sernicola, sottocapo meccanico, 29
anni, da Cava de’ Tirreni (disperso)
Augusto Simonelli, nocchiere di seconda classe
(disperso) (decorato)
Giuseppe Soave, secondo capo (disperso)
Gino Squizzato, elettricista (disperso)
Paolo Stabile, cannoniere (disperso)
Giuseppe Tassoni, sottocapo cannoniere
(disperso)
Antonio Testi, secondo capo cannoniere
(disperso)
Giuseppe Tiralongo, sottocapo
radiotelegrafista (disperso)
Marino Torregiani, cannoniere (disperso)
Salvatore Toscano, capitano di vascello
(comandante; caposquadriglia della IX Squadriglia Cacciatorpediniere)
(deceduto) (MOVM)
Mario Trifoglio, cannoniere (disperso)
Giovanni Urbani, marinaio (disperso)
Giuseppe Valerio, fuochista (disperso)
Walter Valleri, nocchiere (disperso)
Adriano Vecchiotti, tenente commissario
(disperso)
Antonio Villa, segnalatore (disperso)
Baldassarre Vinci, marinaio (disperso)
Giovanni Vitelli, sottotenente del Genio
Navale Direzione Macchine (disperso)
Giuseppe Wararan, secondo capo specialista
direzione del tiro (disperso)
Luigi Zanone, cannoniere (disperso)
(1) NOTA: L’elenco (preso da www.regiamarina.net) potrebbe contenere
degli errori, per i quali ci si scusa e si ringrazia chi vorrà segnalarli.
L’Alfieri, a sinistra, in allestimento a Livorno all’inizio del 1937, con a destra una nave gemella, forse il Carducci (g.c. STORIA militare)
|
Il racconto di un superstite dell’Alfieri (Da Enzo Biagi, “La 2° Guerra Mondiale: una
storia di uomini”,
Fratelli Fabbri Editori, 1980-1986):
“...eravamo in acqua
da poche ore, quando un caccia britannico ci passò vicino. Gridammo, ma non ci
udì : per poco non ci investì facendoci sobbalzare sul vortice di una schiuma
effervescente. Allora cominciò il disordine su quella povera zattera. Qualcuno
più debole non aveva potuto reggersi aggrappato al bordo ed era scomparso. Gli
altri che si trovavano di turno nell’acqua si spaventarono e pretesero di
salire sulla zattera. Quelli che già vi si trovavano, non volevano cedere e
rifiutavano di riprendere il turno.
Ad un tratto,
cominciò una lotta furibonda per la conquista di un posto sul galleggiante. Non
fu possibile, nonostante lo sforzo degli ufficiali , dominare quella furia
collettiva.
Anche quelli che
avevano già dato prova di altruismo, sollecitando due ufficiali feriti a
prendere il loro posto di turno nella zattera, e sarebbero stati capaci di un
sacrificio volontario, di una generosa temerarietà spontanea, reagivano
ferocemente. Gli uomini si arrampicavano gli uni sugli altri, a grappolo,
esaurendo le forze in una lotta forsennata ed inutile, finché la zattera si
capovolse respingendo tutti i contendenti.
Poi la lotta
ricominciava, a momenti con alte grida, a momenti nell’ansioso mutismo,
lasciando udire soltanto affannosi rantoli e qualche rauca voce che si spegneva
nell’acqua. Così, a poco a poco, il gruppo si riduceva, alcuni annegavano sotto
la zattera capovolta, altri respinti lontano, incapaci di ritornare, sparivano
nel buio. Il terzo o quarto giorno anche gli ufficiali divennero folli,
volevano gettarsi in mare, arrivare a nuoto fino alla costa …”
L’odissea dei
naufraghi dell’Alfieri nelle parole
di un anonimo sopravvissuto, che venne recuperato dall’Hydra (tratto da “Le Missioni avventurose d'una squadra di Navi
Bianche” di Mario Peruzzi,
USMM, Roma 1952):
“Il combattimento
notturno era durato pochi minuti; eravamo in vicinanza di un nostro
incrociatore immobilizzato ed in fiamme. Ci fu dato l'ordine di abbandonare la
nostra nave. Mentre tentavamo di ammainare una motolancia, essa venne colpita e
sfondata; mentre un altro gruppo tentava di mettere in mare un battello, anche
questo fu colpito e scomparve in una girandola di schegge ardenti. In quel
momento il comandante aveva ordinato il saluto al Re ed i pochi rimasti in
coperta avevano risposto con l'ultimo grido, salutando la nave nella luce
dell'incendio. Ci gettammo in mare e potemmo raggiungere una zattera vicina, ma
attorno a quella zattera si fece subito una ressa impaziente. Almeno cinquanta
persone pretendevano un posto nella zattera che poteva contenerne una dozzina.
Due ufficiali si allontanarono ed anche noi preferimmo allontanarci dal gruppo
di contendenti. Ci ritrovammo su di un'altra zattera con una diecina di
persone. Il mare era mosso e cosparso di nafta che ogni tanto ci riempiva la
bocca. Il nemico si ostinava contro le navi che ancora galleggiavano
incendiate. Ogni tanto prendeva fuoco qualche riservetta e deflagrava come
l’eruzione di un vulcano. Più distanti si distinguevano altre fiammate e fasci
di luce di proiettori.
Intanto anche attorno
alla nostra zattera si aggrappavano altri e pretendevano di salirvi sebbene
fosse già piena. Uno degli ufficiali che erano con noi decise di stabilire un
turno di riposo sulla zattera ed uno in mare, aggrappati ai paternostri.
Entrambi scesero in acqua per primi e vi si trattennero anche più di quanto
loro spettava, cedendo il loro turno ai feriti ed ai più deboli. Ci accorgemmo
che uno di loro era all'estremo delle forze, ma continuava a rimanere in acqua
malgrado l'invito ripetuto perché venisse a riposarsi; l’altro lo sorreggeva
tenendolo quasi abbracciato. Vi fu una gara commovente per aiutarlo e farlo
riposare.
Ad un tratto un
caccia britannico ci passò vicino. Gridammo, facemmo brillare un lampadino, ma
non ci riconobbe; per
poco non c’investì facendoci sobbalzare sul vortice di una schiuma
effervescente. Allora cominciò il disordine su quella povera zattera. Qualcuno
più debole non aveva potuto reggersi aggrappato al bordo ed era scomparso; gli
altri che si trovavano di turno nell’acqua si spaventarono e pretesero di
venire nella zattera; quelli che erano installati non volevano cedere e
rifiutavano di riprendere il turno. Ad un tratto un panico insensato si
comunicò ai contendenti; cominciò una lotta furibonda per la conquista di un
posto sul galleggiante. Non fu possibile dominare quella furia collettiva.
Anche quelli che avevano già dato prova di altruismo, sollecitando i due
ufficiali a prendere il loro posto di turno nella zattera, e sarebbero stati
capaci di un sacrificio volontario, di una generosa temerità spontanea,
reagivano contro la prepotenza degli altri. Gli uomini si arrampicavano gli uni
sugli altri, a grappolo, esaurendo le forze in una lotta forsennata ed inutile,
finché la zattera si capovolgeva respingendo tutti i contendenti. Poi la lotta
ricominciava; a momenti con alte grida, a momenti nell’ansioso mutismo,
lasciando udire soltanto afiannosi
sospiri o qualche rauca voce che si spegneva nell'acqua gorgogliante, battuta
dalle membra convulse. Così a poco a poco il gruppo si riduceva; alcuni
annegavano sotto la zattera capovolta, altri respinti lontano, incapaci di
ritornare, sparivano nel buio. Quella triste lotta cessò quando i competitori
furono ridotti a meno della metà. Allora anche i due ufficiali che durante la
mischia si erano allontanati, poterono tornare sulla zattera. Uno di loro era
sfinito dalla fatica e dall'assideramento. Fu disteso sul fondo della zattera
nelle braccia di un marinaio che cercava di tenerlo sollevato dall’acqua; il
suo compagno lo reggeva per una mano stando di fuori. Ad un tratto ci sembrò
d'essere piombati in una tetra oscurità. Si era spento il grande rogo che
illuminava il mare d’una luce rossastra intorno a noi. La nostra nave era
affondata. Poco dopo una voce disse: – Perché lo teniamo ancora?
Infatti da quasi
mezz’ora due mani si tenevano strette sul bordo della zattera, ma una era
quella di un morto. Stanchi, quasi assiderati, seduti in silenzio nell’acqua
dentro la zattera, aspettammo la luce del giorno… Soltanto quando si levò il
sole cominciammo a parlare. L’incubo di quella notte di terrore ci opprimeva.
Cercammo di metterci in modo da trovare un assetto di maggiore stabilità per
impedire che la nostra zattera si capovolgesse. Il mare era alquanto mosso dopo
l'alba ed il vento accennava e rinfrescare. Nella nostre zattera eravamo
rimasti in undici, ma due In pessime condizioni, quasi pazzi. A qualche
centinaio di metri da noi vedemmo un piccolo gruppo di zattere; su alcune vi
era posto e pensammo di riunirci a loro per alleggerire la nostra. Cominciammo
a vogare con le mani per raggiungerle; quelle zattere erano fornite di remi…
– Hanno dei remi –
disse uno dei nostri – Oh, se ci venissero incontro!
Dopo molti richiami
riuscimmo a farci gettare un paio di remi: ma la corrente li allontanava e non
riuscivamo a raggiungerli. Un marinaio si gettò a nuoto per prenderli, ma dopo
averli raggiunti non ebbe più la forza di tornare sulla zattera. Ci mettemmo a
gridare invocando che qualche zattera si movesse in suo aiuto e finalmente una
lo avvicinò e lo prese a bordo insieme coi remi.
Continuammo a vogare
con le mani e finalmente raggiungemmo il gruppo di zattere. Alla distanza di
due o tre miglia si vedevano altre zattere alla deriva.
Verso le 9 un grande
Sunderland venne a volteggiare sui gruppi di zattere ed ammarò per un momento.
Ci dissero poi che un operatore aveva preso un film della scena e, dopo aver
annunziato prossimi soccorsi, aveva decollato. Qualche ora più tardi sentimmo
distintamente delle grida venire dalle zattere più lontane e quasi subito
vedemmo una formazione navale britannica che si avvicinava. Era un gruppo
d'incrociatori con alcuni cacciatorpediniere in scorta avanzata, più lontano si
vedevano dei fumi: navi di linea. Due caccia si avvicinarono alle zattere iniziando
il ricupero dei naufraghi. Uno di essi venne vicino a noi; un ufficiale da
bordo ci gridò: – Halloo! – mentre un marinaio lanciava un sacchetto con la
sagola. Stavamo quasi per prenderla quando improvvisamente il caccia fece
fuoco. Un aereo tedesco era calato in picchiata, molto basso. In quel momento
anche le cime di alcune zattere che erano state già evacuate, andarono ad
impigliarsi in un’elica del cacciatorpediniere che cominciò a manovrare per
liberarsi. Anche gli altri caccia cominciarono, a sparare contro l’aereo tedesco che aveva ripreso quota. Un
incrociatore alzò un segnale e tutti i caccia impegnati nel salvataggio
sospesero le operazioni dirigendo per Sud-Est. Dopo qualche minuto erano
scomparsi all'orizzonte e noi rimanemmo nuovamente soli, in vista
di alcune zattere
vuote. Le raggiungemmo e ci distribuimmo alcune razioni di viveri che vi erano
rimasti; c'erano anche due bariletti d’acqua da bere. Allora cessò lo stato di
agitazione e di sconforto che si era accentuato per la disdetta che aveva fatto
interrompere il salvataggio proprio quando stava per toccare a noi. Il mare
leggermente mosso ci teneva sommersi fino
alla vita: di tanto in tanto qualche ondata ci copriva fino al petto. Verso il tramonto il vento ed il
mare rinforzarono facendo urtare le zattere in modo inquietante; ci separammo,
cercando di rimanere a portata di voce. Molti aerei nazionali passarono ad alta
quota, ma non ci videro.
Verso le 21 alte voci
partirono da una zattera; a circa 400 metri da noi apparve la sagoma di una
nave da guerra. Tutti ci mettemmo a gridare, ma sembrava che nessuno si
accorgesse di noi; quella nave pareva sorda e cieca. Un fischio da nostromo
passò dall’uno all’altro. Finalmente fummo avvistati. Era il Ct. Hydra, che ci prese a bordo insieme con
altri naufraghi, 110 in tutto. Il mattino del 30 venivamo sbarcati a Salamina e
sottoposti ad interrogatorio: prigionieri di guerra. Ma la nostra prigionia
durò pochi giorni; trasportati a Corinto anche noi trovammo asilo sulla Gradisca.”
Il salvataggio della
prima zattera dell’Alfieri nel diario
della crocerossina trevisana Maria Corazza, imbarcata sulla Gradisca (da “Matapan” di Franco G.
Mascilongo, edito da BCC Gradara):
“Sono ormai le 21,00.
Si evita di parlare, guardarci, per non leggere lo sgomento e l’affanno l’uno
negli occhi dell’altro. Improvvisamente un grido... le teste si alzano, si tendono,
sul
ponte si incrociano
voci concitate. Nella sala il silenzio è pieno di tensione, si trattiene quasi
il respiro, quando un Marinaio entra agitato, si accosta al medico di guardia,
ma prima che
possa pronunciare una
parola, un grido si ripete spasmodico, convulso:
– Aiuto!
– Aiuto!
Rabbrividiamo dalla
testa ai piedi,... – C’è una zattera, – dice il Marinaio: – ...a provavia, con
quattro o cinque persone,... vive... fanno segni... gridano.
Il Direttore,
colonnello Medico Ulderico Germani, si alza rapido, lo seguono gli altri
Ufficiali medici.
Anche noi siamo per
muoverci, ma la capo Gruppo impassibile, fa segno di risederci e poiché
qualcuna osa pregarla, frasi fredde come acqua gelida la persuadono a tacere.
Rimaniamo così sole
nella sala, l’animo teso alle parole, alle frasi che giungono dall’esterno.
La nave si è fermata,
il motoscafo è già partito. Anche noi adesso possiamo uscire, in silenzio,
frementi, commosse ci accostiamo alla murata.
Il piccolo fascio
luminoso del riflettore di bordo investe in pieno la zattera: sembra candida.
sopra, alcune
creature nere fanno gesti convulsi, gridano.
Il motoscafo la
raggiunge, ecco: trasbordano, le contiamo: cinque! Dio sia ringraziato, cinque
vivi, finalmente!
La zattera è
abbandonata, il motoscafo ritorna scoppiettante...
Si ferma presso la
nave. Cento e cento occhi pieni di lacrime osservano.
Avvolti nelle coperte
di lana, i naufraghi si sforzano ad alzarsi: venti mani si tendono per
aiutarli, ma essi, guardando in alto, improvvisamente levano il braccio nel
saluto romano e gridano. Viva l’Italia! Viva l’Italia! Viva l’Italia! Non ci
accorgiamo di piangere e di tremare convulsamente.
Eccoli a bordo,
vengono ricoverati in Prima chirurgia ove medici e infermieri si prodigano a
curarli. Anche le sorelle del reparto vanno. Noi attendiamo notizie sul ponte,
mentre per
l’ennesima volta
avidamente ascoltiamo il racconto del salvataggio diretto dal secondo
Ufficiale, Tenente Veronese.
Due naufraghi sono
piuttosto gravi: tutti sono sfiniti e tormentatati specialmente dalla sete.
Acqua! Acqua!
Chiedono insistentemente, un sorso d’acqua, prego!
Ne berrebbero a
litri. Non possono essere certamente accontentati.
Si cerca di
persuaderli a pazientare e acqua, latte, cognac, caffè, aranciate vengono
loro somministrati di frequente, ma a piccoli sorsi, mentre con energiche
frizioni si procura di riattivare la circolazione delle membra sfinite. Da
settantadue ore erano in mare.”
Distintivo dell’Alfieri (g.c. Giorgio Micoli)
|
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di vascello Salvatore Toscano, nato ad Imola (Bologna) il 5 luglio 1897:
“Comandante di una
squadriglia di cacciatorpediniere, consacrava tutte le sue energie fisiche e
spirituali al servizio della nobile causa del dovere e dell'ardimento. In un
aspro combattimento notturno contro soverchianti forze, sebbene la sua unità
fosse stata inizialmente colpita in modo irreparabile dall'offesa nemica,
ordinava e dirigeva con le poche armi rimaste efficienti un'audace e violenta
reazione contro le navi attaccanti. Con indomito coraggio deciso a far pagare
cara al nemico la perdita dell'unità, continuava nell'impari lotta fino
all'esaurimento dei mezzi offensivi.
Nell'impossibilità di ulteriore resistenza, mentre la nave dilaniata dalle esplosioni e in preda alle fiamme cominciava ad affondare, ordinato agli ufficiali ed all'equipaggio di porsi in salvo, rifiutava stoicamente l'invito dei suoi uomini che lo supplicavano di salvarsi e, rimasto in piedi sulla plancia, in una suprema sfida al nemico, condivideva fieramente il destino della sua nave che si inabissava.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Nell'impossibilità di ulteriore resistenza, mentre la nave dilaniata dalle esplosioni e in preda alle fiamme cominciava ad affondare, ordinato agli ufficiali ed all'equipaggio di porsi in salvo, rifiutava stoicamente l'invito dei suoi uomini che lo supplicavano di salvarsi e, rimasto in piedi sulla plancia, in una suprema sfida al nemico, condivideva fieramente il destino della sua nave che si inabissava.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Il capitano di vascello Salvatore Toscano (USMM, restauro a cura di Matteo Fornoli) |
La motivazione della
Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano del Genio
Navale Giorgio Modugno, nato a Genova il 30 aprile 1911:
“Imbarcato in qualità
di capo servizio del Genio Navale su Squadriglia cacciatorpediniere durante uno
scontro navale contro forze soverchianti che infliggevano duri colpi alla sua
unità, con ammirevole serenità dirigeva tutte le operazioni per fronteggiare i danni
provocati dal tiro nemico, eseguendo prontamente e personalmente, in
sostituzione dei propri dipendenti uccisi e feriti, importanti manovre atte a
mantenere fino all'ultimo l'integrità combattiva della nave, malgrado gli
incendi, gli scoppi delle riservette delle munizioni ed il dilagare del vapore.
Dopo l'affondamento del cacciatorpediniere, raggiungeva a nuoto una zattera ricolma di naufraghi e, pur essendo ferito e stremato dalle forze, rinunciava a prendervi posto, e si prodigava con la parola e con l'esempio per disciplinare l'assistenza ai feriti più gravi ed ai più deboli.
In questo nobile intento impegnava con eroico spirito di sacrificio e incomparabile fermezza d'animo tutte le sue residue forze, finché, esausto per le ferite riportate e per il lungo sforzo, scompariva tra i flutti, coronando degnamente la sua carriera di Ufficiale colto, valente, appassionato, tutto dedicato al bene del servizio ed al ferreo compimento del dovere.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Dopo l'affondamento del cacciatorpediniere, raggiungeva a nuoto una zattera ricolma di naufraghi e, pur essendo ferito e stremato dalle forze, rinunciava a prendervi posto, e si prodigava con la parola e con l'esempio per disciplinare l'assistenza ai feriti più gravi ed ai più deboli.
In questo nobile intento impegnava con eroico spirito di sacrificio e incomparabile fermezza d'animo tutte le sue residue forze, finché, esausto per le ferite riportate e per il lungo sforzo, scompariva tra i flutti, coronando degnamente la sua carriera di Ufficiale colto, valente, appassionato, tutto dedicato al bene del servizio ed al ferreo compimento del dovere.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941.”
Cartolina commemorativa del
conferimento della Medaglia d’oro al Valor Militare al capitano Modugno (g.c.
Giorgio Micoli)
|
La motivazione della Medaglia
d’argento al Valor Militare conferita al tenente di vascello Pietro Zancardi,
nato ad Olcenego il 27 giugno 1912 (e deceduto nel 2007 con il grado di
ammiraglio):
"Ufficiale in 2^
di cacciatorpediniere, attaccato nottetempo da preponderanti forze nemiche,
coadiuvava con serenità e fermezza il comandante nella reazione
all'offesa avversaria.
All'atto dell'abbandono della nave, prestava la sua opera per il salvataggio dell'equipaggio, e sulla zattera, per quattro giorni e quattro notti, dava ogni assistenza ai compagni che incoraggiava durante la lunga attesa del soccorso.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941".
All'atto dell'abbandono della nave, prestava la sua opera per il salvataggio dell'equipaggio, e sulla zattera, per quattro giorni e quattro notti, dava ogni assistenza ai compagni che incoraggiava durante la lunga attesa del soccorso.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941".
La motivazione della
Medaglia d’argento al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello Vito
Sansonetti, nato a Roma l’11 marzo 1916:
"Ufficiale E.T.
di cacciatorpediniere attaccato nella notte da soverchianti forze nemiche,
coadiuvava con serenità ed elevato spirito aggressivo il comandante nell’azione
dei lanciasiluri, serviti ormai da pochi superstiti ed investiti dalle fiamme e
dal vapore, dirigeva personalmente il lancio dei siluri contro le unità
avversarie.
Esaurita qualsiasi possibilità di reazione, si prodigava per la salvezza dell'equipaggio profondendo anche in mare la sua opera di aiuto ai dipendenti dei quali assumeva la direzione con fermezza e serenità.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941".
Esaurita qualsiasi possibilità di reazione, si prodigava per la salvezza dell'equipaggio profondendo anche in mare la sua opera di aiuto ai dipendenti dei quali assumeva la direzione con fermezza e serenità.
Mediterraneo Orientale, 28 marzo 1941".
La motivazione della
Medaglia d’argento al Valor Militare conferita al tenente del Genio Navale
Direzione Macchine Salvatore Ferraro, nato a Gaeta il 24 agosto 1903:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere fatto segno ad un attacco notturno da parte di preponderanti
forze nemiche, coadiuvava con serenità e fermezza il comandante nell’attuazione
delle misure intese a mantenere l’efficienza della nave, mentre a bordo alcuni
locali venivano invasi dal vapore e gli incendi si sviluppavano rapidi;
continuava la sua opera fino a che il comandante non gli ordinava di
abbandonare la nave.
Mediterraneo
Orientale – 28 marzo 1941.”
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al tenente di vascello Italo
Bimbi, nato a Livorno il 9 febbraio 1913:
“Direttore del tiro
di cacciatorpediniere, attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche,
coordinava efficacemente il comandante dirigendo con precisione, presso l’unico
complesso ancora efficiente, il tiro contro le unità avversarie. Al momento
dell’abbandono della nave e dopo, cooperava per la salvezza dell’equipaggio,
rincuorando tutti e prestando il suo soccorso ai naufraghi
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di
corvetta Pier Gaetano Busolli, nato a Voghera (Pavia) il 10 gennaio 1909:
“Assistente di
squadriglia su ct. fatto segno ad attacco di preponderanti forze nemiche,
coadiuvava con ardimento il comandante nella reazione dell’offesa avversaria.
Esaurita ogni ulteriore possibilità di resistenza, prodigava la sua opera per
la salvezza dell’equipaggio, scomparendo in mare nell’adempimento del dovere.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del tenente di
vascello Oberto Manfredi, nato a Pieve di Teco (Imperia) il 25 maggio 1915:
“Ufficiale alle
comunicazioni su cacciatorpediniere attaccato nella notte da preponderanti
forze nemiche, prestava animosamente la sua collaborazione per ottenere dai
mezzi ancora a disposizione il massimo rendimento. Esaurita ogni possibilità di
resistenza, prodigava la sua opera per la salvezza dell’equipaggio, scomparendo
in mare nell’adempimento del dovere.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del sottocapo
silurista Arturo Martinotti, nato a Morano sul Po (Alessandria) il 16 luglio
1917:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, attaccato da preponderanti forze nemiche, caduta la maggior
parte dei serventi del lanciasiluri, mentre divampava l’incendio nelle sue
vicinanze e il complesso era investito dal vapore, eseguiva con serena calma,
sotto l’intenso fuoco avversario, il lancio dei siluri, dando prova di coraggio
ed elevato sentimento del dovere. Scompariva in mare con l’unità.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello
Francesco Mascini:
“Ufficiale di rotta
di cacciatorpediniere, attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche,
coadiuvava con serenità e fermezza il comandante al fine di ottenere il massimo
rendimento dei mezzi a disposizione. Esaurita ogni possibilità di resistenza,
prodigava la sua opera per la salvezza dell’equipaggio, elargendo anche in mare
assistenza e conforto.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio
cannoniere Arturo Penitenti, nato a Sermide (Mantova) il 22 maggio 1920:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, attaccato nella notte da preponderanti forze avversarie,
dava il suo contributo nella vigorosa azione di fuoco contro le unità nemiche.
In seguito all’ordine di abbandonare la nave e dopo aver raggiunto
un’imbarcazione di salvataggio, cedeva spontaneamente il posto ai feriti e ai
più deboli, confidando nella propria abilità al nuoto. Scompariva, quindi, in
mare offrendo un mirabile esempio di generosità e attaccamento al dovere.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio S.D.T.
Rocco Rizzi, nato a Stornara (Foggia) l’8 febbraio 1920:
"Imbarcato su
cacciatorpediniere impegnato in un combattimento navale notturno, contribuiva
con serenità ed ardimento all’efficace reazione di fuoco contro le unita
nemiche, incurante del violento tiro avversario condotto da distanza
ravvicinata. Malgrado fosse intervenuto l’ordine di abbandonare la nave,
rimaneva ancora a bordo a prestare la sua opera; lasciava la sua nave dopo
averne ricevuto di nuovo l’ordine e scompariva in mare nell’adempimento del
proprio dovere.
(Mediterraneo
Occidentale, 28 marzo 1941)."
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del tenente
commissario Adriano Vecchiotti, nato a Roma il 2 settembre 1915:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, fatto segno ad un attacco notturno da parte di
preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità e fermezza il comandante
nell’attuazione delle misure intese ad assicurare una efficace reazione
all’offesa avversaria. All’ordine di abbandonare la nave prodigava
con abnegazione la
sua opera per la salvezza dell’equipaggio, allontanandosi da bordo solo dopo un
nuovo e specifico ordine.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del tenente medico Andrea
Araneo, nato a Melfi (Potenza) il 15 agosto 1913:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche,
prestava con entusiasmo la sua opera professionale, malgrado la violenta e
ininterrotta azione di fuoco dell’avversario. Ricevuto l’ordine di abbandono
della nave, si prodigava con elevato senso
di abnegazione per la
salvezza dell’equipaggio, scomparendo in mare nell’adempimento del dovere.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capo
radiotelegrafista di prima classe Giovanni Costamagna, nato a Borgo San
Dalmazzo (Cuneo) il 4 luglio 1905:
“Imbarcato quale Capo
posto Rt. su cacciatorpediniere, attaccato nella notte da preponderanti forze
nemiche, coadiuvava efficacemente il comando assicurando con serenità e
fermezza il servizio cui era preposto, malgrado la violenta ed interrotta
azione di fuoco.
Ferito mortalmente,
donava la sua esistenza alla Patria.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
L’Alfieri da tre quarti di prua (g.c. Giuseppe Garufi via www.xmasgrupsom.com) |
Key to Victory – The Triumph of British Sea Power in World War II
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