L’Aquilone (foto tratta dal sito www.navyworld.narod.ru)
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Cacciatorpediniere
della classe Turbine (1220 tonnellate di dislocamento standard, 1560 t in
carico normale e 1715 t a pieno carico). Essendo ormai anziano e logorato
dall’intensa operatività negli anni ’30 (la velocità era calata a 31 nodi da
una media di 33-36) come il resto della classe, non più impiegabile per compiti
di squadra, venne ritenuto una nave "spendibile" ed inviato in Libia, al comando
di Marina Tobruk.
Durante la guerra fu impiegato principalmente in compiti antisommergibile e di scorta al cabotaggio libico, operando da Tobruk, andando perduto dopo pochi mesi di servizio.
Durante la guerra fu impiegato principalmente in compiti antisommergibile e di scorta al cabotaggio libico, operando da Tobruk, andando perduto dopo pochi mesi di servizio.
Breve e parziale cronologia.
18 maggio 1925
Impostazione nei
cantieri Odero di Sestri Ponente.
3 agosto 1927
Varo nei cantieri
Odero di Sestri Ponente.
9 dicembre 1927
Entrata in servizio.
Nel corso dei collaudi in mare, l’Aquilone
procede per quattro ore a tutta forza tenendo una velocità media di 39,48 nodi,
la più alta sino ad allora raggiunta da un cacciatorpediniere italiano.
Negli anni successivi
all’entrata in servizio verrà sottoposto ad alcuni lavori di modifica, quali
l’aggiunta di una mitragliera binata Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm ed un
miglioramento delle sistemazioni di bordo.
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1929
Fa parte, con i
gemelli Euro, Turbine e Nembo, della II
Squadriglia della 1a Flottiglia della I Divisione Siluranti,
facente parte della 1a Squadra Navale, di base a La Spezia.
1929-1932
Compie varie crociere
in Mediterraneo. In questo periodo uno dei suoi comandanti è il CC Enrico
Baroni e tra i suoi ufficiali vi è il STV Giuseppe Cigala Fulgoni, entrambe
future MOVM.
1931
Insieme ai gemelli Ostro, Turbine e Borea ed ai più
anziani Daniele Manin, Giovanni Nicotera e Pantera (quest’ultimo ancora classificato esploratore), l’Aquilone forma la 1a Flottiglia
Cacciatorpediniere, aggregata alla II Divisione Navale (1a Squadra
Navale).
Foto aerea dell’unità, risalente agli anni ’30 (g.c. Stefano Cioglia via www.naviearmatori.net)
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25 marzo-15 settembre 1932
Dopo essere stato
dotato di una centrale di tiro tipo «Galileo-Bergamini», progettata dal CV
Carlo Bergamini, comandante la I Squadriglia Cacciatorpediniere che l’Aquilone compone unitamente a Euro, Nembo e Turbine, il
cacciatorpediniere compie un intensivo addestramento con la nuova centrale di
tiro. Tale addestramento ha come il risultato la formazione di equipaggi
esperti e qualificati e la decisione di imbarcare altre centraline di tiro su
numerose altre unità.
1932
Un siluro difettoso,
lanciato dall’Aquilone, colpisce il
gemello Zeffiro, danneggiandolo
gravemente.
1934
Aquilone, Turbine, Euro e Nembo formano la VIII Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme
alla IV Squadriglia (Espero, Borea, Ostro e Zeffiro), è
aggregata alla II Divisione Navale, composta dagli incrociatori pesanti Fiume e
Gorizia.
1936-1937
Partecipa alla guerra
di Spagna.
13 gennaio 1937
A Napoli l’Aquilone imbarca Ras Immirù Hailè
Selassié, capo della resistenza etiope arresosi alle forze italiane, scortato
da un colonnello dei carabinieri, e lo trasporta a Ponza, dove il capo etiope è
stato condannato al confino, arrivandovi dopo sei ore.
Marzo 1938
Viene dislocato a
Tobruk, in Libia. Nei mesi seguenti opererà nel Mediterraneo, in Albania,
Grecia e Mar Egeo, oltre a scortare a Porto Said i sommergibili inviati in
Africa Orientale Italiana.
15 dicembre 1938
Riporta danni di una
certa serietà a causa di una burrasca, che provoca la perdita di una gabbia
contenente cariche di profondità, vari portelli della sala dinamo esala
macchine, e rischia di perdere il motoscafo (che viene danneggiato) e di
capovolgersi.
L’Aquilone a La Spezia sul finire degli anni ’30 (g.c. STORIA militare) |
Novembre 1939
Torna in Italia, poi,
dopo aver sbarcato le munizioni ed i due terzi dell’equipaggio a Brindisi, si
trasferisce a Fiume per riparare in bacino i danni subiti in un’altra tempesta,
che lo ha costretto ad interrompere una missione, mettersi alla cappa e
riparare a Rodi.
Marzo 1940
Conclusione dei
lavori; dopo prove in mare, fa ritorno a Brindisi e reimbarca le munizioni.
Aprile 1940
Nuovamente dislocato
a Tobruk con il resto della I Squadriglia (che vi è stata assegnata di base in
marzo), naviga lungo la costa libica ed esegue esercitazioni di tiro diurne e
notturne.
20 maggio 1940
A partire da questo
giorno l’Aquilone prende parte al
minamento delle rotte d’accesso di Tripoli, Tobruk e Bengasi.
Aquilone, Ostro ed Espero a La Spezia negli anni Trenta (Mauro Vampi via www.naviearmatori.net)
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6 giugno-10 luglio 1940
Aquilone, Turbine, Euro e Nembo (caposquadriglia) posano 6 sbarramenti antinave, per un
totale di 160 mine, nelle acque di Tobruk.
10 giugno 1940
All’entrata in guerra
dell’Italia l’Aquilone (CC Alberto
Agostini) appartiene alla I Squadriglia di Cacciatorpediniere, che dal marzo
1940 ha base a Tobruk alle dipendenze del locale Comando Marina, insieme a Turbine, Euro e Nembo.
11 giugno 1940
Attacco aereo su
Tobruk. L’Aquilone viene bersagliato
con varie bombe, aprendo il fuoco contro gli aerei con le mitragliere da 40/39
mm; il comandante Agostini ordina alla parte di equipaggio non necessaria a
bordo di scender a terra nei rifugi. Nessuna bomba va a segno, ma la scheggia
di una bomba caduta vicino all’Aquilone
ferisce gravemente un radiotelegrafista alla gola.
È solo il primo degli
attacchi aerei che avranno come bersaglio la nave nei due mesi successivi, ma
l’Aquilone riuscirà sempre ad uscirne
indenne o quasi.
14-15 giugno 1940
Alle 22.30 del 14
giugno Aquilone, Turbine e Nembo partono
da Tobruk per bombardare le posizioni britanniche di Sollum con le loro
artiglierie. Assiste alla missione anche il comandante di Marina Tobruk, il
contrammiraglio Alessandro Olgeni. I tre cacciatorpediniere aprono il fuoco
contro Sollum alle 3.49 del 15 giugno, proseguendo il tiro sino alle 4.05 e
sparando in tutto 220 proiettili. La densa foschia impedisce che le unità
italiane vengano avvistate ed attaccate, ma per contro ne ostacola la
precisione nel tiro. La missione viene completata senza incidenti.
26 giugno 1940
Aquilone, Nembo e Turbine eseguono un altro bombardamento
delle linee britanniche a Sollum, cannoneggiandole dalle 5.35 alle 6.18 con
eccellente visibilità e buoni risultati. Essendo questo cannoneggiamento
effettuato più tardi rispetto a quello del 15 giugno, partecipa alla missione
anche un ricognitore, con il compito di avvertire in anticipo i
cacciatorpediniere dell’eventuale avvistamento di aerei britannici inviati a
contrattaccare, che tuttavia non si fanno vedere.
Tali azioni (quella
del 26 giugno è stata chiesta dal Comando Superiore delle Forze Armate italiane
in Libia) devono servire ad indebolire le difese britanniche nell’area, in
previsione della prossima offensiva italiana.
29 giugno 1940
Esce in mare alla
ricerca dei sopravvissuti (ed eventualmente anche dei cadaveri) del
cacciatorpediniere Espero, affondato
in combattimento il giorno precedente dagli incrociatori britannici Orion, Sydney, Liverpool, Neptune e Gloucester durante una missione di trasporto verso Tobruk insieme
ad Ostro e Zeffiro (scampati grazie al sacrificio dell’Espero).
L’Aquilone non riesce a trovare niente e
viene anzi localizzato da un ricognitore Short Sunderland, che effettua segnali
di riconoscimento e, in mancanza di risposta, attacca la nave con delle bombe
che finiscono in mare 50-60 metri a poppavia, mentre l’unità italiana si
allontana alla massima velocità zigzagando e sparando con le mitragliere. Il
Sunderland si allontana, e l’Aquilone
arriva a Tobruk la sera stessa.
5 luglio 1940
Il porto di Tobruk
viene attaccato da nove aerosiluranti britannici Fairey Swordfish dell’813th
Squadron della Fleet Air Arm, decollati da Sidi el Barrani ed aventi come
obiettivo le navi in porto (con priorità per i cacciatorpediniere). L’attacco è
stato deciso dopo che il 4 luglio un ricognitore Short Sunderland ha sorvolato
la base da 1500-2000 metri di quota dalle 10 alle 11.15, nonostante il tiro
contraereo aperto contro di esso, accertando la presenza a Tobruk di numeroso
naviglio.
L’Aquilone si trova ormeggiato sul lato
meridionale della rada, alla boa C6, a poppavia dell’Ostro (boa C4) che è a sua volta ormeggiato a poppavia del Nembo (boa C2). L’allarme aereo viene
dato alle 20.06; in pochi minuti i siluri colpiscono i cacciatorpediniere Zeffiro ed Euro ed i piroscafi Manzoni,
Liguria e Serenitas, affondando Zeffiro
e Manzoni, mentre le altre navi
colpite devono essere portate all’incaglio per evitarne l’affondamento. I
cacciatorpediniere alle boe vengono infruttuosamente attaccati da due degli
Swordfish, che tuttavia, a causa della difficoltà a transitare come previsto
tra la fila dei cacciatorpediniere a sinistra e quella dei mercantili (Sereno, Sabbia, Liguria, Serenitas e Manzoni) a dritta, e del violento tiro contraereo aperto dagli
stessi cacciatorpediniere, non riescono a lanciare i siluri. Alle 21.31 viene
dato il cessato allarme.
Il cacciatorpediniere in navigazione (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
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19-20 luglio 1940
Nuovo attacco di
aerosiluranti britannici contro le navi ormeggiate a Tobruk (nella speranza di
trovarvi l’incrociatore leggero Giovanni
delle Bande Nere, danneggiato nello
scontro di Capo Spada, che invece ha raggiunto Bengasi). Aquilone, Nembo ed Ostro si trovano nelle stesse posizioni
dell’attacco del 5 luglio; il personale addetto alle armi è ai suoi posti alle mitragliere
da 40/39 e 13,2 mm, mentre tutti gli uomini non necessari ai servizi di
sicurezza sono alloggiati sui piroscafi Liguria
(incagliato ma agibile) e Sabbia.
Alle 22.30 del 19, dopo l’allarme aereo (dato alle 21.54), sei Swordfish
dell’824th Squadron della Fleet Air Arm, decollati da Sidi el Barrani,
compaiono nel cielo di Tobruk, suscitando la furiosa reazione delle difese
contraeree (anche l’Aquilone apre il
fuoco con le sue mitragliere), dovendo così ritardare l’attacco con i siluri
all’1.30 del 20, mentre anche le navi all’ormeggio aprono a loro volta il fuoco
con le proprie armi contraeree. L’attacco è, di nuovo, preciso e letale: tra
l’1.32 e l’1.37 vengono silurati ed affondati, uno dopo l’altro, il Sereno, l’Ostro ed il Nembo (questi
ultimi ormeggiati immediatamente a proravia dell’Aquilone). Quando l’Ostro,
ormeggiato alla boa C4 poche decine di metri a proravia dell’Aquilone, viene silurato, il suo
deposito munizioni poppiero deflagra in un’enorme fiammata, travolgendo l’Aquilone con una pioggia di schegge
infuocate: chi può corre al riparo, un capo elettricista, in preda al panico,
si butta in mare. La nave non viene danneggiata. Alle 5.56 viene suonato il
cessato allarme.
Fine agosto 1940
Essendo ormai Tobruk
troppo esposta ad attacchi aerei, l’Aquilone,
al pari delle poche altre unità di valore rimaste indenni, viene trasferito a
Bengasi, da dove effettua una ricerca di unità nemiche, senza risultato.
8 settembre 1940
L'Aquilone salpa da Bengasi alle 14 per scortare a Tobruk i piroscafi Erice e Marocchino.
9 settembre 1940
Il convoglio giunge a Tobruk alle 9.30.
10 settembre 1940
Tornato a Bengasi, l'Aquilone ne riparte alle 14 per scortare a Derna il piroscafo Amba Alagi.
11 settembre 1940
Aquilone ed Amba Alagi arrivano a Derna alle 8.
8 settembre 1940
L'Aquilone salpa da Bengasi alle 14 per scortare a Tobruk i piroscafi Erice e Marocchino.
9 settembre 1940
Il convoglio giunge a Tobruk alle 9.30.
10 settembre 1940
Tornato a Bengasi, l'Aquilone ne riparte alle 14 per scortare a Derna il piroscafo Amba Alagi.
11 settembre 1940
Aquilone ed Amba Alagi arrivano a Derna alle 8.
L’Aquilone fotografato in porto il 7 febbraio 1931 (foto tratta da http://regiamarina-alexman2010.blogspot.it/2010/05/cacciatorpediniere-Aquilone.html)
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L’affondamento
Neanche Bengasi,
tuttavia, era al di fuori della portata delle forze aeree britanniche.
Il mattino del 15
settembre 1940, un ricognitore Short Sunderland del 230th Squadron
avvistò nel golfo della Sirte un convoglio composto dai piroscafi Maria Eugenia e Gloria Stella, carichi di
rifornimenti, che dirigevano su Bengasi (dove giunsero alle 19.30 del 16) con
la scorta della torpediniera Fratelli
Cairoli. In seguito a tale avvistamento, il comandante della Mediterranean
Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, decise di lanciare un nuovo attacco
aereo, contro Bengasi.
Alle 21.30 del 16
settembre 15 Swordfish iniziarono a decollare dal ponte di volo della portaerei
Illustrious. Nessuno dei 15 velivoli
venne impiegato, in questa occasione, come aerosilurante: nove di essi,
appartenenti all’815th Squadron della Fleet Air Arm, avrebbero
attaccato le navi in porto con bombe dirompenti da 227 e 114 kg ed incendiarie
da 45 kg, mentre gli altri sei, dell’819th Squadron, avrebbero
posato ognuno una mina magnetica Mk I da 680 kg all’imboccatura del porto.
La sera del 16
settembre l’Aquilone era ormeggiato di
poppa sul lato orientale del Molo Principale del porto di Bengasi; alla sua destra
era ormeggiato il Turbine, mentre sul
lato occidentale del Molo Principale vi erano la nave ospedale California, il piroscafo Maria Eugenia ed il rimorchiatore da
salvataggio Salvator Primo, ed al
Molo Sottoflutto erano ormeggiati il Borea,
il Gloria Stella, la torpediniera Cigno e la motonave Città di Livorno.
Alle 21.15, in
seguito ad un bombardamento aereo che aveva colpito l’aeroporto di Benina, non
lontano da Bengasi, fu dato l’allarme, ma non seguì poi il preallarme della
Difesa Contraerea Territoriale, che, non avendo potuto far partire i
motopescherecci assegnati al servizio di vigilanza foranea, non fu in grado di
avvistare gli Swordfish che arrivavano da nordest, dal mare.
Alle 00.57 del 17
settembre, senza che nessuno li avesse precedentemente avvistati, gli aerei
britannici (che erano giunti sul cielo di Bengasi già dalle 00.30, ed avevano
sorvolato il porto per meglio individuare i loro bersagli) passarono
all’attacco, in due ondate. Le bombe andarono a segno con tremenda precisione: nel
primo passaggio, effettuato alle 00.57 da nordovest verso sudest, fu affondato
il Gloria Stella, la torpediniera Cigno venne danneggiata gravemente ed il
rimorchiatore Salvatore Primo ed il
pontone a biga Giuliana furono
colpiti sebbene senza riportare danni gravi; nel secondo passaggio, compiuto
tre minuti dopo il primo, furono affondati il Borea ed il Maria Eugenia.
Quando il Borea, spezzato in chiglia
da un bomba, affondò, alcuni dei suoi uomini, gettatisi in mare, raggiunsero a
nuoto l’Aquilone, che si trovava sul
lato opposto del porto, a meno di 200 metri di distanza. Quest’ultimo, durante
l’attacco, si era unito al tiro di sbarramento con le sue mitragliere, ed era
stato mancato di stretta misura da una bomba, che cadde a pochi metri di
distanza su un’altra nave, rovesciando una colonna d’acqua e nafta sul
cacciatorpediniere, che rollò brevemente per il contraccolpo. A bordo dell’Aquilone qualcuno disse che erano stati
colpiti, ed alcuni membri dell’equipaggio scesero a terra; la passerella, a
causa delle ampie oscillazioni causate dagli scoppi delle bombe, cadde in
acqua, venendo però immediatamente recuperata. La nave uscì indenne
dall’attacco.
Nella confusione del
bombardamento, nessuno a terra sembrò fare troppo caso alle sagome scure dei
sei Swordfish dell’819th Squadron che gettavano le loro sei mine
magnetiche a circa 75 metri dall’imboccatura del porto: solo il 18 settembre si
seppe che qualcuno aveva visto un aereo abbassarsi a posare delle mine
nell’avamporto.
I devastati risultati
del bombardamento avevano provato la vulnerabilità di Bengasi, come in
precedenza di Tobruk, agli attacchi aerei, e per giunta il Maria Eugenia ed il Gloria
Stella erano affondati in fiamme in un vero e proprio mare di nafta, che
continuava a costituire una minaccia per le altre navi: pertanto si decise
subito di decongestionarne il fin troppo affollato porto trasferendo a Tripoli
alcune delle navi rimaste indenni. Alle 11.38 del mattino del 17 settembre,
perciò, la moderna motonave da carico Francesco
Barbaro partì da Bengasi diretta a Tripoli con la scorta della vecchia
torpediniera Generale Antonino Cascino, ma non appena fu
uscita dal porto la motonave urtò una mina, riportando gravi danni alla zona
prodiera, e dovette essere rimorchiata nuovamente in porto e portata a posarsi
con la prua su bassifondali.
Il Comando Marina
della Libia (Marilibia) ordinò che il tratto di mare a sinistra di un gavitello
bianco che segnalava una secca di sette metri, subito fuori dal porto, venisse
subito accuratamente dragato e controllato per verificarvi l’assenza di mine;
essendo, anche in base a quanto accaduto alla Barbaro, la zona che sembrava più lontana dall’area sorvolata dai
velivoli britannici (e dunque dove vi sarebbe dovuta essere minor probabilità
che fossero state posate delle mine), una volta che i dragamine non vi ebbero
trovato alcun ordigno fu disposto che le altre navi in uscita da Bengasi
sarebbero dovute passare per quel braccio di mare.
Quella stessa sera si
decise di far partire per Tripoli anche l’Aquilone
ed il Turbine, che dopo le perdite
dei mesi precedenti erano le uniche unità rimaste in efficienza, su otto che
componevano in origine la classe Turbine.
Per primo partì il Turbine, poi, alle 20.15, l’Aquilone, al comando del capitano di
corvetta Alberto Agostini, si disormeggiò lentamente e silenziosamente (si
temevano nuovi attacchi aerei), tirando a bordo la passerella ed issando
l’ancora di prua, e manovrò a sua volta per uscire dal porto. Dopo aver
superato l’ostruzione, la nave, preceduta dal Turbine, manovrò in modo da passare a sinistra del gavitello bianco
che segnalava la secca, per transitare nel tratto di mare ritenuto sicuro come
da ordini di Marilibia.
Alle 20.45, tuttavia,
circa un miglio oltre il gavitello, l’Aquilone
provocò in rapida successione lo scoppio di due mine magnetiche, una
all’estrema poppa ed una a centro nave, sulla dritta, all’altezza del telemetro
di poppa. Il cacciatorpediniere venne scosso dall’estrema violenza delle due
esplosioni, avvenute una dietro l’altra, e cominciò subito a sbandare a
sinistra; gli scoppi delle due mine fecero cadere in mare le bombe di
profondità di dritta – che grazie alla scarsa profondità non scoppiarono – ed
alcuni degli uomini che si trovavano ai loro posti di combattimento a poppa, e
gettarono contro cannoni, draglie e paratie molti altri, ferendone alcuni.
A terra le difese
contraeree, forse ancora con i nervi a fior di pelle dopo l’incursione della
sera precedente, scambiarono le detonazioni delle due mine come quelle di
bombe, ed aprirono subito il fuoco contro velivoli inesistenti. Anche il Turbine, quando vide la fiammata
generata dai due scoppi (che fu vista anche a terra), ritenne che l’Aquilone fosse stato bombardato dal
cielo, e di conseguenza accelerò sino a 20 nodi ed iniziò a zigzagare. Già alle
20.50, tuttavia, il Turbine ridusse
la velocità a 15 nodi, ed iniziò a chiamare tramite il radiosegnalatore il
gemello, che però non rispose. Marilibia, avendo immediatamente ordinato che
tutti i mezzi disponibili per il soccorso (dragamine ed altre imbarcazioni), agli
ordini del comandante di Marina Bengasi, si recassero a dare assistenza all’Aquilone, e temendo che se il Turbine fosse tornato indietro per aiutare
la nave colpita ne avrebbe seguito la sorte saltando anch’esso su altre mine
(dubbio tutt’altro che ingiustificato, come dimostrarono molti drammatici
episodi degli anni successivi), ordinò al Turbine
di proseguire.
Sull’Aquilone, intanto, subito dopo le
esplosioni il comandante Agostini ordinò di mettere tutta la barra a sinistra,
nel tentativo di salvare la nave portandola ad incagliare sulla vicina costa,
nonché di spegnere le caldaie, allagare il deposito munizioni poppiero e
mettere a mare le imbarcazioni. Il timone, tuttavia, si era incatastato, e
questo impedì di mettere tutto a sinistra; le esplosioni avevano reso
inutilizzabili due degli zatteroni, e quando venne ammainata la motolancia,
questa venne sbattuta dal mare agitato contro la murata sino a capovolgersi. Nonostante
questo, l’equipaggio abbandonò la nave nel miglior ordine che le circostanze
potessero consentire, e questo contribuì a limitare le perdite umane.
Il cannoniere
Casimiro Fois, che era stato gravemente ferito dall’esplosione, subendo una
ferita al costato e la mutilazione di alcune dita della mano sinistra, sentì
altri uomini a poppa gridare di buttare in acqua una zattera, e, vedendone una,
vuota, passargli vicino, non si mosse ma finì ugualmente in mare.
L’Aquilone si abbatté sulla sinistra sino
a trovarsi con i ponti ad angolo retto con la superficie del mare, portando
tutta la fiancata di dritta fuori dall’acqua, poi, nel toccare il fondale
profondo appena una quindicina di metri, si raddrizzò parzialmente (assumendo
uno sbandamento finale di circa 15 gradi) ed affondò nel mare cosparso della
sua stessa nafta, lasciando emergere sopra la superficie solo la parte
superiore degli alberi. Non erano passati più di cinque minuti da quando la
nave aveva urtato le mine. Il relitto dell’Aquilone
riposava su fondali di 13-15 metri, nel punto 32°06’28” N e 20°01’30” E.
Il comandante
Agostini, deciso a restare in plancia fino alla fine, si arrampicò sull’aletta
di dritta, incitando gli uomini che si trovavano più vicini, e si tenne aggrappato
ad una draglia finché un’onda non lo trascinò via.
Nonostante la
rapidità dell’affondamento, il buio, il mare agitato e la nafta che galleggiava
copiosa sulla superficie ostacolando i movimenti, fu possibile salvare quasi
tutto l’equipaggio dell’Aquilone. Su
10 ufficiali, 25 sottufficiali e 126 sottocapi e marinai presenti a bordo,
persero la vita quattro sottufficiali e nove tra sottocapi e marinai. I corpi
di tre sottufficiali e di un marinaio vennero recuperati, mentre gli altri nove
uomini furono considerati dispersi. Altri due sottufficiali e 18 sottocapi e
marinai erano rimasti feriti, soprattutto tra quanti, a poppa, erano stati
scagliati contro paratie e parti della nave dallo scossone delle esplosioni.
Il comandante
Agostini venne raccolto dalla baleniera della torpediniera Giuseppe Cesare Abba dopo aver passato due ore e mezza in acqua tra
forti crampi, mare mosso e nafta che ostacolavano i movimenti, e subito assunse
il comando delle operazioni di ricerca e salvataggio dei naufraghi, che proseguì
fino alle due di notte.
Il cannoniere
Casimiro Fois, molto indebolito dalla perdita di sangue e sfinito, riuscì in un
modo o nell’altro a restare a galla nel mare increspato e sferzato dal vento,
lasciandosi andare, finendo più volte sott’acqua ed ogni volta tornando a
galla, finché non s’imbatté in una zattera. Dopo aver lungamente lottato per
arrampicarvisi, riuscì finalmente a salire sulla zattera ponendo i piedi sulle
funi ed aspettando l’arrivo di un’onda, che lo avrebbe aiutato a salire. Nella zattera,
sul cui fondo vi era dell’acqua, c’era un remo che però non poteva usare a
causa delle sue ferite. Dopo aver trascorso un periodo indefinito di tempo in
uno stato di semincoscienza, Fois riuscì a guidare verso di lui alcuni altri
quattro naufraghi che erano in acqua, mentre il vento sospingeva tutti verso il
largo ed ostacolava lo scambio di parole. Dopo aver aiutato il primo a salire a
bordo, i due aiutarono anche gli altri tre ad arrampicarsi a bordo, poi
tentarono di pagaiare verso terra con l’unico remo e con le braccia. Oltre sei
ore dopo l’affondamento dell’Aquilone,
furono raggiunti da un rimorchiatore, ne richiamarono l’attenzione gridando e
furono tratti in salvo.
I naufraghi dell’Aquilone vennero portati sulla nave
ospedale California, ormeggiata nel
porto e che aveva già accolto i molti feriti dell’incursione della sera
precedente, o nel locale Ospedale Coloniale. Il comandante Agostini, tornato in
porto con la baleniera dell’Abba, si
concesse finalmente di riposare quando ebbe verificato che tutti i suoi uomini
– meno i tredici che non ce l’avevano fatta – fossero a bordo della California o ricoverati all’Ospedale
Coloniale.
L’affondamento dell’Aquilone ed il danneggiamento della Barbaro causarono la cessazione di ogni
entrata ed uscita dal porto di Bengasi per alcuni giorni, finché non giunse un
dragamine magnetico inviato appositamente dall’Italia per sminare le acque
antistanti la base.
I caduti dell’Aquilone:
Alfredo Autiero, marinaio servizi vari, da
Napoli, 20 anni, disperso
Emanuele Cannizzaro, cannoniere, da Reggio
Calabria, 22 anni, disperso
Mario Civitillo, secondo nocchiere, da La
Spezia, 29 anni, deceduto
Rodolfo De Meo, secondo capo silurista, da
Torremaggiore (FG), 22 anni, deceduto
Carlo Ferrari, nocchiere, da Monticelli d’Ongina
(PC), 18 anni, disperso
Ciro Fusco, sottocapo torpediniere, da Resina
(NA), 19 anni, disperso
Dario Gardella, marinaio cuoco, da Santa
Margherita Ligure, 25 anni, deceduto
Francesco Guidetti, torpediniere, da Taranto,
27 anni, disperso
Emilio Oliva, fuochista, da Uboldo (CO), 21
anni, disperso
Giuseppe Pedivilla, fuochista, da Genova, 22
anni, disperso
Luigi Ripa, capo meccanico di prima classe, da
Sant’Elpidio a Mare (AP), 41 anni, disperso
Giovanni Schiaffino, marinaio, da Porto Torres
(SS), 22 anni, disperso
Emilio Tavano, capo radiotelegrafista di
seconda classe, da Casale Monferrato, 34 anni, deceduto
Dopo aver ricevuto
nuovi indumenti e quant’altro era necessario, gli equipaggi di Aquilone e Borea vennero rimpatriati entro pochi giorni dall’affondamento
delle loro navi, dopo di che poterono godere di dieci giorni di licenza prima
di doversi mettere a disposizione di Marina Equipaggi.
Ma la guerra era
ancora lunga, e non tutti i superstiti dell’Aquilone
ne avrebbero visto la fine. Per almeno uno di essi, il sottocapo segnalatore
Leonardo Pepe, l’appuntamento con la sorte era stato rimandato solo di sei
mesi: imbarcato sull’incrociatore pesante Zara, avrebbe infatti trovato la
morte nella tragica sconfitta di Capo Matapan.
Di seguito alcuni documenti conservati all’Ufficio Storico della Marina Militare riguardanti l’affondamento dell’Aquilone (si ringraziano il maresciallo Felice Cappelluti, nipote del sottocapo segnalatore Leonardo Pepe, per la gentilezza ad inviare il materiale, da lui reperito all’USMM, e Fabrizio Melotto, amministratore di Trentoincina, per aver fatto da tramite):
Rapporti e dispacci su quanto avvenuto a Bengasi e sulla perdita dell’Aquilone:
Comunicazioni sul rimpatrio degli equipaggi di Aquilone e Borea:
L’elenco dei caduti:
L’elenco completo dell’equipaggio dell’Aquilone:
Ricordi di Casimiro
Fois, imbarcato sull’Aquilone dal
novembre 1937 sino al suo affondamento nel settembre 1940 (si ringraziano
Casimiro Fois ed il figlio Learco):
Vita a bordo, in guerra ed in pace
“Il primo novembre
[1937] portammo il CT Nembo al
cantiere navale per dei lavori e c’imbarcammo su un altro CT dello stesso tipo,
l’Aquilone. Ci trasferimmo a Brindisi
da dove, dopo alcuni preparativi, partimmo per la Libia. Qui giungemmo nel
marzo del 1938, destinazione base navale Tobruk. Nei mesi che seguirono
navigammo in lungo e in largo su diversi mari, spingendoci fino allo stretto
dei Dardanelli. A Porto Said accompagnavamo i nostri sommergibili in transito
per l’Africa Orientale. Varie volte ci recammo in Albania, in Grecia, al canale
di Corinto, all’isola di Candia, nelle isole dell’Egeo. Nel corso di queste
lunghe navigazioni di 2-3 giorni e più, senza toccare né vedere terra, in varie
occasioni incontrammo mare fortissimo (forza 8-9 e più, a giudizio degli
esperti di bordo) con onde che superavano la coffa (il punto più alto per le
osservazioni); provocando paurose sbandate della nave, con la poppa
completamente sott’acqua. In quelle circostanze, l’equipaggio era sballottato
da una parte all’altra della nave, come dei fuscelli al vento, sia che si
trovava sopra che sotto l’imbarcazione, si era sempre completamente invasi
dalle onde. Impossibile dimenticare il 15 dicembre 1938. Erano le 13,30 e il CT
andava a passo di crociera, 18 miglia orarie, forse troppe per quel mare in
tempesta. Si ergevano onde anomale, all’improvviso, mentre mi trovavo sul
carruggeto (stretto corridoio) destro di fronte alle cucine, seduto sopra una
gamella rovesciata a pelare patate in aiuto ai cuochi; il mare iniziò ad
incresparsi sino a raggiungere dimensioni di burrasca e la nave cominciò a
sbandare forte, ma non ci badavo, poiché c’ero abituato. Finito di sbucciare le
patate, ero ormai libero dal servizio, giunse di corsa il Tenente di vascello
sig. Fermo, Direttore di tiro, salì sul gradino della cucina e gridò: «Attento
Fois» e, con gli occhi rivolti al cielo, esclamò: «Dio aiutaci». Lo guardai e
contemporaneamente vidi a poppa un’onda
altissima che veniva verso di noi mentre la nave s’inclinava
paurosamente sulla destra. Con un balzo da felino mi portai sopra la tavola,
posta al mio fianco appesa alla parete; mi afferrai alle sbarre della cucina,
inclinandomi quasi orizzontalmente rispetto alla nave, mentre l’onda rabbiosa e
spumeggiante mi passava sotto bagnandomi la pancia e invadendo tutto il
sottocastello. Il tenente fu scaraventato dentro la cucina dalla furia
dell’onda. Si bagnò fino all’osso ma non ebbe altre conseguenze. Un sottocapo
silurista fu sbattuto sulla noria fratturandosi alcune costole. Un altro
marinaio riuscì ad aggrapparsi alle draglie, mentre una forte ondata lo stava
trascinando in mare portandogli via le scarpette che calzava. I danni subiti
furono ingenti. (…) il paragambe strappato di quella torretta con la mitraglia
40/39 alta più di 5 metri dalla superficie del mare? Era tutta sott’acqua. (…) una
gabbia di ferro molto robusta contenente due bombe di profondità da cento
chilogrammi l’una, saldamente fissata alla coperta. Quando la nave si raddrizzò
non c’erano più, erano state scardinate e scaraventate in mare. Finirono in
mare anche grossi manica-vento, portelloni pesantissimi per evitare
l’inondazione dei locali di macchina e dinamo, divelti e trascinati fuori
bordo. Il motoscafo, ancorato a murata alcuni metri prima della cucina, appeso
in alto alla gru ed altri sostegni con cavi d’acciaio, fu divelto restando
penzoloni fuori bordo e solo dopo fu recuperato. Quando la nave era al massimo
dell’inclinazione, che durò alcuni interminabili minuti, qualcuno lanciò grida
di disperazione dicendo «Non si rialza più» mentre un altro, qualche istante
dopo gridò gioiosamente «Si rialza». Fummo certamente fortunati in
quell’occasione poiché, pur essendo fortissima, quell’onda non riuscì a
rovesciarci definitivamente e, lentamente la nave si raddrizzò. Il Comandante,
con altri Ufficiali in plancia, al proprio posto di comando, afferrando con
rabbia il telegrafo di macchina ordinò: «Giri zero-zero ferma macchina». La
plancia, posta sopra-castello, fu lambita da quella maledetta onda nonostante
risultasse molto in alto. Per alcuni furono attimi di terrore e smarrimento.
L’addetto ai telegrafi di macchina in plancia riferì che dovettero afferrarsi a
qualche appiglio per non essere sbattuti alla parete tutti assieme. Appena la
nave rallentò ci accostammo cautelativamente a manca, affrontando il mare da
prora procedendo molto Dopo alcuni minuti interminabili di massima
inclinazione, la nave lentamente si raddrizzò lentamente. Il Comandante dette
l’ordine di fare l’appello per accertarsi che non mancò nessuno. In casi del
genere si faceva sempre. Non descrivo i danni subiti che furono ingenti. Alcuni
mesi dopo, mentre eravamo in perlustrazione, fummo sorpresi da un’altra
tempesta di grossissima intensità durata quattro giorni. Le onde arrivavano a
bagnare completamente il marinaio che stava di guardia in coffa. La prora e la
poppa della nave alternativamente affondavano e s’innalzavano sui flutti.
Ovviamente non si poteva cucinare. Buona parte dell’equipaggio era inattivo (a
pagliolo) perché soffriva il mare e di mangiare non se ne parlava neanche.
Molti, me compreso, avevano fame ma nessuno si azzardava a scendere in cambusa
per prendere dei viveri secchi. Io rintracciai il cambusiere e lo invitai a
portarci su qualcosa da mangiare. La risposta fu: «Vacci tu se hai coraggio».
Dissi: «Ci provo, dammi la chiave». Invitai un altro marinaio e ci avventurammo
nella discesa della scaletta. Fu impresa molto difficile. Chi mi accompagnò si
fermò stendendosi pancia a terra perché il nostro stomaco andava su e giù
seguendo il beccheggio della nave. Io riuscii, con gran difficoltà, a resistere
e arrivai stremato nel locale specialista dove si trovava la dispensa. Vi era
uno sfiato di nafta calda che toglieva il respiro. Resistetti, aprii la porta e
la fermai al lato per non richiudersi, presi un sacchetto e vi misi dentro
gallette e scatolette di carne, richiusi e tentai la risalita. Feci moltissima
attenzione e fatica dove mettere i piedi sul pavimento viscido di nafta e
cercai sempre qualche appiglio per non scivolare. Riuscii a risalire a fatica e
arrivare, esausto, sotto castello, procedendo lentamente carponi. Molti erano
distesi pancia a terra sui bastingaggi o sul pavimento. Chiesi a voce alta se
qualcuno desiderava del cibo. Risposero in pochi. Intanto, il comandante
chiedeva al Ministero di sospendere la missione, ma da Roma giunse l’ordine di
proseguire. Al mattino del quarto giorno non era cambiato nulla, si procedeva
lentissimamente, se si riusciva ad avanzare, anche con le macchine ad oltre
mezza forza. La sera dello stesso giorno arrivò finalmente l’autorizzazione di
sospendere la missione e di metterci alla cappa, in altre parole di fermare le
macchine e lasciarci portare dalle correnti tenendo però saldamente la prora
contro vento per evitare i marosi di fianco, pericolosissimi. La mattina
seguente, con il mare più calmo, arrivammo in vista delle isole dell’Egeo ed
entrammo nel porto di Rodi. Dopo quattro giorni qui fu possibile cucinare e
mangiare in santa pace. Fatti alcuni rifornimenti tornammo a Tobruk, nostra
base principale in Libia. Nel novembre del 1939 rientrammo in Italia fermandoci
a Brindisi per sbarcare tutte le munizioni e ripartimmo subito dopo per Fiume,
entrando in bacino, dove furono riparati i molti danni causati dai cavalloni
delle ultime mareggiate. Solo un terzo dell’equipaggio rimase a bordo. Per fine
servizio di leva, il 15 gennaio 1940 fui rimandato a casa in congedo
illimitato.
Ma, ahimè, dopo 40
giorni soltanto, fui richiamato a raggiungere entro ventiquattro ore, la nave,
che si trovava ancora a Fiume in riparazione, poiché ero stato nominato
complemento di guerra. Entro il mese di marzo tutto l’equipaggio si era
ricomposto. Terminati i lavori, uscimmo in mare aperto per fare qualche
collaudo e giri di boa. Rientrati a Brindisi, reimbarcammo tutte le munizioni
rimettendo la nave in assetto di guerra. Nell’aprile del 1940 eravamo
nuovamente in Africa Settentrionale, a Tobruk in Libia. Qui uscivamo spesso per
esercitazioni di tiro diurne e notturne e anche per navigare di notte vicino
alla costa, in zone sicuramente non nostre perché si procedeva a velocità
ridotta con i fari di via spenti e allertati al massimo. Verso il 20 maggio,
sempre del 1940, ricevemmo l’ordine di minare le zone di mare in prossimità
dell’accesso ai nostri porti di Tripoli, Bengasi, Tobruk e altri, con grosse
mine ancorate ai fondali e affioranti a circa 8-9 metri dal pelo dell’acqua.
Ovviamente mappavamo la rotta di sicurezza comunicandola all’Ammiragliato che
aveva disposto l’operazione. Il 10 giugno del 1940 Mussolini, con un memorabile
discorso, annunziò al popolo italiano di avere dichiarato guerra alla Francia e
all’Inghilterra. Il giorno tanto atteso da molti italiani illusi, era
finalmente giunto e, anche a bordo, qualcuno aspettava con ansia l’inizio della
guerra, pensando che sarebbe finita presto. Noi eravamo attraccati di poppa al
pontile assieme ad altri cacciatorpediniere, uno di fianco all’altro con un
intervallo di circa 10 metri. In rada c’erano grossi piroscafi e altri natanti
sparsi per la baia. A circa 600 o 700 metri dall’imboccatura del porto c’era
l’incrociatore San Giorgio ormeggiato
vicino alla costa piana. La nostra posizione era nella stessa direzione ma
molto più in profondità verso la città. Era l’alba dell’undici giugno: notte
tranquilla, sveglia alle 5.00 come d’uso, riassetto delle brande, toeletta e
poi il caffè. Ci stavamo apprestando ad eseguire i primi lavori di pulizia nei
locali e di manutenzione alle armi quando, l’urlo delle sirene a terra ci
avvertiva che a breve avremmo avuto visite non gradite. Di corsa raggiungemmo i
posti di combattimento e restammo nell’attesa con ansia. Io in quel momento ero
libero. Corsi sopra-coperta a poppa e scrutai il cielo, poco dopo arrivò anche
il comandante e il suo vice col binocolo. Restammo nell’attesa del nemico,
sicuri che sarebbe arrivato, da quale direzione però non avevamo idea. Mi parve
di avvertire un sordo rumore, scrutai il cielo in direzione del sole poco alto
sull’orizzonte e all’improvviso apparvero degli aerei. Urlando avvertii il
comandante. Vidi uscire oggetti luccicanti dalla loro pancia e lo gridai di
nuovo al comandante il quale replicò dicendomi che erano bombe e mi ordinò di
correre verso il rifugio a terra. Non si trovavano a grand’altezza, quindi
entrarono rabbiosamente in azione le batterie del San Giorgio. Le bombe esplosero in acqua, mentre gli aerei
sorvolarono indenni la nave dirigendosi verso di noi. Appena a tiro entrarono
in azione anche le nostre mitraglie (40/39). Ci salutarono con una pioggia di
bombe ma, fortunatamente, molte non esplosero, e le altre caddero negli
intervalli tra le navi ma non ci colpirono. Saltellando nella passerella corsi
al rifugio a terra, distante da noi circa 150 metri. Ci fu un attimo di pausa e
pensammo che l’allarme fosse cessato. Mi misi quindi a correre per risalire
sulla nave e in quel momento ripresero a sganciare bombe, una delle quali
esplose nel bagnasciuga a circa 10 metri da me scaraventandomi a terra. Non
riportai alcuna ferita e rialzatomi ripresi la mia corsa raggiungendo la nave
con affanno. Raggiunsi la poppa e rimasi fermo. Era lì anche il Comandante che
col binocolo scrutava il cielo. Arrivarono due marinai che tenevano in braccio
un altro marinaio ferito per trasportarlo a terra. Era un radiotelegrafista che
mentre trasmetteva era stato colpito alla gola da una scheggia della stessa
bomba che era esplosa vicino a me. Mi fissarono un attimo, capii e mi unii a
loro in aiuto. La passerella che da bordo portava al pontile era larga forse 80
centimetri; era un problema passare in tre con una quarta persona in braccio
senza rischiare di cadere in acqua, ma ci riuscimmo senza curarci delle bombe
che continuavano a cadere intorno a noi e arrivammo al rifugio senza danni.
Dopo aver consegnato il ferito ai medici ed esserci riposati rientrammo a bordo
ad allarme ormai cessato. Qualche ora dopo ci mettemmo in rada e per il resto
del giorno e la notte seguente non accadde nulla di particolare. L’indomani
mattina, all’alba uscì dal porto in perlustrazione il rimorchiatore d’alto mare
“Il Nuovo Berta” [si trattava con
ogni probabilità della cannoniera Giovanni
Berta], spingendosi molto oltre le nostre acque territoriali. Fu attaccato
e colpito da alcune navi inglesi e rientrò in porto verso mezzogiorno piuttosto
malconcio [la Berta, infatti,
gravemente danneggiata dal tiro degli incrociatori britannici Liverpool e Gloucester, riuscì a raggiungere Tobruk prima di affondare]. Seppi
in sezione che a bordo di quel rimorchiatore c’era anche Proietto, un amico e
socio della nostra sezione. Il giorno successivo scattò solo qualche allarme
ma, secondo quanto fu riferito, si
trattava di ricognitori allontanati dai nostri caccia levatisi in volo
dal vicino campo d’aviazione. La tregua non durò oltre perché gli aerei inglesi
vennero a trovarci spesso sia di giorno che di notte. Il venerdì notte, ci
attaccarono prima i bombardieri e subito dopo gli aerosiluranti a poche decine
di metri d’altezza, quasi sfiorando gli alberi delle navi in modo da evitare i
nostri tiri incrociati e costringendoci a sparare alti per non colpire le altre
navi. La sera si cambiava posizione ma con le notti di luna eravamo ugualmente
visibili. Avevamo l’impressione che per loro, tra notte e giorno, non c’era
differenza. Non ci dettero tregua martellandoci giorno e notte. Alcune navi
colpite giacevano su un fianco, o inclinate di poppa, circondate da boe con
bandierine rosse per indicare i relitti. Non si dormiva, si mangiava poco,
quando possibile, e alcuni deperivano visibilmente sia per la paura che per gli
stenti. Una notte, mentre mi trovavo alla mitraglia (40/39), scattò l’allarme e
caricai l’arma iniziando a sparare con un fuoco di sbarramento. I proiettili
illuminanti solcavano il cielo in tutte le direzioni, incrociandosi con gli
altri delle altre navi. Non molto lontano, si sentivano le esplosioni delle
bombe ed il contemporaneo stridore delle lamiere contorte. L’armaiolo, che
faceva parte dell’armamento della mitraglia, terrorizzato, mise la testa in
mezzo alle mie gambe, aggrappandovisi. Gli urlai di lasciarmi perché non
riuscivo a manovrare l’arma ma lui ripeteva in continuazione: «Ho paura, ho
paura». Lo strattonai ma lui non si mosse ed allora gli sferrai alcuni pugni in
testa e in qualche modo riuscii a scrollarmelo di dosso scaraventandolo
lontano. Fui costretto a farlo perché l’arma si stava inceppando giacché il
nastro con i proiettili, se non guidato, non scorreva. L’armaiolo, si chiamava
Marvino, aveva il compito di riparare quell’arma in caso d’inceppamento.
L’allarme cessò al calare della luna, quasi all’alba. La notte seguente si
ripeterono i bombardamenti con continui assalti. Io non ero di guardia. A bordo
non vi era alcun posto dove rifugiarci per scampare alle bombe. Sotto castello
ci si poteva riparare da qualche scheggia, ma se fosse stata colpita da qualche
bomba? Sarebbe stato peggio. Come altre volte, mi misi seduto addossandomi alla
parete del corpo di guardia che sorreggeva la torretta del cannone di poppa
assieme ad un altro e mi addormentai, mentre le bombe continuavano a cadere
colpendo anche qualche unità. Chi mi stava accanto, impaurito di sicuro,
scuotendomi mi disse: «Fois, ma tu dormi». Cosa vuoi che faccia, replicai.
Dormi anche tu. Non è che non facevo caso alle bombe, al contrario, ma c’ero
talmente abituato che, purtroppo, ci dovevo convivere. Il 28 giugno ricevemmo
la visita di molti bombardieri inglesi che sganciarono numerose bombe. La
reazione di tutte le unità e anche delle batterie di terra furono pronte e
rabbiose, ma non riuscirono a colpire un solo aereo. Non li vedevamo, perché si
mantenevano ad altissima quota. Sparammo a sbarramento incrociato e potevamo
controllare la direzione che prendevano i proiettili delle nostre mitraglie
40/39 perché di giorno erano traccianti, con una gittata di oltre 2.000 metri,
ma d’aerei colpiti neanche l’ombra. Venivano dal mare (da est sia di giorno che
di notte) ed uscivano con rotta verso ovest. Anche senza vederli sapevamo che
era così.
Nel tardo pomeriggio
dello stesso 28 giugno 1940, cessato l’allarme, ci ancorammo a fianco del
piroscafo Piemonte di 15.000
tonnellate che era stato abbandonato dall’equipaggio perché danneggiato dalle
bombe. Ci ormeggiammo, qualche volta di fianco per la notte; in modo da
eliminare un altro obiettivo sparso nella baia formando così un corpo unico.
Una decina di noi salì sopra il piroscafo per festeggiare, con canti e balli,
lo scampato pericolo; accompagnati dalla musica di un vecchio pianoforte,
suonato da un sergente d’origine Ebraica (Coen), quando, improvvisa- mente,
fummo richiamati a bordo dall’allarme. Salpammo immediatamente allontanandoci
dal piroscafo, riprendendo ognuno il proprio posto di combattimento. Era un
pomeriggio di molta foschia. Corsi alla mitraglia caricandola con un nastro da
venticinque proiettili, poi n’aggiunsi anche un altro. Pochi minuti dopo,
vedemmo arrivare due aerei, ad altezza non molto elevata provenienti dalla
stessa direzione ovest che avevano preso i bombardieri inglesi andandosene dopo
il bombardamento. Non essendo visibili segni di riconoscimento, appena giunti a
tiro, da tutte le unità partirono le raffiche delle mitraglie. Noi sparammo
pochi colpi (una decina circa) giacché, un tenente di vascello che si era
imbarcato pochi giorni prima, essendo stato osservatore pilota, aveva
riconosciuto quegli aerei per nostri e, correndo, gridava: «Non sparate, non
sparate». Purtroppo, pochi istanti prima, avevamo notato del fumo che usciva
dalla parte poppiera di uno degli aerei (era stato colpito) e, mentre noi
esultanti gridavamo vittoria, vittoria,
l’aereo, nel tentativo di atterrare nel campo d’aviazione poco distante, si
schiantava al suolo trascinandosi per
alcune centinaia di metri. L’altro, appena notata la reazione armata da parte
delle navi, si abbassò e sfiorando gli alberi dei natanti passò indenne in
mezzo ai nostri tiri. Si disse che dal C.T. Turbine,
capo squadriglia, partì un dispaccio all’Ammiragliato, comunicando che l’aereo
era stato abbattuto dalla sua unità con una raffica micidiale della 40/39, e
che l’Ammiraglio avesse risposto: «Imbecille, quello era l’aereo di Italo Balbo
con lui a bordo». Queste erano le voci che circolavano a bordo [in realtà,
sembra che l’abbattimento dell’aereo di Balbo sia attribuirsi al fuoco del San Giorgio
oppure del sommergibile Marcantonio
Bragadin, presente in rada]. Non sono certo se erano vere. Era vero però
che l’aereo abbattuto era di Italo Balbo e ne venimmo a conoscenza dopo una
mezz’ora circa, naturalmente rammaricandocene. Sul fatto ha scritto un libro il
sig. Folco Quilici intitolato: Tobruk 1940, la vera storia della morte di Italo
Balbo. Ho letto quel libro, riscontrando molte inesattezze. A bordo di
quell’aereo c’era il padre di Quilici, cronista e amico del Generale
Governatore della Libia, appunto Italo Balbo. Dopo 60 anni dall’avvenimento,
non poteva ricostruire gli avvenimenti così come realmente successero, se non
attraverso delle prove testimoniali che, se pure citate, non mi pare che
rispecchino la realtà così come l’ho vissuta io.
Dopo quella tragedia,
sulla coda dei nostri aerei fu dipinta una gran croce bianca visibilissima. La
notte seguente pur essendoci l’allarme non ci furono bombardamenti. La nostra
nave era piena di buchi dappertutto, causati dalle schegge delle numerose bombe
che c’erano esplose vicino. In ogni buco fu infilato un tappo di legno, con
inciso il giorno in cui la nave fu colpita, da far vedere a quelli che a
Taranto dicevano che la guerra era là e non da noi. Questo c’era riferito da
qualcuno che veniva dall’Italia. Un giorno rientrò a bordo un capo elettricista
che avevamo lasciato in Italia in licenza di convalescenza, il quale anche lui
era convinto che a Tobruk si stesse bene, dal momento che i bollettini di
guerra non ne parlavano. Qualcuno la notte che stava per arrivare [quella del
19-20 luglio 1940] lo avrebbe convinto del contrario. Ricordo, che era un
venerdì notte, alle ventidue circa, l’ora preferita per gli aerei siluranti;
eravamo in rada, con prora ad ovest a circa 60 metri dietro un altro
cacciatorpediniere, l’Ostro, (sul
quale ero già stato imbarcato molto tempo prima in Italia per 20 giorni). Non
ero di guardia quando scattò l’allarme. Mi misi all’inizio del sotto-castello.
Eravamo in pochi. C’erano anche il capo elettricista ed il “famoso” armaiolo
Marvino che avrebbe dovuto riparare la mitraglia nel caso si fosse inceppata.
Ricordate come si comportò in occasione dell’ultimo bombardamento degli aerei
nemici che ci massacravano di bombe? Le mitraglie entrarono in azione con fuoco
incrociato, qualcuno mi chiamò, uscii correndo portandomi al centro; quasi
subito ci venne sopra un aereo silurante, bassissimo, lo vidi mentre arrivava,
forse ci aveva salutato con un siluro che non ci colpì, si sentì l’esplosione
sulla costa poco distante. Rientrai immediatamente correndo sotto castello dove
mi trovavo prima. Si udirono molte altre esplosioni. Una vicinissima a noi,
colpì la poppa dell’Ostro e forse il
Santa Barbara (deposito munizioni). Marvino, da accovacciato che era, con un
balzo andò a sbattere con la testa sul soffitto; il capo elettricista prese la
rincorsa e si buttò a mare. Io mi affacciai a guardare nella direzione
dell’esplosione e rientrai precipitosamente dentro, perché una cappa di fuoco
ci stava coprendo e, terminata la caduta delle schegge (perché di schegge
infuocate si trattava), ripescammo e prestammo soccorso al secondo capo, che
riusciva solo a balbettare. All’armaiolo avevamo pensato prima; al riparo sotto
coperta strillava e si dibatteva in preda alla paura. Riferimmo l’accaduto al
comandante il quale volle vedere il capo elettricista chiedendogli,
scherzosamente, se riteneva che la guerra fosse lì o a Taranto. L’indomani
furono sbarcati e condotti, penso, a qualche centro di cura. La mattina presto
scattò di nuovo l’allarme ma durò poco. La giornata trascorse senza avvenimenti
di rilievo ma ci fu un preallarme navale. I nostri ricognitori avevano notato
varie navi inglesi fuori delle nostre acque territoriali. Non so se era
previsto da prima ma, come un atto di sfida, alle tre dell’indomani mattina ci
allertarono per partire e, con le macchine che erano sempre sotto pressione,
fatti i preparativi del caso in pochi minuti salpammo e uscimmo in navigazione
senza conoscere la destinazione. Navigammo con circospezione con tutti al posto
di combattimento a circa 20 miglia orarie, giungendo in vista di terra alle
prime luci dell’alba. Il mare era alquanto mosso ma si navigava bene. Il capo
cannoniere Zara, di La Maddalena, comandava l’armamento del mio cannone. Mentre
ci avvicinavamo sempre più alla costa ci disse: «Preparatevi e tenete duro che
dobbiamo attaccare le navi inglesi che sono dentro quel porto». Come detto
all’inizio, la mia qualifica era “cannoniere”, ma mi erano stati assegnati due
posti di combattimento. Da fermi e in porto ero addetto alla contraerea
(mitraglia 40/39 al centro della nave), mentre in navigazione al cannone di
poppa (graduatore di cursore per la direzione). Eravamo pronti, io indossavo la
cuffia per poter ricevere i dati dalla direzione di tiro e a mia volta
comunicare al puntatore che doveva eseguire. Ci portammo sotto costa, molto
vicini al porto. Pensai: «Ma non vorremo mica entrare in porto per consegnarci
agli inglesi?». Non fu così naturalmente e, subito dopo, fu impartito l’ordine
che dava inizio alle ostilità. Rosso cinque zero, era la direzione su cui
dovevo impostare il cannone, portai il cursore in quella posizione ripetendola
al puntatore e, immediatamente, partirono le prime salve dei due cannoni binati
da 120/45 con proiettili del peso di oltre 25 chili l’uno. Continuammo a
sparare per oltre 500 metri. Accostammo verso il largo per poi riportarci sotto
costa e riprendere il cannoneggiamento per tre volte di seguito. Fummo costretti
poi ad interrompere a causa della fitta nebbia e a ridurre la velocità a poche
miglia orarie, per non entrare in collisione con le altre due unità che avevano
preso parte all’operazione. Non vi era stata reazione né da parte di qualche
batteria eventualmente presente nella costa, né dall’interno del porto. Si
erano notate alte colonne di fumo nero; segno che avevamo centrato l’obiettivo.
Il porto preso di mira era Sollum, in territorio Egiziano. Si trovava molto
oltre Porto Bardia, in territorio Libico, controllato dalle nostre forze.
Conoscevamo quel porto per esserci stati varie volte. Rientrammo in porto a
Tobruk verso le undici del mattino senza incontrare alcun natante. Dopo esserci
ormeggiati, mangiammo. Avevamo saltato la colazione ed eravamo affamati. Il
resto della giornata trascorse senza avvenimenti di rilievo e la dedicammo al
riassetto della nave e in particolare, per chi vi era addetto come me, alla
pulizia dei cannoni. Il giorno dopo ci rifornimmo di nafta e munizioni. Alle tre del terzo giorno,
con il C.T. Turbine capo fila, ci
portammo nuovamente sotto costa nel porto di Sollum, riprendendo il
cannoneggiamento da distanza ancora più ravvicinata. Al cannone di poppa dove
stavo venne a mancare la corrente elettrica e fummo costretti ad operare a
forza di braccia. Quasi contemporaneamente si ruppe a metà la manichetta (un
tubo flessibile di alcuni cm. di diametro) che, unita alla cuffia che avevo
infilata in testa coprendo le orecchie, mi consentiva di ricevere i dati dalla
direzione di tiro che trasmettevo al puntatore. Quest’ultimo, che sedeva
davanti a me, gridò: «Fois, aiutami». Impugnai la manovella poggiando la mia
mano destra sopra la sua e facendo molta forza, riuscimmo a brandeggiare il
complesso portandolo in punteria secondo i dati che a stento riuscivo a
percepire e graduare il cursore con la mano sinistra guardando di sbieco in
alto. Sentii appena gridare dalla centrale: «Fuoco!». Ma, il fuoco elettrico
non funzionava e senza aspettare tirai con forza la leva e la salva partì con
qualche attimo di ritardo rispetto al pezzo di prora che non aveva avuto
problemi. Terminata l’accostata, mi tirai fuori dai pantaloni il camisaccio e
dal lembo di sotto riuscii a strappare una striscia di stoffa e la avvolsi alla
manichetta unendo le due parti dello strappo e ripristinando così la
comunicazione con la centrale di tiro. Dall’interno del porto si levarono alte
colonne di fumo nero. Probabilmente avevamo colpito qualche struttura
importante. Mentre ci stavamo apprestando al rientro, il capo cannoniere, tutto
giulivo, prese il megafono e, rivolgendosi al Comandante che era uscito fuori
dalla plancia, gridò: «Comandante, dal quel caseggiato (c’era un grossissimo
fabbricato, forse dei capannoni) ci stanno osservando col binocolo». Il
Comandante suggerì di spedirgli i nostri saluti e il capo cannoniere
immediatamente ordinò di sparare. I due proiettili del nostro pezzo partirono
colpendo in pieno quel caseggiato mandandolo in frantumi. Ci allontanammo, e anche quel giorno
sopraggiunse la nebbia che durò poco, ma molto fitta, tanto da costringerci a
ridurre la velocità. Quando eravamo ormai in mare aperto, ad alcune miglia di
distanza dal porto di Solum, il capo cannoniere, rivolgendosi ancora al
comandante col megafono disse: «Signor Comandante, a questo pezzo è venuta a
mancare la corrente elettrica e se ha funzionato è merito di Fois». «Bravo» -
rispose il Comandante - «lo segnaleremo per la medaglia di bronzo». Rientrati
in porto, dopo l’ormeggio, ci lavammo e pranzammo. Finalmente c’eravamo presi una
piccola rivincita nei confronti degli inglesi; stavolta non eravamo stati noi a
subire, ma loro. Nella posizione in cui si trovavano non ebbero possibilità di
reazione e, quindi, li beffammo per ben due volte di seguito in soli due
giorni.
Ricordo che era una
notte di luna piena, il bombardamento era intenso, esplosioni, stridore di
lamiere contorte e grida d’aiuto si sovrapponevano. Io ero alla mitraglia e ci
fu dato l’ordine di cessare il fuoco sia per non essere individuati che per
avere la possibilità di soccorrere i naufraghi di una nave colpita e affondata.
Calammo a mare una scialuppa di soccorso e, man mano che i naufraghi erano
individuati e caricati sulla barca (facendo uso di un piccolo proiettore), li
aiutammo a salire a bordo. Nel frattempo la luna era calata e, una volta
cessato l’allarme, operammo con più calma. La baia di Tobruk stava diventando
un cimitero con varie navi affondate o semi affondate, compresi due piroscafi
di 15.000 tonnellate (Piemonte e Liguria) e, per navigarvi in una notte
senza luna, dovemmo fare molta attenzione. In una notte di luna piena di metà
luglio, ci affiancammo al Liguria che
era stata colpita con delle bombe ed era rimasto senza equipaggio, poco
distante dalla costa (forse 50 metri). Molti di noi, non in servizio, entrarono
dentro per essere più al sicuro, percorrendo un lungo e largo corridoio con un
portellone aperto che dava sul mare. All’improvviso, una grossa esplosione e
contemporaneo sussulto della nave ci fecero sobbalzare. Ritenendo che fu
colpita la nave Liguria, mi misi a
correre per buttarmi a mare (nonostante non sapessi neanche nuotare bene) ma,
fui fermato da un commilitone sopraggiunto in quel momento il quale mi disse
che la nave colpita era invece l’Aquilone.
Mi resi subito conto che non fu così poiché arrivò in quello stesso momento il
nostromo che ci richiamò a bordo per allontanarci dalla nave colpita. Seguirono
molte altre notti e giorni di continui allarmi e intensi bombardamenti. Ci fu
anche qualche momento di tregua nelle notti senza luna. Molto spesso uscivamo
in perlustrazione oltre l’orizzonte per 4 o 5 ore. Talvolta anche per intere
giornate. Gli unici efficienti come unità d’attacco in quel porto eravamo
rimasti noi e il Turbine, su cui ero
stato imbarcato per più di due mesi in Italia. Il San Giorgio, invece, era come una fortezza, quasi adagiato sul
fondo e circondato di reti antisiluro. Nei primi giorni d’agosto, tre
cacciatorpediniere del nostro stesso tipo [l’Espero, l’Ostro e lo Zeffiro; si trattava in realtà del 28
giugno 1940], mentre erano in navigazione per venirci a dare il cambio, furono
attaccati da una squadra navale inglese. Uno [l’Espero] fu affondato mentre gli altre due arrivarono in porto nella
serata con pochi danni. La mattina seguente, nel tentativo di recuperare eventuali
naufraghi o i corpi dei marinai morti, la nostra unità ricevette l’ordine di
recarsi sul posto dell’attacco. Perlustrammo la zona in lungo e in largo,
navigando molto piano per meglio poter scrutare la superficie del mare ma non
avvistammo nulla. Era la rotta che usualmente si faceva per dirigersi in Libia,
ma, come qualcuno disse, c’eravamo spinti troppo oltre in direzione di Malta e
ricevemmo la visita di un quadrimotore inglese (Sunderland), un aereo
bombardiere di grosse dimensioni. Ci venne sopra a non grand’altezza facendo
dei segnali per farsi riconoscere; forse scambiandoci per Inglesi. Non
ricevendo risposta, virò portandosi sulla nostra poppa e sganciò molte bombe
che esplosero a circa 50-60 metri da noi sulla nostra scia. Procedemmo con le
macchine a tutta forza e, per quanto era possibile, a zig-zag. Io scesi dalla
cabina del cannone, con il quale non potevamo sparare, con la cuffia in testa
per eventuali comunicazioni dalla centrale di tiro. M’infilai sotto la culatta
dello stesso cannone per sfuggire ad eventuali raffiche di mitraglia. Mi
mordevo le dita dalla rabbia contro i nostri mitraglieri che, pur passandogli
sopra a quota raggiungibilissima, non riuscivano a colpirlo nonostante i
proiettili traccianti, che facilitavano l’aggiustamento dei tiri. Ci abbandonò,
forse per esaurimento delle munizioni. Il tenente di vascello, direttore di
tiro, affermò che quegli aerei erano corazzati sotto per questo motivo non
erano danneggiati dai proiettili. Rientrammo in porto all’imbrunire senza altri
incidenti. Talvolta eravamo impegnati nella scorta di convogli per la Libia, di
due o tre unità, provenienti dall’Italia. Andavamo a prenderli quasi a metà
percorso. Accompagnandoli, dovevamo mantenere la loro stessa andatura di poche
miglia orari che ci rendeva spesso alquanto nervosi per i possibili agguati di
sommergibili nemici. Accadde proprio un giorno che stavamo scortando due grossi
piroscafi diretti a Tobruk che notammo una scia di siluro diretto su di noi.
Provvidenzialmente l’avvistammo in tempo e riuscimmo a scapolarlo. Ci dirigemmo
immediatamente sul posto nel quale si presumeva che si trovasse il sommergibile
e sganciammo alcune bombe da cento chilogrammi regolate per esplodere a diverse
profondità. Inoltre, calammo in mare una torpedine una sorta di piccolo aereo
carico d’esplosivo) ma non raggiunse alcun bersaglio. Anche il Sonar, che
calammo da fermi ad una certa profondità, non rivelò alcun segnale. Tornammo a
scortare il convoglio ma ogni tanto andavamo alla ricerca del sommergibile per
accertarci se era stato colpito; avevamo, infatti, notato una piccola
chiazza d’olio ma niente più. Il viaggio
proseguì normalmente e mentre i due piroscafi con il loro carico prezioso
entravano in porto noi ci trattenemmo fuori ancora per circa mezz’ora girando e
rigirando a circa un miglio dalla costa. A volte succedeva anche di vedere
entrare in porto una piccola imbarcazione, evidentemente carica, ma senza
scorta. Un altro giorno, mentre scortavamo altri tre piroscafi, quando questi
iniziarono ad avvicinarsi verso la costa per entrare nel porto di Derna dove
erano diretti, avvistammo due bombardieri in volo lungo la costa. Venivano
dalla nostra stessa direzione. Alla loro vista, noi virammo a sinistra,
portandoci al largo per attirare la loro attenzione ed evitare così il
possibile attacco al convoglio. Si portarono sopra di noi ma senza sganciare
bombe. Non riconoscendoli, aprimmo il fuoco senza colpirli e se n’andarono
riprendendo la stessa rotta di prima. Ci riavvicinammo al convoglio per
comunicare loro che il nostro compito finiva lì e, dopo averli salutati,
riprendemmo la navigazione verso il porto di Tobruk, dove giungemmo senza altri
incidenti. Le comunicazioni fra le navi avvenivano con l’ausilio delle
bandierine da parte dei segnalatori. Un pò di tempo dopo, ero di turno alla
mitraglia, da mezzanotte alle quattro. La notte era serena e stellata, con un
leggero venticello da ovest. Ero solo, gli altri due membri l’armamento
dormivano. Ad un tratto notai una luce che sembrava muoversi, a mezza altezza a
est sull’orizzonte. La osservai col binocolo senza riscontrare nulla di
anormale; scesi in ogni caso dalla mitraglia e andai a riferire all’ufficiale
di guardia a poppa, il direttore di tiro sig. Colonna, al quale io facevo
l’ordinanza. Gli dissi della luce, lui guardò e commentò: «Sembra proprio che
cammina, non può essere un aereo, né nostro né nemico; torna al tuo posto e
stai attento mi ordinò». Salii nuovamente sulla mitraglia e continuai ad
osservare quella luce regolando il binocolo, più che altro giocherellando. Lo
allungai tutto guardando dalla parte anteriore e mi venne la pelle d’oca. Mi
apparve una gran distesa desertica rossastra con qualche grossa pietra isolata,
mentre in profondità appariva un colore bruno chiaro come se ci fosse una montagna.
Ridiscesi e andai di nuovo dall’ufficiale, sig. Colonna e gli dissi: «Guardi di
nuovo quella luce con questo binocolo». «Ma è uguale al mio» obiettò. «Lo so» -
risposi - ma guardi dalla parte anteriore». Appena inquadratala, esclamò: «Di-
sgraziata, questa è Marte, mi ha fregato anche un’altra volta a Cadice, in
Spagna». Ho visto un’immagine di Marte somigliante in televisione. Mi
piacerebbe tornare a Tobruk con un binocolo uguale e farlo vedere a qualche
scettico, ma anche per mia personale soddisfazione. Verso il venti di agosto
erano venute a darci il cambio altre due unità, non ricordo il nome, e noi
andammo a Bengasi per un periodo di riposo. Non sembravamo in guerra.
Conducevamo una vita normale, si usciva in franchigia, con l’obbligo di farci
vedere ogni ora, e gli ufficiali organizzavano anche qualche festicciola a
bordo. Una mattina salì a bordo un tenente di vascello (imbarcato su una
torpediniera soprannominata “tre pipe”; le chiamavamo così quando avevano tre
fumaioli). Era amico del mio direttore di tiro il quale me lo presentò, giacché
sardo come Lui. Infatti, si chiamava Giovanni Garau, ed era di Cagliari. Mi
strinse la mano facendomi un sacco di domande del tipo: «Di dove sei, se Giba
era vicino a Santadi dove il padre aveva fatto il Pretore, e tante altre». Ogni
tanto mi faceva chiamare per parlare in sardo anche in presenza del sig.
Colonna. Lo prendeva in giro in dialetto divertendosi un mondo. Quello non
capiva e qualche volta commentava così: «Gli arabi si sono scatenati». Una sera
erano stati invitati una decina di ufficiali di altre navi e 6 o 7 ragazze.
Quasi tutti stavano sopra coperta, a poppa, che discutevano fra loro, mi pare
che stessero festeggiando il compleanno del comandante il quale, con un altro
paio d’ufficiali e alcune ragazze, stavano giù in quadrato ufficiali. Io con un
altro marinaio li servivamo come camerieri. Verso le 23.00 arrivò in quadrato
un capitano di corvetta in divisa che, preso il Comandante sottobraccio, lo
portò nel corridoio che dava ai camerini degli ufficiali e ai bagni. Passai di
lì per accompagnare una ragazza al bagno e sentii dire da questo capitano al
mio Comandante che, mentre era fuori in missione con la nave (una tre pipe
vecchio tipo), avvistò una squadra navale inglese composta di una decina
d’unità e che, vista l’enorme inferiorità, aveva preferito rientrare in porto
per salvare la nave e molte vite umane. Il mio Comandante s’infuriò, gli dette
del vigliacco e, rientrato in quadrato, disse: «Signori, sono spiacente, ma la
festa è finita». Tutti si guardarono in faccia sorpresi e salirono in coperta
con il Comandante in testa che comunicò anche agli altri la decisione che aveva
preso a seguito delle notizie che il collega gli aveva comunicato e che, forse,
ci avrebbero portato a lasciare il porto. Intanto, il mio Comandante, il
capitano di corvetta Alberto Agostini, l’indomani mattino, di buon’ora, si
recò, all’Ammiragliato, per essere autorizzato ad uscire in mare, per andare
alla caccia della squadra navale inglese. Fortunatamente non la incontrammo.
Anche a Bengasi la situazione cominciava a cambiare. Gli allarmi erano più
frequenti, sia aerei che navali. Una mattina di settembre, verso il sette o
l’otto, arrivò un dispaccio urgente dal Comando Marina, avvertendoci di tenersi
pronti per una eventuale uscita giacché la ricognizione aerea aveva avvistato
una formazione navale nemica, al limite delle nostre acque territoriali.
La giornata era molto grigia con pioggia
torrenziale; mai visto piovere così tanto in quelle zone da quando la frequentavo,
a partire dal 1938. Non successe nulla di particolare a parte il preallarme
navale e anche aereo, mentre le piogge continuavano a cadere scroscianti fino a
tarda sera. Passarono alcuni giorni di calma quando, quegli “uccellacci
spennacchiati” (così il comandante definiva gli aerei nemici), iniziarono a
venirci a trovare con insistenza anche a Bengasi, causando molti danni.”
L’affondamento
La nave all’ormeggio (foto tratta da http://www.portalestoria.net/2%20guerra%20mondiale%20cacciatorpediniere%20italia.htm)
|
“Il sedici settembre
di quel 1940, sotto un cielo stellato, mi trovavo di guardia alla mitraglia
quando scattò l’allarme. Ci bombardarono e noi incominciammo a rispondere con
fuoco di sbarramento a volontà. Innestavo nastri di proiettili, uno dopo
l’altro, sorreggendoli in modo che la mitraglia potesse essere agevolmente
manovrata. All’improvviso una bomba centrò una nave al nostro fianco, a soli 5
o 6 metri, sollevando un’enorme colonna d’acqua con puzza di nafta che ricadde
su di noi inzuppandoci fino alle ossa. La nostra nave cominciò ad ondeggiare di
fianco e qualcuno da poppa urlò: «Siamo stati colpiti, tutti a terra», e alcuni
cominciarono anche a scendere. Io scesi dalla mitraglia fradicio d’acqua e
nafta dirigendomi verso poppa, quando fu accertato che noi non avevamo subito
alcun danno. Eravamo ormeggiati di poppa alla banchina e per scendere a terra e
risalire a bordo c’era la passerella. Questa, a causa dei forti sbandamenti
prodotti dall’esplosione, cadde in mare e fu, ovviamente, subito ripescata. La
notte si contarono alcuni marinai morti nella nave colpita al nostro fianco, in
altre navi e persino a terra nelle strutture colpite. L’indomani pomeriggio
tutte le navi presenti inviarono una comandata (rappresentanza di marinai, un
ufficiale e un sottufficiale) per onorare le vittime, ma non so dove avessero
allestito la camera ardente. Quando rientrò il gruppo, io ero già al posto di
combattimento nella torretta del cannone a poppa. Vidi Schiaffino, un amico di
Porto Torres che faceva parte del gruppo, e come passò sotto di me lo chiamai e
lo incoraggiai (anche in quel momento, come sempre, era molto triste).
Guardando verso di me disse: «Questa sera non so, Foixeddu» (mi chiamava così
confidenzialmente). «Coraggio» - risposi - «rientriamo in Italia».
Era il diciassette di
quell’infausto settembre quando, verso le
venti, iniziarono i bombardamenti, in una notte senza luna e con un
venticello da mezzogiorno. Non potevamo reagire ai bombardamenti per non
rivelare la nostra posizione. Stavamo uscendo dal porto per rientrare in
Italia, rispettando il massimo silenzio come se i piloti degli aerei ci
sentissero. Gli addetti al posto di manovra operarono al buio. Issarono a bordo
la passerella e ci staccammo dalla banchina salpando l’ancora di prora per
dirigendoci lentamente verso l’uscita. Ognuno occupò il proprio posto di
combattimento. Io mi trovavo seduto sopra le munizioni, le cariche e i proiettili. Avevo indossato il salvagente e
la cuffia. Poggiai la mano sinistra sopra il paragambe e con lo sguardo
scrutavo il mare in superficie, quel poco che si poteva vedere sotto la luce
delle stelle, questo era l’ordine. Poco prima di noi era uscito il Turbine. Noi lo seguivamo, forse a 500 o
600 metri, procedendo piano. D’un tratto, una fortissima esplosione mi sbalzò
in alto, da seduto che ero, mi ritrovai in piedi, vicino alla culatta del
cannone, senza cuffia né salvagente con un forte dolore al costato sinistro.
Presi con la destra la mano sinistra, pesantissima, dolorante, non avvertii il
con- tatto della destra che la stringeva, era come un corpo morto, constatai,
purtroppo, di aver perso alcune dita. Non disperai, ma subito dopo mi resi
conto che per me era finita. Non sapevo nuotare bene, avevo in dosso la divisa
di panno che bagnata mi appesantiva molto e in più calzavo anche le scarpe.
Allora, col pensiero rivolto alla Madonna, della quale ero devoto sin da bambino,
mi stesi dolorante sulla lamiera, poggiando la testa sopra la noria nell’attesa
che la nave s’inabissasse. Ero rassegnato, ma pensai anche a mia madre che
aveva perso un altro figlio a La Spezia durante il servizio militare di leva in
Marina, nel 1935, per il quale aveva sofferto moltissimo. Una voce dall’altro
lato della torretta urlò: «Scendiamo». Non vidi nessuno ma mi rialzai senza
muovermi dal posto e poco dopo mi trovai misteriosamente sotto la postazione
occupata prima dell’esplosione, senza che nessuno mi toccasse. Alla mia
sinistra c’era una persona poggiata alle draglie, lo toccai scuotendolo e
chiesi: «Chi sei?». Non ebbi alcuna risposta o reazione, pensai fosse morto e,
subito dopo, sentii un’altra voce dalla poppa estrema gridare: «Buttiamo la
zattera a mare». Scorsi una zattera che mi passava sotto senza alcuno a bordo.
Ricordo che non mi mossi perché non ero in grado di farlo, ma poco dopo mi
trovai in acqua. Forse la nave stava affondando e io, senza alcun sostegno,
cercai di nuotare per tenermi a galla, ma mi stancai subito e mi lasciai andare
a fondo. Mi sembrò che qualcuno da sotto l’acqua mi sorreggesse riportandomi in
superficie e, quindi, ripresi a nuotare. Avevo perso molto sangue e sicuramente
ne stavo perdendo ancora. Ero molto debole. Mi lasciavo andare giù stremato per
farla finita ma riemergevo in superficie e riprendevo stremato a lottare. Non
so per quante volte. Il mare era increspato e il vento mi sembrava più forte.
Ad un certo punto, riemergendo per l’ennesima volta, trovai qualcosa che
m’impediva di portare la testa fuori dall’acqua. Riuscii a scapolarla e
risalire, mi ci aggrappai; era una zattera, forse quella che mi era passata
davanti prima. Dopo essermi riposato un poco, tentai di salirci sopra ma
inutilmente. La parte superiore era alta forse più di 70/80 centimetri sopra il
pelo dell’acqua e la sola forza della mano destra non mi bastava. Tentai anche
con la sinistra ma non riuscivo a sollevarla fino alla sommità sbattendo sulla
fiancata e procurandomi dei forti dolori. La zona era infestata da squali e,
non ci crederete, in quelle condizioni temevo di essere morso da qualche
pescecane per via del sangue che stavo perdendo. Mi rassicurò il fatto che ero
vestito di nero e che calzavo le scarpe (avevo sentito dire da qualcuno che
tale abbigliamento non attirava di solito la loro attenzione). Sfruttando il
movimento delle onde che in qualche momento mi sollevavano, riuscii a portare
il piede sinistro sopra un pezzo di fune sistemato alla fiancata della zattera,
feci forza per sollevarmi e salire sopra ma scivolò e restai a cavallo di essa.
Mi sentivo mancare. Mi riposai lasciandomi andare con le spalle sull’acqua e
tenendomi con la mano destra aggrappato ad una fune. Ritentai più volte di
salire cercando di portare il piede destro sopra un altro tratto di fune poco
distante. Tenendomi saldamente con la destra, aspettai che l’onda mi venisse a
mancare da sotto e, inclinandomi tutto di spalle, riuscì a portare il piede
destro sopra la fune, assicurandomi che non scivolasse. M’issai, liberai il
piede sinistro e, tenendomi fortemente a qualche appiglio interno, feci un
ultimo sforzo, riuscendo così finalmente a scivolare dentro, rotolando di
fianco. Mi riposai e con grande sforzo riuscii a sedermi sul fondo, anche se a
contatto con l’acqua ma, con le spalle poggiate sulla parete; almeno non
affondavo. Avevo nausea. Rivolsi gli occhi al cielo, che vedevo offuscato.
Sentivo qualcosa che cadeva in acqua, probabilmente schegge di proiettili che
esplodevano in aria sparati dalla contraerea delle altre navi in porto. Forse a
quel punto persi i sensi. Non ho idea di quanto tempo abbia trascorso in quelle
condizioni. La prima cosa che rammento sono i richiami d’aiuto d’altri
naufraghi. Anch’io richiamai la loro attenzione. Ad urla mi chiesero chi fossi,
dove stavo, se ero solo e di dargli la direzione per potermi trovare. Come se
avessi la bussola in mano! Dissi loro che ero pieno di ferite e che non potevo
muovermi. Palpando con la mano destra avevo trovato un remo che non potevo
usare, non riuscivo a muovere altro che la mano destra. Ero tutto dolorante con
il corpo martoriato e insanguinato dalle numerosissime ferite. Battevo i denti
per il freddo. La voce si stava pian piano affievolendo. Riuscivo in ogni caso
a guidarli verso di me dicendo loro di spostarsi verso destra o verso sinistra oppure di
procedere diritti. Quel pò di vento che c’era ci spingeva verso il largo e
impediva anche la comunicazione a voce. Chiamavano in continuazione. Gridai
loro di far presto e, subito dopo, mi mancò la voce. Li sentivo piangere molto
vicini a me, io non riuscii a parlare ma li sentii dire: «Fois è morto». Forse
passarono venti o trenta minuti quando ritentai di chiamarli. Erano rimasti
molto vicini e mi trovarono subito. Si aggrapparono alla zattera e uno dalla
parte sinistra mi chiese di aiutarlo a salire. Risposi che non potevo muovermi,
di passare alla parte destra, di mettere un piede sopra la fune e di tenersi
poi al mio braccio che tenevo disteso. Così fece e, appena sopra, mi abbracciò
e pianse di contentezza. Gli dissi di aiutare gli altri a salire sulla zattera.
Erano in tre, tutti esperti nuotatori e, appena saliti, anch’essi si sciolsero
in abbracci e lacrime. Dissi che stavo malissimo e chiesi loro di fare qualcosa
per arrivare a terra. Non sapevano che fare. Gli suggerii, nonostante il mio
stato di salute, di lanciare urla per farsi sentire e di usare remo e braccia
per far muovere la zattera. Così fecero. Battevo i denti dal freddo, afferrai
la mano sinistra con la destra e la poggiai sopra la schiena nuda di quello che
mi stava alla sinistra, il quale, inchinato sul mare, remava con la mano. Il
caldo di quel corpo sembrava mi alleviasse l’insopportabile dolore di quella
mano ghiacciata e squarciata dalle schegge. Di tanto in tanto, sollecitavo di
fare presto. Sentivo un vuoto alla bocca dello stomaco. Mi sentivo mancare,
vedevo le stelle che giravano, chiudevo gli occhi e stringevo i denti cercando
di reagire. Nell’intento d’incoraggiarmi e tirarmi su, ogni tanto annunciavano
l’arrivo di un natante che arrivava in nostro soccorso, naturalmente non era
vero. Dopo diverse ore, si sentì il rumore di
un motore. Ora, è vero, dissero. Vengono a prenderci Fois. Era un
rimorchiatore che cercava i naufraghi. Gridarono tutti e tre assieme e riuscirono
a farsi sentire. Si accostarono a noi e c’identificarono. I miei compagni li
informarono subito della gravità del mio stato di salute e m’issarono a bordo
con cautela, adagiandomi in coperta sopra un telo di tenda. Coppola, quello che
avevo aiutato a salire sulla zattera chiese, nel suo dialetto, un coltello e,
tenendomi in mezzo alle sue gambe, si chinò su di me e mi tagliò gli abiti
(ricordo di non aver mai avuto tanta paura in vita mia, neanche tra i
bombardamenti, come in quel momento vedendo il coltello avvicinarsi alla gola)
lasciandomi completamente nudo avvolto in quella fredda tenda. Il rimorchiatore
riprese la navigazione verso il porto dove c’era la nave-ospedale California. Mi caricarono in barella e
mi portarono dentro, depositandomi in una sala, dove ad attendermi c’erano
alcuni medici e una crocerossina. Fui
ripulito dalla nafta e mi medicarono. Mentre i medici tagliavano con le
forbici i brandelli di carne e pezzi d’ossa frantumati, la crocerossina mi
strinse la faccia al suo petto perché io non vedessi. Strinsi i denti per non
urlare a causa del freddo e del dolore insopportabile.
Sentivo i medici
elogiare il mio stoicismo mentre intervenivano spalmandomi qualcosa addosso e
facendomi delle iniezioni nelle cosce. Rimasi sempre cosciente, perché,
sentendo indicare l’ora, riuscii anche a calcolare il tempo in cui ero stato in
acqua; più di sei ore. Alla fine mi coricarono, mi circondarono d’oggetti caldi
e mi avvolsero con delle coperte. I brividi di freddo che fino a quel momento
mi avevano tormentato, causandomi forse un principio d’assideramento di cui
ancora oggi ne soffro le conseguenze, lasciarono il posto al caldo intenso che
m’invase tutto il corpo; era certamente febbre alta. Sentivo i piedi bruciare,
ricordo che chiesi ad una persona accanto di spegnere il fuoco credendo di
avere delle fiamme accese lì vicino. Poco dopo vennero a trovarmi il signor
Colonna, il direttore di tiro, e un altro ufficiale. Di quello che successe
dopo per molti giorni, non ricordo nulla. Una mattina mi caricarono in barella
e, mi dissero: «Sai dove siamo?», E, senza aspettare risposta, mi informarono
che eravamo a Napoli e che mi stavano conducendo all’ospedale. Non mi rendevo
conto di quanto tempo era passato né mi accorsi che eravamo in navigazione.
Qualche ora prima di mettermi in barella la crocerossina venne vicino,
dicendomi che quando stavo molto male il Cappellano mi aveva unto la fronte
d’olio. Mi aveva, quindi, impartito l’estrema unzione. All’ospedale Piedigrotta
fui sistemato in una camera con altri tre malati. Dopo circa mezz’ora dal
ricovero poggiarono sul mio comodino un bel filoncino di pane nero imbottito di
fagioli lessati. Lo guardai con noncuranza. Non ricordavo l’ultima volta che
avevo toccato cibo. Dopo non so quanto udii qualcuno dire ad una suora: «Siamo
medici della nave ospedale California,
vogliamo vedere i ricoverati che stavano con noi. Dove sono?». Qualcuno,
evidentemente, gli indicò la mia posizione e loro si avvicinarono al mio
lettino (io non li riconobbi, nonostante mi avessero curato). Uno, mettendomi
la mano in fronte mi chiese come stavo e, visto il panino sul comodino, lo
prese in mano chiedendomi se fosse per me. Risposi in modo affermativo.«Non
mangiarlo» disse e, rivolgendosi alla suora e ad un medico dell’ospedale che era
giunto nel mentre, si presentò e chiese del direttore. Quando questi arrivò, si
salutarono amichevolmente e, rivolgendosi verso di me, gli disse: «Questo
ragazzo ha il corpo pieno di ferite. È il più grave che avessi a bordo e lo
abbiamo salvato per miracolo grazie anche alla sua forte fibra. Ha sfebbrato
appena ieri e non mangia da otto giorni, da quando è stato ferito, cioè dal
giorno diciassette. Vedete voi cosa dargli». Poi si rivolse a me e chiese se
avevo fame. Io risposi di sì. Il direttore ordinò alla suora di far portare del
latte caldo con qualcosa dentro e diede istruzione di distribuirmi un pasto
misto per una settimana. Lasciarono la camera. Dopo un’ora circa, venne a
trovarmi il mio comandante, signor Alberto Agostini, con qualche altro ufficiale
di bordo. Mi sorrise e, dopo aver mostrato compiacimento per il mio visibile
miglioramento, mi disse che, una volta rimessomi, sarei andato con lui
nell’Atlantico a bordo di un sommergibile. Io sorrisi a mia volta, ma avevo
idee alquanto diverse in proposito. Poco dopo portarono da mangiare e mi
lasciarono facendomi gli auguri di buona guarigione. Dopo più di 40 giorni di
degenza, anche se non ero completamente guarito, mi dimisero (era il mese di
novembre del 1940). Mi dettero una divisa coloniale, un corpetto bianco, un
casco e scarpe (nessuna biancheria intima). Da casa mi ero fatto mandare dei
soldi e, una volta in città, comprai quanto ancora mi mancava. Al termine della
licenza di convalescenza (40 giorni), poiché le ferite non si erano an- cora rimarginate
bene, nonostante le cure che facevo a casa, chiesi proroga. Mi concessero
ulteriori 40 giorni ma, non essendo giunta per tempo la comunicazione alla
caserma dei carabinieri, fui costretto a rientrare al Gruppo Centro di La
Maddalena. In quell’ospedale, non potendo essere riformato a causa della
guerra, fui dichiarato limitatamente idoneo ai servizi sedentari. Fui così
trattenuto in servizio e assegnato alla Capitaneria di Porto. Qui fui testimone
d’altri bombardamenti e dell’affondamento dell’incrociatore Trieste dove c’era un amico, Franco
Parriciato, di San Teodoro, naufrago come me dell’Aquilone. A La Maddalena fui ricoverato varie volte a causa della
ferita intercostale sinistra che si riapriva, per coliche renali e due volte
per malaria che, fortunatamente, superai (ero ormai ben conosciuto da quella
forza sopranaturale che il 17 settembre 1940 ebbe compassione di me porgendomi
le mani per trarmi in salvo).”
Un’altra foto aerea dell’Aquilone negli anni Trenta (tratta da http://www.warshipsww2.eu/shipsplus.php?language=E&period=2&id=61056)
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So che mio padre Carotenuto Giuseppe era imbarcato sul cacciatorpediniere Aquilone,sopravvissuto, ma il suo nome non lo vedo nella lista dell equipaggio.
RispondiEliminaSo che mio padre Carotenuto Giuseppe era imbarcato sul cacciatorpediniere Aquilone ma il suo nome non lo vedo nella lista dell equipaggio.
RispondiEliminaNon saprei perché...è certo che fosse a bordo al momento dell'affondamento?
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