La nave fotografata tra il
1911 ed il 1917, sotto l’originario nome di William
F. Herrin (da www.history.navy.mil)
|
Piroscafo cisterna da
5039 tsl e 3083 tsn, lungo 121,9 metri, larga 15,9 e pescante 9. Appartenente
alla Società Anonima di Navigazione Petroleum, con sede a Genova, ed iscritto
con matricola 1550 al Compartimento Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
4 febbraio 1911
Varata come William F. Herrin (numero di costruzione
141) nei cantieri Newport News Shipbuilding and Drydock Company di Newport
News.
20 marzo 1911
Completata per la
Associated Oil Company di San Francisco. Impiegata nel trasporto di petrolio
tra gli Stati Uniti e le Hawaii (Honolulu).
23 settembre 1923
In mattinata, mentre
la William F. Herrin si trova
ormeggiata presso la raffineria Avon, vicino a Martinez (California), si
verifica a bordo un’esplosione accidentale in sala caldaie, che provoca un
violento incendio e quattro feriti (ricoverati nell’ospedale di Martinez, tutti
con bruciature di modesta entità). L’incendio si espande rapidamente, tanto da
minacciare di estendersi al carico di 45.000 barili di carburanti presente
nelle cisterne; temendo imminente una nuova esplosione, e ritenendo la nave
come spacciata, la petroliera in fiamme viene disormeggiata e portata in mezzo
alla baia, dove viene lasciata alla deriva, in modo che l’incendio non coinvolga
anche le strutture portuali (ma la mossa è controproducente: le correnti
interne alla baia sospingono la Herrin
verso una parte della baia che pullula di navi, e si riesce a fermarla solo a
270 metri dalla riva). Proseguono però i tentativi di domare le fiamme: il
comandante, capitano P. M. Gadeberg, e 30 altri membri dell’equipaggio
rimangono a bordo e pompano acqua nelle stive, per isolare il carico di
carburante ed evitare che sia raggiunto dal fuoco. Gli sforzi dell’equipaggio
permettono di tenere a bada le fiamme fino all’arrivo di un battello
antincendio, ma soltanto a notte fatta sarà finalmente possibile estinguere
l’incendio.
1928
Acquistata dalla Società
Anonima di Navigazione «Perseveranza» di Genova (in gestione a Giuseppe
Chiarella), cambia nome in Colorado.
1938
Acquistata dalla
Società Anonima di Navigazione Petroleum di Genova (ma sempre in gestione a
Giuseppe Chiarella).
Porto Rico
Il 7 giugno 1940 la Colorado, in zavorra ed al comando del
capitano Ettore Giugni, entrò nel porto di San Juan, nel possedimento
statunitense del Porto Rico, per rifornirsi di 150 tonnellate di nafta per le
caldaie (destinazione finale del suo viaggio era Aruba, centro petrolifero del
Venezuela). Durante la sosta nel porto (e prima di potersi effettivamente rifornire),
tuttavia, la nave fu posta sotto sequestro dal locale ufficiale di polizia
giudiziaria (United States Marshal) su ordine della Corte Distrettuale degli
Stati Uniti per il Porto Rico, per via di una causa in corso tra gli armatori
della Colorado e la Asiatic Petroleum
Company; agenti operativi degli U. S. Marshal ebbero l’incarico di sorvegliare
la nave giorno e notte.
L’entrata dell’Italia
nella seconda guerra mondiale, appena tre giorni dopo (10 giugno 1940), sancì
definitivamente la questione: appartenendo ad una nazione belligerante, la Colorado spense i fuochi delle proprie
caldaie l’11 o il 12 giugno, e venne internata a San Juan.
Il 4 novembre 1940,
su ordine della Corte Distrettuale, la Colorado
venne trasferita dall’ancoraggio dove stazionava fin da giugno ad un altro
ormeggio nel canale di San Antonio, dove venne saldamente ormeggiata alla riva.
L’equipaggio al
completo rimase a bordo, ed in quelle condizioni visse per i nove mesi
successivi.
Il 30 marzo 1941,
però, le autorità degli Stati Uniti d’America, pur essendo tale nazione ancora
neutrale (il pretesto per questo ordine fu la “necessità” di impedire che le
navi venissero sabotate dai loro equipaggi, bloccando i porti statunitensi),
procedettero all’arbitraria cattura di tutte le navi italiane, tedesche e di
Paesi alleati od assoggettati all’Asse, oltre che alla confisca di tutti i
patrimoni tedeschi negli Stati Uniti. Si trattò del primo uso della forza
militare da parte degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale: in tutto vennero
confiscati 28 mercantili italiani, due tedeschi e 35 danesi, per un totale di 296.615
tsl; ad essi si sarebbero aggiunti, in pochi giorni, molti altri mercantili
confiscati da diversi Stati dell’America centrale e meridionale, in imitazione
della mossa statunitense. Le autorità degli Stati Uniti giustificarono tale
provvedimento – ben poco ortodosso per una nazione neutrale – sostenendo che
gli equipaggi italiani e tedeschi avessero iniziato a sabotare le loro navi, e
che l’intervento militare statunitense fosse stato necessario per fermarli, in
base a quanto stabilito dall’Espionage Act del 1917.
La Colorado condivise la sorte di queste
navi: il 30 marzo 1941 venne «presa in custodia» armi alla mano, a San Juan di
Porto Rico, da uomini della Guardia Costiera statunitense.
Come per la maggior
parte delle navi confiscate quel giorno dagli Stati Uniti (delle 28 navi
italiane, soltanto due non furono sabotate), la Colorado non fu catturata intatta: benché fosse ormeggiata nel
canale di San Antonio, letteralmente di fronte al quartier generale del locale Distretto
Navale della Marina statunitense, il suo equipaggio riuscì a sabotarne le
macchine e le caldaie, mettendole fuori uso. Pasta a smeriglio e polvere di
smeriglio vennero gettati nei cuscinetti a sfere; i macchinari furono
martellati con mazze e scalpelli. I danni inflitti furono tali non solo da
impedire alla nave di muovere con le proprie macchine, ma anche da impedire
alle pompe di espellere l’acqua, nel caso si fosse aperta una falla, e da
impedire di utilizzare le manichette antincendio, in caso d’incendio. Tuttavia
non si pensò, o non si riuscì, né a provocare un allagamento, né ad appiccare
un incendio.
La presenza a bordo
di un ufficiale di polizia giudiziaria (a bordo per vigilare sulla nave sin da
quando era stata posta sotto sequestro nel 1940) non aveva costituito un
impedimento all’opera di sabotaggio: mentre tale “lavoro” era in corso,
infatti, altri membri dell’equipaggio che non vi partecipavano direttamente
avevano provveduto ad eseguire lavori rumorosi (ad esempio, raschiando la
vernice) in coperta, per coprire il rumore prodotto dal martellamento in sala
macchine; od avevano condotto l’ufficiale, con qualche pretesto, in zone della
nave lontane da quelle dell’apparato motore, in modo che non si accorgesse di
quanto vi accadeva.
La versione che diede
la Guardia Costiera fu che dei suoi ufficiali e marinai si fossero recati a
bordo della nave per «ispezionare gli ormeggi e le sue condizioni generali», e
nel farlo avessero scoperto che il motore principale, i suoi apparati
ausiliari, le caldaie ed i loro apparati ausiliari erano stati deliberatamente
ed estesamente danneggiati. L’intero equipaggio venne tratto in arresto.
I danni arrecati dall’equipaggio della Colorado al suo apparato motore prima della cattura (foto LIFE). |
Il 6 aprile 1941 il
comandante Giugni ed il resto dell’equipaggio vennero incriminati dalle
autorità statunitensi con l’accusa di sabotaggio. Il 12 giugno, Giugni e 25
uomini del suo equipaggio furono giudicati colpevoli di cospirazione e
sabotaggio, e condannati a pene detentive di durata variabile dai 3 ai 5 anni,
da scontarsi in un penitenziario.
Nell’agosto 1941, gli
uomini della Colorado furono inviati
in un campo di prigionia del Montana (con ogni probabilità quello di Fort
Missoula, destinazione di gran parte dei marittimi italiani catturati nel marzo
1941), dove avrebbero scontato la pena.
Il comandante Giugni
ed il resto dell’equipaggio, tuttavia, ricorsero in appello, per mezzo degli
avvocati Homer L. Loomis di New York e James R. Beverley di San Juan. Il
processo («Giugni et al. V. United States») fu celebrato nel maggio 1942
dinanzi ai giudici Magruder, Mahoney e Woodbury.
Durante il processo
fu rilevato che il comandante Giugni aveva agito in base alle istruzioni
dategli dall’Addetto Navale dell’Ambasciata Italiana a Washington (era
l’ammiraglio Alberto Lais, che per questo venne espulso dagli Stati Uniti) ed
aveva ordinato ai suoi subordinati di danneggiare l’apparato propulsivo della
nave; questi ordini erano stati portati a compimento, sotto la sua
supervisione, alla fine del marzo 1941. Uno dei punti focali della disputa era
lo scopo del sabotaggio: per le autorità statunitensi, era stato effettuato
“per mettere a repentaglio la sicurezza della nave”, così qualificandolo come
reato criminale (con pena pecuniaria fino ad un massimo di 10.000 dollari e
pena detentiva fino ad un massimo di venti anni di carcere, in base alla
legislazione statunitense); secondo l’equipaggio italiano, com’era ovvio, per
immobilizzare la nave al fine di impedire il suo utilizzo da parte di una
nazione nemica. Giungi ed i suoi uomini inoltre affermavano che l’articolo
della legge statunitense riguardante ai sabotaggi, il 502 dello United States
Code («Whoever shall set fire to any vessel of foreign registry, or any vessel
of American registry entitled to engage in commerce with foreign nations, or to
the cargo of the same, or shall tamper with the motive power or
instrumentalities of navigation of such vessel, while within the jurisdiction
of the United States, or, if such vessel is of American registry, while she is
on the high sea, with intent to injure or endanger the safety of the vessel or
of her cargo, or of persons on board, shall be fined not more than $10,000, or
imprisoned not more than twenty years, or both»), si applicava solo agli
estranei, non già agli armatori ed ai membri degli equipaggi nell’esercizio
delle loro funzioni; che interessava le navi non statunitensi soltanto se
impegnate nel commercio, e non se in disarmo in un porto; e che in ogni caso si
applicava soltanto se perpetrato con deliberato intento criminoso o di porre a
repentaglio la sicurezza della nave, il che non era certo il loro caso. Ancora, gli
“imputati” aggiunsero che il trattamento loro riservato nel primo processo
violava il Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti («No person
shall be held to answer for a capital, or otherwise infamous crime, unless on a
presentment or indictment of a grand jury, except in cases arising in the land
or naval forces, or in the militia, when in actual service in time of war or
public danger; nor shall any person be subject for the same offense to be twice
put in jeopardy of life or limb; nor shall be compelled in any criminal case to
be a witness against himself, nor be deprived of life, liberty, or property,
without due process of law; nor shall private property be taken for public use,
without just compensation») e che erano stati giudicati sulla base di prove
insufficienti.
I giudici
statunitensi rigettarono però tutti i punti avanzati dai legali dei marittimi
italiani, ricordando che l’articolo 502 faceva parte del cosiddetto Espionage
Act del 1917, approvato in piena prima guerra mondiale (15 giugno 1917), e che
era stato pensato proprio per evitare il ripetersi di sabotaggi come quelli
attuati all’epoca dagli equipaggi delle navi tedesche che si trovavano negli
Stati Uniti, che avevano avuto l’effetto di “impedire e ritardare seriamente lo
sforzo bellico” statunitense. Di conseguenza, quella legge era stata emanata
proprio per proteggere l’interesse pubblico statunitense nelle navi straniere,
quali strumenti utilizzabili nei commerci internazionali; in altri articoli
della stessa legge si era precisato che le relative restrizioni riguardavano
anche gli armatori, comandanti ed equipaggi delle navi stesse. I giudici
statunitensi affermarono di non poter concedere l’immunità al comandante Giugni
per aver agito eseguendo ordini dell’Addetto Navale a Washington (in quanto ciò
avrebbe violato la regola che impediva a conferire effetti extra-territoriali
agli atti di un governo straniero), né al resto dell’equipaggio per aver
eseguito agli ordini dati dall’armatore per tramite del comandante (dato che
per legge un dipendente che compisse atti criminali per ordine del proprio
datore di lavoro non era esentato dalla punizione).
Il comandante Giugni,
per tentare di coprire i suoi uomini, testimoniò che era l’unico uomo armato a
bordo, che il fatto era noto a tutto l’equipaggio, che aveva con sé la
rivoltella bene in vista quando aveva ordinato di distruggere l’apparato
motore, e che avrebbe sparato a chiunque si fosse rifiutato di obbedire; i
giudici statunitensi tuttavia asserirono che ciò non bastava a dimostrare la
coercizione, perché non vi era prova di riluttanza, da parte di chiunque tra
l’equipaggio, ad adempiere agli ordini, e perché l’opera di distruzione era stata
compiuta in maniera graduale durante un periodo di due settimane, nel corso del
quale la nave era ormeggiata alla riva e chiunque avesse voluto avrebbe potuto
fuggire a terra e chiedere asilo alle autorità locali. Quanto alle prove,
c’erano prove dirette della partecipazione di tutti i membri dell’equipaggio,
tranne dodici, all’opera di sabotaggio; per gli altri dodici si poteva
ragionevolmente presumere che se pure non era dimostrabile che avessero
partecipato al lavoro di danneggiamento, c’era almeno motivo per presumere
ragionevolmente che avessero anch’essi partecipato, o quanto meno aiutato e
facilitato il sabotaggio. Le condanne furono confermate.
Dopo la confisca, la proprietà
della Colorado fu trasferita alla
United States Maritime Commission. Il 6 maggio 1941 la Corte Federale degli
Stati Uniti, su richiesta del governo portoricano (che temeva eventuali nuovi
sabotaggi, che l’avrebbero resa un pericolo per il porto di San Juan), ordinò
che la nave fosse ufficialmente trasferita dalla Guardia Costiera. Il giorno
seguente la Colorado, ancora
impossibilitata a muovere con i propri mezzi, venne disormeggiata e presa a
rimorchio dai cutter Unalga ed Acacia della Guardia Costiera
statunitense, che la rimorchiarono a Galveston, in Texas (questo viaggio di
trasferimento fu una delle più lunghe operazioni affrontate, fino a quel
momento, dalla United States Coast Guard). Qui la nave fu portata in cantiere; i
danni causati dal sabotaggio furono riparati, ed il nome della petroliera fu
cambiato in Typhoon. Registrata sotto
bandiera panamense, la nave ricevette il nominativo di chiamata NJRY e venne
data in gestione alla Standard Oil Company of New Jersey.
Terminate le
riparazioni, la nave riprese a solcare i mari con equipaggio statunitense e
bandiera panamense.
Il 7 dicembre 1941,
quando il Giappone attaccò gli Stati Uniti, la Typhoon si trovava in navigazione nel Mar dei Caraibi, proveniente
da L’Avana (dove aveva scaricato parte del suo carico) e diretta a Guantanamo
(dove avrebbe dovuto scaricare il resto). Informata dell’accaduto via radio,
iniziò subito ad oscurare le proprie luci.
Il 16 febbraio 1942
la Typhoon fu testimone dell’attacco,
da parte del sommergibile tedesco U 156,
alla raffineria ed al porto di Aruba: i siluri lanciati dall’U-Boot affondarono
una delle petroliere ormeggiate in rada, l’Oranjestad,
e ne danneggiarono altre due, l’Arkansas
e la Pedernales; poi il sommergibile
aprì il fuoco col cannone contro le strutture della raffineria, ma dovette
interrompere il tiro quasi subito a causa di un’esplosione accidentale, che
mise il pezzo fuori uso. La Typhoon
era ormeggiata nel porto, ed il suo equipaggio assisté al colossale incendio
che divampava sul mare, alimentato da carburante in fiamme fuoriuscito dall’Oranjestad e dalla Pedernales.
Il giorno seguente la
Typhoon salpò da Aruba in convoglio
con altre due petroliere, ma, appena ebbe oltrepassato l’apertura nella
barriera corallina, vennero avvertite due forti esplosioni: erano bombe di
profondità gettate a scopo preventivo dal cacciatorpediniere Winslow, ma l’equipaggio della Typhoon, ancora scosso dallo spettacolo
della notte precedente, pensò che si trattasse di un attacco nemico, abbandonò
precipitosamente la nave sulle lance e rientrò a remi nel vicino porto.
Successivamente la
nave solcò il Mar dei Caraibi facendo parte di numerosi convogli: il CW 3 (Cristobal-Guantanamo,
7-13 luglio 1942), il KW 21 (Key West, 10 settembre 1942-L’Avana), il KG 602 (Key
West-Guantanamo, 15-19 settembre 1942), il GAT 7 (Guantanamo-Trinidad, 20-27
settembre 1942), il TAG 9 (Trinidad-Guantanamo, 27settembre-2 ottobre 1942),
l’AW 5 (Aruba-Curacao, fine settembre-inizio ottobre 1942), il GK 709 (Guantanamo-Key
West, 11-14 ottobre 1942), il GAT 16 (Guantanamo-Trinidad, 22-28 ottobre 1942),
il TAG 16 (Trinidad-Guantanamo, 25-31 ottobre 1942), il GAT 21 (Guantanamo-Trinidad,
11-17 novembre 1942), il CK 314 (L’Avana-Key West, 3-4 dicembre 1942), l’HK 126
(Galveston Bar-Key West, 12-17 dicembre 1942), il GAT 33 (Guantanamo-Trinidad,
29 dicembre 1942-3 gennaio 1943), il TAG 34 (Trinidad-Guantanamo, 4-9 gennaio
1943), il GAT 39 (Guantanamo-Trinidad, 22-27 gennaio 1943), il TAG 38 (Trinidad-Guantanamo,
24-29 gennaio 1943), il GAT 55 (Guantanamo-Trinidad, 9-15 aprile 1943), il TAG
56 (Trinidad-Guantanamo, 24-29 aprile 1943), il GAT 61 (Guantanamo-Trinidad,
9-16 maggio 1943), il GK 754 (Guantanamo-Key West, 28-31 agosto 1943), l’HK 163
(Galveston Bar-Key Est, 1-5 dicembre 1943), il KG 674 (Key West-Guantanamo, 5-8
dicembre 1943) ed il GZ 53 (Guantanamo-Cristobal, 15-19 dicembre 1943).
Il 19 ottobre 1943 la
Typhoon venne noleggiata «a scafo
nudo» dalla Maritime Commission’s War Shipping Administration alla United
States Navy, che il 10 febbraio 1944 la mise in servizio come «mobile station
tanker» (cioè, nave cisterna da impiegarsi come deposito itinerante di
carburante in basi navali remote, dove non erano disponibili dei depositi veri
e propri: questo fu l’uso cui furono destinate molte petroliere italiane
catturate in acque americane) con il nome di Villalobos (assegnato il 3 novembre 1943) e la sigla IX-145. Il
secondo cambiamento di nome rimase però per lungo tempo tale solo sul piano
formale, perché la nave continuò ad essere chiamata, nei documenti
statunitensi, col suo precedente nome di Typhoon.
Per il servizio militare,
la nave fu armata con un cannone singolo a doppio scopo da 76/50 mm, tre
mitragliere contraeree binate da 40 mm ed otto mitragliere contraeree singole
da 20 mm. Il suo dislocamento era di 12.000 tonnellate e la velocità risultò
essere di dieci nodi; la sua capacità di carico di carburante fu di 51.300
barili. L’equipaggio era composto da 133 uomini.
Impiegata nel teatro
del Pacifico, sotto la bandiera a stelle e strisce la ex Colorado ebbe un’attività alquanto intensa: come parte della flotta
di supporto, infatti, prese parte allo sbarco e presa di Tarawa (2-8 dicembre
1943), venendo poi ormeggiata nella laguna di quell’atollo ed impiegata nel
rifornimento delle navi adibite compiti di scorta e copertura per l’operazione
«Galvanic» (invasione delle isole Gilbert). Successivamente, imbarcate truppe a
bordo ed assegnata al Task Group 51.7 del North Garrison Group (insieme al
cacciatorpediniere di scorta Sederstrom
ed alla nave mercantile Titan), prese
parte all’operazione «Flintock» (conquista delle isole Marshall) appoggiando l’occupazione
degli atolli di Kwajalein e Majuro (7-8 febbraio 1944). Nell’aprile 1944
stazionò a Milne Bay, in nuova Guinea, rifornendo diverse unità statunitensi.
Sempre con compiti di
trasporto e rifornimento, la Typhoon
partecipò ancora alla battaglia di Saipan (27 luglio-9 agosto 1944) ed a quella
di Guam (8-9 agosto 1944), inquadrata nel Task Group 51.6 (a Guam, la nave si
ormeggiò nel porto di Apra il 3 agosto e sbarcò rifornimenti dal 3 al 6
agosto). In agosto e settembre la Typhoon
fu impiegata nel Pacifico occidentale, ed il 24 ottobre salpò da Ulithi per
Eniwetok, assegnata al Task Group 31.5. Fino alla fine del 1944 venne
utilizzata come deposito galleggiante di combustibile tra Ulithi ed Eniwetok.
Fu in questo periodo
che il cambiamento di nome in Villalobos
divenne una realtà; la nave venne assegnata al Service Squadron 9 della Service
Force dell Flotta del Pacifico.
Il 15 aprile 1945 la Villalobos lasciò Hollandia, in Nuova
Guinea, diretta a Mios Woendi (arcipelago di Padaido, nell’Indonesia), dove
giunse tre giorni dopo. Qui rimase fino a metà estate, rifornendo navi
mercantili e corvette australiane di lubrificanti ed altri derivati del
petrolio.
Il 15 agosto 1945 la
petroliera lasciò Mios Woendi diretta nelle Filippine; fece scalo a Morotai il
18 agosto e giunse a Zamboanga il 19 agosto, ancorandosi nello stretto di
Basilan. La guerra, intanto, era finita: il Giappone si era arreso il 15
agosto.
La Villalobos rimase all’ancora a Mindanao
fino a novembre, ancora impiegata come «station tanker» per rifornire di
carburante piccole navi mercantili statunitensi. Il 7 novembre la nave ripartì
diretta a Palawan, rimorchiando il rimorchiatore dell’Esercito YT-15, ed arrivò a Puerto Princessa il 9
novembre. Da qui proseguì verso Pedro Bay, nell’isola di Leyte (Filippine),
dove arrivò sempre rimorchiando lo YT-15.
Terminato il suo compito anche qui, la nave raggiunse la Ship Repair Base
sull’isola di Manicani (al largo di Samar) e venne quasi subito visitata da una
squadra d’ispezione, che raccomandò di tenerla in servizio finché fosse stato
necessario.
Dall’1 al 17 dicembre
1945 la nave rimase all’ancora nelle acque di Manicani, poi ripartì per Subic
Bay, dove si sarebbe preparata al suo “addio alle armi”.
Solo il 16 febbraio
1946 la Villalobos venne disarmata a
Subic Bay e poco dopo (26 febbraio) radiata dai quadri della US Navy. Nei suoi
due anni con la U. S. Navy si era guadagnata tre “battle stars”.
L’Executive Order
9935, firmato il 16 marzo 1948 dal presidente statunitense Harry S. Truman,
dispose la restituzione al governo italiano di 14 navi mercantili italiane
catturate dagli Stati Uniti (o loro consegnate da Paesi sudamericani loro
alleati, dopo la cattura) nel 1941; tra di esse anche la Villalobos che, curiosamente, nel testo dell’Executive Order non
venne elencata con questo nome bensì ancora come: “Typhoon (ex Colorado)”.
Secondo una fonte, nel 1946 la nave (dopo la radiazione dai quadri del naviglio
militare) era tornata ad assumere il nome di Typhoon, il che spiegherebbe questa apparente incongruenza.
Il 31 agosto 1948 la
petroliera venne trasferita a Manila dalla Maritime Commission alla società di
navigazione Petroleum di Genova, la sua vecchia compagnia armatrice, tornando
così sotto bandiera italiana ad oltre sette anni dalla cattura.
Il logorante servizio
bellico, unitamente all’età avanzata, dovevano però aver ridotto l’ex Colorado in uno stato tale da
sconsigliarne un ulteriore utilizzo (per una fonte, però isolata e non
confermata, la nave era addirittura affondata nella Subic Bay): la pirocisterna
venne infatti avviata alla demolizione già nel 1948 (o 1949), in Estremo
Oriente, senza nemmeno aver fatto ritorno in Italia.
Nessun commento:
Posta un commento