giovedì 25 gennaio 2018

Romolo

Il varo del Romolo (da “Gli squali dell’Adriatico” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it)

Sommergibile da trasporto della classe R (dislocamento di 2210 tonnellate in superficie e 2606 in immersione).
Il progetto della classe R nasceva dalla necessità dell’approvvigionamento di materie prime d’importanza strategica che nel 1942, in Europa, iniziavano ormai a mancare, e che potevano essere reperite soltanto oltremare: stagno, zinco, e soprattutto caucciù (gomma naturale). Per Italia e Germania, l’unica soluzione era di procurarsi queste materie prime, necessarie allo sforzo bellico, nei territori dell’Estremo Oriente occupati dall’alleato Giappone. Il problema principale stava nel trasportare tali materie prime dall’Estremo Oriente all’Europa: i mercantili violatori di blocco erano esposti a rischi sempre crescenti, e ben pochi riuscivano a sfuggire alla caccia delle forze aeronavali Alleate, che di fatto controllavano gli oceani. I sommergibili, sebbene in grado di trasportare una quantità molto minore di merci, davano una maggiore garanzia di poter completare con successo la traversata. Allo scopo, venne progettata, e poi attuata, la conversione in unità da trasporto di alcuni sommergibili oceanici della base di Betasom (appartenenti alle classi Calvi, Liuzzi e Marconi); ma anche per le più grandi tra questi, la capacità di carico non poteva superare di molto le 200 tonnellate, quantitativo assai modesto.
Per questo motivo, venne decisa la realizzazione di una classe di sommergibili di grandi dimensioni, appositamente concepiti per il trasporto occulto e lo scambio di merci e materiali pregiati da e per l’Estremo Oriente: la classe R, per l’appunto. Furono i primi ed unici sommergibili da trasporto progettati e costruiti come tali per la Regia Marina.
Il progetto selezionato come corrispondente alle specifiche tecniche della Marina fu quello messo a punto dai cantieri Franco Tosi di Taranto; le prime due unità della classe, Romolo e Remo, furono impostate presso tali cantieri nell’estate del 1942 (anche se una fonte fa risalire il progetto ad inizio 1941, e l’ordinazione delle prime due unità al luglio 1941). In tutto, la classe avrebbe dovuto comprendere dodici unità; le altre dieci (denominate semplicemente da R 3 a R 12), la cui costruzione venne distribuita tra i cantieri Tosi (4 sommergibili), i CRDA di Monfalcone (3) ed i cantieri OTO di La Spezia (3), furono ordinate nell’estate 1942 (per la loro costruzione si sarebbero utilizzati materiali forniti dalla Germania) ed impostate molto più tardi, tra il febbraio ed il maggio del 1943, e non giunsero mai al completamento, nonostante la priorità data alla costruzione degli "R" rispetto a quella dei sommergibili di altri tipi. La torretta di una di esse, l’R 12, varato dai tedeschi dopo l’armistizio ed usato come pontone nel dopoguerra, è oggi esposta a Gaeta – restaurata dopo molte traversie – come monumento ai 3021 sommergibilisti italiani che non fecero mai più ritorno: tra di essi, anche la quasi totalità degli equipaggi degli sfortunati gemelli Romolo e Remo.

I sommergibili classe R furono, in termini di dislocamento, le più grandi unità subacquee mai costruite per la Marina italiana. Appartenevano al tipo a doppio scafo parziale, detto «Cavallini», ma all’interno erano radicalmente diversi rispetto a tutti gli altri sommergibili italiani, essendo nati per trasportare merci, anziché per attaccare navi nemiche.
Per il trasporto di materiali, gli "R" erano dotati di quattro stive di carico a tenuta stagna, due a proravia della camera di manovra e due a poppavia della stessa, per una capacità complessiva di 610 metri cubi; ciò li rendeva in grado di trasportare 600 tonnellate di materiali aventi densità media pari a uno, ossia il triplo di quanto potevano caricare i più grandi sommergibili “convertiti” di Betasom, ed il doppio del carico che poteva essere imbarcato sui sommergibili tedeschi tipo X B (sommergibili posamine a lungo raggio, che al Kriegsmarine finì con l’utilizzare come sommergibili da trasporto per via della loro ampia disponibilità di spazi di carico).
Le stive erano ovviamente resistenti alla profondità di collaudo (100 metri), indipendenti tra loro e, se i sommergibili fossero stati completamente scarichi e privi di zavorra, potevano anche essere allagate per essere utilizzate per il “dosaggio” dell’unità. Per il carico e lo scarico delle merci vi erano inoltre, sul ponte di coperta, quattro piccole gru di carico abbattibili, una per ogni stiva.
L’apparato motore, costituito da due motori diesel Tosi della potenza di 2600 CV per la navigazione in superficie, e da due motori elettrici Marelli della potenza di 900 CV per la navigazione in immersione, permetteva una velocità massima in superficie di 14 nodi ed una in immersione di 6,5. Dovendo affrontare traversate oceaniche, l’autonomia era ragguardevole, con una riserva di gasolio di 200 tonnellate: 12.000 miglia a 9 nodi in superficie e 110 miglia a 3,5 nodi (e 90 a 4 nodi) in immersione.
L’armamento, puramente difensivo, consisteva in tre mitragliere contraeree singole Breda 1940 da 20/65 mm su affusti a scomparsa, di nuovo tipo, posizionate una a proravia della torretta, in coperta, e due sulla torretta, nella sua parte poppiera. Vi era un unico periscopio.
Altra caratteristica dei sommergibili classe R era la capacità di immergersi con estrema rapidità, nonostante le loro notevoli dimensioni: 45 secondi. Erano infatti pensati per potersi immergere il più rapidamente possibile in caso di avvistamento. Sempre per permettere loro di immergersi prima di poter essere localizzati, Romolo e Remo vennero dotati di due apparati «Metox», di produzione tedesca, per la rilevazione delle emissioni radar delle altre unità.
Il progetto della classe R fu ritenuto innovativo per il suo tempo; dato però che le uniche unità completate, Romolo e Remo, andarono perdute alla loro prima missione in un momento in cui ormai la situazione della guerra del Mediterraneo era già compromessa per l’Italia (e le perdite di sommergibili molto gravi, a causa dello strapotere aeronavale Alleato), senza poter svolgere il compito loro affidato, non è possibile esprimere una valutazione sulle effettive qualità dei sommergibili di questa classe. Al momento dell’accettazione delle unità non vennero riscontrati particolari problemi, se non che la velocità in superficie risultava inferiore di circa un nodo rispetto a quella prevista dal contratto.
La Marina tedesca si interessò molto ai sommergibili classe R, che avrebbero potuto esserle molto utili per scambiare nuove armi e tecnologia militare con il Giappone, ricevendone in cambio materie prime; ne richieste i piani costruttivi, considerando la possibilità di riprodurli nei propri cantieri, e, dopo l’armistizio, proseguì la costruzione delle sei unità della classe catturate sugli scali a La Spezia e Monfalcone, anche se, causa i bombardamenti Alleati e la mancanza di materiali (ironia della sorte), non riuscì a completarne neanche uno.
 
Il Romolo pronto al varo sullo scalo del cantiere di Taranto, il 21 marzo 1943 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Da parte tedesca, anzi, si fecero pressioni per l’immediato trasferimento in Atlantico degli stessi Romolo e Remo, al fine di impiegarli negli scambi tra tecnologia militare tedesca e materie prime giapponesi che già avvenivano per mezzo dei sommergibili trasformati di Betasom (rotta Bordeaux-Singapore). Questi ultimi, la cui capacità di carico oscillava tra le 100 e le 200 tonnellate per unità, potevano trasportare solo quantità relativamente modeste di materiali; i tedeschi desideravano invece trasferire in Europa quantitativi più rilevanti di materie prime, ed i due "R" in fase di completamento facevano al caso loro: da soli, avrebbero potuto portare la stessa quantità di materiali degli altri sette sommergibili modificati di Betasom. Già nel maggio 1943, prima ancora che Romolo e Remo venissero ultimati, l’ammiraglio Karl Dönitz, comandante della flotta subacquea tedesca, richiese alla Marina italiana di inviare i due sommergibili in Atlantico, non appena fossero stati completati, per impiegarli nel trasporto della gomma dall’Estremo Oriente. In cambio, la Kriegsmarine avrebbe ceduto alla Regia Marina altri due moderni U-Boote “d’attacco” in aggiunta ai nove del tipo VII C (ribattezzati, in Italia, “classe S”) già trasferiti sotto bandiera italiana quale compensazione per la trasformazione in unità da trasporto dei sommergibili di Betasom.
Se fosse giunta in un altro momento, probabilmente la proposta sarebbe stata accettata (d’altro canto, i sommergibili classe R erano nati proprio per questo impiego); ma nel maggio 1943 la posizione dell’Italia nel Mediterraneo si era ormai fatta critica. Caduta la Tunisia, risultava evidente che a breve gli Alleati avrebbero lanciato il loro attacco contro l’Italia stessa, ed il crescendo dei bombardamenti aerei stava sconvolgendo il sistema stradale e ferroviario della Penisola; i collegamenti con le isole maggiori risultavano sempre più deficitari, a causa dell’intensificata attività offensiva aeronavale degli Alleati in Mar Tirreno, ed era prevedibile che proprio una di tali isole – Sicilia o Sardegna – sarebbe stata l’obiettivo del prossimo attacco angloamericano.
In questo quadro dalle tinte fosche, la disponibilità dei due sommergibili da trasporto era ritenuta fondamentale per il mantenimento dei collegamenti; pertanto, sia Supermarina che, ancor più, il Comando Supremo respinsero la proposta tedesca. Il 15 giugno 1943 il capo di Stato Maggiore Generale, generale Vittorio Ambrosio, scrisse al capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, una lettera nella quale ricordava le circostanze sopra descritte (deficienze nei rifornimenti delle isole maggiori, prevedibile prossimo attacco contro di esse) e prospettava la necessità, in caso di invasione Alleata di una delle isole, di dovervi inviare dei rifornimenti essenziali che, in determinate circostanze, non avrebbero potuto giungere a destinazione se non per mezzo di sommergibili. Inoltre, scriveva Ambrosio, Romolo e Remo dovevano essere utilizzati per il trasporto occulto dalla Sardegna al continente di metalli necessari all’industria bellica italiana, provenienti dalle miniere dell’isola, senza i quali la produzione industriale sarebbe entrata in crisi.
L’ammiraglio Riccardi, nella sua risposta ad Ambrosio, si mostrò più propenso ad accettare le proposte tedesche: la cessione di due moderni sommergibili tedeschi sarebbe andata a rimpinguare la flotta subacquea italiana, duramente provata dalle gravi perdite subite negli ultimi mesi, mentre per le esigenze di collegamento tra l’Italia e le isole maggiori, in sostituzione di Romolo e Remo trasferiti a Bordeaux (sulla costa atlantica della Francia, sede di Betasom), si sarebbero potuti convertire in unità da trasporto altri cinque sommergibili oceanici, per i quali l’intensa e prolungata attività operativa aveva ormai ridotto di molto l’efficienza bellica. Ma Ambrosio stroncò ogni possibilità in tal senso: ribadì a Riccardi gli argomenti esposti nella missiva del 15 giugno (attacco imminente alle isole maggiori, probabili grandi difficoltà nei rifornimenti di queste ultime ad assalto iniziato), aggiunse che comunque anche l’attraversamento dello stretto di Giblterra era divenuto pericolosissimo, e concluse che per il momento non era possibile alcuna cessione; se ne sarebbe potuto riparlare «non appena la situazione generale si sarà chiarita, e quando sarà iniziato il gettito degli altri sommergibili da trasporto in allestimento». Questa fu la risposta data a Dönitz, il 26 giugno 1943.
Il rifiuto italiano provocò un certo malumore negli ambienti della Kriegsmarine, dove – come riferì al comandante in capo della squadra sommergibili, ammiraglio Antonio Legnani, il comandante di Betasom, capitano di vascello Enzo Grossi, dopo una visita a Berlino – gli alti ufficiali tedeschi interpretarono questa risposta come una mancanza di volontà di collaborazione da parte dell’Italia, verso la quale la Germania, in quel momento, “era stata prodiga di aiuti di ogni specie” (affermazione, questa, assai discutibile: i tedeschi non avevano dato niente per niente, ed avevano sempre agito primariamente nel loro interesse). Ancora il 5 luglio Dönitz scrisse personalmente a Riccardi per reiterare la propria profferta, ma la risposta fu ancora negativa, e giunse il 17 luglio: per quella data, il destino di Romolo e Remo si era già compiuto.
  

Il Romolo appena varato (sopra: www.wrecksite.eu; sotto: USMM)


La vita del Romolo fu estremamente effimera. Impostato nei cantieri Franco Tosi di Taranto il 21 luglio 1942, venne varato il 21 marzo 1943 ed entrò in servizio il 19 giugno 1943. A testimonianza della priorità data ai sommergibili classe "R", la sua costruzione venne ultimata in meno di un anno, mentre la contemporanea costruzione di unità di dimensioni anche minori richiese molto più tempo (i sommergibili classe Tritone, ad esempio, ebbero tempi di costruzione di circa un anno e mezzo, pur dislocando meno della metà degli "R"). Fu il primo sommergibile della classe R ad entrare in servizio: per questo la classe R è anche chiamata, talvolta, “classe Romolo”.
Le prove in mare, successivamente al varo, iniziarono a metà aprile 1943 e si protrassero fino a giugno, quando avvenne la consegna alla Regia Marina. Il 30 aprile 1943 il Romolo svolse le prove di resistenza dello scafo, scendendo a 103 metri di profondità e trattenendovisi per un quarto d’ora. Alla data della consegna, 19 giugno 1943, restavano ancora da ultimare i collaudi degli idrofoni, del radiogoniometro e del telefono subacqueo; si erano inoltre verificati alcuni problemi relativi al funzionamento dei motori diesel, dello scarico dei gas e del timone orizzontale di poppa, nonché al controllo della rapidità d’immersione, tutto ancora da mettere a punto.
Il 27 giugno il Comando Squadra Sommergibili (Maricosom) stimava che Romolo e Remo sarebbero stati pronti per l’addestramento degli equipaggi il 10 luglio; il 7 luglio Supermarina, in base a tali previsioni, decise di iniziare ad utilizzare il solo Romolo per trasportare 600 tonnellate di munizioni alla base di Augusta, in data da determinare ma “comunque prossima”. Si verificarono però altri ritardi nell’approntamento, relativi alla preparazione per la prova di silenziosità, ai lavori di staffatura dell’intercapedine per lo stivaggio del carico esterno, alla risoluzione di alcuni problemi relativi all’impianto oleodinamico Calzoni (necessario al funzionamento di molti apparati di bordo, a partire da timoni e periscopi), ai motori diesel ed all’installazione dell’apparato Metox. Come se non bastasse, in fase di ormeggio il Romolo aveva urtato la banchina, subendo la deformazione delle strutture leggere della prua, il che richiese alcuni lavori di riparazione, e provocò la sospensione dell’ordine della missione di trasporto verso Augusta, rinviando la partenza al mattino del 14 luglio.
Per i problemi sopra descritti, l’approntamento al carico per il Romolo venne rinviato dalla sera del 9 luglio a quella del 16 luglio, e nel frattempo la prevista missione di rifornimento di Augusta venne stata cancellata ancor prima di cominciare: il 10 luglio 1943 le forze angloamericane erano sbarcate in Sicilia, ed il 13 luglio Augusta era caduta. Proprio questi eventi, d’altro canto, posero ancora maggior pressione verso un rapido approntamento del Romolo e del gemello Remo.
Le prove di collaudo e l’addestramento dell’equipaggio furono condotti molto più affrettatamente rispetto alla norma, riducendo i tempi al minimo, perché in quel momento critico della guerra l’impiego del Romolo e del Remo era urgentemente richiesto per trasportare minerali provenienti dalle miniere della Sardegna: piombo, rame ed antimonio. L’addestramento degli equipaggi fu quindi svolto contemporaneamente all’esecuzione stessa delle prove e dei lavori di messa a punto, nei limiti in cui il cangiante stato di approntamento dei sommergibili lo permetteva. Tutto si svolse tanto freneticamente che tra la data di consegna alla Regia Marina e quella di partenza per la prima missione Romolo e Remo non poterono nemmeno effettuare la programmata foto ufficiale.
L’addestramento dell’equipaggio del Romolo, condotto a ritmo particolarmente intenso, venne prolungato di qualche giorno per via dei lavori che si erano resi necessari in seguito ai collaudi; solo su insistenza del comandante, capitano di corvetta Alberto Crepas, si ottenne di effettuare almeno un’uscita in mare di dieci ore da riservarsi interamente ed esclusivamente all’addestramento, l’unica, che fu svolta il 12 luglio, appena tre giorni prima della partenza per la prima missione. Pur essendo l’addestramento durato molto meno del solito, il grado di preparazione raggiunto dall’equipaggio venne giudicato dal comandante, capitano di corvetta Alberto Crepas, come «sufficiente e soddisfacente». O almeno così sostenne, nel suo rapporto a Mussolini del 22 luglio 1943, l’ammiraglio Arturo Riccardi: ma sull’effettivo grado di preparazione dell’equipaggio, dopo un addestramento svolto in tempi così brevi e nelle condizioni sopra descritte, si possono esprimere seri dubbi. La Commissione d’Inchiesta Speciale istituita sulla perdita del sommergibile, nel dopoguerra, valutò assai diversamente il grado di efficienza del battello e di addestramento dell’equipaggio.
Dato il delicato incarico che sarebbe stato affidato ai due sommergibili, come comandanti erano stati scelti ufficiali di comprovate capacità (il comandante Crepas del Romolo era un veterano della battaglia dell’Atlantico, dove aveva colto alcuni successi al comando del sommergibile Argo), e gli equipaggi erano stati selezionati tra marinai veterani, molti di essi già imbarcati in precedenza su altri sommergibili impiegati in missioni di trasporto; ma sarebbe occorso più tempo per un adeguato affiatamento tra gli uomini e per una buona familiarizzazione con gli apparati delle nuove unità.
Per Romolo e Remo era previsto al più presto il trasferimento in Mar Tirreno, in preparazione del loro impiego nei collegamenti con le isole maggiori, Sardegna in primis. La navigazione di trasferimento sarebbe dovuta avvenire secondo le norme della navigazione occulta, vale a dire in superficie di notte ed in immersione di giorno; lo sbarco angloamericano in Sicilia aveva tuttavia comportato un incremento nell’azione antisommergibili delle forze Alleate nella zona che i due sommergibili avrebbero dovuto inevitabilmente attraversare. La situazione andava peggiorando di giorno in giorno: sempre più frequenti ed estesi pattugliamenti di motosiluranti nemiche, ricognizione area sempre più continua e capillare, avvistamenti di sommergibili avversari nelle acque della Calabria.


Il 14 luglio Maricosom annunciò al II Gruppo Sommergibili di Napoli il prossimo trasferimento di Romolo e Remo in quella sede, e lo stesso mattino il IV Gruppo Sommergibili di Taranto riferì a Supermarina e Maricosom che Romolo e Remo sarebbero stati pronti da mezzogiorno del giorno seguente. Una volta giunti a Napoli, avrebbero caricato dei rifornimenti che avrebbero dovuto trasportare in Sardegna, da dove sarebbero poi rientrati con un carico di materiale ferroso imbarcato a Cagliari.
Dovendo trasferire i sommergibili nel Tirreno il prima possibile, e dovendo giocoforza farli passare nello Stretto di Messina nelle ore diurne (di notte veniva effettuata caccia antisommergibili da parte delle unità italiane, che non avevano modo, ovviamente, di distinguere la nazionalità un sommergibile immerso), Supermarina ordinò al IV Grupsom di Taranto di farli partire non appena fossero stati pronti; venne deciso che i due sommergibili navigassero in superficie (il Romolo sarebbe dovuto passare per i punti 39°00' N e 17°40' E, 37°45' N e 16°12' E e poi 37°45' N, 15°45' E, indi fino al punto «S 1» al largo di Capo dell’Armi, in posizione 37°51' N, 15°41' E), fino ad un punto convenzionale denominato «M 1» (al traverso Capo Vaticano) per passare il prima possibile a nord dello stretto di Messina, indi eseguissero navigazione occulta dal punto «M 1» ad un secondo punto convenzionale, denominato «B 1» (a sud di Capri), da dove avrebbero raggiunto Napoli. Dato che il 13 luglio era stato avvistato un sommergibile avversario sotto costa, nei pressi di Punta Alice, le rotte attraverso i punti intermedi sarebbero passate al centro del Golfo di Taranto, tenendosi lontane dalla costa.
Venne chiesta scorta aerea per entrambi i battelli dall’alba del 16 luglio fino al transito nello stretto di Messina, ma la richiesta fu respinta; in considerazione di ciò, e del fatto che il 16 sarebbe dovuto passare nello stretto il sommergibile Ambra (diretto verso sud), scortato da tre motosiluranti in funzione antisommergibili, alle 12.30 del 15 luglio Supermarina decise che Romolo e Remo svolgessero navigazione occulta anche in Mar Ionio, fino a sudovest della Calabria (zona più pericolosa per gli attacchi aerei angloamericani), accettando che l’arrivo a Napoli avvenisse con un giorno di ritardo, se necessario.
Inizialmente era previsto che il Romolo partisse per primo, ma poco prima della partenza si verificò un’avaria al motore elettrico del timone verticale, che dovette essere riparata in fretta e furia, ritardando la partenza del sommergibile. La precedenza venne allora data al Remo, che partì alle 11 del 15 luglio, mentre il Romolo sarebbe dovuto partire alle 15 o 16, una volta riparata l’avaria.
 
Dettaglio del varo del Romolo – la parte centrale con la torretta (da www.sommergibili.com)

E così, nel pomeriggio del 15 luglio 1943, dopo meno di un mese dalla sua consegna alla Regia Marina, il Romolo, al comando del capitano di corvetta Alberto Crepas, lasciò Taranto per la prima volta, diretto a Napoli.
A bordo c’erano in tutto 62 uomini: 60 membri dell’equipaggio (7 ufficiali, 13 sottufficiali e 40 tra sottocapi e marinai) e due operai civili militarizzati, Giulio Fiumi e Sante Zavatta. Questi ultimi, la cui presenza – e morte – a bordo del Romolo sembra essere ignorata da quasi tutte le fonti che riportano della perdita di questo sommergibile, erano un operaio montatore di garanzia dei cantieri Tosi ed un operaio montatore della ditta Calzoni, imbarcati soltanto per il trasferimento da Taranto a Napoli.
La partenza poté avvenire soltanto 17.26, con un ritardo di due ore rispetto ai programmi, una volta riparato il motore elettrico del timone verticale e sbarcati gli operai dei cantieri Tosi che l’avevano eseguita (ma non Giulio Fiumi e Sante Zavatta, che rimasero a bordo). Lasciata la banchina sommergibili ed uscito dal porto, il Romolo passò alle 18.30 presso il punto «A 2», in cui cominciava la rotta di sicurezza, navigando in superficie.
Alle 20 dello stesso giorno, per i descritti più sopra (decisione di Supermarina delle 12.30 sul prolungamento della navigazione occulta), venne ordinato al Romolo di eseguire navigazione occulta, regolando la navigazione per trovarsi alle 5 del 17 sul meridiano 16° E, da dove avrebbe dovuto eseguire navigazione in immersione anche di notte, per poi emergere a 6 miglia per 212° da Reggio Calabria alle 19 del 17. Qui il Romolo avrebbe incontrato un cacciasommergibili tipo VAS (Vedetta Anti Sommergibili), che lo avrebbe scortato fino a nord dello Stretto di Messina.
Alle 13.37 del 16 luglio, dato che l’incrociatore leggero Scipione Africano sarebbe dovuto transitare anch’esso nello stretto di Messina (per spostarsi, nel suo caso, dal Tirreno allo Ionio, dove doveva raggiungere Taranto), su richiesta di Supermarina venne ordinato al Romolo di regolare la navigazione in modo da trovarsi sul meridiano 16°06’ E alle tre di notte del 17, cominciando in quell’ora la navigazione in immersione verso lo Stretto di Messina (per una versione, tale ordine sarebbe stato trasmesso su onda corta il 15 luglio e poi su onda lunga il 16). Per il resto, gli ordini sull’orario e posizione di emersione davanti a Reggio Calabria restavano invariati. Marina Messina venne avvisata che, per via della lunga navigazione subacquea conseguente a questi nuovi ordini, il sommergibile sarebbe potuto arrivare all’incontro con la VAS di scorta con un ritardo di ventiquattr’ore.
Secondo alcune fonti, che però non sembrano confermate da alcuna documentazione ufficiale, gli Alleati, temendo che Romolo e Remo potessero essere utilizzati per trasportare in Giappone “armi segrete” in corso di sviluppo in Germania (o materiali necessari a realizzarle), avevano attivato la loro rete di spionaggio per controllare i movimenti dei due sommergibili da trasporto, preparandosi a neutralizzarli non appena avessero lasciato il porto. Sarebbero stati dunque predisposti agguati di sommergibili di base a Malta e preparati all’attacco gli aerei nelle basi appena conquistate, in Sicilia, di Comiso e Pachino. Ma, come detto, non risulta nulla di ufficiale; si sa soltanto che “ULTRA”, il servizio di decrittazione britannico dei messaggi in codice dell’Asse, intercettò un messaggio di Maricosom (il Comando della flotta subacquea italiana) delle 13.45 del 16, che riferiva che Remo e Romolo avrebbero dovuto superare il meridiano 16°06’ E rispettivamente alle due ed alle tre di notte del 17. Questa intercettazione, tuttavia, non sembra aver avuto alcun impatto sulla loro perdita: quando essa avvenne il Remo era già stato affondato, mentre la perdita del Romolo, come si vedrà, fu dovuta quasi certamente a cause non collegate ad azione offensiva da parte angloamericana.
Come che siano andate le cose, la prima missione del Romolo fu anche l’ultima: dopo la partenza da Taranto, il sommergibile non diede mai più notizia di sé. Ultima informazione certa al riguardo è il suo passaggio presso il punto «A 2» alle 18.30 del 15 luglio, poi più nulla. Di certo non raggiunse mai lo stretto di Messina; il 5 agosto 1943 Supermarina dichiarò il Romolo «ufficialmente perduto», e l’equipaggio venne considerato disperso in tale data.
Anche il Remo, partito poche ore prima del Romolo, andò perduto lo stesso giorno della partenza, affondato dal sommergibile britannico United nel Golfo di Taranto.


Scomparve col Romolo l’intero equipaggio:

Giuseppe Aquilina, secondo capo motorista
Giovanni Aurilia, sottocapo silurista
Giancarlo Bagnasco, guardiamarina (ufficiale di rotta)
Alfredo Barone, sottocapo motorista
Umberto Biondi, capo nocchiere di terza classe
Alfio Bonanni, marinaio
Federico Brancati, sottocapo radiotelegrafista
Ugo Busarello, marinaio cannoniere
Angelo Calò, marinaio nocchiere
Aldo Camagni, marinaio elettricista
Mauro Capece, marinaio nocchiere
Pasquale Carreras, sottocapo silurista
Cornelio Cazzanelli, marinaio
Sergio Cecchi, capitano del Genio Navale (direttore di macchina)
Lorenzo Colacicco, secondo capo furiere
Giuseppe Colombo, sottocapo torpediniere
Lauro Coppola, secondo capo cannoniere
Alberto Crepas, capitano di corvetta (comandante)
Raffaele Cuben, sottocapo motorista
Giuseppe Cundari, sottocapo cannoniere
Carlo Dal Pino, tenente di vascello (comandante in seconda)
Rolando Donati, marinaio motorista
Antonio Finotti, marinaio finotti
Giulio Fiumi, operaio militarizzato
Angelo Fusari, marinaio cannoniere
Pietro Gambarano, marinaio silurista
Mauro Gasparotti, sergente nocchiere
Marco Gianola, sottocapo meccanico
Faone Grasselli, sottocapo radiotelegrafista
Simone Iannuzzi, sottocapo radiotelegrafista
Carlo Licari, sergente meccanico
Angelo Lippo, marinaio elettricista
Guglielmo Lucchini, secondo capo elettricista
Carmelo Luparelli, secondo capo silurista
Luigi Macculi, sottocapo radiotelegrafista
Giordano Macorini, marinaio motorista
Michele Mangarella, marinaio fuochista
Ugo Mannucci, marinaio fuochista
Sebastiano Mondi, marinaio nocchiere
Edoardo Moscatelli, capo motorista di prima classe
Giuseppe Nichil, sottocapo fuochista
Donato Orlando, marinaio furiere
Orlando Orsucci, marinaio silurista
Dario Pacini, sergente elettricista
Mario Pepe, marinaio silurista
Salvatore Pezzino, tenente del Genio Navale (sottordine di macchina)
Amodio (o Amadio) Polini, sottocapo nocchiere
Renato Pollice, sottocapo segnalatore
Giulio Ragazzini, sottocapo cannoniere
Renzo Razzi, sottocapo elettricista
Aldo Rebuffi, sottotenente del Genio Navale (sottordine di macchina)
Enzo Rizzato, secondo capo radiotelegrafista
Vincenzo Rizzi, marinaio cannoniere
Francesco Rizzo, sergente elettricista
Giuseppe Salmeri, marinaio nocchiere
Domenico Sassi, sottocapo silurista
Trieste Sergi, marinaio nocchiere
Guerrino Tommasin, secondo capo motorista
Fausto Trabalza, sottocapo radiotelegrafista
Lucio Turba, aspirante guardiamarina (ufficiale sottordine)
Luigi Xella, marinaio cannoniere
Sante Zavatta, operaio militarizzato


Le cause della scomparsa del Romolo rimangono avvolte dal mistero. Una settimana dopo la loro partenza da Taranto, il 22 luglio 1943, il capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, consegnò a Benito Mussolini (che appena tre giorni dopo sarebbe stato rimosso dal potere) un rapporto sulla perdita del Romolo e del Remo. Veniva esclusa la possibilità dell’urto contro una mina, per via dei fondali troppo profondi sui quali si sarebbe dovuta svolgere la navigazione (impossibile ancorarvi delle mine); un attacco di motosiluranti era ritenuto improbabile, in quanto si riteneva che esse fossero state concentrate a Capo dell’Armi per attaccare lo Scipione Africano (che nelle prime ore del 17 era stato assalito da alcune motosiluranti, respingendole ed affondandone una) e non ne erano state avvistate da nessun’altra parte. Un attacco aereo era considerato possibile, dato che un sommergibile italiano era già stato affondato, e diverse altre unità seriamente danneggiate, da aerei nemici nella zona considerata; d’altro canto, di solito venivano sempre intercettate e decifrate comunicazioni degli aerei nemici che riferivano di avvistamenti ed attacchi ai danni di sommergibili, mentre questa volta non si era intercettata nessuna comunicazione che potesse fare riferimento ad un attacco ai danni del Romolo (o del Remo). L’azione di sommergibili era ritenuta la causa più probabile, dato anche che un sommergibile nemico era stato avvistato sotto costa a Punta Alice. Anche per questo motivo, le rotte che Romolo e Remo avrebbero dovuto seguire erano state spostate più al centro del Golfo di Taranto; nel rapporto di Riccardi si ipotizzava tuttavia che, dopo il bombardamento navale di Crotone del 22, il sommergibile avvistato a Punta Alice potesse aver avuto ordine di portarsi al centro del Golfo di Taranto per poi spostarsi verso Taranto per tener d’occhio gli spostamenti delle navi da battaglia italiane; durante tali spostamenti, sarebbe stato assai probabile che il battello nemico incontrasse il Romolo e/o il Remo, che le loro grandi dimensioni rendevano peraltro facilmente avvistabili.
Nel dopoguerra, tuttavia, la consultazione della documentazione britannica mostrò che, mentre il Remo era stato effettivamente affondato da un sommergibile (c’erano stati anche quattro sopravvissuti, che poterono raccontare quanto era accaduto), nessun battello nemico aveva compiuto attacchi che potessero aver portato alla perdita del Romolo.
Sulla sparizione del Romolo venne istituita una Commissione d’Inchiesta Speciale (C.I.S.), che esaminò tutte le informazioni disponibili sull’ultimo viaggio dello sfortunato battello. Il fatto che non fosse giunto davanti a Reggio Calabria alle 19 del 17 luglio venne imputato alla restrizione della navigazione occulta fino alle 3 del 17 e poi per la navigazione in immersione anche nelle ore notturne, il che avrebbe potuto causare l’accumulazione di un serio ritardo, facendo perdere al Romolo il previsto appuntamento a Reggio. La stessa Supermarina aveva considerato questa eventualità, ed il 18 luglio 1943 aveva informato Marina Messina che il Romolo sarebbe potuto giungere all’appuntamento col VAS di scorta, nel punto previsto in cui sarebbe dovuto emergere al largo di Reggio Calabria, con un ritardo di ventiquattr’ore.
Il 1° agosto 1947 il Naval Intelligence Department della U.S. Navy trasmise all’Ambasciata italiana un rapporto relativo ad un attacco aereo, compiuto da un bombardiere Vickers Wellington del 221st Squadron, l’HZ 116 "B" (sottotenente Austin), alle 3.20 del 18 luglio 1943, a sud di Capo Spartivento. Decollato da Malta alle 00.50 del 18 luglio, alle 3.20 il Wellington aveva attaccato in posizione 37°20’ N e 16°15’ E un sommergibile del dislocamento stimato di mille tonnellate e di colore scuro che navigava in superficie, sganciando un grappolo di cinque bombe da 250 libbre. Il grappolo aveva inquadrato il sommergibile, esplodendo tutt’intorno (una bomba a sinistra della torretta, un’altra 6 metri a dritta della prua, un’altra ancora a nove metri dallo scafo), ed una singola bomba era esplosa sotto il suo scafo; apparentemente impossibilitato ad immergersi a causa dei danni subiti, il sommergibile aveva reagito col fuoco di una mitragliera era rimasto immobile per una ventina di minuti, poi aveva rimesso in moto seguendo una rotta irregolare verso la costa (circa 010°), a bassa velocità (3-5 nodi), lasciandosi alle spalle abbondanti quantità di motorina (evidentemente fuoriuscita dai serbatoi danneggiati). Il Wellington aveva seguito il sommergibile per due ore e mezza; l’ultima volta che lo aveva visto, alle 5.50, questi era ancora a galla ed in moto, ad una quindicina di miglia dalla costa. L’esito di questo attacco era stato valutato dai britannici come probabile lieve danneggiamento di un U-Boot tedesco.
Da parte italiana, la C.I.S. ritenne che il sommergibile attaccato dall’aereo di Austin fosse proprio il Romolo: la successiva sparizione e la mancanza di sopravvissuti, nonostante il tempo buono e la vicinanza della costa, erano attribuite ad un affondamento repentino per probabile esplosione interna, nel locale batterie (si riteneva che al momento dell’attacco le batterie fossero sotto carica, con produzione di idrogeno) o nel deposito munizioni (od anche delle bombole dell’aria compressa), verificatasi in un secondo tempo (dopo che l’aereo se ne era andato) per conseguenza dei danni subiti nell’attacco.
Il fatto che il presunto Romolo stesse navigando in superficie, il 18 luglio, al largo di Capo Spartivento venne giustificato con qualche evento che doveva aver reso impossibile, per il sommergibile, di rispettare l’ordine di navigare in immersione dalle 3 del mattino del 17, di trovarsi a quell’ora presso il meridiano 16°06’E e di raggiungere poi, alle 19 del 17 luglio, il punto di emersione e di appuntamento con la scorta davanti a Reggio Calabria. La C.I.S. ipotizzò che durante la navigazione di trasferimento il Romolo dovesse essere incorso in qualche avaria, del tutto possibile per un sommergbile alla sua prima missione di guerra, che avesse provocato un ritardo e l’avesse costretto a navigare in superficie per provvedere alle riparazioni; oppure, che la restrizione relativa alla navigazione occulta fosse all’origine del presunto ritardo, che avrebbe portato il sommergibile a navigare in superficie per ricaricare le batterie. Le coordinate dal Wellington come posizione dell’attacco, indicando un punto distante oltre 40 miglia dalla costa (dove il Romolo non sarebbe mai dovuto essere), vennero attribuite ad un errore dell’equipaggio del velivolo.
Nel 1949 l’ammiraglio Raffaele De Courten convalidò le conclusioni della Commissione d’Inchiesta Speciale ed elogiò il comportamento del comandante Crepas (che aveva sempre prestato servizio di guerra al comando di sommergibili nonostante soffrisse di una osteoartrosi deformante del tratto lombare della colonna vertebrale) e del suo equipaggio, proponendo per il primo la Medaglia d’Argento al Valor Militare e per gli altri la Croce di Guerra al Valor Militare.
 
Dettaglio del varo del Romolo – la prua (da “Gli squali dell’Adriatico” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999)

Un dettagliato articolo AIDMEN (Associazione Italiana Documentazione Marittima E Navale) del 2015, a firma del ricercatore Domenico Clarizia, tuttavia, mette in dubbio le conclusioni della Commissione d’Inchiesta Speciale.
In primo luogo, la posizione in cui si verificò l’attacco del Wellington, 37°20’ N e 16°15’ E (circa 45 miglia a sud di Capo Spartivento), risulta – come già detto – troppo lontana dalla rotta che il Romolo avrebbe dovuto seguire: risulta del tutto improbabile che il sommergibile potesse venirsi a trovare in quella posizione, attenendosi alle disposizioni ricevute circa la rotta da seguire. Come già accennato, la C.I.S. aveva “risolto” questa incongruenza ipotizzando che, dato che nel rapporto del Naval Intelligence Department dell’U.S. Navy risultava che il Wellington avesse seguito il sommergibile per un paio d’ore, lasciandolo a 15 miglia dalla costa, la posizione indicata non sarebbe stata attendibile. Ma questa conclusione sembra posare su presupposti alquanto labili.
Inoltre, gli ordini impartiti al Romolo alla partenza erano di navigare in superficie fino al traverso di Capo Vaticano e attraversare lo stretto di Messina il 16 luglio, ordini poi modificati per due volte, dopo la partenza, con la disposizione che il sommergibile effettuasse navigazione occulta ed in immersione in modo da trovarsi all’altezza di Capo Spartivento prima alle cinque del mattino del 17, e poi (seconda modifica) alle tre di notte dello stesso giorno. Per poter essere nella posizione in cui si trovava il sommergibile attaccato dal Wellington, all’ora in cui avvenne l’attacco (3.20 del 18), il Romolo avrebbe dovuto essere in ritardo di circa ventiquattr’ore. La Commissione d’Inchiesta Speciale aveva ipotizzato, a questo proposito, che il Romolo avesse effettivamente accumulato tale ritardo a causa di qualche avaria o di altri ritardi nella navigazione; ma non si spiega perché il Romolo, che doveva avere un appuntamento con una VAS per attraversare lo stretto di Messina, non abbia annunciato tale ritardo (che poteva avere gravi conseguenze) via radio. Se anche la radio fosse stata in avaria, il sommergibile avrebbe potuto raggiungere Crotone per riferire delle avarie ed eventualmente richiedere assistenza.
Dalla documentazione britannica, risultano due attacchi svolti da aerei ai danni di sommergibili in Mar Ionio, ad est della Sicilia, tra il 17 ed il 18 luglio 1943: uno è il citato attacco svolto dal Wellington di Austin; l’altro, un attacco svolto dal Wellington MP 617 "K" del 221st Squadron R.A.F. (tenente W. Lewis) che, decollato da Malta alle 20.44 del 17, alle 22.30 attaccò in posizione 37°19’ N e 16°41’ E un grosso sommergibile italiano col lancio di cinque bombe di profondità, una delle quali esplose sotto lo scafo del sommergibile, che venne anche mitragliato dall’aereo (che mise a segno vari colpi alla base della torretta). Dopo l’attacco, il sommergibile rimase in superficie, girando in cerchio come se fosse fuori controllo, mentre fumo e vapori uscivano dalla torretta. L’ultima volta che fu visto dall’aereo, il sommergibile era ancora in superficie, su rotta 047°; alcuni cacciatorpediniere, guidati sul posto dalle segnalazioni del Wellington, non riuscirono a trovarlo. Da parte britannica si ritenne che il Wellington avesse probabilmente danneggiato gravemente un U-Boot tedesco. È interessante notare che la storiografia ufficiale neozelandese, nel capitolo 7 (“Sicily”) del terzo volume dell’opera “New Zealanders with the Royal Air Force”, scritta dal colonnello H. L. Thompson ed edita dal Department of Internal Affairs di Wellington, menziona questo attacco come diretto contro il Romolo, aggiungendo che cinque ore dopo il sommergibile fu nuovamente attaccato da un Wellington del 221st Squadron (evidentemente quello di Austin), subendo ulteriori danni. Da parte neozelandese si ritiene quindi che entrambi gli attacchi di quella notte fossero stati diretti contro lo stesso sommergibile, e che questi fosse il Romolo, del quale Thompson scrive inoltre: “Durante le successive quarantott’ore, dei Baltimore avvistarono per due volte il Romolo che avanzava lentamente a quota periscopica, ma non raggiunse mai il porto e non ci furono sopravvissuti”. In realtà, che il sommergibile attaccato dall’aereo di Lewis non potesse essere il Romolo lo si nota anche da un particolare menzionato dalla stessa storia ufficiale neozelandese: dopo lo sgancio delle bombe da parte di Lewis, il sommergibile aprì il fuoco con il cannone di poppa. Ma i sommergibili classe R non avevano alcun cannone di poppa: l’avevano, invece, i sommergibili della classe Marcello, cui apparteneva il Dandolo, il vero sommergibile attaccato da Lewis.
Da parte dell’Asse, infatti, vengono registrati due attacchi verificatisi ai danni di sommergibili nella zona “incriminata” e nei giorni in cui scomparve il Romolo: uno contro il sommergibile Dandolo, che alle 22.25 del 17 fu assalito nel punto 37°22’ N e 16°52’ E da un velivolo che gli sganciò contro sei bombe, danneggiandolo gravemente e costringendolo a rifugiarsi a Crotone; l’altro contro il sommergibile Ambra, che alle 3.20 del 18 fu attaccato 45 miglia a sud di Capo Spartivento da un aereo che gli sganciò contro sei bombe (che esplosero vicinissime, ai lati del sommergibile, sotto lo scafo), danneggiandolo gravemente e mettendolo nell’impossibilità d’immergersi. Rimasto inizialmente immobilizzato, l’Ambra era riuscito faticosamente a rimettere in moto dopo un po’, ed a raggiungere Messina.
Dal confronto tra orari e posizioni degli attacchi, risulta piuttosto evidente che i due attacchi eseguiti dai Wellington tra la sera del 17 e la notte seguente coincidono alla perfezione con i due attacchi riportati da Dandolo ed Ambra: il Dandolo era il sommergibile attaccato dall’aereo di Lewis alle 22.25/22.30 del 17, mentre l’attacco cui la C.I.S. aveva attribuito la perdita del Romolo, eseguito alle 3.20 del 18 dal Wellington del sottotenente Austin, era stato in realtà diretto contro l’Ambra, che aveva subito gravi danni ma era sopravvissuto. Anche i dettagli tra i rapporti di Austin e dell’Ambra (bombe esplose tutt’attorno e sotto lo scafo, sommergibile impossibilitato ad immergersi e temporaneamente immobilizzato) combaciano.
Viene così a perdere ogni fondamento la conclusione della Commissione d’Inchiesta Speciale, finora sempre riportata da tutte le fonti, secondo cui il Romolo sarebbe stato affondato da un attacco aereo il 18 luglio 1943: quell’attacco aereo aveva in realtà danneggiato gravemente l’Ambra, e nulla centrava col Romolo. Dato che non esistono notizie di altri attacchi aerei eseguiti in ora e luogo compatibili con la scomparsa del Romolo, l’attacco aereo non risulta più una ipotesi plausibile.
Dal momento che non vi sono nemmeno rapporti di sommergibili, navi di superficie o motosiluranti, tra il 15 ed il 17 luglio 1943, che riferiscano di attacchi lungo la rotta che il Romolo avrebbe dovuto seguire, le cause della perdita del sommergibile rimangono del tutto sconosciute.
Considerati l’affrettato allestimento dell’unità ed altrettanto sbrigativo addestramento dell’equipaggio, di cui si è già parlato, e l’avaria al timone verticale prima della partenza, frettolosamente riparata, non sembra inverosimile che il Romolo possa essere andato perduto per un incidente.
Sulla probabilità di tale causa convergono sia Clarizia che lo storico Francesco Mattesini ed un altro ricercatore, Platon Alexiades. Quest’ultimo analizza più a fondo le possibili cause della perdita del Romolo: in particolare, una vaga possibilità potrebbe essere rappresentata anche da un campo minato che il sommergibile britannico Rorqual aveva posato, il 15 maggio 1943, ad un paio di miglia da Punta Stilo. Queste mine erano regolate per “autoaffondarsi” il 21 giugno (ed alcune di esse erano state frattanto dragate da dragamine italiani), dunque in teoria non avrebbero più dovuto esserci al momento del passaggio del Romolo, e per giunta il Romolo sarebbe dovuto passare a quasi 15 miglia da Punta Stilo. Esiste però la possibilità che alcune delle mine non si siano autoaffondate come programmato (non sempre il dispositivo di autoaffondamento funzionava), e che il comandante del Romolo possa aver deciso di passare più vicino alla costa (ad esempio, per recuperare un po’ di tempo, essendo in ritardo sulla tabella di marcia), così finendo su una mina ancora funzionante. Ma le probabilità che entrambe queste condizioni si siano verificate sono piuttosto basse. Altra possibilità da considerare è che il Romolo sia finito accidentalmente su un campo minato difensivo italiano mentre si allontanava da Taranto; ma la rotta che avrebbe dovuto seguire passava piuttosto lontano da tali campi minati, anche se non si può del tutto escludere la possibilità dell’urto contro una mina alla deriva.
Infine, l’ipotesi forse più probabile, è quella di un incidente in fase immersione, considerando sia i già citati problemi relativi all’efficienza dell’unità, all’addestramento dell’equipaggio ed all’avaria occorsa prima della partenza, sia il fatto che i sommergibili classe R avevano un sistema per l’immersione con caratteristiche differenti rispetto a quello in uso sugli altri sommergibili italiani, al fine di garantire un’immersione più rapida.
Cosa sia effettivamente accaduto al Romolo, con ogni probabilità, è destinato a rimanere un quesito insoluto.
 
(Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)

venerdì 19 gennaio 2018

Veloce

Il Veloce con l’originario nome di Media (Sjöhistoriska museet)

Piroscafo da carico di 5464 tsl e 3362 tsn, lungo 125 metri, largo 16,2 e pescante 9,1, con velocità di 13 nodi. Appartenente all’armatore Achille Lauro di Napoli ed iscritto con matricola 443 al Compartimento Marittimo di Napoli, nominativo di chiamata ICMJ.

Breve e parziale cronologia.

5 ottobre 1911
Varato nel cantiere di Linthouse della Alexander Stephen & Sons Ltd. di Govan (Glasgow) come Media (numero di cantiere 445).
1911
Completato come britannico Media per la Anchor Line Ltd. (Henderson Brothers) di Glasgow. Porto di registrazione Glasgow, stazza lorda e netta originarie 5437 tsl e 3359 tsn. Ha una nave gemella, l’Anchoria; entrambi i piroscafi vengono posti in servizio sulla linea Glasgow-Liverpool-Calcutta.
20 luglio 1912
Trasferito alla T. & J. Brocklebank Ltd. di Liverpool (o Glasgow), la quale ha acquistato i diritti di “conferenza marittima” della Anchor Line sulla tratta per Calcutta e, insieme ad essi, ha rilevato anche i quattro piroscafi che vi prestavano servizio, compreso il Media. Nominativo di chiamata GSCJ.
Maggio 1915
Durante un viaggio da New York a Genova con scali intermedi a Gibilterra e Marsiglia, al comando del capitano Walter Robertson, il Media viene immesso in bacino ed armato per scopi difensivi con un cannone, sistemato a poppa, nel corso della sosta a Gibilterra, dopo di che prosegue per Genova il 27 maggio (o la sera del 28). Tre giorni prima, anche l’Italia è scesa in campo nella prima guerra mondiale.
30 maggio 1915
Alle 13 il sommergibile tedesco U 39 (capitano di fregata Walter Forstmann) viene visto emergere a proravia dritta; il Media accelera ed accosta a sinistra per allontanarsi, ma l’U-Boot apre il fuoco con il suo cannone. Dopo il quarto colpo, tuttavia, il piroscafo reagisce a sua volta con il cannone appena installato durante la sosta a Gibilterra; il preciso tiro dei cannonieri britannici (che ritengono di aver messo un colpo a segno) induce subito il sommergibile a rinunciare all’inseguimento.

Il Media in navigazione (foto Stuart Smith, copyright A. Duncan, via Shipsnostalgia)

18 maggio 1918
Il Media, in navigazione da Londra a Bombay (con un carico di merci varie) passando per Gibilterra ed il Mediterraneo, viene colpito in posizione 36°13’ N e 13°17’ E (a sud della Sicilia) da un siluro lanciato dal sommergibile tedesco UB 52 (tenente di vascello Otto Launburg), ma riesce a raggiungere Malta. Non vi sono vittime.
1935
Nell’ambito di un programma di ‘demolizione e costruzione’ («Scrap and Build programme», un programma di sussidi statali per le compagnie che demoliscono navi vecchie e ne costruiscono di nuove, pensato per incentivare lo “svecchiamento” della flotta mercantile), il Media viene acquistato dalla Heston Shipping Company di Cardiff, che lo offre per la demolizione, insieme ad un’altra nave, per poter costruire due nuove navi per un valore di 70.000 sterline; ma la domanda viene respinta. Il Media viene allora rivenduto all’armatore Achille Lauro, di Napoli, che lo ribattezza Veloce.
16 novembre 1939
Il Veloce s’incaglia presso il faro di Dungeness, nel Kent (Inghilterra).
12 gennaio 1940
La nave s’incaglia nuovamente al largo della costa inglese, ma riesce a disincagliarsi con i suoi mezzi dopo sei ore.
22 giugno 1940
Requisito a La Spezia dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
28 giugno 1940
Derequisito.
4 novembre 1940
Alle quattro del mattino, durante la navigazione in convoglio da Napoli a Bari, il Veloce entra accidentalmente in collisione con il piroscafo Nina Bianchi, al largo di San Cataldo di Lecce. Il Nina Bianchi affonda alle 4.15, nel punto 40°27’ N e 18°24’ E; dei 26 uomini del suo equipaggio, solo in cinque si salvano.
30 novembre 1940
Alle 6.13 il Veloce, in navigazione verso Brindisi in condizioni di tempo pessime, in convoglio con i piroscafi Albano e Ninuccia e la scorta dell’incrociatore ausiliario Città di Tunisi (il Veloce è l’ultima nave del convoglio), viene investito da un’esplosione subacquea e lancia un SOS. Non è chiaro se l’esplosione sia stata causata da una mina (vi erano talvolta mine alla deriva nel Canale d’Otranto) oppure da un siluro (nessuna unità britannica riferì di attacchi in posizione e data compatibili col danneggiamento del Veloce, ma proprio in quei giorni scomparve senza lasciare tracce, proprio nella zona in cui si verificò questo episodio, il sommergibile britannico Regulus: potrebbe essere stata tale unità a silurare il Veloce).
I 39 componenti dell’equipaggio abbandonano la nave, che alle 16.30 si trova alla deriva a 7 miglia per 035° da Capo Otranto; mentre gli altri piroscafi proseguono verso Brindisi, il Città di Tunisi riceve ordine di tornare indietro per assistere il Veloce. L’incrociatore ausiliario recupera sette naufraghi, tra cui il comandante del piroscafo, dopo di che riesce a prendere il Veloce a rimorchio, ma il cavo si spezza. Vengono allora inviati i rimorchiatori Ercole ed Ursus, ma nel frattempo il Veloce va ad incagliarsi in costa. Non vi sono vittime tra i 39 membri dell’equipaggio.
8 dicembre 1940
Il Veloce viene disincagliato e rimorchiato a Brindisi, per poi essere sottoposto a lavori di riparazione.

Il Veloce sotto bandiera italiana, con i colori dell’armatore Lauro (Coll. Giorgio Spazzapan, dal Bollettino d’Archivio USMM)

5 aprile 1942
Il Veloce salpa da Taranto alla volta di Messina, insieme al piroscafo Ninetto G. e con la scorta dell’incrociatore ausiliario Francesco Morosini e del cacciasommergibili ausiliario AS 114 Cyprus.
Alle 11.40 il sommergibile britannico Una (tenente di vascello Compton Patrick Norman) avvista del fumo su rilevamento 040°, per poi avvistare, rispettivamente alle 11.55 ed alle 12.10, i due piroscafi (che procedono in linea di fila) e le due navi scorta. Alle 12.54 l’Una, in posizione 37°45’ N e 15°41’ E (una dozzina di miglia a sud di Capo dell’Armi), lancia quattro siluri da 2740 metri di distanza, mirando al secondo mercantile, il Ninetto G. Colpito da due dei siluri, il piroscafo cola a picco con la morte di due dei 30 uomini dell’equipaggio, mentre la scorta contrattacca col lancio di 14 bombe di profondità dalle 13.15 alle 13.30 (una singola bomba esplode abbastanza vicino all’Una, che intanto sta ripiegando verso sudest, arrecandogli qualche danno di poco conto).
11 settembre 1942
Il Veloce parte da Palermo per Tripoli alle 18.30, trasportando 7600 tonnellate di carbone. Lo scorta la torpediniera Circe.
13 settembre 1942
La Circe lascia all’1.45 la scorta del Veloce.
14 settembre 1942
Il Veloce arriva a Tripoli alle 10.45.
18 ottobre 1942
Il Veloce lascia Tripoli alle 19 insieme al piroscafo Argentea, con la scorta della torpediniera Calliope. I due piroscafi trasportano prigionieri di guerra. Il convoglietto segue rotte costiere fino a Capo Bon, poi imbocca il Canale di Sicilia.
21 ottobre 1942
Al largo di Palermo, la Calliope lascia la scorta delle due navi e raggiunge Messina, alle 9.40. Alle 17 Veloce ed Argentea arrivano Napoli.
4 novembre 1942
Il Veloce salpa da Napoli alle 17 in convoglio con le motonavi Giulia e Chisone, sotto la scorta dei cacciatorpediniere Maestrale (caposcorta), Grecale, Velite, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti e delle torpediniere Animoso e Clio.
5 novembre 1942
Alle dieci del mattino il convoglio subisce un attacco di sommergibili, sventato dalla reazione della scorta.
Alle 19.40 iniziano attacchi aerei che persisteranno con insistenza fino all’una di notte del 6, ma senza infliggere alcun danno.
7 novembre 1942
Alle otto del mattino Clio ed Animoso lasciano la scorta.
Il convoglio giunge a Tripoli alle 18.15, uno degli ultimi a raggiungere la Libia senza subire danni.
18 novembre 1942
Veloce e Chisone lasciano Tripoli alle 17.30 per rientrare in Italia, scortati dalle torpediniere Lupo (caposcorta), Aretusa ed Orsa.
19 novembre 1942
Il convoglio fa scalo a Lampedusa e Pantelleria, sostandovi per alcune ore.
21 novembre 1942
Alle 14.40 l’Orsa lascia la scorta del convoglio. Le altre navi raggiungono Napoli alle 17.45.

La nave sotto l’originario nome di Media (foto Stuart Smith, copyright John Clarkson, via Shipsnostalgia)

L’affondamento

Alle undici di sera del 30 novembre 1942 il Veloce salpò da Napoli per un nuovo viaggio verso Tripoli, con a bordo un carico di benzina in fusti oltre a 56 uomini di equipaggio e 79 militari di passaggio, tra cui soldati italiani del 92° Reggimento Fanteria e militari tedeschi. Lo comandava il capitano di lungo corso Pietro Vasta, siciliano di Riposto, 43 anni di cui 30 trascorsi in mare.
Il Veloce viaggiava in convoglio con il piroscafo Chisone e la cisterna militare Devoli, e la scorta delle torpediniere Lupo (caposcorta, capitano di corvetta Giuseppe Folli), Aretusa (capitano di corvetta Roberto Guidotti) e Sagittario (tenente di vascello Vittorio Barich). Queste navi formavano il convoglio «C».
Si trattava di uno degli ultimi convogli che partivano verso Tripoli: l’VIII Armata britannica stava rapidamente avanzando in Libia, mentre le truppe italo-tedesche ripiegavano verso la Tunisia; cadute Tobruk e Bengasi, le forze aeronavali britanniche stavano ora concentrando i loro sforzi per interdire il traffico sulla rotta per Tripoli, ultimo porto libico rimasto nelle mani dell’Asse. Nel giro di qualche settimana, il problema non sarebbe stato più far arrivare rifornimenti a Tripoli, ma riuscire ad evacuare le navi che già vi si trovavano.
“ULTRA” si era messo al lavoro: già il 29 novembre, prima ancora che il convoglio partisse, i britannici avevano decrittato abbastanza messaggi da sapere che «Chisone (6156 tsl) e Veloce (5464 tsl) devono ora partire da Napoli alle 21.00 del 30, essendo stata posticipata di 24 ore la loro partenza, velocità 9 nodi per Tripoli, e dovrebbero arrivare alle 20.30 del 3». A conclusione del messaggio, gli uomini di “ULTRA” si erano spinti anche a suggerire ai comandi operativi quale strumento utilizzare per l’attacco al convoglio, indicandolo tra parentesi in forma interrogativa: «(++ Forza K?)».
La Forza K, formazione leggera specializzata negli attacchi ai convogli italiani, nei quali aveva ottenuto notevoli successi, era stata dissolta nel dicembre 1941 dopo le gravi perdite subite su un campo minato al largo di Tripoli; ma ora era stata ricostituita, con gli incrociatori leggeri Cleopatra, Dido ed Euryalus ed i cacciatorpediniere Kelvin, Nubian, Jervis e Javelin, di nuovo con base a Malta. Qui le navi erano giunte proprio il 28 novembre 1942, poco prima della partenza del convoglio «C».

Il convoglio «C» imboccò la rotta di ponente verso la Libia, l’unica ormai praticabile; avrebbe dovuto dapprima rasentare le coste occidentali della Sicilia, poi attraversare il Canale di Sicilia ed infine costeggiare la costa orientale della Tunisia fino a giungere nelle acque della Tripolitania. L’arrivo a Tripoli, procedendo alla non elevata velocità di 9 nodi, era previsto per le 20.30 del 3 dicembre.
Alle 17 del 1° dicembre si aggregò alla scorta la moderna torpediniera Ardente (tenente di vascello Rinaldo Ancillotti), salpata da Palermo in mattinata ed impegnata fino a quel momento in caccia antisommergibili preventiva.
La Devoli non era diretta a Tripoli, bensì a Trapani; alle 19.35 del 1° dicembre, giunto il convoglio al largo del porto siciliano, la cisterna si separò dunque dalle altre navi per entrare a Trapani. Alle 19.55 la Sagittario fu colta da un’avaria e dovette anch’essa abbandonare il convoglio e raggiungere Trapani.
Alle 21.30, mentre si procedeva nelle acque tra la Sicilia e Pantelleria, vennero avvistate dalle navi le luci di alcuni bengala; nelle ore seguenti, fino alle 4.15 del 2 dicembre, si susseguirono a più riprese avvistamenti di una cinquantina di bengala, alquanto distanti. Nello stesso lasso di tempo, il convoglio venne sorvolato da velivoli (probabilmente ricognitori che ne controllavano i movimenti) per sei volte.
Alle 12.30 del 2 dicembre apparve nelle vicinanze un aereo da ricognizione Alleato, che pedinò il convoglio a distanza fino alle 13.50. Non era lì per caso: il 2 dicembre “ULTRA” aveva riferito, sulla base di nuove intercettazioni, dell’avvenuta partenza del convoglio, confermando tutte le informazioni contenute nel dispaccio del 29 novembre ed aggiungendo: «Questo convoglio dovrà essere attaccato dalla Forza K». Peraltro, già il 30 novembre Supermarina aveva intercettato il segnale di un ricognitore britannico che, alle 23 di quel giorno, comunicava di aver avvistato due convogli a sudovest di Napoli: si trattava proprio del «C» e di un altro, il «B», diretto invece in Tunisia. I due convogli sarebbero stati poi avvistati nuovamente da ricognitori britannici, rispettivamente, alle 15 ed alle 14.40 del 1° dicembre (i relativi segnali di scoperta vennero intercettati da Supermarina, che dopo averli decrittati li ritrasmise all’aria per allertare i convogli interessati), venendo poi tenuti continuamente sotto osservazione dai ricognitori nemici. Quel giorno Supermarina ebbe anche notizia dell’uscita in mare di una formazione britannica (la Forza Q) dal porto algerino di Bona, ma giudicò correttamente che questa non fosse diretta contro il convoglio «C», troppo lontano dal suo raggio di azione (questa formazione intercettò invece il convoglio «H», diretto in Tunisia, che distrusse in un violento combattimento nella notte del 2 dicembre). Ciò che Supermarina non sapeva era che da Malta, per attaccare il convoglio «C», si apprestava a partire la Forza K.
A Malta avevano base, oltre alla Forza K ed a numerosi sommergibili, anche considerevoli forze aree: tra di esse anche gli aerosiluranti Fairey Albacore dell’821st Squadron della Fleet Air Arm (trasferiti a Malta dalla Libia appena il 30 novembre) e del Royal Naval Air Squadron (nel quale erano confluiti i mezzi dei disciolti Squadrons 828 e 830 della Fleet Air Arm). Alle 17.42, a seguito del rapporto del ricognitore (che aveva segnalato due mercantili scortati da “un incrociatore, un cacciatorpediniere ed una torpediniera” nelle acque delle Kerkennah), decollarono da Malta tre Albacore del Royal Naval Air Squadron (due siluranti dell’828th Squadron ed un terzo velivolo dotato di radar ASV, Air to Surface Vessel, per la localizzazione dei bersagli: quest’ultimo aveva la funzione di guidare gli altri aerei sul convoglio), guidati dal sottotenente di vascello Maund, e due dell’821st Squadron F.A.A., guidati dal capitano di corvetta Lashmore. In un secondo tempo decollarono altri sei Albacore dell’821st Squadron. Il tempo era buono, con mare calmo ed ottima visibilità.
Alle 19.17 (secondo fonti italiane; quelle britanniche collocano l’avvistamento alle 19.30, in posizione 34°45’ N e 11°45’ E), mentre le navi del convoglio «C» erano nei pressi della boa centrale delle Kerkennah, si accese nelle vicinanze un altro bengala: subito le navi iniziarono ad emettere cortine fumogene, e la Lupo ordinò di manovrare per portarsi fuori della zona illuminata il prima possibile. Si accesero nel cielo altri bengala, mentre il convoglio zigzagava e manovrava per uscire dall’area illuminata; per effetto delle cortine fumogene e delle manovre, intorno alle 20 il convoglio finì involontariamente col dividersi, con Veloce e Lupo spostati leggermente più ad est rispetto ad Ardente, Chisone e Aretusa. Proprio sul gruppo Veloce-Lupo piovvero dal cielo innumerevoli bengala, e grandi fuochi che galleggiavano sul mare.
Poco dopo, venti miglia a sud della boa numero 4 delle Kerkennah, le due navi vennero attaccate dai primi quattro degli Albacore decollati da Malta. I primi ad attaccare furono quelli del Royal Naval Air Squadron (828th Squadron F.A.A.): alle 20 il Veloce riuscì ad evitare un primo siluro ed anche ad abbattere con le proprie mitragliere l’aerosilurante che l’aveva sganciato, ma alle 20.15 fu colpito a poppa da un altro siluro, venendo immobilizzato ed incendiato.
Questo secondo le fonti italiane; quelle britanniche, consultate dal ricercatore Pietro Faggioli (Bollettino d’Archivio U.S.M.M. del giugno 2013), divergono leggermente sullo svolgimento dell’attacco. Secondo esse, infatti, il primo aerosilurante ad attaccare (quello dei sottotenenti di vascello Taylor e Guy) venne effettivamente abbattuto subito dopo che ebbe sganciato il suo siluro (si tratta, con ogni evidenza, del velivolo abbattuto dal Veloce), ma il suo siluro avrebbe colpito il bersaglio, in quanto il secondo aerosilurante (pilotato dal sottotenente di vascello Simson) vide una grande esplosione su uno dei due mercantili. Simson tentò allora di attaccare l’altro, il Chisone, ma i due Albacore dell’821st Squadron gli tagliarono la strada, dunque tornò anch’esso ad attaccare il Veloce, che già stava bruciando, e lo colpì a prua con un siluro. I due aerei dell’821st Squadron attaccarono il Chisone, ma non riuscirono a colpirlo.
Le fonti britanniche, dunque, ammettono l’abbattimento di un Albacore da parte del Veloce, ma ritengono che il piroscafo sia stato colpito da due siluri, anziché uno. A questo proposito si ritiene di dar credito alle fonti italiane, dal momento che certamente gli equipaggi di Veloce e Lupo poterono meglio osservare i risultati degli attacchi sulle loro navi che non gli equipaggi degli aerosiluranti (nonché dal fatto che era all’epoca tendenza comune, negli equipaggi degli aerei di tutte le nazionalità, l’eccessivo “ottimismo” nella stima dei propri risultati negli attacchi antinave).
Lo storico Francesco Mattesini (“La distruzione del convoglio «Aventino»”, ottobre 2016), tuttavia, riporta una versione ancora differente: sarebbe stato l’aereo di Taylor, subito prima di essere abbattuto, a silurare il Veloce, mentre Simpson avrebbe lanciato contro il presunto incrociatore, ritenendo a torto di averlo colpito ed incendiato, ed il sottotenente di vascello Graham (821st Squadron) avrebbe lanciato infruttuosamente contro il Chisone.

La Lupo rimase ad assistere il piroscafo danneggiato, dandone comunicazione alle 21.05, mentre il resto del convoglio (che aveva assistito a tutta la scena) proseguiva verso la destinazione.
Per il Veloce non ci fu nulla da fare: divorato dalle fiamme, iniziò lentamente ad affondare, mentre la Lupo ne recuperava i naufraghi.
L’opera di salvataggio era appunto in corso, quando giunse sul posto la Forza K: composta per l’occasione dai cacciatorpediniere Jervis (capo flottiglia, capitano di vascello Albert Lawrence Poland), Nubian (capitano di fregata Douglas Eric Holland-Martin), Kelvin (capitano di fregata Michael Southcote Townsend) e Javelin (capitano di corvetta William Frank Niemann Gregory-Smith) della 14th Destroyer Flotilla (qualche fonte menziona erroneamente il Janus in luogo del Nubian), era partita da Malta alle 14 (o 16) a seguito delle segnalazioni di “ULTRA”, procedendo ad alta velocità per intercettare il convoglio. I cacciatorpediniere avevano poi ricevuto continui aggiornamenti orari sulla posizione del convoglio dagli aerei da ricognizione; le informazioni inizialmente disponibili riferivano di un convoglio di una petroliera e due navi da carico, scortate da un cacciatorpediniere e due torpediniere, che navigavano in direzione di Ras Turgoeness.
Verso le 23.30 il radar del Nubian localizzò le navi italiane, che poi divennero visibili anche ad occhio nudo via via che le distanze si riducevano: furono proprio i bagliori degli incendi che divampavano sul Veloce a guidare sul posto i cacciatorpediniere. Fumaioli, alberi e sovrastrutture del Veloce divennero chiaramente visibili, sebbene parzialmente coperti da fumo e fiamme; avvicinandosi ulteriormente, il Jervis si ritrovò d’improvviso a navigare letteralmente in mezzo ad un mare di teste, alcune delle quali vicinissime. Erano decine e decine di naufraghi del Veloce, che chiedevano aiuto in italiano e tedesco. Più lontano, i marinai britannici avvistarono alcune scialuppe cariche di naufraghi.
Dato che quella che pareva la sagoma di un cacciatorpediniere sembrava essere passata tra il Jervis ed il Veloce, alle 23.46 la nave britannica sparò alcuni proiettili illuminanti per vedere quali unità fossero nella zona: c’erano soltanto il relitto in fiamme del Veloce e la Lupo, la quale, colta di sorpresa durante il recupero dei naufraghi, divenne immediatamente il bersaglio dei quattro cacciatorpediniere. Il comandante della Lupo fece appena in tempo ad ordinare di mettere in moto alla massima velocità, poi la torpediniera venne investita da una gragnola di colpi di cannone, prima ancora di poter abbozzare una qualche reazione; nel giro di cinque minuti, venne affondata con quasi tutto il suo equipaggio in posizione 34°34’ N e 11°39.5’ E, nel Golfo di Gabès.
Il relitto in fiamme del Veloce, che ancora galleggiava, venne affondato a cannonate (verso le 23.45) dalle navi britanniche, le quali poi lasciarono la zona senza soccorrere nessuno. Da bordo del Javelin venne stimato che in acqua vi fossero tra i 200 e i 300 uomini: meno della metà sarebbero sopravvissuti fino all’arrivo dei soccorsi. Secondo alcuni superstiti della Lupo, da qualcuna delle navi britanniche venne anche fatto fuoco sui naufraghi in mare.
Da distanza, alle 23.46, l’Ardente avvistò tiri di cannone e più tardi accensione di proiettori nella direzione in cui il Veloce si era incendiato, ed il comandante Ancillotti comprese rapidamente che la Lupo era stata attaccata da una formazione navale nemica. Di conseguenza, ordinò a Chisone ed Aretusa di proseguire per Tripoli (dove giunsero indenni alle 19 del giorno seguente), poi – per evitare di farsi sorprendere a sua volta dalle navi britanniche, esperte nel combattimento notturno – aspettò che venisse l’alba per poter tornare a soccorrere i sopravvissuti.
Dirigendosi verso il luogo dell’attacco, l’Ardente s’imbatté in un aereo della Luftwaffe ammarato per un guasto ad un motore; si fermò a recuperarne l’equipaggio, poi proseguì verso il punto in cui erano affondati Veloce e Lupo, arrivandovi alle 8.45 del 3 dicembre.
L’iniziale ricerca dei naufraghi risultò infruttuosa, dunque l’Ardente contattò Supermarina per chiedere che fosse inviato un aereo a cooperare nelle operazioni di ricerca; soltanto poco dopo mezzogiorno la torpediniera avvistò finalmente due imbarcazioni cariche di naufraghi, ed altri uomini in mare.
Alle 13.40, mentre era intenta nel salvataggio, l’Ardente venne attaccata da un aerosilurante; dovette mettere in moto in tutta fretta ed interrompere il recupero dei naufraghi, riuscendo così ad evitare il siluro sganciato dall’aereo.
Le operazioni di soccorso si conclusero alle 16.35, quando l’Ardente recuperò gli ultimi naufraghi. Furono salvati 72 uomini del Veloce, su 135 che erano a bordo, e soltanto 29 della Lupo, su 164.
Per ordine superiore, l’Ardente portò i naufraghi a Palermo, dove arrivò alle sette del mattino del 4 dicembre.

Le vittime del Veloce furono 63; tra di esse anche il comandante Vasta, perito con la sua nave.
Il 4 dicembre “ULTRA” intercettò nuove comunicazioni italiane e poté annunciare che «Il Veloce è affondato come risultato di un attacco aereo presso la boa n. 5 di Kerkennah», aggiungendo che era anche previsto l’invio di una nave ospedale a sud delle Kerkennah per recuperare i sopravvissuti.
La perdita del piroscafo, col suo prezioso carico di carburante, spinse il Comando Supremo ad impartire a Supermarina l’ordine di mandare a Tripoli quanto più carburante possibile mediante i sommergibili: il mancato arrivo del Veloce, infatti, poneva il rischio del totale esaurimento delle scarse riserve di carburante rimaste a Tripoli.

Fin dal 2004 un gruppo di subacquei italiani, guidati dal grande fotografo subacqueo Andrea Ghisotti e dal ricercatore Pietro Faggioli, ha condotto numerose spedizioni in acque tunisine alla ricerca dei relitti di alcune delle molte navi italiane qui affondate durante la “battaglia dei convogli”. I relitti del Veloce e soprattutto della Lupo erano tra gli obiettivi più ambiti di queste ricerche, ma le prime spedizioni condotte non erano riuscite a trovarli, pur localizzando ed esplorando molti altri importanti relitti. Durante la prima spedizione, “Mizar 2004”, il relitto della Lupo venne cercato nella zona delle boe 3 e 4 delle Kerkennah, dove i rapporti italiani e britannici ne collocavano l’affondamento, ma senza successo. L’anno successivo, nella spedizione “Mizar 2005” si cercò ancora presso la boa numero 4, dove alcuni pescatori avevano riferito della presenza di due relitti, nei quali si erano impigliate ed erano andate perdute le loro reti; ma nemmeno stavolta venne trovato qualcosa, dopo di che maltempo e problemi con i proprietari della barca usata per le immersioni posero fine alla spedizione.
Nel 2009, mentre nuove spedizioni si concentravano su altri relitti, Pietro Faggioli si procurò il rapporto degli Albacore che avevano silurato il Veloce; da esso risultava che gli aerosiluranti, per intercettare il convoglio, si erano diretti verso la zona settentrionale del Golfo di Gabès, ovvero nella zona della boa n. 6 delle Kerkennah. Faggioli interpellò poi alcuni pescatori tunisini, di Sfax, dai quali riuscì a farsi fornire le posizioni nelle quali perdevano le loro reti nel Golfo di Gabès. Incrociando tali posizioni con quelle che risultavano sui rapporti italiani, britannici e tedeschi, Faggioli e Ghisotti riuscirono ad associare un nome a tutti i relitti, tranne due, che giacevano l’uno vicino all’altro: la conclusione era che proprio questi due relitti, probabilmente, dovessero appartenere a Veloce e Lupo. Andrea Ghisotti morì nel 2010, dopo lunga malattia, ma Pietro Faggioli proseguì nella ricerca; nel settembre 2011 venne contattato da Fabio Bartolotti, figlio del presidente della società di lavori sottomarini MICOPERI, il quale – essendo al corrente delle sue ricerche – gli spiegò che una nave della compagnia, il Buccaneer, avrebbe dovuto svolgere dei lavori nel Golfo di Gabès (nella zona degli affondamenti), chiedendogli se nei dintorni vi fosse qualcosa di “interessante”. Faggioli chiese di verificare con la strumentazione di bordo cosa giacesse nel punto 34°28' N – 11° 28' E e nel punto 34° 29' N – 11° 31' E, i due punti rimasti “senza nome” dopo il confronto con la documentazione dell’epoca. Bartolotti ordinò al Buccaneer di compiere una “prova degli strumenti” durante il ritorno, al termine dei lavori, e così fu fatto: il 14 ottobre 2011 la nave della MICOPERI identificò entrambi i relitti come quelli della Lupo (34°28' N – 11° 28' E) e di un piroscafo, quasi certamente il Veloce (34° 29' N – 11° 31' E).
Nel 2012 un altro gruppo di subacquei, composto da Mario Arena, Daniele Gualdani, Laura Pasqui e Marco Cottafava, al termine di un’altra spedizione di ricerca, si è immerso per primo sul relitto del Veloce, identificandolo in maniera definitiva grazie ad una targa. Le stive del piroscafo contengono ancora materiale bellico di ogni tipo: automobili Fiat 508 Balilla, parti di aereo, cannoni contraerei, artiglierie da 88 mm, mezzi cingolati, fucili e munizioni.