sabato 20 marzo 2021

Reno

Il Reno sotto il precedente nome di Cardiffian (da www.kustvaartforum.com)

Piroscafo da carico di 1002 tsl, lungo 65,7 metri, largo 9,8 e pescante 4,5, con velocità di 9-10 nodi. Di proprietà dell’armatore Antonio Cipriani di Ravenna, o della Società Anonima Marittima Ravennate; iscritto con matricola 18 al Compartimento Marittimo di Ravenna, nominativo di chiamata ISOK.
 
Breve e parziale cronologia.
 
Luglio 1904
Completato dai cantieri A. Vuijk & Zonen – A. Vuyk di Capelle Aan Den Ijssel (Paesi Bassi) come britannico Queenwood (numero di cantiere 252) per G. S. Coram di Londra (oppure per la Shipping Agency Ltd. di Londra, in gestione a G. S. Coram).
1905
Ceduto alla Heyne & Hessenmuller di Amburgo, senza cambiare nome.
1906
Ceduto alla Hillwood Steamship Company (Wilson & Watson) di Grangemouth, senza cambiare nome.
1908
Acquistato da O. & W. Williams di Cardiff e ribattezzato Cardiffian.
5 aprile 1915
Alle quattro del mattino il Cardiffian viene fermato ed ispezionato in posizione 38°30’ N e 09°26’ E dall’incrociatore ausiliario britannico Ophir, che ne controlla i documenti prima di lasciarlo proseguire (il piroscafo ha un carico di carbone e carburante) non avendo riscontrato irregolarità. Dal diario di bordo dell’Ophir emerge un particolare interessante: “Il nome della nave a prua ed a poppa era dipinto come “Carfiffiani” di Genova. Il comandante ha spiegato che ciò è stato fatto, e che solitamente fa battere alla nave la bandiera italiana, allo scopo di evitare problemi con i sommergibili [essendo l’Italia, all’epoca, ancora neutrale]. Ha issato la bandiera britannica all’avvicinarsi di una nave da guerra britannica”.
1915
Acquistato dalla Afon Lliedi Steamship Company Ltd. di Llanelli (Galles) e ribattezzato Afon Lliedi. In gestione a William Coombs & Sons di Llanelli.
Stazza lorda 1015 tsl, netta 610 tsn; porto di registrazione Llanelli, nominativo di chiamata HNDJ.
1933
Acquistato dalla Marittima Ravennate Società Anonima, con sede a Ravenna, e ribattezzato Reno.
 
Un’altra immagine della nave come Cardiffian, in Inghilterra, nel 1910 circa (g.c. Mauro Millefiorini, via www.naviearmatori.net)

L’affondamento
 
A pochi giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, il Reno fu una delle prime vittime del conflitto che avrebbe insanguinato il Mediterraneo per gli anni a venire: il 18 giugno 1940, mentre navigava scarico da Gallipoli a Ravenna, urtò una mina ed affondò ad undici miglia per 28° dal faro di Monte Cappuccini (Ancona). L’ordigno apparteneva ad uno sbarramento difensivo italiano, posato pochi giorni prima dal posamine Azio e dal posamine ausiliario San Giusto: non è chiaro se il Reno non avesse ricevuto carte con la corretta indicazione della rotta da seguire per evitare i campi minati, o se vi fosse finito per un errore di navigazione. Non si trattò dell’unico incidente di questo tipo verificatosi a ridosso della dichiarazione di guerra.
 
Morì nell’affondamento il cuoco ravennate Ugo Bendazzi, mentre sopravvissero gli altri dodici membri dell’equipaggio.
I superstiti ripresero a navigare: per loro la guerra sarebbe stata ancora lunga, e non tutti ne avrebbero visto la fine. Il fuochista torrese Giovanni Strino, quarantacinquenne e già veterano della Grande Guerra (aveva combattuto nella fanteria di Marina, venendo anche decorato), venne soccorso dopo più di ventiquattr’ore passate su una tavola insieme ad altri naufraghi; dopo le cure in ospedale sarebbe tornato a navigare, prima sul piroscafo Stefano e poi sul piroscafo Pomezia, fino a cadere prigioniero dei tedeschi a Rodi in seguito all’armistizio: sarebbe morto a Rodi nel giugno 1945, pochi giorni dopo la fine della guerra, per le conseguenze della fame patita durante la prigionia.
 
 
GHV Schepen “Oldies”, su kustvaartforum
Il Reno su Wrecksite
Diario storico del Comando Supremo, Vol. I (11.6.1940-31.8.1940), Tomo I
Giovanni Strino, fuochista del Reno

mercoledì 10 marzo 2021

Ghibli

Il varo della Ghibli (da “300 scafi affondati nel golfo di La Spezia e le operazioni per il loro recupero” di Silvano Benedetti e Stefano Danese, via Marco Ghiglino e www.naviearmatori.net)

Torpediniera di scorta della classe Ciclone (dislocamento standard 1113 tonnellate, in carico normale 1652, a pieno carico 1695). Insieme ad alcune gemelle (Impavido, Indomito, Impetuoso e Monsone) si distingueva dal resto della classe per un terzo cannone da 100/47 mm, situato sulla tuga centrale e rimosso dopo breve tempo per essere sostituito con un’ulteriore mitragliera binata da 20/65 mm, e per l’armamento contraereo, costituito da otto mitragliere da 20/65 mm in tre impianti binati e due singoli (o quattro impianti binati).
 
Battezzata con il nome di un vento del deserto, la Ghibli fu l’ultima delle sedici unità della classe Ciclone ad essere impostata, il 30 agosto 1942, nei cantieri Navalmeccanica di Castellammare di Stabia (tutte le altre erano state impostate nel 1941, tranne Indomito ed Intrepido, entrambe impostate nei cantieri di Riva Trigoso nel gennaio del 1942); il suo numero di costruzione era 605 (poi diventato 621). La sua costruzione dovette però procedere un po’ più speditamente rispetto ad altre sue gemelle, dal momento che fu “soltanto” la terzultima ad essere varata, il 28 febbraio 1943 (dopo di lei furono varate l’Impetuoso il 20 aprile 1943, l’Indomito il 6 luglio e l’Intrepido l’8 settembre, tutte nei cantieri di Riva Trigoso; le altre unità erano state tutte varate nel 1942 tranne l’Impavido, anch’essa costruita a Riva Trigoso e varata quattro giorni prima della Ghibli). Perse poi questo “vantaggio” nell’allestimento, entrando in servizio solo il 24 luglio 1943, alla vigilia della caduta del regime fascista, penultima unità della classe ad essere completata ed ultima ad entrare in servizio sotto bandiera italiana (l’ultima, l’Intrepido, fu varata proprio il giorno dell’armistizio e catturata dai tedeschi all’inizio dell’allestimento, venendo quindi completata per la Kriegsmarine).
 
Ebbe un unico comandante, il capitano di corvetta Renato Lo Monaco, 33 anni, da Napoli. Entrata in servizio nell’estate del 1943, quando ormai la guerra dei convogli nordafricani – per la difesa dei quali era stata concepita – era giunta al termine da mesi, la Ghibli non ebbe modo di distinguersi: poche informazioni sono disponibili sulla sua breve carriera, così effimera che anche le fotografie che la ritraggono sono pochissime (appena un paio) e di mediocre qualità. Il 7, 13 e 29 luglio ed il 2 agosto 1943 compì delle brevi uscite da Castellammare per collaudo ed addestramento (nell’ultima, quella del 2 agosto, svolse delle esercitazioni di tiro contraereo e lancio di siluri); il 29 luglio imbarcò i siluri, mentre in tale data non aveva ancora ricevuto le munizioni per i pezzi principali da 100 mm (aveva invece già imbarcato quelle per l’armamento contraereo). Alla data del 2 agosto, il suo ecogoniometro non risultava ancora funzionante. Il mattino del 6 agosto si trasferì da Castellammare a Napoli, e quello stesso pomeriggio, forse per sottrarla al crescente martellamento aereo di Napoli e dintorni (due giorni prima la città partenopea aveva subito il bombardamento più devastante di tutta la guerra), venne fatta partire per La Spezia, dove giunse l’indomani.
 
Assegnata con le gemelle Impavido, Indomito ed Impetuoso alla VI Squadriglia Torpediniere (dipendente, insieme alle Squadriglie Torpediniere I, II, III, IV e V, dal Comando Superiore Torpediniere di Scorta dell’ammiraglio Amedeo Nomis di Pollone, avente sede a Napoli e subordinato a sua volta al Comando Forze Navali Protezione Traffico dell’ammiraglio Odoardo Somigli, con sede a Roma), la Ghibli trascorse tutta la sua breve esistenza tra il Tirreno ed il Mar Ligure. Dopo l’arrivo a La Spezia, compì ulteriori uscite per collaudo ed addestramento: il 10 agosto, il 14 agosto, nella notte tra il 19 ed il 20 (esercitazione notturna) ed ancora il 21 agosto.
 
La Ghibli (in secondo piano) in allestimento a Castellammare di Stabia nel maggio 1943, insieme all’incrociatore leggero Giulio Germanico ed alle corvette Ape, Vespa e Grillo (da un saggio di Francesco Mattesini su www.academia.edu)

L’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, l’8 settembre 1943, trovò la Ghibli in riparazione a La Spezia, impossibilitata a muovere: probabilmente era emerso qualche grave problema durante i collaudi, oppure la nave così nuova aveva già subito un’avaria. Nelle prime ore del 9 settembre la squadra da battaglia, al comando dell’ammiraglio Carlo Bergamini, lasciò La Spezia diretta verso La Maddalena, mentre quattro divisioni tedesche, inviate in zona precisamente per questo scopo (anche se il pretesto era stato quello di coadiuvare gli italiani nel contrasto ad eventuali sbarchi Alleati), muovevano dall’entroterra ligure per occupare la piazzaforte, contrastate dal debole XVI Corpo d’Armata del generale Carlo Rossi (divisione di fanteria "Rovigo" e divisione alpina "Alpi Graie"). L’ammiraglio Giotto Maraghini, comandante del Dipartimento Militare Marittimo della Spezia, diede attuazione alle disposizioni ricevute da Supermarina, ordinando che le navi in grado di muovere salpassero per porti saldamente sotto controllo italiano od Alleato, e che quelle impossibilitate a partire si autoaffondassero.
Non potendo prendere il mare insieme al resto della flotta, la Ghibli venne pertanto autoaffondata dal suo equipaggio il 9 settembre 1943, per non farla cadere in mano tedesca.
Non fu la sola a subire questa sorte: quello che ebbe luogo a La Spezia il 9 settembre 1943 fu il più grande autoaffondamento in massa di navi militari italiane mai verificatosi, allo scopo di evitare che cadessero intatte in mano tedesca. Oltre alla Ghibli si autoaffondarono nel porto il vecchio incrociatore Taranto, i cacciatorpediniere Nicolò ZenoFR 21 e FR 22, le torpediniere Generale Antonino CascinoGenerale Carlo Montanari, Procione e Lira, i sommergibili Antonio BajamontiAmbraSirenaSparideVolframio e Murena, le corvette EuterpePersefone e FR 51, il posamine Buccari, il trasporto munizioni Vallelunga, le cisterne militari Scrivia e Pagano, l’incrociatore ausiliario Ipparco Baccich, le motozattere MZ 736 e MZ 748, i rimorchiatori militari MescoCapriCapodistriaRobusto e Porto Sdobba, il MAS 525, la motosilurante MS 36.
Furono invece catturati gli incrociatori pesanti Bolzano e Gorizia, entrambi inservibili per i gravi danni mai riparati (e difatti non entrarono mai in servizio sotto bandiera tedesca), il posamine Crotone, il trasporto munizioni Panigaglia, la nave bersaglio San Marco, la nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, la nave salvataggio sommergibili Anteo, la cannoniera Rimini, le cisterne militari BormidaDalmaziaLenoSprugolaVolturnoStura e Timavo, il piccolo trasporto Monte Cengio, il dragamine RD 49, il MAS 556, le Bette N. 5 e N. 16, i rimorchiatori AtlanteBravaCarbonaraLinaroSanto StefanoSenigalliaTaorminaTorre AnnunziataN 9N 10N 37N 53 e N 55. Gran parte di tali unità furono sabotate dagli equipaggi; il Gorizia aveva anche iniziato ad autoaffondarsi, ma tale provvedimento era stato poi sospeso.
 
I tedeschi, da parte loro, recuperarono la Ghibli e la rimorchiarono a Genova per ripararla e rimetterla in servizio, ma tali lavori non furono mai completati; alla fine della guerra, il 24 aprile 1945, furono gli stessi tedeschi ad autoaffondarla una seconda volta, stavolta a Genova, insieme a diverse altre unità ex italiane: tra di esse la TA 31 (ex cacciatorpediniere Dardo), la TA 32 (ex cacciatorpediniere Premuda), l’FR 24, l’FR 32 e l’FR 37 (ex cacciatorpediniere francesi).
 
Il suo relitto, recuperato nel 1946 o 1947, venne avviato alla demolizione. La radiazione formale dai quadri del naviglio militare avvenne con decreto del capo provvisorio dello Stato datato 27 marzo 1947.
 
Un’altra immagine della Ghibli pronta al varo (da “300 scafi affondati nel golfo di La Spezia e le operazioni per il loro recupero” di Silvano Benedetti e Stefano Danese, via Marco Ghiglino e www.naviearmatori.net)
 
La Ghibli su Trentoincina

lunedì 1 marzo 2021

Marina O.

Il Marina O. a Pensacola (g.c. Mauro Millefiorini, via www.naviearmatori.net)

Piroscafo da carico di 5480 tsl, 3357 tsn e 8170 tpl, lungo 120 metri, largo 15,80 e pescante 8,41, con velocità di dieci nodi. Di proprietà della Società Anonima di Navigazione Odero, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 847 al Compartimento Marittimo di Genova. Trascorse la maggior parte della sua vita sulle rotte tra l’Italia ed il Nordamerica.
Talvolta menzionato erroneamente come Marina Odero. Aveva una gemella, l’Ida Z. O.
 
Breve e parziale cronologia.
 
Giugno 1918
Completato dai cantieri Nicolò Odero fu Alessandro & Co. di Sestri Ponente, società che ne è anche proprietaria (numero di costruzione 279). Secondo una fonte, probabilmente erronea, si sarebbe inizialmente chiamato Marine O., nome mutato in Marina O. durante la costruzione.
24 luglio 1919
Due membri dell’equipaggio del Marina O., identificati dai giornali statunitensi come Albert Louise e Felix Roalaon, vengono arrestati a New Orleans, dove la nave si trova a fare scalo, con l’accusa di contrabbando di brandy prelevato dalla nave, essendo stati trovati in possesso di cinque bottiglie del liquore.
1924
È comandante del Marina O. il capitano A. De Gregori.
1933
È comandante del Marina O. il capitano Solari.
Novembre 1935
Il Marina O. viene sorpreso a Houston da uno sciopero generale di tutti i lavori portuali della Costa del Golfo degli Stati Uniti, decretato dalla International Longshoremen’s Association. Riesce comunque a completare il carico e salpare grazie all’aiuto di portuali “indipendenti”.
Lo sciopero, protrattosi per dieci settimane (da inizio ottobre a metà dicembre), coinvolge i porti di Corpus Christi, Galveston, Houston, Port Arthur, Beaumont, Lake Charles, New Orleans, Mobile e Pensacola ed è caratterizzato da violenti scontri tra scioperanti, polizia e guardie armate, con 14 vittime.
14 maggio 1936
Il Marina O., appena partito da New Orleans diretto a Genova, con scalo intermedio a Pensacola, s’incaglia all’imboccatura del South Pass del Mississippi, costringendo l’ingegnere distrettuale del primo distretto di New Orleans, maggiore Henry Hutchings, ad ordinare la chiusura di tale passaggio al traffico marittimo, dirottando tutte le navi nel Southwest Pass. Verrà disincagliato con l’aiuto del rimorchiatore Adler.
 
La nave a Veracruz a fine anni ’40, sotto bandiera messicana e con il nuovo nome di Tabasco (Instituto Nacional de Antropología e Historia de México)

Da Tampico a Tabasco
 
Anche il Marina O. condivise la sorte dei molti mercantili italiani – più di duecento – che la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 sorprese ben lontani dall’Italia e dal Mediterraneo. In quell’infausta data il piroscafo, al comando del capitano Alessio Lorenzo, si trovava dall’altra parte dell’Oceano Atlantico: nelle acque del Messico. Non potendo rientrare in Italia, per evitare l’intercettazione e la cattura da parte delle Marine Alleate si rifugiò nel porto di Tampico e qui si fece internare, come nave di Paese belligerante in porto neutrale.
A Tampico il Marina O. era in numerosa compagnia: ben otto petroliere italiane furono sorprese dalla dichiarazione di guerra in questo importante terminale petrolifero, o vi si rifugiarono nei giorni successivi al 10 giugno. Si trattava della Fede, della Stelvio, dell’Atlas, dell’Americano, della Genoano, della Tuscania, della Vigor e della Lucifero; una nona petroliera, la Giorgio Fassio, si trovava sempre in Messico ma a Veracruz. Il Marina O. era l’unica nave da carico tra i bastimenti italiani sorpresi dalla guerra in acque messicane.
Già internati a Tampico da mesi, dal settembre 1939, erano quattro mercantili tedeschi, l’Orinoco, il Phrygia, il Rhein e l’Idarwald. Nella notte del 16 novembre 1940, queste quattro navi tentarono di salpare da Tampico per raggiungere la Germania, violando il blocco britannico; la partenza avrebbe dovuto essere furtiva, ma in realtà migliaia di abitanti del posto, e probabilmente anche qualche membro del locale consolato britannico, vi assisterono. D’altra parte mantenere il segreto era ben difficile, le navi avevano già ottenuto i documenti per la partenza (la destinazione dichiarata erano “porti della Spagna”) e due cannoniere della Marina messicana avevano l’ordine di accompagnarle fino ai limiti delle acque territoriali messicane. Già nel pomeriggio precedente i bastimenti tedeschi avevano acceso le caldaie, ed era ben presto circolata voce che si sarebbero recati al largo per rifornire di provviste e di carburante gli U-Boote e le “navi corsare” tedesche operanti in Atlantico.
Questo tentativo finì male: non appena giunse al largo, il Phrygia s’imbatté in un cacciatorpediniere statunitense della “pattuglia di neutralità” che lo illuminò con i proiettori; scambiandolo per una nave britannica, l’equipaggio del Phrygia incendiò la sua nave ed aprì le prese a mare per evitare la cattura. Le altre tre navi fecero dietrofront e tornarono precipitosamente in porto.
Una decina di giorni più tardi, le navi italiane e tedesche internate a Tampico rinnovarono i preparativi per un’apparente prossima partenza, mentre tre cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di neutralità” incrociavano nelle acque antistanti il porto messicano. Le navi si rifornirono di carburante ed accesero le caldaie poco dopo la mezzanotte del 25 novembre, ma prima dell’alba le caldaie vennero spente – come indicato dal fumo che aveva smesso di uscire dai fumaioli – ed i rimorchiatori che prima erano in attesa accanto ai bastimenti dell’Asse come se fosse stato richiesto il loro intervento per la partenza se ne andarono, anche se le navi italiane e tedesche avevano tenuto tutte le luci accese. I giornalisti dell’“Associated Press” aggiunsero che negli uffici della capitaneria di porto era stato riferito che le navi dell’Asse avevano già preparato i documenti per l’autorizzazione a partire, ma che non era possibile fornire informazioni su quando dovessero salpare. Inoltre, circolava notizia che personale dei consolati italiano e tedesco a Città del Messico fosse al lavoro già alle due di notte, apparentemente in contatto con Tampico. Entrambi i consolati, interpellati, risposero che erano stati fatti dei preparativi a bordo delle navi, ma che non avevano informazioni su quando sarebbero partite.
Il secondo tentativo di fuga da parte delle navi tedesche ebbe infine luogo il 3 dicembre, quando il Rhein e l’Idarwald (l’Orinoco rimase in porto) tentarono nuovamente la sorte; ma finì ancor peggio della prima volta. Entrambi i bastimenti tedeschi furono pedinati da cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di neutralità”, che non li attaccarono né ne ostacolarono attivamente la navigazione, ma che segnalarono in chiaro la loro posizione alla radio, così permettendone l’intercettazione da parte di navi da guerra Alleate. L’8 dicembre l’Idarwald, intercettato dall’incrociatore britannico Diomede, fu autoaffondato dal proprio equipaggio; tre giorni dopo toccò la stessa sorte al Rhein, intercettato dalla cannoniera olandese Van Kinsbergen.
Questo secondo fiasco pose fine ad ogni altra velleità di fuga dal Messico.
Gli equipaggi delle navi internate a Tampico vivevano confinati a bordo dei loro bastimenti: potevano scendere a terra e visitare la popolazione locale solo dietro autorizzazione del comandante, e solo in gruppi. Nonostante questo e la vigilanza delle “Oficinas de Población”, in meno di un anno non pochi marittimi italiani riuscirono a metter su famiglia con donne del posto.
 
Questa situazione perdurò fino al 30 marzo 1941, quando una notizia inaspettata si abbatté come un colpo di fulmine sulla placida esistenza degli internati di Tampico: in quella data gli Stati Uniti, a dispetto della loro neutralità, procedettero alla confisca di tutti i bastimenti mercantili dell’Asse presenti nei propri porti. Diversi altri paesi dell’America latina, spesso su pressione angloamericana, decisero di imitare tale mossa, e gli equipaggi di numerosi mercantili italiani internati in questi stati, su ordine delle autorità italiane, sabotarono od autoaffondarono le loro navi prima che potessero essere catturate.
Il Messico colse l’occasione, ordinando a sua volta la confisca delle dodici navi dell’Asse presenti a Tampico e Veracruz, per incrementare la propria modesta flotta petroliera: con la cattura delle navi cisterna italiane che si trovavano nei suoi porti, infatti, il tonnellaggio complessivo delle navi cisterna sotto bandiera messicana sarebbe quadruplicato, passando da 29.445 tsl a 117.591 tsl. Il Messico aveva nazionalizzato le proprie riserve petrolifere pochi anni prima (18 marzo 1938), espropriandole alle compagnie straniere e creando una propria compagnia petrolifera controllata dallo Stato, la Petróleos Mexicanos S. A. (Pemex), ma risentiva di una carenza di navi cisterna adeguate a trasportare il petrolio per poter adeguatamente sviluppare tale industria (carenza che lo scoppio della guerra mondiale aveva reso molto difficile da eliminare, sia con l’acquisto di navi esistenti che con nuove costruzioni: tutto era assorbito dalle esigenze del conflitto), che venne così “risolta”.
Di conseguenza, su disposizione delle autorità messicane, il contrammiraglio Luis Hurtado de Mendoza fu inviato dal Ministro della Guerra Lázaro Cárdenas del Rio a confiscare le navi dell’Asse presenti nei porti del Messico, in nome della Segreteria della Marina (Secretaría de Marina), alla testa di reparti del 31° Battaglione Fanteria (31° Batallón de Infantería).
Il 1° aprile 1941, pertanto (altra fonte parla del 2 aprile, ma si tratta probabilmente di un errore), un drappello della Marina messicana abbordò e catturò il Marina O. e le altre navi italiane presenti nel porto di Tampico, con l’eccezione dell’Atlas, che venne autoaffondata dal suo equipaggio. L’autoaffondamento dell’Atlas fu anzi citato da parte messicana – come già fatto negli Stati Uniti, dove quasi tutte le navi italiane erano state sabotate dai loro equipaggi – come ragione del provvedimento di sequestro delle navi: si disse che la decisione era stata presa dal governo messicano per ragioni di sicurezza nazionale, dopo aver appreso la notizia di quanto accaduto sull’Atlas. Su ciascuna nave fu posto un distaccamento di fanteria di Marina con compiti di vigilanza. Il generale messicano Francisco Luis Urquizo, che all’epoca aveva il suo comando a Tampico, avrebbe ricordato nelle sue memorie come il contrammiraglio Hurtado de Mendoza “…ottimo conversatore, portava invariabilmente il discorso sul modo rapido ed energico con cui aveva effettuato il simultaneo sequestro di tutte le navi con truppe del 31° Battaglione, che più tardi furono rilevate dalla Fanteria di Marina”.
Fu questo uno dei primi atti di guerra compiuti da parte del Governo messicano nel secondo conflitto mondiale.
 
Questa mossa fu giustificata ed ufficializzata dal presidente messicano Manuel Ávila Camacho con un decreto di requisizione firmato pochi giorni più tardi, l’8 aprile 1941 (e pubblicato il 10 aprile sul Diario Oficial de la Federación, l’equivalente messicano della Gazzetta Ufficiale), facendo richiamo al “diritto d’angheria”, in base al quale una nazione in guerra (ma il Messico era neutrale) poteva requisire forzosamente per le proprie necessità naviglio mercantile appartenente a nazioni straniere che si trovasse nelle proprie acque territoriali, a patto di indennizzarne adeguatamente i proprietari.
Il decreto di requisizione era formato da quattro articoli: «Art. 1 La Segreteria delle Relazioni Estere notificherà ai rappresentanti diplomatici degli Stati belligeranti, la cui bandiera inalberano le navi che sono immobilizzate nei porti nazionali, che il Governo degli Stati Uniti del Messico sequestra quelle navi per usarle nello scambio commerciale e marittimo d’altura e di cabotaggio; Art. 2 La Segreteria della Marina procederà ad immatricolare e munire della bandiera nazionale le navi sequestrate, e ovviamente formulerà un dettagliato inventario delle stesse; Art. 3 La Segreteria di Governo emetterà la documentazione necessaria affinché gli ufficiali e gli equipaggi delle navi sequestrate permangano nel Paese per la durata del presente stato di emergenza o troverà un mezzo sicuro per riportarli nei loro Paesi di origine. Gli ufficiali e gli equipaggi sbarcati riceveranno l’attenzione che si conviene; Art. 4 La Segreteria della Finanza e del Credito Pubblico determinerà l’indennizzo corrispondente per ciascuno dei bastimenti sequestrati, dando ai loro proprietari l’intervento appropriato secondo le nostre leggi. Gli indennizzi verranno pagati alla fine della guerra, con un interesse aggiuntivo per il tempo che sarà intercorso tra la data del decreto e quella del pagamento».
Come motivi per l’applicazione del diritto d’angheria pur essendo il Messico neutrale, Ávila Camacho indicò i gravi disturbi causati dalla guerra al commercio marittimo del Messico, il modo in cui era condotto il conflitto, ignorando i diritti delle nazioni neutrali, ed il quasi completo annientamento del commercio marittimo messicano per mancanza di mezzi di trasporto: secondo il presidente messicano, l’applicazione, da parte di uno Stato neutrale, del diritto d’angheria rappresentava solo una piccola compensazione per il trattamento che in quella guerra aveva subito lo stato stesso di neutralità. Un’altra giustificazione che fu addotta era che le autorità messicane volessero evitare che si verificassero anche in Messico atti di sabotaggio come quelli compiuti nei giorni precedenti dagli equipaggi dei bastimenti dell’Asse che si trovavano immobilizzati nelle acque di altri Paesi americani. L’ambasciatore messicano presso gli Stati Uniti, Francisco Castillo Nájera, affermò in una lettera scritta il 4 aprile al segretario di Stato statunitense Cordell Hull che le navi erano state sequestrate perché i loro equipaggi stavano “pianificando attività di sabotaggio contro i porti messicani”; nello stesso testo del decreto dell’8 aprile si indicava tra le motivazioni “i numerosi atti di sabotaggio effettuati nei primi mesi dell’anno in corso in vari Paesi del continente americano, da parte di equipaggi di navi belligeranti”. Anche il libro "Historia General de la Secretaría de la Marina-Armada de México" afferma che il sequestro fu compiuto “per prevenire atti di sabotaggio che avrebbero potuto danneggiare sia i porti nazionali che le navi stesse”. Il generale Francisco Luis Urquizo, all’epoca comandante dell’8a Zona Militare con quartier generale proprio a Tampico, scrisse nel suo libro di memorie "Tres de Diana" che “…una tale misura [la confisca delle navi] era giusta, perché solo a Tampico c’erano undici navi italiane e tedesche con un totale di novecento uomini di equipaggio tra tutte. Questo costituiva un pericolo, e sarebbe stata necessaria una rigida e costosa vigilanza militare per le navi ed i loro equipaggi, vigilanza che non sarebbe stata ricompensata dalla nostra stessa neutralità”. Qualche fonte messicana accenna anche a sabotaggi o danneggiamenti che sarebbero stati compiuti dagli equipaggi su alcune navi, senza però aggiungere niente di specifico (salvo che per l’Atlas).
Altra motivazione addotta era che le navi italiane e tedesche fossero in una “situazione illegale” essendo rimaste in porti messicani per un periodo maggiore rispetto a quello concesso dal diritto internazionale.
Sempre allo scopo di legittimare la confisca delle navi, qualche giorno prima di emettere il decreto di sequestro la Segreteria per le Relazioni Estere (equivalente al Ministero degli Esteri) del Messico aveva inviato un avvertimento ai Ministeri degli Esteri di Italia e Germania, informandoli che le autorità di quel Paese avrebbero sequestrato le navi straniere immobilizzate nei loro porti per impiegarle nel commercio e nel traffico marittimo d’altura e di cabotaggio, ed intimando loro, se intendevano evitarlo, di far lasciare alle loro navi le acque messicane. Se vi fossero rimaste, una volta decorso il tempo stabilito queste sarebbero state confiscate; tale disposizione non era attuabile, visto che se le navi dell’Asse avessero lasciato il Messico sarebbero state certamente intercettate e catturate od affondate da navi Alleate. Decorso dunque il limite di tempo concesso senza che le navi fossero partite, fu emesso il decreto sequestro; il presidente Ávila Camacho ordinò al generale Heriberto Jara, segretario della Marina, di prendere possesso delle navi italiane e tedesche.
Il sequestro delle navi rappresentò anche un gesto di avvicinamento del governo messicano a quello statunitense: già il 31 marzo, dando la notizia della confisca delle navi italiane e tedesche negli Stati Uniti ed in altri Paesi americani, alcuni giornali statunitensi avevano riferito che il Messico pianificava di prendere in custodia le navi italiane e tedesche presenti nei suoi porti, in un atto “di difesa continentale e di solidarietà con gli Stati Uniti”. L’azione, da parte di distaccamenti armati della Marina messicana, era correttamente annunciata per la notte successiva.
Il governo messicano si impegnò ad utilizzare le navi sequestrate in base ai diritti ad esso conferito dalle leggi internazionali come Paese neutrale, ed a corrispondere agli armatori italiani, a guerra finita, un congruo indennizzo per l’utilizzo delle loro navi da parte del Messico; gli armatori protestarono ugualmente per la confisca e presentarono una richiesta di protezione, che venne sospesa dal Dipartimento Legale del Ministero della Marina messicana.
 
Alcune fonti messicane contengono due errori relativamente al Marina O.: scrivono infatti che la nave sarebbe stata tedesca (mentre era italiana), e che al momento della cattura si sarebbe trovata a Veracruz (mentre era a Tampico). Ciò è probabilmente frutto di equivoci e confusione derivanti dal fatto che tutte le altre navi italiane catturate in Messico erano petroliere, mentre il Marina O. era una nave da carico, al pari dei bastimenti tedeschi; e che le petroliere si trovavano a Tampico mentre la maggior parte delle navi da carico era a Veracruz.
 
Il numero dei marittimi italiani (in maggioranza) e tedeschi a bordo delle navi confiscate in Messico è variamente indicato da fonti differenti in 306 (i soli italiani), o 352, o 555 (italiani e tedeschi), oppure poco meno di 600 tra italiani e tedeschi (quasi 500 sulle navi sequestrate a Tampico, quasi cento su quelle sequestrate a Veracruz), oppure “oltre novecento” tra italiani e tedeschi nella sola Tampico (ma questa è probabilmente un’esagerazione).
Sbarcati dalle navi, rimasero inizialmente in libertà a Tampico, considerati dalla legge messicana “migranti temporanei” e sottoposti alla vigilanza e responsabilità dei rispettivi consolati, che avevano trattato con le autorità locali affinché i marittimi rimanessero in libertà e che provvidero ad alloggiarli in alberghi del luogo; nell’ottobre 1941 le autorità messicane emisero un decreto con istruzioni per la permanenza in Messico degli equipaggi delle navi confiscate. Tra le altre cose si affermava che, essendo gli equipaggi composti da marittimi civili, dovessero essere soggetti alla legislazione messicana sul lavoro; con il cambio di nazionalità delle loro navi, il contratto di lavoro dei componenti degli equipaggi aveva legalmente termine, e la nazione ricevente (cioè il Messico) aveva l’obbligo di rimpatriarli presso il porto di registrazione di ciascuna nave e di pagare loro un indennizzo di importo equivalente a tre mesi di salario. La Segretaria del Governo (equivalente messicano del Ministero dell’Interno) emise i documenti necessari affinché gli ufficiali e gli equipaggi delle navi italiane e tedesche rimanessero in Messico in stato di libertà fino alla fine della guerra, o finché non fosse stato possibile reperire un mezzo sicuro per il loro rimpatrio.
I marittimi italiani rimasero a Tampico per quasi un anno, dopo di che il governo messicano decise di trasferirli via treno nella capitale ed in altre città dell’interno. Furono inviati a Guadalajara, dove continuarono a godere di libertà di movimento all’interno della città, e ad essere mantenuti dalle rispettive ambasciate. Il già citato genrale Francisco Luis Urquizo così rievoca quei tempi nel suo libro "Tres de Diana": “I novecento marinai italiani e tedeschi sbarcarono [dopo la confisca delle navi], sciamando per le vie del porto senza alcuna occupazione; la maggior parte erano giovani e forti, si mescolavano con i nostri connazionali. E con abilità suscitarono grande simpatia nella popolazione. Erano in numero maggiore rispetto ai soldati che sorvegliavano la piazza: un pericolo nascente su cui bisognava vigilare. Dopo lunghe negoziazioni, ottenemmo che gli equipaggi delle navi italiane e tedesche confiscate si trasferissero a Guadalajara. Dar loro l’addio alla stazione ferroviaria rappresentò un momento commovente. Erano riusciti a fare amicizia con molta gente. Si sentivano lontani dalle loro navi, dai loro nuovi amici, forse dai loro amori. Vedevano la guerra avvicinarsi e presagivano, forse, una lunga prigionia”.
Secondo una fonte, il trasferimento da Tampico a Guadalajara venne deciso in risposta ai timori dell’ambasciata italiana, preoccupata dalla possibilità che i marittimi italiani, se fossero rimasti a Tampico (zona all’epoca paludosa), avrebbero potuto essere contagiati dalla malaria, che vi era endemica. A Guadalajara gli internati furono alloggiati in una scuola provvisoriamente adattata per riceverli, situata all’incrocio tra le vie Mexicaltzingo e Niños Héroes; dall’ambasciata italiana ricevevano giornalmente 5 pesos e 60 centavos (centesimi) al giorno – una somma notevole, per il Messico dell’epoca – per provvedere al proprio sostentamento.
Su proposta del presidente di una squadra locale, il Club Deportivo Atlas de Guadalajara, i marinai italiani formarono anche una squadra di calcio; i suoi componenti divennero soci del Club Atlas, dal cui presidente ricevevano due-tre pesos al mese, e conobbero Eduardo “Che” Valdatti, uno dei più famosi calciatori messicani dell’epoca.
Anche la permanenza degli internati a Guadalajara giunse però al termine: con il rafforzamento delle relazioni tra Messico e Stati Uniti ed il peggioramento di quelle tra Messico ed Asse, ed in vista delle celebrazioni del quarto centenario della fondazione di Guadalajara (che avrebbero visto affluire in città una massa di visitatori che avrebbe reso più difficile tenere sotto controllo i marittimi stranieri), si decise di trasferire gli equipaggi delle navi in un luogo dove potessero essere meglio sorvegliati. Come pretesto per il trasferimento, fu addotto il cattivo comportamento di alcuni dei marittimi; un rapporto del Departamento de Investigación Política y Social (DIPS), un’agenzia di polizia/sicurezza e di intelligence, lamentava che i marittimi italiani e tedeschi fossero “pericolosi”, che passassero il loro tempo nelle osterie e nei biliardi e che nessuno desiderasse lavorare, dato che non mancavano loro i soldi (“…fu loro proposto un piano per il trasferimento in una zona di Jalisco, affinché lavorassero la terra (…) dissero che non potevano accettare la proposta perché le compagnie proprietarie delle navi continuavano a coprire i loro salari”). Altre preoccupazioni riguardavano la sicurezza politica e l’ordine sociale; gli ispettori federali Francisco Martinez e Francisco Urrutia avevano riferito al Segretario dell’Interno Miguel Alemán Valdés che scoppiavano spesso risse fra i marinai, e che questi contribuivano alla “trasgressione della morale pubblica” frequentando le prostitute e stringendo relazioni con le cameriere delle osterie e le ragazze dei quartieri poveri. Martinez ed Urrutia segnalavano il fastidio delle autorità locali per la quasi totale mancanza di vigilanza sui marittimi stranieri; le misure di controllo consistevano esclusivamente in un controllo giornaliero, del tutto insufficiente secondo Julio Serrano Castro, capo del Servizio d’Ispezione della Segreteria del Lavoro, dato che ciò non era servito ad evitare fughe. Serrano Castro aggiungeva che la permissività dei funzionari del servizio immigrazione aveva permesso il nascere di una serie di attività illecite, più precisamente di spionaggio e di propaganda; era noto, diceva il funzionario messicano in un rapporto, che gli ufficiali riferivano quotidianamente ai loro consolati le informazioni che raccoglievano. Questi ultimi erano tenuti in grande considerazione presso tutti i cittadini italiani, tedeschi e giapponesi residenti in città. In generale si rilevò un crescendo, nelle segnalazioni degli ispettori e dei servizi di informazione, nei toni allarmistici; il fatto, ad esempio, che i marittimi tedeschi leggessero un giornale tedesco stampato in Messico fu ritenuto prova sufficiente del loro coinvolgimento in “attività di propaganda”. Le segnalazioni sulla “pericolosità” dei marittimi si alternavano alle lamentele sul loro disinteresse nei confronti del lavoro. Alla fine si concluse che la permanenza dei marittimi dell’Asse a Guadalajara od in una qualsiasi altra grande città del Messico rappresentasse un problema per la pubblica sicurezza, e che fosse desiderabile evitare il contatto tra i marittimi e la popolazione messicana.
Nel febbraio del 1942 venne pertanto presa la decisione di internare i marittimi italiani e tedeschi nell’ex fortezza San Carlos di Perote, nello stato di Veracruz, dov’era stata allestita una “stazione migratoria” – ossia una sorta di centro accoglienza per immigrati, anche se ovviamente gli equipaggi delle navi confiscate non erano propriamente “immigrati” – in quanto la loro “situazione migratoria” risultava incerta (erano stati considerati dapprima “migranti temporanei” e poi “immigrati condizionali”). In sostanza, quello di Perote era un campo d’internamento (anche se la legge messicana faceva una netta distinzione tra i campi d’internamento, considerati luoghi di reclusione forzata, e le “stazioni migratorie”, considerati luoghi di “residenza temporanea” per stranieri che dovevano essere espulsi perché sprovvisti dei requisiti legali per la permanenza in Messico); i marittimi dell’Asse passarono sotto la responsabilità del DIPS. Il trasferimento da Guadalajara alla fortezza San Carlos avvenne nella notte dell’8 febbraio 1942, sotto la scorta di forze federali e di agenti della DIPS; giunsero così a Perote 520 internati, di cui 277 erano italiani e 243 erano tedeschi, tutti appartenenti agli equipaggi delle navi. L’età media dei marittimi italiani qui internati era di 35 anni; il più giovane ne aveva 16, il più anziano 60.
Il primo articolo del regolamento interno di Perote affermava che “si destina il forte di San Carlos nella città di Perote, Veracruz, come luogo di residenza degli stranieri che per causa di forza maggiore non possono essere espulsi in base all’articolo 185 della Legge Generale di Popolazione in vigore”. La fortezza era considerata ufficialmente come un luogo di detenzione temporanea per i marittimi, in attesa di poterli rimpatriare. Le negoziazioni per il rimpatrio avevano dato scarsi risultati, ed era ormai previsto che “temporanea” avrebbe significato “fino alla fine della guerra”. Per ospitare gli internati (era prevista una “capienza” di 200 famiglie), la fortezza di San Carlos aveva subito lavori di miglioramento dei pavimenti, degli impianti elettrici e dei servizi igienici, anche se queste modifiche si rivelarono poi comunque insufficienti. Le autorità messicane fornivano agli internati il necessario per vivere; ciascuno riceveva una paga giornaliera di 1,50 pesos, ed un rapporto della Croce Rossa del 16 agosto 1942, in seguito ad un’ispezione della fortezza, riferiva che “il cibo è eccellente. Gli acquisti vengono fatti nel mercato locale da un internato e [il cibo] viene cucinato dagli internati stessi. I pasti sono serviti in grandi mense”.
Le autorità messicane decisero anche che gli internati avrebbero lavorato durante il periodo di internamento nella fortezza: le attività inizialmente proposte erano la carpenteria, la produzione di salsicce, di pasta e di conserve di frutta e di legumi, e la fabbricazione di cordami. Nell’individuare tali attività si era tenuto conto delle capacità dei marittimi internati; avrebbero provveduto alla produzione di cibo i membri del personale di cucina delle navi, mentre marinai e macchinisti avrebbero potuto dedicarsi ai cordami ed alla carpenteria. Qualcuno dei marinai, d’altronde, aveva già messo in piedi per suo conto qualche piccola attività del genere. Il progetto proposto dalle autorità messicane, tuttavia, fu respinto dagli internati all’unanimità: in parte perché non era stato specificato quanto sarebbero stati pagati per tale lavoro, anzi, non era nemmeno stato precisato se sarebbero stati pagati; in parte perché, come riferirono i rappresentanti dei marinai, i marittimi non erano disposti a lavorare fino a quando non fossero stati rimessi in libertà. Essendo internati civili e non prigionieri di guerra, potevano rifiutarsi di lavorare: la Convenzione di Ginevra, infatti, prevedeva che soltanto i prigionieri di guerra potessero essere obbligati a lavorare, mentre era responsabilità dello Stato ospite il mantenimento degli internati civili. Naufragò così il progetto per l’impiego dei marittimi internati in attività produttive. I marittimi si diedero autonomamente una loro organizzazione interna, al di là delle direttive governative; potevano lasciare Perote per motivi personali (matrimoni) o per ricoveri ospedalieri (a seconda della gravità, erano inviati nell’ospedale di Jalapas, capitale dello stato di Veracruz, oppure direttamente a Città del Messico), previo rilascio di un permesso speciale. I marittimi che sposavano donne messicane o che avevano figli da loro potevano fare richiesta per essere rimessi in libertà e per avviare le pratiche per la naturalizzazione.
Con la dichiarazione di guerra del Messico ai Paesi dell’Asse, il 22 maggio 1942 (decisa proprio in seguito al siluramento di alcune petroliere ex italiane, ed ora messicane, da parte degli U-Boote tedeschi), i marittimi italiani e tedeschi divennero, da cittadini di Paesi belligeranti in un Paese neutrale, cittadini di Paesi nemici; nella sostanza, però, la loro situazione non cambiò di molto.
A partire dal giugno 1942, ai marittimi delle navi confiscate andò ad aggiungersi, nel forte di Perote, una nuova categoria di internati: cittadini di Paesi dell’Asse – in maggioranza tedeschi – arrestati per reati di spionaggio, sabotaggio, disobbedienza agli ordini di internamento ed altri reati “politici”; rimasero comunque una minoranza (su 605 internati che in tutto furono “ospitati” nella fortezza, solo 85 appartenevano a questa categoria).
La fortezza di San Carlos era presidiata da una guarnigione estremamente ridotta: il perimetro della fortezza era vigilato da un numero di soldati dell’Esercito che variava tra i quindici ed i venticinque, mentre le entrate e le uscite erano sorvegliate da quattro o più agenti della DIPS. Il giornalista messicano Jorge Sandoval Piñó, che visitò Perote alla fine del 1942, rimase stupito da un corpo di guardia tanto ridotto per una popolazione di internati tanto grande; scrisse in un suo articolo: “…ciò che più sorprenderà è che 586 internati sono sorvegliati da niente più che il colonnello Tello, due aiutanti, tre ispettori del Governo ed un picchetto di truppe federali. C’è qualcosa di ancor più sorprendente: il colonnello Tello non usa la pistola”. In generale, la carenza della vigilanza rimase un problema costante della “stazione migratoria” di Perote, mostrando il lassismo delle autorità verso la presunta “pericolosità” degli internati. Un autoproclamato Comitato Antifascista di Perote denunciò alle autorità che “…nella fortezza di San Carlos (…) si sta commettendo un gran numero di irregolarità, le anomalie che vi si riscontrano sono queste: si gioca a carte su vasta scala, ci si ubriaca, di notte i tedeschi e gli italiani escono con il permesso del comandante della fortezza e tornano prima dell'alba in stato di ubriachezza”. Gli internati riuscivano senza molti problemi ad entrare ed uscire a dispetto di quella che sarebbe dovuta essere una ferrea vigilanza; il generalizzato lassismo delle autorità responsabili della “stazione migratoria” di Perote andò poi gradualmente calando a fronte delle proteste della stampa e dei “comitati antifascisti” locali. Il contrabbando di alcol nella fortezza a quanto pare costituì un problema non da poco per le autorità locali, che lo combatterono con divieti e restrizioni sia verso gli internati che verso la popolazione del luogo, nonché modificando i turni di guardia per fare in modo che ci fossero sempre degli agenti del DIPS (ritenuti più affidabili dei soldati) tra coloro che vigilavano sugli internati, ad ogni ora.
Il già citato giornalista Jorge Sandoval Piñó, nella sua visita, osservò la vita quotidiana degli internati a San Carlos: si pranzava a mezzogiorno; dopo pranzo, si giocava a calcio; alle 16.30 o 17.30, a seconda del giorno, si faceva l’appello. Gli italiani avevano mantenuto la numerazione degli equipaggi delle navi, mentre i tedeschi avevano inventato una nuova numerazione per i loro uomini. La cena era alle 18, dopo di che gli internati commentavano le notizie riportate su giornali; era questo “il secondo evento più importante” della giornata. Alle 21 veniva suonato il silenzio e si andava a dormire. Le autorità avevano autorizzato gli internati ad “autogestire” la loro vita e l’organizzazione interna della stazione, scrisse Piñó, perché esse non disponevano delle risorse e dell’organizzazione per provvedere alle esigenze di base degli internati, quindi preferivano che fossero loro a provvedere da sé con il denaro che veniva loro fornito per il sostentamento. Gli internati versavano il loro sussidio giornaliero in un fondo comune, che veniva utilizzato per acquistare le provviste, così dividendo le spese per il cibo; le provviste erano fornite da don Darío, un ricco commerciante di Perote. Il sistema funzionava bene, i pasti erano abbondanti; Sandoval Piñó scrisse in proposito che “i tedeschi mangiavano patate a tonnellate, e gli italiani non potevano vivere senza gli spaghetti”. Gli internati bevevano caffè e fumavano, “anche troppo”; a mezzogiorno il pranzo di ciascuno consisteva in “quattro o cinque costolette, una montagna di patate al vapore ed un’altra di legumi cotti”. Per quanto riguardava la sistemazione degli internati, la parte anteriore dell’edificio principale del complesso fortificato era la più abbandonata, mancando persino di tetti e di pavimenti in alcuni punti; gli alloggi degli internati occupavano gli altri tre lati dell’edificio, mentre l’ufficio e l’appartamento del colonnello Tello erano sistemati nella parte alta. L’ala sinistra era occupata dagli internati italiani e giapponesi, quella destra dai tedeschi. Sandoval Piñó osservò anche che “tra i marinai italiani c’erano solidarietà e coesione – normalmente vivevano in gruppi di 2 o 3 – ma non tra i tedeschi, una parte di essi erano stati isolati dal resto, erano gli autoproclamati antifascisti”.
Nel marzo 1943 i marittimi italiani vennero trasferiti dalla fortezza di Perote all’ex azienda agricola (hacienda) San Antonio ad Irapuato, nello stato di Guanajuato, lasciando a Perote i soli tedeschi (e così dimezzando la popolazione complessiva della fortezza). Sulla vita degli internati all’ex hacienda rimangono pochi documenti; uno di essi, un rapporto della DIPS, menzionava che i marittimi si recavano spesso nel villaggio a giocare a carte, scommettere ed ubriacarsi.
In seguito, le autorità messicane assegnarono ai marittimi italiani dei posti di lavoro affinché potessero guadagnare il denaro necessario a sostentarsi finché non fosse stato possibile il loro rimpatrio; contemporaneamente, essendo in tal modo i marittimi divenuti economicamente autosufficienti, le medesime autorità interruppero l’erogazione dei sussidi loro concessi dalla data di confisca delle navi. L’indennizzo per i marittimi fu calcolato dalla Segreteria del Lavoro (equivalente messicano del Ministero del Lavoro) e pagato dalla Tesoreria e Credito Pubblico alla fine della guerra, scontandone l’ammontare già anticipato prima del pagamento e con l’aggiunta degli interessi.
 
Non tutti gli uomini del Marina O. videro la fine della guerra: il fuochista Leonardo De Cortes (o Degortes), da Olbia (o Terranova Pausania), morì in prigionia in Messico il 22 settembre (o novembre) del 1944.
 
Dopo il sequestro il possesso del Marina O., al pari di quello delle altre navi, passò inizialmente alla Segreteria della Marina messicana, che inviò a bordo dei bastimenti sequestrati, al posto degli equipaggi italiani frattanto sbarcati, i propri uomini: per ordine del contrammiraglio Hurtado de Mendoza, che aveva preso in consegna le navi per ordine superiore, queste ultime vennero subito “presidiate” da uomini della Fanteria di Marina e da ufficiali del "Cuerpo General" (cioè ufficiali di vascello) e di macchina; inoltre, il Dipartimento delle Comunicazioni Naval (Departamento de Comunicaciones Navales) assegnò dei propri radiotelegrafisti alle stazioni radio di ciascuna nave. Tali misure “erano state rese necessarie dallo stato in cui alcune delle navi erano state trovate”.
Il Segretario agli Affari Esteri (Ministro degli Esteri) del Messico, Ezequiel Padilla Peñaloza, formò una commissione mista integrata da funzionari della Tesoreria, delle Segreterie della Marina e delle Relazioni Estere e della società Petróleos Mexicanos, con il compito di redigere l’“inventario” delle navi confiscate, nonché di ricevere i reclami degli armatori che chiedevano un indennizzo per la confisca della proprietà. Sul pagamento degli indennizzi, che sarebbe avvenuto a fine guerra, fu stipulato un accordo l’11 giugno 1941, senza però specificarne l’ammontare. Il 18 luglio, con un altro accordo con le Segreterie delle Finanze e del Governo, fu deciso che le spese per il mantenimento in Messico degli equipaggi fino a fine guerra sarebbero state dedotte dall’indennizzo delle navi confiscate.
L’8 dicembre 1941, in seguito all’entrata in guerra degli Stati Uniti, il Marina O. venne formalmente confiscato dal Governo messicano e noleggiato alla neocostituita Compañía Mexicana de Navegación S. de R. L. y C. V., con sede a Tampico, ricevendo il nuovo nome di Tabasco (lo stesso avvenne ai piroscafi ex tedeschi, mentre le petroliere vennero trasferite alla Pemex, la compagnia petrolifera di Stato del Messico).
Il comando delle navi ex italiane fu affidato ad ufficiali della Marina messicana, ed i loro nuovi equipaggi – interamente messicani – furono formati in parte da personale della fanteria di Marina nonché da ufficiali di coperta, di macchina e radiotelegrafisti appartenenti anch’essi alla Armada de México. In particolare, per ordine della Segreteria della Marina i ruoli di comandante, primo e secondo ufficiale di coperta, direttore di macchina, primo e secondo ufficiale di macchina e radiotelegrafista furono ricoperti da ufficiali dell’Armada.
 

Il Tabasco a Veracruz a fine anni ’40 (Instituto Nacional de Antropología e Historia de México)


I trasporti marittimi del Messico in tempo di pace facevano affidamento quasi del tutto sul naviglio estero: la flotta mercantile messicana consisteva in poche piccole unità adatte solo al traffico costiero, con un solo bastimento d’altura, l’Uxmal, di proprietà del governo federale messicano. Come già avvenuto per la flotta petroliera, quadruplicata grazie all’acquisizione delle navi cisterna italiane, anche la flotta da carico messicana beneficiò considerevolmente dell’afflusso delle navi confiscate all’Asse, pur essendo queste molto meno numerose delle petroliere: erano infatti soltanto tre, il Marina O. ed i due piroscafi tedeschi Hameln ed Orinoco, ribattezzati rispettivamente Oaxaca e Puebla. Tutte furono affidate alla Compañía Mexicana de Navegación, creata appositamente per lo scopo (la presiedeva Gonzalo Abaunza, coadiuvato dall’ingegner Alberto José Pawling, esperto di questioni marittime e funzionario del Dipartimento della Marina nonché futuro sottosegretario alla Marina), cui venne noleggiato anche l’Uxmal.
La Compañía Mexicana de Navegación venne incaricata del trasporto di merci e passeggeri tra i porti messicani e quelli stranieri del Golfo del Messico; il 30 aprile 1941 venne firmato un contratto con 38 clausole, redatto dal Dipartimento Giuridico (Departamento Jurídico) della Segreteria della Marina, tra quest’ultima e la Compañía Mexicana de Navegación, nel quale si definivano le condizioni della gestione delle navi e le caratteristiche del servizio di trasporto di merci e passeggeri che la compagnia avrebbe dovuto svolgere tra i porti messicani della costa del Golfo e quelli esteri.
Uno dei primi compiti della piccola flotta della Compañía Mexicana de Navegación consisté nel rifornimento di mais della popolazione dello Yucatan, i cui raccolti erano stati distrutti da un’invasione di locuste proprio nell’estate del 1941. L’impiego dei piroscafi confiscati all’Asse non fu scevro di problemi: erano infatti più grandi di qualsiasi altro bastimento che avesse fino a quel momento navigato sotto bandiera messicana lungo le rotte costiere del Golfo del Messico; inoltre, i danni causati dal sabotaggio attuato dagli equipaggi prima della cattura si rivelarono più gravi di quanto inizialmente ritenuto e costrinsero a lunghe e costose riparazioni negli Stati Uniti, al termine delle quali per giunta il governo messicano noleggiò il Puebla – la più grande e moderna delle tre unità confiscate all’Asse – ad armatori statunitensi, violando l’accordo stipulato con la Compañía Mexicana de Navegación. Come se non bastasse, nel giugno 1942 l’Oaxaca venne affondato da un U-Boot tedesco, così che la già striminzita flotta della compagnia si ridusse ai soli Tabasco ed Uxmal; il Tabasco, in particolare, fu posto in servizio su una rotta circolare che da Tampico portava a New Orleans con tappe intermedie a Veracruz ed all’Avana, ma la potente lobby degli esportatori di henequen dello Yucatan (che pure, finché era stato possibile, aveva preferito noleggiare navi norvegesi per i suoi commerci, e che anzi aveva accolto con ostilità la nascita della Compañía Mexicana de Navegación, colpevole di aver adibito l’Uxmal al trasporto di zucchero da Cuba a New Orleans, così riducendo il potere negoziale che gli esportatori di henequen detenevano nei confronti degli armatori norvegesi, dai quali strappavano prezzi di favore con la minaccia di ricorrere altrimenti all’Uxmal, che intanto era sempre lasciato inattivo in porto) pretese che nell’itinerario venissero inseriti anche degli scali in quella regione. La compagnia tentò di accontentare queste richieste, ma l’eccessivo pescaggio del Tabasco obbligò a trasbordare il carico su delle chiatte a Progreso, operazione che prolungò il viaggio a 48 giorni, facendo deteriorare il mais contenuto nelle stive.
Dopo questa disastrosa esperienza, lo scalo nello Yucatan venne abbandonato; gli strascichi di questa vicenda avrebbero decretato la fine della Compañía Mexicana de Navegación, in quanto le pressioni degli esportatori di henequen indussero il 4 maggio 1943 il governo messicano a rescindere il suo contratto con la compagnia, trasferendo l’Uxmal al governo statale dello Yucatan. Nel decreto con cui il contratto veniva dichiarato decaduto, si affermava che la compagnia fosse venuta meno “con allarmante frequenza… all’adempimento delle obbligazioni” derivanti dal contratto: aveva violato la prima clausola, stabilendo nei mesi di febbraio e marzo 1943 un servizio di navigazione esclusivamente tra porti stranieri (impiegando il Tabasco tra Cuba e New Orleans) senza informare la Segreteria della Marina “ed inoltre contro i suoi espressi ordini, con grave pregiudizio per il servizio di comunicazione del Paese, interrompendo, nel mentre e senza causa giustificata, il servizio pubblico di navigazione tra i porti messicani e stranieri”; la seconda clausola, non avendo pagato pienamente le imposte all’erario nazionale previste nel contratto; le clausole terza e settima, per non aver svolto i lavori di manutenzione e riparazione necessari a mantenere le navi in perfette condizioni di efficienza ed ordine; non aveva adeguatamente assicurato il Tabasco e l’Uxmal contro i rischi bellici (che erano da considerarsi tra i rischi “di tutti i tipi” che avrebbero dovuto essere coperti da assicurazione secondo quanto stabilito dal contratto), esponendoli al contempo (mentre erano di proprietà dello Stato, e solo in gestione alla compagnia) a tali rischi (il Tabasco, in particolare, era rimasto scoperto dal 14 al 21 marzo 1943, in quanto la Compagnia si era rifiutata di pagare il premio assicurativo per tale periodo); non aveva stabilito un itinerario preciso per assicurare un servizio regolare tra i porti messicani e quelli stranieri del Golfo; aveva omesso il servizio postale, non rinnovando i relativi contratti; infine, “risulta una palese volazion a quanto espressamente pattuito in merito al divieto assoluto per la compagnia di disporre delle concessioni, dei diritti in esse contenuti, delle navi e dei loro servizi”, in particolare alienando in favore della compagnia assicurativa “i diritti patrimoniali della nazione” derivanti dall’assicurazione del Tabasco e dal relativo risarcimento trasferendo l'importo in anticipo per coprire i costi di pagamento dei premi per l'assicurazione dell’Oaxaca per il semestre dicembre 1942-giugno 1943, il che aveva portato all’annullamento dell’assicurazione sul Tabasco, “con conseguente interruzione sia dei contratti di assicurazione che del servizio di trasporto pubblico, come si è detto, con la conseguente violazione delle disposizioni del contratto”. Insieme al decadimento del contratto, la compagnia perse i 100.000 pesos versati come cauzione sull’eventuale inadempimento del contratto.
Per effetto del decadimento del contratto, il Tabasco e l’Uxmal tornarono sotto il diretto controllo della Segreteria della Marina, che tornò ad esercitare pienamente i suoi diritti di proprietà sui due bastimenti. Dell’Uxmal si è già detto; quanto al Tabasco, troppo grande per i traffici costieri (mentre l’economia messicana, ancora agricola ed orientata verso il consumo interno, non necessitava di grosse navi per le sue modeste importazioni ed esportazioni), venne adibito al trasporto di zucchero dall’Avana agli Stati Uniti.
 
Il Tabasco passò dunque la guerra a trasportare merci tra i porti del Golfo del Messico. Viaggiò varie volte in convoglio tra il 1942 ed il 1943: in particolare, l’11 settembre 1942 salpò da Galveston Bar con il convoglio HK. 102 diretto a Key West, dove giunse il 15 settembre, proseguendo subito per Guantanamo insieme al convoglio KG. 602, col quale giunse a destinazione il 19 settembre. Il 14 ottobre salpò da Key West insieme al convoglio KP. 411, arrivando a Pilottown tre giorni dopo; il 7 novembre lasciò il South West Passage con il convoglio HK. 116, raggiungendo Key West dopo tre giorni, per poi raggiungere L’Avana il 12 novembre insieme al convoglio KC. 9, proseguendo subito per Key West. Il 29 novembre arrivò a Key West con il convoglio CK. 313, proseguendo per L’Avana; il 1° dicembre 1942 salpò da Key West per Pilottown insieme al convoglio KP. 423, giungendo a destinazione il 4 dicembre. Il 14 giugno 1943 salpò da Galveston Bar per Key West con il convoglio HK. 194; giunto a Key West il 18 giugno, ne ripartì dieci giorni dopo insieme al convoglio KG. 642, col quale arrivò a Guantanamo il 1° luglio. Il 7 luglio 1943 lasciò Key West per Pilottown con il convoglio KH. 401, giungendo a destinazione il 9 luglio.
 
Metà delle navi italiane confiscate dal Messico furono affondate dagli U-Boote tedeschi durante la seconda guerra mondiale; quelle che sopravvissero, tra cui il Tabasco, rimasero al Messico anche dopo la fine della guerra, in base ad accordi presi tra il governo messicano e quello italiano nel dopoguerra.
Il 29 dicembre 1948 la Camera dei Deputati del Messico votò all’unanimità (97 voti favorevoli, nessun contrario) un decreto a firma di Abraham González Rivera e Fernando Cruz Chávez che regolava le questioni relative al sequestro di beni appartenenti a cittadini italiani verificatosi durante il conflitto, con la quale tra l’altro si dichiaravano proprietà nazionale (del Messico) il Tabasco e le altre navi ex italiane sopravvissute alla guerra, con tutti i diritti e le indennità relative al loro possesso, così come le somme versate dalle assicurazioni per il risarcimento della perdita delle petroliere ex italiane affondate durante la guerra. Il governo italiano, da parte sua, aveva rinunciato ad ogni diritto in merito nel trattato di pace firmato a Parigi nel 1947 (articolo 76, paragrafi primo e quinto). Nel terzo articolo del decreto approvato dal parlamento messicano, si affermava che «in accordo con quanto deciso dall’Esecutivo il 4 luglio 1945 attraverso la Commissione Intersecretariale sulle Proprietà ed Attività del Nemico, sono proprietà della nazione le navi Poza Rica ex Fede; Ebano ex Stelvio; Minatitlán ex Tuscania; Pánuco ex Giorgio Fassio; e Tabasco ex Marina O., così come i diritti e le indennità inerenti al loro possesso».
L’accordo definitivo col quale si regolarono tutte le questioni pendenti tra gli armatori italiani e le autorità messicane fu stipulato a Città del Messico il 10 luglio 1952 tra il Governo italiano – rappresentato dall’ambasciatore d’Italia in Messico Luigi Petrucci, per conto sia del Governo stesso che degli armatori delle navi sequestrate nel 1941 – e la Petroleos Mexicanos – rappresentata dal suo direttore generale, senatore Antonio J. Bermudez –; esso stabiliva nella terza clausola che «Il Governo italiano riconosce al Messico la proprietà esclusiva delle seguenti cinque navi attualmente naviganti che furono sequestrate dal Governo messicano in base al Decreto in data 8 aprile 1941: "Poza Rica" (ex-Fede); "Ebano" (ex-Stelvio); "Minatitlan" (ex-Tuscania); "Panuco" (ex-Giorgio Fassio) e "Tabasco" (ex-Marina O.)» e che in cambio (quarta clausola) «"Petroleos Mexicanos" e' d'accordo nel dedurre dalla somma menzionata nella clausola 1ª del presente Accordo [somma che da parte italiana si doveva corrispondere alla Petroleos Mexicanos per la perdita in guerra di Minatitlan e Panuco, due navi cisterna gemelle ordinate dalla Pemex ai cantieri Ansaldo e poi confiscate ancora in costruzione dall’Italia, e per la tardiva consegna di una terza gemella, la Poza Rical'importo di una equa indennità riconosciuta a favore degli armatori  italiani ex-proprietari delle 10 navi a cui si riferisce la clausola 3ª. Tale indennità viene fissata nella somma specificata per ciascuna delle navi che figurano nell'allegato n. 2, per un importo totale  di Doll. 6.458.187,00».
 
Nel luglio 1960 il Tabasco trasportò a Valparaiso materiali da costruzione, viveri, vestiario ed una squadra di medici ed infermiere: aiuti inviati dal Messico al Cile devastato dal terremoto di Valdivia, il più violento evento sismico della storia (magnitudo 9,5). Insieme ad essi giunse con il Tabasco persino una banda di mariachi.
La carriera del vecchio piroscafo ebbe fine nel 1962, quando fu demolito a Veracruz.
 
Il Tabasco nel 1950 (Instituto Nacional de Estudios Históricos de las Révoluciones de México)