lunedì 25 giugno 2018

Capo Vita

Il Capo Vita nel 1939 (g.c. Mauro Millefiorini, via www.naviearmatori.net)

Piroscafo da carico di 5683 tsl e 3536 tsn, lungo 121,9-125,5 metri, largo 16,15 e pescante 9,8, con velocità di 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 2227 al Compartimento Marittimo di Genova; nominativo di chiamara IBJQ.

Breve e parziale cronologia.

1914 ca.
Impostato nel cantiere di Howdon-on-Tyne della Northumberland Shipbuilding Company Ltd. per conto del Lloyd Austriaco (numero di costruzione 226).
Poco dopo, tuttavia, lo scoppio della prima guerra mondiale vede Regno Unito ed Impero Austro-Ungarico diventare nemici, ragion per cui l’ordine del Lloyd Austriaco viene meno.
1915
La nave, ancora in costruzione, viene acquistata dalla Manchester Liners, che ha preso tale decisione a seguito della perdita di uno dei propri piroscafi (il Manchester Commerce, saltato su una mina nel 1914) ed in considerazione del prossimo forte aumento dei prezzi, legato alla requisizione di gran parte del naviglio mercantile per le esigenze della guerra. Il piroscafo riceve il nome di Manchester Hero e subisce alcune modifiche, in base alle specifiche fornite dal nuovo committente.
Gennaio 1916
Completato dal cantiere di Howdon-on-Tyne della Northumberland Shipbuilding Company Ltd. come britannico Manchester Hero, per la compagnia Manchester Liners Ltd. di Manchester.
Stazza lorda e netta originarie sono 5775 (o 5738) tsl e 3664 tsn; nominativo di chiamata GPVS, porto di registrazione Manchester.
5 febbraio 1917
Mentre è in navigazione nell’Atlantico, al largo della costa sudoccidentale dell’Irlanda, il Manchester Hero (al comando del capitano Perry) viene inseguito e cannoneggiato da un U-Boot tedesco. In sala macchine i fuochisti, cui per l’emergenza si uniscono altri volontari dell’equipaggio, raddoppiano gli sforzi e riescono a spremere l’apparato motore fino a fargli raggiungere una velocità di ben 16 nodi, quattro e mezzo in più della velocità massima di progetto, permettendo così al piroscafo di sfuggire al suo inseguitore.
L’apparato motore del Manchester Hero, tuttavia, non si riprenderà mai del tutto dal terribile sforzo cui è stato sottoposto per salvare la nave.
Ottobre 1917
Il Manchester Hero si unisce ad un convoglio di 17 navi in navigazione da Sydney, Nuova Scozia (da non confondersi con l’omonima città australiana), all’Inghilterra.

Il Manchester Hero in arrivo ad Eastham dopo la prima guerra mondiale (Coll. Kevin Blair via www.tynebuiltships.co.uk)

17-18 dicembre 1919
Il Manchester Hero, in navigazione da Manchester a St. John, rimane alla deriva nell’Atlantico a seguito della rottura del timone, e deve chiedere aiuto via radio. Successivamente comunica via radio di essere riuscito a riparare gli apparati di governo e di aver ripreso la navigazione, ma più tardi il timone si guasta nuovamente, lasciando la nave alla deriva ad un centinaio di miglia di Halifax, fuori controllo e sospinto dalle correnti verso sud a circa tre miglia all’ora.
Risolto anche questo problema, il piroscafo riesce infine a raggiungere St. John la sera del 18, ormeggiandosi fuori dal porto a causa di una bufera di neve in corso, che ostruisce la visuale.
5 gennaio 1925
Il Manchester Hero accorre in soccorso del piroscafo Sachem, il quale, in navigazione da Liverpool a Boston (via St. John’s e Halifax) con passeggeri a bordo, è rimasto alla deriva nel mare mosso a 360 miglia da Terranova, a causa della rottura del timone (verificatasi il 4 gennaio).
Raggiunto il Sachem il mattino del 5, il Manchester Hero lo rimorchia a St. John’s, Terranova.
Novembre 1925
Il Manchester Hero, trovandosi in un porto statunitense, viene urtato da una chiatta ferroviaria della Western Maryland Railway trainata dal rimorchiatore Dauntless, riportando danni poi quantificati in 10.700 dollari. La responsabilità della collisione verrà valutata dal tribunale come interamente riconducibile alla sola colpa del Dauntless.

Il Manchester Hero in partenza da St. Johns (New Brunswick) il 23 aprile 1929 (Coll. Hubert Hall, via Stuart Smith e www.shipsnostalgia.com)

1934
L’ingegnere britannico Alfred William Tennis sperimenta sul Manchester Hero un nuovo sistema di alimentazione meccanica delle caldaie di sua invenzione. I risultati positivi del nuovo sistema inducono la Manchester Liners ad adottarlo su diverse altre navi della propria flotta.
1937
Acquistato dalla Barry Shipping Company Ltd. di Newport (Galles; proprietario Richard Street di Penarth) e ribattezzato St. Winifred; in gestione a B & S Shipping Company Ltd.
La Barry Shipping Company ha pagato oltre 40.000 sterline per l’acquisto del Manchester Hero: una cifra ragguardevole, notano alcuni giornali, per una nave di seconda mano, vecchia di ventun anni, come questa, che appena pochi anni prima non avrebbe potuto essere venduta a più di 8000 sterline. L’incremento dei traffici marittimi è alla base di tale aumento dei prezzi delle navi di seconda mano.
21 maggio 1938
Il St. Winifred (al comando del capitano Ormston), trovandosi nel porto di Alicante durante la guerra civile spagnola (è qui giunto da Newport con un carico di carbone), viene colpito e danneggiato durante un bombardamento compiuto dall’aviazione nazionalista spagnola.
6 giugno 1938
Il St. Winifred, che si trova ancora ad Alicante intento a scaricare un carico di provviste (di cui la città ha grande bisogno), viene nuovamente colpito da una o più bombe – sganciate da cinque aerei trimotori Junkers, di produzione tedesca – ed incendiato, durante una nuova incursione aerea nazionalista svoltasi a mezzogiorno.
Dei 33 membri del suo equipaggio, cinque rimangono uccisi (tra di essi il ragazzo di cabina John Edward Flynn, di 17 anni, il marinaio Joseph O’Keefe, di 48, il quarto macchinista Lancelot Shepherd Halliday ed altro marittimo, James Reardon) ed una dozzina sono feriti. Muoiono sul St. Winifred anche due scaricatori di porto spagnoli, mentre un osservatore del Comitato di Non Intervento, che si trova a bordo del piroscafo, viene ferito e tramortito (“ironicamente”, annota qualche giornale britannico che stigmatizza l’inazione di tale Comitato dinanzi alle palesi violazioni degli accordi da parte di Italia e Germania) dallo scoppio di una bomba.
Le fiamme avvolgono rapidamente il piroscafo, ma l’incendio viene portato sotto controllo entro la prima serata.
Dopo aver colpito il St. Winifred, gli aerei sganciano bombe anche sulla città di Alicante (sia nella zona vicina al porto che sul centro cittadino), distruggendo una dozzina di edifici e causando 17 vittime tra la popolazione civile (7 uomini, 9 donne ed un bambino). In tutto, le vittime in porto ed in città sono alla fine 30 (compresi i marinai del St. Winifred), ed i feriti 118.
Il danneggiamento del St. Winifred desta grande impressione a Londra; il 7 giugno lo statista britannico David Lloyd George, già primo ministro del Regno Unito durante la prima guerra mondiale, lamenta la mancata reazione del governo britannico ai ripetuti attacchi aerei contro le proprie navi mercantili nei porti spagnoli, denunciando che “oggi la bandiera inglese è la burla di tutte le nazioni”. Nella settimana precedente i bombardamenti sulla costa mediterranea spagnola, da parte dell’aviazione nazionalista, hanno causato oltre 400 vittime, destando vibranti, ma inutili, proteste della comunità internazionale.
10 giugno 1938
Durante un nuovo bombardamento di Alicante da parte di cinque aerei dell’aviazione nazionalista (effettuato, a seconda delle fonti, alle 18 oppure durante la notte), che causa – secondo fonti del governo repubblicano – oltre cento vittime civili e la distruzione di numerose abitazioni, il St. Winifred viene colpito da un’altra bomba ed ulteriormente danneggiato, così gravemente da farlo ritenere perduto; rimane a stento a galla. Nello stesso attacco viene anche affondato un altro piroscafo britannico, il Thorpehaven.
Lloyd George, durante un discorso pubblico tenuto negli stessi giorni, rincara la dose e critica aspramente la debolezza delle proteste del governo britannico dinanzi ai ripetuti affondamenti e danneggiamenti di navi britanniche (impegnate nel traffico di munizioni, provviste e carbone per la Repubblica spagnola) in porti spagnoli, accusando il governo britannico di “strisciare davanti all’Italia ed alla Germania” (che sono dietro gran parte di queste incursioni).
Tra il 15 maggio ed il 10 giugno 1938, Alicante ha subito ben 32 bombardamenti aerei, che hanno causato un imprecisato numero di vittime, 2000 feriti e l’affondamento in porto di tre navi britanniche.
1938
Rimorchiato a Marsiglia, il St. Winifred viene dichiarato «constructive total loss», ossia danneggiato così gravemente da rendere impossibile, o comunque economicamente non conveniente, la sua riparazione. La Barry Shipping Company decide di metterlo in vendita.
1939
Il piroscafo viene acquistato dalla Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore S.A., con sede a Genova, che lo ripara e lo ribattezza Capo Vita.
("Navi mercantili perdute" menziona l’ultimo armatore del Capo Vita come “Compagnia Generale di Navigazione a Vapore”, ma sembra plausibile che si tratti meramente di un refuso, “Generale” al posto di “Genovese”).

(archivio privato GioMar via Agenzia Bozzo)

6 settembre 1940
Requisito a Livorno dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
15 settembre 1940
Il Capo Vita ed il piroscafo Capo Orso partono da Napoli alle 23, diretti a Tripoli con la scorta della torpediniera Orsa.
18 settembre 1940
Capo Vita, Capo Orso ed Orsa arrivano a Tripoli alle 9.30 (18.30 per altra versione).
4 ottobre 1940
Il Capo Vita lascia Tripoli per Bengasi alle 18. Lungo la rotta diverse unità, a seconda delle giurisdizioni, si alternano nella sua scorta.
6 ottobre 1940
Arriva a Bengasi alle 17.
14 ottobre 1940
Il Capo Vita e la piccola motonave frigorifera Amba Alagi lasciano Bengasi alle 16 per tornare a Tripoli, scortati dalla torpediniera Generale Achille Papa.
16 ottobre 1940
Il convoglietto giunge a Tripoli alle 15.40.
Alle 18 il Capo Vita riparte da Tripoli in convoglio con il piroscafo Aquitania e la nave scorta ausiliaria F 130 Luigi Rizzo, diretto a Palermo, con la scorta della torpediniera Sirio.
18 ottobre 1940
Il convoglio arriva a Palermo alle 16.30.
24 ottobre 1940
Il Capo Vita parte da Napoli alle 22 diretto a Tripoli, scortato durante la navigazione da diverse unità che si alternano in base alla giurisdizione.
27 ottobre 1940
Arriva a Tripoli alle 11.30.
Successivamente rientra in Italia.
8 dicembre 1940
Il Capo Vita e due altri piroscafi, Fenicia e Castelverde, salpano da Napoli per Tripoli alle 15, scortati dalla torpediniera Clio.
A Trapani la Clio viene rilevata dalla torpediniera Generale Achille Papa.
11 dicembre 1940
Le navi raggiungono Tripoli alle 14.
20 dicembre 1940
Il Capo Vita lascia Tripoli alle 21 diretto a Bengasi, scortato dalla torpediniera Centauro.
22 dicembre 1940
Giunge a Bengasi alle 13.
4 gennaio 1941
Riparte da Bengasi alle 17.30 per tornare a Tripoli, venendo scortato lungo la rotta dalle torpediniere Antonio Mosto (da Bengasi) e Centauro (da Tripoli).
7 gennaio 1941
Arriva a Tripoli alle 10.
12 gennaio 1941
Il Capo Vita lascia Tripoli alle 17.30 per rientrare in Italia, insieme alla motonave Assiria ed alla piccola nave cisterna Ennio. Li scorta l’incrociatore ausiliario Caralis.
15 gennaio 1941
Il convoglio giunge a Palermo alle 8. Successivamente prosegue per Napoli.
16 gennaio 1941
Il convoglio arriva a Napoli alle 18.

L’affondamento

Il 6 marzo 1941, alle otto di sera, il Capo Vita, al comando del capitano di lungo corso Santo De Micheli, partì da Palermo diretto a Biserta (destinazione questa che risulta piuttosto strana, dato che la Tunisia non era all’epoca ancora controllata dall’Asse: e difatti risulta poi che le navi abbiano fatto rotta per Tripoli), con un carico di munizioni. Formava un convoglio con altri due piroscafi, Caffaro e Fenicia, e con la cisterna militare Tanaro; la scorta era rappresentata dall’incrociatore ausiliario Attilio Deffenu (capitano di fregata Angelo Coliolo) nonché, per il primo tratto, dalla torpediniera Generale Achille Papa.
Il 7 marzo, a seguito dell’avvistamento di navi da guerra nemiche al largo di Zuara, Supermarina impartì a tutti i convogli in mare l’ordine di rientrare in porto: tra questi convogli era anche quello che comprendeva il Capo Vita, che si rifugiò a Trapani (a motivo di questo dirottamento sono addotti anche “insistenti attacchi di sommergibili”).
Quando la minaccia navale britannica fu venuta meno, senza aver causato alcuna perdita, il traffico con la Libia riprese regolarmente; i convogli fatti rientrare presero nuovamente il mare verso le loro originarie destinazioni. Il convoglio che comprendeva il Capo Vita lasciò dunque Trapani alle 19 dell’8 marzo, riprendendo la navigazione verso Tripoli.
Poco dopo la partenza, tuttavia, il Caffaro s’incagliò sulla secca della Colombaia, e dovette così rinunciare al viaggio (successivamente disincagliato, sarebbe ripartito da Trapani per Tripoli qualche giorno dopo, insieme alla Tanaro); il convoglio si ridusse così ai soli Capo Vita e Fenicia, scortati dal Deffenu. Non è chiaro se la Tanaro sia rimasta a Trapani (da dove proseguì qualche giorno dopo alla volta di Tripoli, dove giunse indenne) o se vi abbia fatto ritorno dopo l’incaglio del Caffaro, ma è certo che essa non proseguì insieme alle altre navi.
La ripresa simultanea della navigazione di tanti convogli, seguita alla temporanea sospensione delle traversate causata dall’avvistamento delle navi nemiche, generò tuttavia una considerevole concentrazione di traffico sulla rotta per Tripoli: concentrazione che non sfuggì alla ricognizione aerea britannica. Lo stesso 8 marzo, pertanto, i comandi di Malta inviarono in quella zona tutti i sommergibili disponibili: quattro battelli – l’Unique, l’Upholder, l’Utmost e l’Upright – si posizionarono a cavallo della rotta tra Palermo e Tripoli, nel Golfo di Hammamet (ad una cinquantina di chilometri dalla Tripolitania), attendendo il passaggio di qualcuno dei convogli. Uno di questi sommergibili, l’Utmost, era appena rientrato a Malta dopo un lungo pattugliamento: venne egualmente fatto partire per partecipare all’agguato, dopo una sosta in porto di sole ventiquattr’ore. Un altro, l’Unique, si vide prolungata la missione, rimandando il rientro alla base.

Nel frattempo, Capo Vita, Fenicia e Deffenu procedevano verso Tripoli.
La navigazione durante la notte tra l’8 ed il 9 marzo il avvenne senza altri inconvenienti, ed il mattino del 9 il piccolo convoglio imboccò la rotta delle Kerkennah. Capo Vita e Fenicia procedevano distanziati tra loro di circa 500 metri, mentre il Deffenu zigzagava in testa al convoglio, ad una distanza che variava dagli 800 ai 1200 metri. Il mare era mosso e c’era vento fresco da nordovest. Sul cielo del convoglio volava, come scorta aerea, un idrovolante CANT Z 501 della 144a Squadriglia (l’aereo assisté al successivo attacco, ma non fu in grado di intervenire).
Tutto pareva tranquillo finché a mezzogiorno del 9 marzo, nel punto 36°09' N e 11°07' E (nel Golfo di Hammamet, 25 miglia a nord di Kuriat e 30 miglia a nordest di Susa, Tunisia, o tra Ras Mustafà e Ras Kapudia; altra fonte indica invece le 36°10' N e 11°12' E), il Capo Vita fischiò ed accostò a dritta: aveva avvistato una scia di siluro sulla sua sinistra, che fu vista anche dal Deffenu, il quale accostò con tutta la barra a sinistra e diresse a tutta forza verso il punto in cui stimava trovarsi il sommergibile, per contrattaccare. Il Capo Vita lanciò anche un S.O.S., che venne intercettato dai britannici, i quali poterono così apprendere, a cose fatte, il nome della nave attaccata.
I siluri, che erano tre, erano stati lanciati dal sommergibile britannico Utmost (capitano di corvetta Richard Douglas Cayley), in agguato una cinquantina di miglia a sud-sud-ovest di Pantelleria. L’Utmost aveva avvistato il convoglio alle 11.15, a cinque miglia di distanza e su rilevamento 345°, mentre quest'ultimo procedeva con rotta 170°; dopo aver manovrato per portarsi all'attacco, lasciando passare il Deffenu a meno di 200 metri di distanza, intorno a mezzogiorno (il giornale di bordo dell'Utmost riporta le 12.05, con leggera discrepanza rispetto alle fonti italiane) il battello britannico aveva lanciato tre siluri da 915 metri contro il Capo Vita, che Cayley aveva identificato come un mercantile di circa 8000 tonnellate, a pieno carico ed anche con truppe a bordo.

La manovra intrapresa non servì, purtroppo, a salvare il Capo Vita: alle 12.01 (per altra fonte 12.05) il piroscafo venne colpito da uno o due siluri e si disintegrò in una terrificante esplosione, lanciando rottami in tutte le direzioni.
Così il comandante Coliolo del Deffenu descrisse nel suo rapporto la fine del Capo Vita: «Una enorme fantastica fiammata accompagnata da denso fumo arrossato si innalza a migliaia di metri di altezza e si diffonde per oltre mille metri, investendo anche il piroscafo Fenicia. Il mare tutto intorno è letteralmente coperto da colonne di acqua per rottami di ogni genere che ricadono da enorme altezza. Riesco a stento, dirigendo per la normale al vento, a disimpegnarmi [ossia ad allontanarsi dalla fiammata per non esserne a sua volta investito, nda]».
L’esplosione fu così violenta che anche un membro dell’equipaggio del Fenicia rimase ucciso, presumibilmente dall’onda d’urto e dalla pioggia di rottami del Capo Vita, e lo stesso Utmost, pur trovandosi immerso, venne sollevato e scosso violentemente da prora a poppa dall’effetto dell’onda d’urto. Cayley suppose, correttamente, che lo scoppio del siluro avesse a sua volta provocato la detonazione di esplosivi che si trovavano a bordo del piroscafo.
Quando il vento disperse la nube di fumo che aveva avvolto la zona dell’esplosione, del Capo Vita non rimaneva più traccia. Il Deffenu, che non vedeva neanche traccia del sommergibile attaccante, si diresse verso il presunto punto di lancio dei siluri, sparandovi un colpo di cannone e lanciando cinque bombe di profondità, che non arrecarono danni all’Utmost (il quale, dodici minuti dopo il lancio, poté tornare a quota periscopica per verificare il risultato dell’attacco).
Terminato questo vano contrattacco, l’incrociatore ausiliario si portò nel punto in cui era esploso il Capo Vita, per recuperarne i superstiti: ma nessuno era sopravvissuto all’esplosione. Nel punto in cui era stato il piroscafo galleggiavano molti pezzi di legno e barili, ma nessun naufrago.

Dopo aver attentamente setacciato la zona del siluramento senza riuscire a trovare nessun sopravvissuto, il Deffenu si diresse a tutta forza verso il Fenicia. Quest’ultimo aveva subito parecchi danni per i rottami caduti a bordo dopo l’esplosione del Capo Vita, che avevano anche appiccato degli incendi a bordo, ed aveva perso un uomo.
Fenicia e Deffenu diressero per Susa e poi per Tripoli, ma il giorno seguente anche il Fenicia sarebbe stato silurato ed affondato da un altro sommergibile britannico, l’Unique, gemello dell’Utmost.
Il Capo Vita fu la prima vittima dell’Utmost e del comandante Cayley, che sarebbe divenuto uno dei sommergibilisti britannici più decorati nel secondo conflitto mondiale. Alle 11.41 del 9 marzo l’Utmost ricevette dal capitano di corvetta Hubert Marsham, vice comandante della 10th Submarine Flotilla di Malta, un messaggio che lo informava che quel mattino «tre mercantili nemici erano passati al largo della baia di Kelibia diretti verso sud, a 14 nodi di velocità»; Cayley segnalò il suo successo contro tale convoglio rispondendo «One got torpedoed and then there were two», una citazione adattata della famosa filastrocca "Dieci piccoli indiani". Cayley sarebbe scomparso in mare col nuovo sommergibile assegnatogli, il P 311, saltato su una mina al largo della Maddalena nel marzo 1943.


L’equipaggio civile del Capo Vita, perito al completo:

Giosuè Afflitto, fuochista, da Resina (Napoli)
Francesco Amico, cuoco, da Trapani
Giovanni Augugliano, ingrassatore, da Trapani
Santo Bagnasco, capo fuochista, da Nervi (Genova)
Salvatore Balzano, nostromo, da Torre del Greco (Napoli)
Pericle Bassetti, marconista, da Sestri Ponente (Genova)
Alfio Basso, terzo macchinista, da Acireale (Catania)
Domenico Bonavoglia, giovanotto di coperta, da Bari
Giuseppe Borrelli, marinaio, da Torre del Greco (Napoli)
Franco Consales, mozzo di coperta, da Torre del Greco (Napoli)
Pasquale De Luca, garzone, da Resina (Napoli)
Santo De Micheli, comandante, da Recco (Genova)
Francesco Giacalone, marinaio, da Trapani
Gaetano Giuliano, cameriere, da Palermo
Ottavio Gromero, primo ufficiale, da Torre del Greco (Napoli)
Umberto Guida, cuoco, da Torre del Greco (Napoli)
Raffaele Guzzi, fuochista, da Catanzaro
Pasquale Idone, carpentiere, da Scilla (Reggio Calabria)
Giovanni Maisano, secondo macchinista, da Trapani
Antonio Marinelli, direttore di macchina, da Mola di Bari (Bari)
Vincenzo Norfo, marinaio, da Palermo
Antonio Rito, fuochista, da Resina (Napoli)
Vincenzo Rocchetti, allievo ufficiale, da Palermo
Ferruccio Rossi, primo macchinista, da Sestri Ponente (Genova)
Antonio Schiano, secondo ufficiale, da Monte di Procida (Napoli)
Mauriello Schiano, marinaio, da Monte di Procida (Napoli)
Raffaele Simeone, marinaio, da Gaeta (Latina)
Antonio Tarantino, ingrassatore, da Palermo
Michele Tarantino, piccolo di camera, da Palermo

Militari della Regia Marina dispersi nel Mediterraneo centrale il 9 marzo 1941, quasi certamente nell’affondamento del Capo Vita (unica nave italiana affondata in tale data):

Guglielmo Boscolo, marinaio cannoniere, da Mesola (Ferrara)
Giovanni Calisi, sottocapo cannoniere, da Montesarchio (Benevento)
Eduardo Campolo, marinaio, da Pozzuoli (Napoli)
Pietro Citta, marinaio cannoniere, da Udine
Mario Costa, marinaio segnalatore, da Voghera (Pavia)
Mattia De Pascalis, marinaio cannoniere, da Parabita (Lecce)
Antonino Greco, sergente cannoniere, da Trapani
Matteo Magliulo, marinaio, da Torre del Greco (Napoli)
Michele Martire, marinaio cannoniere, da Margherita di Savoia (Foggia)
Franco Pellerano, tenente del Genio Navale, da Cassano delle Murge (Bari)
Raffaele Peltrini, marinaio cannoniere, da Mugnano di Napoli (Napoli)
Clemente Russo, marinaio cannoniere, da Napoli
Lorenzo Terzuolo, secondo capo segnalatore, da Asti
Francesco Zupi, marinaio, da Fuscaldo (Cosenza)

Lapide in memoria di Antonino Greco nel cimitero di Trapani (g.c. Giuseppe Romano)

L'affondamento del Capo Vita nel giornale di bordo dell'Utmost (da Uboat.net):

"1115 hours - Sighted two merchant ships escorted by an armed merchant cruiser bearing 345°, range 5 nautical miles, enemy course 170°. Started attack.
1205 hours - Fired three torpedoes from 1000 yards. Two explosions followed. A counter attack followed in which 6 depth charges were dropped but these did no damage. 12 Minutes later Utmost returned to periscope depth to find the armed merchant cruiser and one of the merchants in sight. The other one must have sunk. She had been heavily laden and was of about 8000 tons and it was also observed that there were troops on board."
 
Un’altra immagine del Capo Vita come Manchester Hero (Coll. Don Ross via Gordy-www.shipspotting.com)


martedì 19 giugno 2018

Malachite

Il Malachite (da www.grupsom.com)

Sommergibile di piccola crociera della classe Perla (dislocamento di 680 tonnellate in superficie, 844 in immersione).
Il Malachite ed il gemello Ambra si distinguevano dai gemelli per il diverso apparato motore, costituito da due motori diesel Tosi per la navigazione in superficie (anziché FIAT o CRDA come le altre unità della classe) e da due motori elettrici MEP Marelli per la navigazione in immersione (invece che CRDA come sugli altri sommergibili della classe).

Durante la seconda guerra mondiale il Malachite effettuò in tutto 36 missioni (22 offensive/esplorative, 13 per esercitazione o trasferimento e 1 di trasporto incursori), percorrendo complessivamente 25.125 miglia in superficie e 3960 in immersione, e trascorrendo 245 giorni in mare.

Breve e parziale cronologia.

31 agosto 1935
Impostazione nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano (La Spezia).
15 luglio 1936
Varo nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano.
6 novembre 1936
Entrata in servizio. Assegnato alla XIII Squadriglia Sommergibili di La Spezia.


 Due foto del Malachite, a destra, insieme ai gemelli Ambra, Iride ed Onice in allestimento nei cantieri del Muggiano nel 1936 (sopra: dal libro “Gli squali dell’Adriatico” di Alessandro Turrini; sotto: g.c. Dante Flore via www.naviearmatori.net)


1937
Nei primi mesi del 1937 effettua una lunga crociera d’addestramento in acque italiane, e successivamente partecipa ad una campagna addestrativa con scali in Grecia, nel Dodecaneso ed a Tobruk.
24 agosto 1937
Il Malachite (capitano di corvetta Alberto Dominici), inquadrato nel I Gruppo Sommergibili di La Spezia, salpa da La Maddalena per effettuare una missione clandestina nell’ambito della guerra civile spagnola, pattugliando la zona di Barcellona.
29 agosto 1937
Localizzato da una nave da guerra spagnola repubblicana, viene sottoposto a caccia antisommergibili con lancio di bombe di profondità, ma non subisce danni.
4 settembre 1937
Conclude la missione e rientra alla base, così terminando la sua partecipazione alla guerra di Spagna.
18 novembre 1937
Riceve a Savona la bandiera di combattimento, donata dal Comune di Savona. È madrina della bandiera la vedova di un soldato morto nella guerra d’Etiopia.
Presta servizio in questo periodo sul Malachite il capitano medico Bruno Falcomatà, futura M.O.V.M.
1938-1940
Dislocato per lunghi periodi in basi oltremare, principalmente Tobruk in Libia.
Al suo rientro in Italia, viene messo alle dipendenze del IV Gruppo Sommergibili di Taranto.
10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Malachite (capitano di corvetta Renato D’Elia) si trova dislocato a Taranto, dove forma la XLVII Squadriglia Sommergibili (IV Grupsom) insieme ai gemelli Ambra e Rubino.
Comandante in seconda del Malachite, fin dall’ottobre 1938, è il tenente di vascello Gianfranco Gazzana Priaroggia, destinato a diventare un asso in Atlantico, al comando del sommergibile Leonardo Da Vinci. Poco dopo l’entrata in guerra, Gazzana Priaroggia verrà trasferito su un altro sommergibile, il Tazzoli.
Poco dopo la dichiarazione di guerra, il Malachite viene assegnato al X Gruppo Sommergibili e trasferito ad Augusta.
20 giugno 1940
Inviato in missione offensiva a nord di Maiorca, per controllare gli accessi del Golfo del Leone.
24 giugno 1940
In serata il Malachite (capitano di corvetta Renato D’Elia) avvista un convoglio a grande distanza, ma non riesce ad attaccarlo.
27 giugno 1940
Lascia in serata il settore d’operazioni e ritorna a Taranto.
Seguono alcuni mesi di lavori di manutenzione, durante i quali il tenente di vascello Enzo Zanni sostituisce il capitano di corvetta D’Elia (trasferito sul sommergibile oceanico Reginaldo Giuliani) nel comando del Malachite.
12-13 novembre 1940
Inviato in agguato difensivo notturno nel Golfo di Taranto.
15 dicembre 1940
Durante la navigazione verso un settore d’agguato ubicato a nordest di Derna, assegnatogli per una nuova missione, il Malachite viene attaccato da un aereo, ma lo respinge col tiro delle proprie mitragliere.
18 dicembre 1940
Raggiunge il settore assegnato per la missione.

Una foto interna del Malachite durante una missione di guerra (da www.abyssi.it)

21 dicembre 1940
Lascia il settore ed inizia la navigazione di rientro.
27 gennaio 1941
Inviato nello Stretto di Messina in missione notturna di ascolto idrofonico.
9 febbraio 1941
Inviato in missione al largo di Bardia, caduta in mano britannica un mese prima.
14 febbraio 1941
Avvista una nave da guerra di tipo imprecisato e tenta di avvicinarsi, ma senza successo, a causa della distanza eccessiva e della maggiore velocità dell’unità avvistata.
15 febbraio 1941
Lascia il settore per rientrare alla base.
15 marzo 1941
Inviato in agguato nel Canale di Cerigotto.
Il Malachite è uno dei sommergibili (gli altri sono Ambra, OndinaBeilulGalateaSmeraldoNereideAscianghiAmbraDagabur ed Onice) schierati in Egeo a contrasto dell’operazione britannica «Lustre», consistente nell’invio dall’Egitto alla Grecia di 58.000 uomini, quale rinforzo per la Grecia, con una serie di convogli (uno ogni tre giorni, da Alessandria al Pireo), nell’arco di un mese.
19 marzo 1941
All’1.19 lancia due siluri contro un incrociatore scortato da alcuni cacciatorpediniere. Le armi non vanno a segno, ed il Malachite non può proseguire l’attacco a causa della pesante reazione da parte della scorta, che lo bombarda con cariche di profondità, obbligandolo a ritirarsi in immersione.
22 marzo 1941
Lascia il settore d’agguato e rientra alla base.
10 aprile 1941
Inviato in agguato a nord del Golfo di Sollum.
14 aprile 1941
Avvista un grosso convoglio durante la sera ed alle 23.37 tenta di attaccarlo, ma la pronta reazione della scorta gli impedisce di portarsi a distanza abbastanza ridotta da poter lanciare i siluri.
18 aprile 1941
Ritorna in porto.
20-28 maggio 1941
Dislocato in agguato al largo dell’isola di Gaidaro (Grecia, Mar Egeo). Fa parte di uno schieramento di sommergibili (gli altri sono UarsciekFisalia, TopazioAduaTrichecoSqualoSmeraldoDessiè e Sirena) dislocati nelle acque tra Creta, Alessandria d’Egitto e Sollum, in appoggio all’invasione tedesca di Creta.
19 giugno 1941
Durante la notte, mentre pattuglia un settore al largo di Creta, il Malachite (tenente di vascello Enzo Zanni) avvista un incrociatore accompagnato da cacciatorpediniere, in posizione idonea ad un attacco in superficie. Nonostante la reazione antisommergibili delle unità di scorta, il battello italiano si porta all’attacco e lancia due siluri contro l’incrociatore, che tuttavia lo mancano, passandogli qualche decina di metri a poppavia. Il  Malachite si sottrae poi alla caccia con l’immersione rapida, ma non ha modo di ripetere l’attacco.
3 luglio 1941
Inviato in agguato a nord di Ras Azzaz (Cirenaica), al comando del tenente di vascello Enzo Zanni.
Alle 20 il Malachite avvista in posizione 32°25’ N e 24°40’ E l’incrociatore leggero britannico Phoebe (capitano di vascello Guy Grantham), scortato da due cacciatorpediniere e con rotta apparente verso Tobruk: andato all’attacco, alle 20.05 gli lancia un siluro. Avvertita un’esplosione che viene attribuita al siluro andato a segno, si allontana poi in immersione. In realtà, nessuna nave è stata colpita (qualche fonte italiana afferma che "da intercettazioni r.t. risulterebbe colpito un Ct della scorta", ma senza specificare altro).
14 luglio 1941
Conclude l’agguato rientrando alla base.


Due immagini della torretta del Malachite nel 1941, dopo il primo ciclo di lavori di modifica (da “Sommergibili in guerra” di Achille Rastelli ed Erminio Bagnasco, Albertelli Edizioni, 1994, via www.betasom.it)


25 settembre-5 ottobre 1941
Missione di agguato al largo di Ras Aamer (Cirenaica), senza eventi di rilievo.
20-27 gennaio 1942
Altro agguato nelle acque di Ras Aamer, senza eventi di rilievo.
10 febbraio 1942
Il Malachite (tenente di vascello Enzo Zanni) prende il mare per una missione di agguato nelle acque della Cirenaica.
11 febbraio 1942
Alle 00.43, nel punto 37°29’ N e 16°26’ E, il Malachite, mentre procede con rotta 200° verso il settore assegnato per la missione (che raggiungerà più tardi nella stessa giornata), viene avvistato dal sommergibile britannico Upright (tenente di vascello John Walter David Coombe) ad appena 270 metri di distanza. L’Upright s’immerge e perde il contatto, che non riesce più a trovare; anche il Malachite intraprende una manovra evasiva e si allontana dalla zona.
23 febbraio 1942
Termina la missione.
8-21 aprile 1942
Altro agguato al largo della Cirenaica, senza eventi di rilievo.
1°-9 giugno 1942
Missione di pattugliamento a nordovest di Algeri, priva di eventi di rilievo.
15-18 giugno 1942
Agguato a nordovest di Algeri, senza eventi degni di nota.
22-24 giugno 1942
Agguato a nord di Capo Blanc, di nuovo senza eventi di rilievo.
16 luglio 1942
Prende il mare per un pattugliamento nelle acque della Tunisia.
17 luglio 1942
Deve rientrare alla base per via di un’avaria.
Segue un lungo periodo di riparazioni in arsenale, durante il quale all’equipaggio viene concesso un turno di riposo dopo l’intensa attività dei mesi precedenti.
Durante il periodo di lavori il comandante Zanni viene avvicendato dal tenente di vascello Alpinolo Cinti, che sarà l’ultimo comandante del Malachite.
20 novembre 1942
Conclusi i lavori, il Malachite (tenente di vascello Alpinolo Cinti) prende il mare per un nuovo agguato lungo la costa dell’Algeria, dove sono sbarcate ingenti forze angloamericane nell’ambito dell’Operazione "Torch".

Alpinolo Cinti in una foto del dopoguerra (ANMI San Benedetto del Tronto)

24 novembre 1942
Durante la notte il Malachite penetra nella rada di Philippeville, dove avvista due gruppi di navi nemiche, a poca distanza l’uno dall’altro: uno composto da tre trasporti e dalla loro scorta, ed un altro formato da una grossa petroliera anch’essa scortata.
Alle 4.11 il sommergibile lancia tre siluri contro uno dei piroscafi della prima formazione, stimato in 15.000 tsl; dopo il tempo previsto viene avvertito uno scoppio, e dopo quattro minuti il Malachite lancia altri due siluri, a brevi intervalli, contro la petroliera, avvertendo due violente detonazioni, anch’esse dopo il tempo previsto. Nonostante le esplosioni avvertite a bordo del Malachite, non risulta che in questi attacchi siano state colpite unità Alleate (fonti Internet affermano che "la documentazione ufficiale britannica, pur non facendo diretto riferimento all'azione, conferma alcuni danneggiamenti avvenuti quel giorno nella zona di Philippeville", vale a dire che risulterebbero danneggiamenti di navi ma per altre cause, probabilmente aerei od altri sommergibili dell’Asse).
Così Pasquale Pelillo, all’epoca imbarcato sul Malachite come sottocapo motorista navale, descrisse molti anni dopo l’azione del 23-24 novembre 1942 (da www.abyss.it): “Il Comandante Cinti, ci portò tanto vicino all'imboccatura della Baia di Philippeville, dove si vedevano chiaramente le onde frangersi contro le banchine del porto, le case della città biancheggiare come fossero di gesso, gli alberi del lungomare agitati dal vento, Philipeville senza un lume alle finestre senza una lampada per le vie, in uno scuramento di guerra perfetto. A questo punto il Comandante Cinti sotto quel plenilunio che illuminava a giorno il mare, vide una motosilurante nemica avventarsi alla distanza di tre o quattro miglia, verso il sommergibile e ordinò immediatamente la rapida immersione.
Fu soltanto più tardi, quando gli idrofoni, esplorando bene bene il mare diedero la certezza della zona libera, che effettuammo l'emersione e senza indugio il Comandante ci spinse sotto la costa; adesso la nuvolaggine, mettendo ogni tanto uno schermo allo sfacciato chiarore della luna aiutava il nostro compito. Quando però il riflettore della luna si riaccendeva, tutto tornava improvvisamente terso ed allucinante. Ci allontanammo dalla Baia di Philipeville, non c'erano navi nemiche ma non era detto che non ce ne fossero nei dintorni, infatti fu proprio ad una decina di miglia dalla costa al largo di Capo de Fer, in una zona dove il nemico doveva sentirsi abbastanza sicuro che avvistammo una formazione composta da quattro piroscafi e tre cacciatorpediniere di scorta. Il Comandante Cinti capì subito che una delle quattro navi era una petroliera. Il sommergibile aveva la luna alle spalle e appariva sullo sfondo del cielo, tanto che la petroliera ci avvistò e cominciò a spararci contro con il cannone. Il Comandante Cinti ordinò subito il lancio di due siluri verso il piroscafo di testa e sentimmo un fortissimo scoppio con accompagnamento di vampe di fuoco. Ormai il piroscafo era perduto, si arrestò di colpo come fecero le altre navi che gli si affollarono intorno, proprio come si fa con un infortunato sulla pubblica via. I cacciatorpediniere in circostanze simili non possono usare le bombe di profondità come è comprensibile in caso di naufraghi in mare.
Mentre tutto questo accadeva altri due siluri erano partiti contro la petroliera che illuminata dai razzi dei cacciatorpediniere continuava a spararci cannonate sino a quando non è esplosa inabissandosi. Era arrivato il momento di effettuare l'immersione e per tutto il giorno seguente restammo fermi sul fondo ad ascoltare il gran "passeggiare" di navi sopra la torretta, un ansimare di turbine, un avvicinarsi ed allontanarsi di motori. Ci allontanammo dalla zona e con l'ultima emersione navigammo diretti alla nostra base di Cagliari.
L’azione del Malachite verrà citata nel bollettino di guerra n. 914 del 25 novembre 1942, secondo il quale «…altro sommergibile, al comando del tenente di vascello Alpinolo Cinti, intercettava al largo di Cap de Fer (Algeria) una formazione avversaria, silurando un piroscafo di grosso tonnellaggio che si inabissava».
Il giornalista, scrittore e poeta Dino Buzzati, all’epoca corrispondente di guerra, scriverà un articolo dai toni romanzeschi sulla missione del Malachite.
26 novembre 1942
Termina la missione raggiungendo Cagliari. Viene qui dislocato stabilmente, inquadrato nel VII Gruppo Sommergibili.
16-24 dicembre 1942
Pattugliamento tra Cap de Fer e l’isola di La Galite.
4-5 gennaio 1943
Infruttuoso agguato al largo di La Galite.
21 gennaio 1943
Inviato in agguato tra Capo Bougaroni e Capo Carbon.
22 gennaio 1943
Alle 4.55 il Malachite (tenente di vascello Alpinolo Cinti), in posizione 37°14’ N e 06°28’ E, avvista un convoglio in navigazione verso Bona: portatosi a distanza utile per il lancio, alle 5.18 (o 5.19) il sommergibile lancia una salva di quattro siluri elettrici contro una nave identificata come un grosso cacciatorpediniere della classe H o I, dopo di che la tempestiva e pesante reazione della scorta lo costringe al disimpegno con immersione rapida. Mentre s’immerge, un minuto e venti secondi dopo il lancio, vengono avvertiti distintamente due forti scoppi, ma in realtà nessuna nave è stata colpita.
L’errata presunzione che il cacciatorpediniere sia stato colpito è riflessa dal bollettino di guerra n. 974 del 24 gennaio 1943, che annuncia che «Un nostro sommergibile, al comando del tenente di vascello Alpinolo Cinti, ha silurato e colpito un cacciatorpediniere di scorta a un convoglio nel Mediterraneo».

Il Malachite con l’equipaggio schierato in coperta, in una foto del 1943 (da www.abyssi.it)

Missione speciale

Alle 19.30 (o 20.30) del 2 febbraio 1943 il Malachite, al comando del tenente di vascello Alpinolo Cinti, lasciò Cagliari per effettuare una missione speciale: non un altro agguato come quelli che aveva sempre svolto, bensì una missione d’infiltrazione di una squadra di incursori da sbarcare in territorio nemico, sulla costa dell’Algeria.
S’imbarcarono pertanto sul Malachite, per compiere questa missione, dieci (altre fonti parlano di undici, un ufficiale e dieci arditi) uomini della 102a Compagnia Nuotatori del I Battaglione del 10° Reggimento Arditi, un reparto dell’Esercito creato pochi mesi prima per rispondere alle analoghe operazioni dei “commandos” britannici, e dislocato in quel periodo a Cagliari e La Maddalena. Gli uomini destinati alla missione, che componevano la 5a Pattuglia della 102a Compagnia, erano il sottotenente Dario Bertolini (comandante della squadra), il sergente maggiore Massa, i sergenti Pieralli e Saracino, il caporale maggiore Dal Passo, il caporale Landolfi e gli arditi Caivaletto, D’Ercole, Vincenzi e Pasini. Loro obiettivo era di raggiungere e distruggere un viadotto ferroviario sullo Oued Bou Donaou (indicato nei documenti italiani come “Uadi Boudovaou”), unico punto in cui la linea ferroviaria che attraversava l’Algeria, e che transitava piuttosto all’interno, compiva una curva avvicinandosi alla costa, e risultando così raggiungibile dal mare. La distruzione del viadotto avrebbe permesso di interrompere almeno temporaneamente la linea ferroviaria che gli Alleati utilizzavano per trasportare truppe e rifornimenti sul fronte tunisino.
Viene spesso riportato (persino dal volume dell’U.S.M.M. "Le fanterie di Marina italiane", che attribuisce l’azione al Reggimento San Marco) che gli incursori imbarcati dal Malachite sarebbero stati appartenenti, a seconda della versione, al Battaglione «NP» (Nuotatori-Paracadutisti) della X Flottiglia MAS (peraltro non ancora esistente all’epoca, quando vi erano ancora due separati battaglioni «N», Nuotatori, e «P», Paracadutisti, riuniti solo il 1° aprile 1943 in un unico reparto di Nuotatori-Paracadutisti che comunque non passò alle dipendenze della X MAS fino a dopo l’8 settembre 1943) oppure al Reggimento San Marco, ma si tratta di un errore, così come è errata l’indicazione che gli incursori dovessero distruggere il ponte ferroviario di “El Kejur”.
Insieme al Malachite salpò da Cagliari anche un secondo sommergibile, il Volframio (tenente di vascello Giovanni Manunta), incaricato di analoga missione: le due unità avrebbero dovuto sbarcare le rispettive pattuglie di arditi in due diversi punti della costa algerina. Il Malachite, in particolare, doveva sbarcare i suoi nei pressi di Capo Matifou.
Obiettivo degli incursori trasportati dal Volframio era un altro ponte in Algeria, situato ad El Kjeur: è probabile che qui sia l’origine dell’errata informazione secondo cui gli arditi trasportati dal Malachite fossero incaricati di distruggere “il ponte ferroviario di El Kejur” (in realtà questo, che si chiamava El Kjeur e non El Kejur, era l’obiettivo degli arditi imbarcati sul Volframio).
Per fare spazio agli incursori, due membri dell’equipaggio del Malachite vennero lasciati a terra per quella missione, su ordine del comandante Cinti: il sottocapo motorista Pasquale Pelillo ed il sottocapo radiotelegrafista Pappalardo. Per Pelillo quest’ordine avrebbe fatto la differenza tra la vita e la morte: assegnato al motore di sinistra, se non fosse sbarcato si sarebbe trovato sottocoperta al momento dell’affondamento e sarebbe affondato con il Malachite, come accadde al suo collega e fraterno amico Mario Loi, addetto al motore di dritta.

Giunto dinanzi alla costa algerina alle tre di notte del 5 febbraio, dopo aver navigato per tre giorni procedendo in superficie di notte ed in immersione di giorno, il Malachite individuò il punto designato per lo sbarco alle 16 dello stesso 5 febbraio, dopo alcune ore di attesa. Il comandante Cinti fece controllare al periscopio, al sottotenente Bartolini, per sincerarsi che il punto fosse quello giusto (punti di riferimento erano Capo Matifou e gli scogli di Aghelli), dopo di che il sommergibile si posò sul fondale in attesa del buio, ad un paio di miglia dalla costa. Lo sbarco degli incursori era inizialmente programmato per la sera del 5, ma dovette essere rinviato a causa sia del mare mosso (forza 4 in peggioramento, che rendeva proibitiva la messa a mare dei battellini pneumatici che avrebbero portato a terra gli arditi: tali condizioni del mare indussero il Volframio, dopo tre giorni di attesa, a rinunciare e tornare alla base) che dell’avvistamento nei dintorni di due unità sottili nemiche, forse cacciatorpediniere, chiaramente intente in pattugliamento antisommergibili, che costrinsero il Malachite a manovre evasive e gli crearono anche difficoltà a governare e tenersi in quota.
La sera del 6 febbraio, tuttavia, migliorate le condizioni del mare e sparite le navi nemiche, fu possibile procedere: alle 21.10 (nel punto previsto, a 9 miglia e mezzo per 105° dal semaforo di Capo Matifou) gli arditi presero posto nei tre battellini pneumatici che avrebbero dovuto traghettarli fino a riva, ed alle 23.30 sbarcarono sulla costa algerina, a otto miglia e mezza da Capo Matifou, nei pressi della fattoria San Salvatore (sulla riva destra dello Oued Bou Donaou).
Dopo la partenza degli arditi il Malachite s’immerse e stazionò in zona, mantenendosi in silenzio assoluto, aspettando il segnale convenuto per il ritorno degli incursori: erano previsti quattro possibili appuntamenti, ad orari precisi: tra le 3 e le 3.15, tra le 4 e le 4.15, tra le 5 e le 5.15, tra le 6 e le 6.15. Gli arditi avrebbero dovuto annunciare il loro arrivo con un segnale acustico che gli idrofoni avrebbero agevolmente rilevato: «Reiterati colpi di pugnale su un volantino di bronzo tenuto immerso nell'acqua». Una volta giunti nei pressi del sommergibile, gli incursori avrebbero dovuto dare la parola d’ordine «Modena», cui dal Malachite si sarebbe risposto con la controparola «San Marco».
Alle 4.29 ed alle 4.35 l’equipaggio del sommergibile sentì distintamente tre violente esplosioni, ed alle 5.30 (o 5.35) gli idrofoni sentirono rumore di colpi di pugnale contro un oggetto metallico, i segnali concordati per il rientro degli arditi; alle 5.58 il Malachite emerse e vennero osservati dei segnali ottici come quelli previsti, che dovevano annunciare il successo della missione ed il ritorno degli arditi. Secondo alcune fonti, mentre il Malachite si avvicinava per recuperare gli incursori, sulla spiaggia designata come luogo di reimbarco si accese un accanito combattimento, con spari ed esplosioni. Per altra versione, invece, il sommergibile attese fino alle 6.30, ma dopo le 5.58 non vi fu più alcun segno di vita da parte degli arditi (non si fa invece menzione di rumori di combattimenti svoltisi a terra, che in effetti non risulterebbero aver avuto luogo, in base alle fonti che raccontano più in dettaglio la sorte degli incursori). Nessuno degli incursori riuscì a tornare a bordo: il sommergibile continuò ad aspettare anche molto oltre il tempo originariamente stabilito, rischiando di essere scoperto ed attaccato, finché alle 6.30 del mattino del 7 febbraio, essendo evidente che nessuno sarebbe più tornato, dovette iniziare la navigazione di ritorno verso Cagliari. Ormai a bordo l’aria era tanto viziata, a causa della prolungata immersione, che si faticava a respirare, e diversi uomini iniziavano a manifestare dolori alla testa, capogiri ed indebolimento: bisognava allontanarsi e stare in superficie un po’ per cambiare l’aria.

Su ciò che accadde agli incursori sembrano esistere due versioni abbastanza differenti. Secondo una (riportata da Pietro Faggioli), dopo le oltre due ore impiegate per raggiungere la costa con i battellini in gomma, gli arditi impiegarono altre cinque ore per trovare l’obiettivo: giunsero così al ponte ferroviario dello Oued Bou Donaou solo alle 4.30 del mattino del 7, quando in base ai piani si sarebbero già dovuti trovare sulla via del ritorno (il piano originario prevedeva un’ora e mezza per raggiungere la costa, tre ore per raggiungere l’obiettivo ed un’ora per tornare sul Malachite). Dato il poco tempo rimasto ed i chiarori dell’alba ormai incombente, gli incursori giudicarono che le condizioni non fossero più adatte a condurre l’attacco, e presero dunque la decisione di tornare sul Malachite, per ripetere l’attacco la notte successiva.
Tornati sulla costa, gli arditi si reimbarcarono sui canotti e si portarono alle sei del mattino sul punto concordato per l’appuntamento col sommergibile, effettuando i segnali previsti; ma non trovarono il Malachite, per cui dopo vana attesa si diressero nuovamente verso terra. Durante il tragitto verso la costa vennero avvistati da due aerei da caccia, e non appena toccarono terra vennero circondati e catturati da un nutrito reparto della Francia Libera.
Secondo la seconda versione (riportata da Daniele Lembo), invece, gli incursori, una volta raggiunto il viadotto, riuscirono ad eludere la sorveglianza nemica ed a piazzare le cariche, provocandone la distruzione, dopo di che cercarono di riguadagnare la costa braccati dagli inseguitori, mentre il Malachite veniva a sua volta attaccato da unità di superficie nemiche, che lo costrinsero a manovre evasive. Tale situazione impedì il ricongiungimento ed il recupero degli incursori, che rimasero sulla costa e vennero fatti prigionieri.
Non potevano sospettarlo, ma la cattura salvò probabilmente loro la vita, visto ciò che accadde al Malachite sulla rotta di ritorno.

La navigazione di rientro del sommergibile fu disturbata da saltuaria ricerca e caccia antisommergibile (per due volte il battello venne individuato da unità nemiche, e per due volte riuscì a fuggire), ma nonostante tutto il mattino del 9 febbraio il Malachite era giunto indenne nel punto di atterraggio di Cagliari, tre miglia a sud di Capo Spartivento (altra fonte riferisce "ad otto miglia da Capo Spartivento"), ormai in vista della costa sarda. A bordo ci si credeva ormai in acque sicure, e ci si preparava all’arrivo in porto.
Invece, era in agguato proprio in quella zona (costa sudoccidentale della Sardegna) il sommergibile olandese Dolfijn (tenente di vascello Henri Max Louis Frédéric Emile van Oostrom Soede): si trattava di un’unità della numerosa e riuscita classe britannica "U", ceduta prima del completamento alla Marina del Governo olandese in esilio ed armata da equipaggio olandese. Dislocato ad Algeri con la 8a Flottiglia Sommergibili, il Dolfijn era alla sua prima missione in Mediterraneo; stava pattugliando il canale dragato di accesso a Cagliari, una decina di miglia a sud di Capo Spartivento.
Il battello olandese era immerso, per non essere visto da due piccole unità antisommergibili (altra fonte parla di alcuni motopescherecci intenti a pescare), quando alle 10.47 i suoi idrofoni rilevarono i rumori prodotti dalle eliche di una terza unità, su rilevamento 100°, lo stesso delle due unità antisommergibili. Dato che l’osservazione al periscopio mostrava che soltanto le due unità da pattugliamento erano in vista, Van Oostrom Soede dedusse che la terza unità dovesse essere un sommergibile immerso, e che le due unità antisommergibili in vista lo stessero aspettando per poi assumerne la scorta nel tratto finale della navigazione verso Cagliari.
Alle 10.48 il comandante olandese vide infatti il Malachite (che l’olandese identificò correttamente come un sommergibile italiano – la bandiera era chiaramente visibile –, probabilmente della “classe Gemma”, cioè classe Perla) emergere improvvisamente ad appena due miglia dalla sua posizione, su rilevamento 095°. Il Dolfijn virò con tutta la barra a dritta, per portarsi all’attacco; l’ufficiale addetto al lancio aveva quasi finito di determinare l’angolo per l’attaccco, quando alle 10.57 il Malachite modificò la propria rotta, costringendo il sommergibile olandese ad accostare rapidamente di 40° a sinistra e ricalcolare rotta e velocità del bersaglio. (Secondo altra versione, inizialmente la distanza era troppo elevata, e la rotta seguita dal sommergibile italiano inadatta per un lancio, ma alle 10.57 il Malachite, ignaro della presenza del nemico, accostò fatalmente proprio in direzione del Dolfijn).
Dopo aver nuovamente accostato a dritta, alle 10.59 il sommergibile olandese, da una distanza di 2000-2300 metri, lanciò tutti i quattro siluri dei tubi prodieri, a ventaglio (regolati per profondità comprese tra i due metri e mezzo ed i tre), con intervalli di otto secondi e mezzo tra l’uno e l’altro, per incrementare la probabilità di colpire.
Sul Malachite il nocchiere Sisto Fosci, vedetta di prua, avvistò le scie e gridò «Siluri a sinistra ore 8»; il comandante Cinti ordinò di mettere tutta la barra a dritta, e con tale pronta manovra il sommergibile riuscì ad evitare tre siluri, che gli passarono a proravia: il primo a 50 metri di distanza, il secondo a cinque, il terzo a meno di un metro di distanza. Ma non fu così per il quarto siluro, che circa due minuti dopo il lancio (11.03 ora italiana) colpì il Malachite sul lato sinistro, a poppavia della torretta (sul Dolfijn, prima che la parziale perdita di assetto causata dal lancio obbligasse a ritirare il periscopio, vennero viste due scie passare a proravia del Malachite; ciò indusse il comandante olandese – che non poté osservare il momento dell’impatto per il motivo appena detto – a ritenere che il terzo siluro avesse colpito, ma da testimonianze italiane appare invece che si trattasse del quarto). Il sommergibile italiano iniziò subito ad affondare di poppa; quando era già quasi completamente sott’acqua, il Malachite s’impennò improvvisamente levando la prua quasi verticalmente, interamente fuori dell’acqua fin quasi all’altezza della torretta, dopo di che affondò nel volgere di un istante. In soli 50 secondi dall’impatto del siluro il battello italiano si era inabissato nel punto 38°42’ N e 08°52’ E (a sud della Sardegna), tre miglia a sud di Capo Spartivento sardo.
Il comandante Van Oostrom Soede, vedendo le unità antisommergibili precipitarsi sul punto dell’affondamento per recuperare i sopravvissuti del Malachite, diede ordine di allontanarsi, cosa che il Dolfijn fece silenziosamente, non visto da nessuno. Dopo aver ultimato il salvataggio, le due piccole unità lanciarono una trentina di bombe di profondità, ma ormai il sommergibile olandese si era allontanato (la distanza degli scoppi delle bombe venne valutata come oscillante tra le due e le dieci miglia).

L’equipaggio del Dolfijn in posa al ritorno dalla missione in cui affondò il Malachite (Dutch Navy Museum)

Su 48 uomini che formavano dell’equipaggio del Malachite, soltanto quattro ufficiali e nove tra sottufficiali e marinai (che si trovavano tutti o quasi tutti in coperta od in torretta al momento del siluramento), tra cui il comandante Cinti ed il comandante in seconda (tenente di vascello Giovanni Battista Cardillo), riuscirono a salvarsi. Gettati in mare dall’esplosione, furono tratti in salvo poco dopo dai cacciasommergibili ausiliari AS 8 Arcioni (già pirovedetta della Guardia di Finanza) e AS 63 Dori (ex motoveliero da pesca) del Comando di Cagliari, subito giunti sul posto (dovevano essere queste le due unità antisommergibili viste dal Dolfijn).
Morirono nell’affondamento un ufficiale (il sottotenente G.N. Giovanni Rubino, sottordine di macchina, che scomparve in mare dopo essere stato proiettato in mare dall’esplosione del siluro) e 34 tra sottufficiali e marinai.

I loro nomi:

Ernesto Ariani, sottocapo nocchiere, da Marciana Marina (disperso)
Sesto Andreolini, sottocapo silurista, da Castagneto Carducci (disperso)
Dante Baldassarre, marinaio, da Pescara (disperso)
Ermanno Bani, marinaio elettricista, da Livorno (disperso)
Dino Buglioni, sottocapo fuochista, da Camerino (disperso)
Corrado Cadaleta, secondo capo motorista, da Molfetta (deceduto)
Bruno Carotenuto, sottocapo fuochista, da Poggiomarino (disperso)
Otello Casadei, marinaio nocchiere, da Rimini (disperso)
Ruggero Casola, sergente furiere, da Venezia (disperso)
Giuseppe Cesarini, secondo capo silurista, da Viterbo (disperso)
Aldo Cesca, sergente radiotelegrafista, da Castelnuovo del Friuli (disperso)
Vittorio Colombo, sottocapo motorista, da Legnano (disperso)
Alterio Cozzolino, marinaio, da Civitavecchia (disperso)
Francesco Di Corato, capo motorista di seconda classe, da Andria (disperso)
Elios Durazzi, marinaio motorista, da Moglia (disperso)
Ettore Etro, sergente elettricista, da Bassano del Grappa (disperso)
Sebastiano Faoro, marinaio fuochista, da Arsiè (disperso)
Mario Fossati, secondo capo radiotelegrafista, da Roma (disperso)
Raffaele Franzoni, marinaio silurista, da Vibo Valentia (disperso)
Mario Giberto, sottocapo furiere, da Moneglia (disperso)
Nello Giovanetti, sottocapo cannoniere, da Premilcuore (disperso)
Angelo Lamonea, sottocapo radiotelegrafista, da Pietradefusi (disperso)
Egidio Lazzari, sottocapo fuochista, da Collio (disperso)
Mario Loi (o Loy), sottocapo motorista, da Trieste (disperso)
Renato Negrin, sottocapo radiotelegrafista (disperso)
Ermelindo Orlando, sottocapo elettricista, da Chiamano (disperso)
Carmine Passaro, sottocapo cannoniere, da Castellabate (disperso)
Pasquale Picca, sottocapo cannoniere, da Cervinara (disperso)
Vincenzo Piscopo, marinaio, da Napoli (disperso)
Mario Piuri, marinaio silurista, da Saronno (disperso)
Bruno Raviola, marinaio silurista, da Asti (disperso)
Giuseppe Rossi, secondo capo motorista, da Milano (disperso)
Giovanni Rubino, sottotenente del Genio Navale, da La Spezia (disperso)
Ottavio Sciarpella, sottocapo silurista, da Grosseto (disperso)
Giuseppe Serini, capo silurista di terza classe, da Bari (deceduto)


I sopravvissuti del Malachite in una foto scattata nel 1943, poco tempo dopo l'affondamento: il comandante in seconda T.V. Giovanni Battista Cardillo è il quinto da destra (da www.gammasom.it via www.u-historia.com)

Pelillo e Pappalardo, i due uomini lasciati a terra per quella missione, attesero con ansia l’arrivo dei sopravvissuti, e quando giunsero li abbracciarono tutti. Pelillo cercò tra di essi l’amico Mario Loi, ma non lo trovò: era rimasto in fondo al mare con il Malachite. Abbracciò anche il comandante Cinti, per la prima volta: «Era un ufficiale severo e molto serio, infatti quando quasi tutti soffrivamo il maledetto mal di mare lui rimaneva impassibile, solo al mio abbraccio colsi nel suo sguardo quello che nascondeva nell'animo».
Alpinolo Cinti sopravvisse anche al conflitto (nel corso del quale ottenne ben sei decorazioni al Valor Militare, due medaglie d’argento e quattro di bronzo) e proseguì la sua carriera nella Marina italiana del dopoguerra, raggiungendo il grado di ammiraglio e l’incarico di comandante della ridimensionata squadra sommergibili della Marina Militare; morì in età non ancora avanzata, stroncato da un infarto in riva al mare, dov’era solito recarsi all’alba per ricordare i suoi uomini inghiottiti dal Mediterraneo.


L’affondamento del Malachite nel giornale di bordo del Dolfijn (da www.uboat.net):

“1047 hours - Heard HE bearing 100°.
1048 hours - Sighted a submarine bearing 095°. Started attack. The submarine was identified as Italian, the Ensign was clearly visible, most likely a Gemma-class boat.
1059 hours - Fired a full salvo of four torpedoes from 2200 yards. One hit was obtained. The enemy quickly started to sink by the stern. When almost gone the submarine popped up vertically out of the water with the bow visible almost up to the conning tower before she slipped under the waves for the final time.”

Sisto Fosci, ultimo superstite in vita del Malachite, tra i figli del comandante Cinti (don Vittorio Cinti, a destra) e del comandante in seconda Cardillo (Giuseppe Rosario Cardillo, a sinistra), in una foto scattata nel 1994 a Porto Potenza Picena in occasione di una cerimonia in memoria del sottocapo Dino Buglioni, morto nell’affondamento del Malachite (da www.abyssi.it)

Il relitto del Malachite, localizzato con lo scandaglio nel settembre 1999 – dopo un anno di ricerche – dai subacquei cagliaritani Alberto Angius ed Enrico Saver, giace su un fondale sabbioso ad una profondità compresa tra i 117 ed i 124 metri, sbandato di 45° sulla sinistra e privo degli ultimi dieci metri della poppa. La prua è danneggiata dall’impatto con il fondale, mentre il resto del sommergibile (a parte la poppa distrutta dal siluro) si presenta in ottime condizioni, con pochissime incrostazioni, grazie all’elevata profondità. Sono ancora chiaramente riconoscibili il cannone, l’antenna del radiogoniometro, le camicie dei periscopi e la mitragliera contraerea; il boccaporto della torretta e quello di poppa sono entrambi aperti. Il moncone poppiero (lungo una decina di metri), staccato dallo scoppio del siluro, giace ad una cinquantina di metri dal resto del relitto. Il relitto è abitato da grosse cernie.
Forti correnti, reti da pesca e cime impigliate dal relitto, insieme all’elevata profondità, rendono l’immersione particolarmente difficile e pericolosa.
Il 9 febbraio 2013, in occasione del 70° anniversario dell’affondamento, è stata celebrata una duplice cerimonia commemorativa, con apposizione sul relitto (assicurato da subacquei all’antenna radio) di un guidone dell’A. C. X Flottiglia MAS (nell’erronea convinzione, già accennata in precedenza, che gli incursori trasportati dal Malachite nella sua ultima missione fossero della X MAS), la recitazione della Preghiera del Marinaio ed il lancio di una corona d’alloro sul punto dell’affondamento, dalla motovedetta M7V, alla presenza del comandante in seconda della Capitaneria di porto di Cagliari, capitano di fregata Martines, di alcuni reduci della X Flottiglia MAS (il presidente dell’associazione combattenti Masciadri, il vicepresidente Pogliani, l’ex paracadutista del Battaglione «N.P.» Ivan Bianchini), di alcuni soci dell’ANMI di Cagliari e di don Alessandro Amodeo, cappellano dell’Opera Apostolato del Mare di Trieste dell’associazione Stella Maris.
Il Comune di Castelraimondo (Macerata) celebra annualmente una cerimonia in ricordo del sottocapo Dino Buglioni, perito sul Malachite. Nel 1994 ha partecipato alla cerimonia il secondo capo Sisto Fosci, ultimo sopravvissuto del Malachite ancora in vita (da allora deceduto), insieme ai figli del comandante Cinti e del comandante in seconda Cardillo.

Un’altra immagine del Malachite