Il Capo Vado (Coll. Malcolm Cranfield, via www.naviearmatori.net) |
Piroscafo da carico da
4391 tsl e 2713 tsn, lungo 115,8 metri, largo 15,5 e pescante 7, con velocità
di 10 nodi. Appartenente alla Compagnia Genovese (o Generale) di Navigazione a
Vapore, con sede a Genova; iscritto con matricola 1469 al Compartimento
Marittimo di Genova, nominativo di chiamata IBAG.
Breve e parziale cronologia.
9 febbraio 1906
Varato nel cantiere Neptune
Yard di Low Walker (Newcastle) della Swan, Hunter & Wigham Richardson Ltd. come
Dochra (numero di cantiere 756).
Stazza lorda 4710 tsl, stazza netta 2755 tsn.
Settembre 1906
Completato per la La
Plata Steamship Company Ltd. di Liverpool (Barber & Co. Inc. di New York).
Impiegato sulla linea merci Buenos Aires-Genova-Napoli-Francia-New York.
1914
Trasferito dalla
Barber & Co. Inc. di New York.
Febbraio 1917
Il Dochra è la prima nave statunitense a
partire da New York per l’Europa, sfidando la minaccia degli U-Boote tedeschi,
dopo che il 31 gennaio il Kaiser Guglielmo II ha annunciato la ripresa della
guerra sottomarina senza limiti. Giunge indenne a Gibilterra il 20 febbraio,
poi prosegue per Genova.
21 ottobre 1917
Requisito dalle
autorità statunitensi e posto sotto il temporaneo controllo dello United States
Shipping Board, entra in servizio nella United States Navy come trasporto USS Dochra (ID-1758, dislocamento di 10.000
tonnellate, equipaggio di 82 uomini), al comando dapprima del capitano di
corvetta C. H. R. Longbottom e successivamente del capitano di fregata William
Rind. Armato con due cannoni da 100/40 mm, viene impiegato per i collegamenti
con la Francia.
21 novembre 1917-16 marzo 1919
Il Dochra effettua sei viaggi da Halifax,
Norfolk e New York a vari porti della Francia, trasportando 11.874 tonnellate
di rifornimenti (soprattutto manzo ed altre vettovaglie) per la American
Expeditionary Force e per le forze navali statunitensi dislocate in Europa.
25 giugno 1918
Il Dochra, partito da Halifax carico di
idrovolanti destinati alla Francia e facente parte di un convoglio di
mercantili armati (salpato da New York il 15 giugno con la scorta
dell’incrociatore protetto statunitense Columbia)
disperso da una tempesta nell’Atlantico settentrionale, intercetta il segnale
di soccorso lanciato da un’altra unità dispersa dello stesso convoglio, il
piroscafo britannico Glenlee, sotto
attacco da parte del sommergibile tedesco U
151. Il Glenlee riesce a
respingere l’attacco, e l’U 151, in
cerca di altre navi, s’imbatte proprio nel Dochra,
alle 19 (dodici ore dopo l’attacco al Glenlee,
ed a 75 miglia di distanza), in posizione 40°25’ N e 47°29’ O. L’U-Boot apre il
fuoco coi cannoni da una distanza di un miglio e mezzo, sparando tre colpi che
cadono tutti a poppavia del Dochra; i
cannonieri del mercantile rispondono al fuoco con dieci salve dei loro pezzi da
100 mm, tiro accurato che, pur non colpendo, induce l’U 151 ad interrompere l’attacco ed immergersi. Per evitare che il
sommergibile possa avvicinarsi in immersione e silurare il Dochra, il Columbia ordina a quest’ultimo di rientrare ad Halifax.
(Altra fonte colloca la partenza da Halifax al 29 giugno, e l’attacco dell’U 151 al 1° luglio).
29 luglio 1918
Il marinaio di
seconda classe Cleo Francis Byerly muore per problemi respiratori a bordo del Dochra.
8 novembre 1918
Il fuochista Bernard
Mattson muore per polmonite a bordo del Dochra.
26 marzo 1919
Salpa da New York con
un carico di rifornimenti per la flotta dislocata a Guantanamo Bay, Cuba.
16 aprile 1919
Dopo aver recapitato
il carico, torna a Norfolk.
10 maggio 1919
Radiato dai quadri
della US Navy a New York, trasferito allo Shipping Board e restituito agli
armatori.
1920
Nuovamente trasferito
alla La Plata Steamship Company Ltd. di Liverpool (Barber & Co. Inc. di New
York).
1925
Acquistato dalla D/S
A/S Normannia (AN Hansen & Co.) di Copenhagen e ribattezzato Alderney.
1926
Acquistato dalla
Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore S. A., con sede a Genova, e
ribattezzato Capo Vado.
Gennaio 1928
Viene rimorchiato da
Boulogne a Rotterdam dal rimorchiatore olandese Gele Zee.
25 gennaio 1929
Il Capo Vado, mentre è in navigazione
nell’Atlantico (partito da Costantinopoli il 24 dicembre 1928 con 25 uomini di
equipaggio ed un carico di 2713 tonnellate di minerale di manganese caricato a
Poti in URSS, diretto a Baltimora), si trova in difficoltà tra le Azzorre e le
Bermuda (durante una violenta tempesta, che crea problemi anche ad altre navi),
tanto da lanciare un SOS (nel quale segnala la sua posizione – 31°23’ N e
48°46’ O, cioè 600 miglia a sudovest delle Azzorre e 750 miglia ad est di Bermuda
– ma non precisa quale sia il problema). Il messaggio viene captato dal
piroscafo statunitense Western Knight,
che lo ritrasmette alla stazione radio di Chatam. Il piroscafo britannico Cleanthis ed il rimorchiatore Humber vengono inviati in suo aiuto; dopo
giorni di angoscia (per tre giorni la nave non dà più notizia di sé e non
risponde alle chiamate), il Capo Vado
riuscirà a raggiungere il porto.
1931
Assegnato, assieme ai
piroscafi Capo Faro e Capo Rino della stessa compagnia, al
servizio sulla prima e nuova linea regolare Spagna-Romania.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. Il Capo Vado
non sarà mai requisito dalla Regia Marina, né iscritto nel ruolo del naviglio
ausiliario dello Stato; sarà invece noleggiato.
2 novembre 1940
Il Capo Vado salpa da Brindisi alle 00.50,
facendo parte di un grosso convoglio composto dai trasporti truppe Italia, Città di Savona, Città di
Bastia, Città di Agrigento e Città di Trapani, dalla motonave da
carico Marin Sanudo e dalle
cisterne/navi da sbarco Tirso e Sesia. Il convoglio, scortato dalle
vecchie torpediniere Generale Antonio
Cantore e Giacomo Medici,
trasporta in tutto 240 quadrupedi, 100 automezzi, 48 motocicli, quattro
autocarri, tre carri armati, sedici carri armati leggeri, undici “carrette”,
quattro forni, nove autocannoni, due autobarche, 326,5 tonnellate di munizioni,
431 tonnellate di carburante e 325 tonnellate di materiali. Le navi giungono a
Valona alle nove del mattino.
La nave fotografata tra il 1917 ed il 1919, quando prestava servizio nella Marina statunitense come Dochra (da www.navsource.org) |
Scorreria nel Canale d’Otranto
L’attacco degli
aerosiluranti britannici a Taranto (“notte di Taranto”) dell’11/12 novembre
1940, che causò il temporaneo dimezzamento della flotta da battaglia italiana
(affondata la corazzata Conte di Cavour,
messe fuori uso per molti mesi le corazzate Littorio
e Duilio) ed ispirò l’attacco
giapponese a Pearl Harbour, è probabilmente uno degli eventi più celebri della
guerra del Mediterraneo.
Meno noto è, invece,
che quell’operazione – chiamata dai britannici «MB.8» – comprese anche una
puntata offensiva nel canale d’Otranto, a scopo diversivo.
Nella stessa notte in
cui fu lanciato l’attacco degli aerosiluranti (la notte tra l’11 ed il 12
novembre 1940), pertanto, una formazione britannica composta dagli incrociatori
leggeri Orion, Ajax e Sydney
(quest’ultimo australiano), cioè il 7th Cruiser Squadron, e dai
cacciatorpediniere Nubian e Mohawk (le cinque navi formavano la
Forza X), al comando del viceammiraglio Henry Pridham-Wippell (imbarcato sull’Orion), s’introdusse nel Canale
d’Otranto con lo scopo di attaccare i convogli italiani in navigazione tra
l’Italia e l’Albania, per appoggiare la resistenza delle forze greche (che in
quel momento stavano fronteggiando l’offensiva italiana) ed al contempo
infliggere uno smacco morale alla Marina italiana, infliggendole perdite in
acque che essa riteneva protette.
In base agli ordini
ricevuti via radio nella mattinata dell’11 novembre, Pridham-Wippell doveva
passare con le sue navi attraverso il punto 39°10’ N e 19°30’ E (a sudest di
Corfù) alle 20.30 di quella sera, indi assumere rotta 340° e velocità 25 nodi
fino alle 22.30, quando avrebbe ridotto a 20 nodi; all’una di notte del 12
novembre avrebbero invertito la rotta, riunendosi al gruppo principale alle
otto del mattino, in posizione 38°20’ N e 19°50’ E (al largo di Cefalonia).
Pridham-Wippell avrebbe dovuto tenere i suoi incrociatori in linea di fila, con
l’Orion in testa, seguito dall’Ajax e per ultimo dal Sydney, ed i due cacciatorpediniere sui
lati (Nubian a dritta, Mohawk a sinistra), a due miglia di
distanza. Qualsiasi nave oscurata che avessero incontrato avrebbe dovuto essere
considerata nemica e trattata come tale; se una delle unità britanniche avesse
perso contatto con le altre, si sarebbe dovuta pertanto ritirate immediatamente
verso sud. Qualora fosse stata necessaria dell’illuminazione, sarebbe stato
preferibile utilizzare proiettili illuminanti, anziché proiettori.
Se la formazione
avesse incontrato un mercantile isolato, l’incrociatore di coda si sarebbe
dovuto separare dagli altri per occuparsene; se invece avesse incontrato un
convoglio, le navi non sarebbero dovute restare rigidamente nelle rispettive
posizioni, ma avrebbero manovrato in base alle esigenze, avendo però cura di
restare in contatto l’una con l’altra.
Tenendo la sua
formazione unita, e procedendo nella notte rischiarata dalla luce lunare,
Pridham-Wippell assunse una rotta che lo portasse al centro del Canale
d’Otranto, passando una decina di miglia ad est dell’Isola di Fano.
Il mare era calmo, il
vento forza 1, il cielo coperto per sette decimi e la luna era al terzo quarto,
a sudovest rispetto alle navi britanniche.
Proprio in quelle
ore, nel canale d’Otranto, si trovava in navigazione un convoglio (denominato «Locatelli»)
di quattro navi mercantili, tra cui il Capo
Vado. Degli altri tre, due erano anch’essi piroscafi da carico: Antonio Locatelli e Premuda; e l’ultima una motonave passeggeri adibita a trasporto
truppe: la Catalani. Erano partiti da
Valona alle 22.30 dell’11 novembre, per rientrare a Bari; essendo in viaggio di
ritorno in Italia, i quattro bastimenti erano, fortunatamente, scarichi. La
loro scorta era modesta, ma d’altra parte commisurata al basso livello di
rischio che presentavano le rotte tra Italia ed Albania (insidiate
saltuariamente solo da qualche sommergibile, con perdite estremamente ridotte):
una vecchia torpediniera risalente al primo conflitto mondiale, la Nicola Fabrizi (tenente di vascello
Giovanni Barbini) ed una motonave bananiera convertita in incrociatore
ausiliario, la RAMB III (capitano di
fregata Francesco De Angelini). Quest’ultimo era l’unità caposcorta. La Fabrizi procedeva in testa al convoglio,
seguita in linea di fila, nell’ordine, da Locatelli,
Premuda, Capo Vado e Catalani, con
il RAMB III in coda alla formazione.
La visibilità era
eccezionalmente buona e la luna, prossima al plenilunio, era già alta. Superato
le ostruzioni del porto di Valona tra le 22.28 e le 22.45, il convoglio, giunto
al traverso di Saseno, imboccò la rotta di sicurezza.
Superati i campi
minati di Valona alle 00.20 e così lasciata la rotta di sicurezza, il convoglio
modificò la formazione, assumendo quella prescritta per i viaggi diurni (per
via dell’eccezionale chiarore lunare): i mercantili rimasero in linea di fila,
ma RAMB III e Fabrizi passarono sui lati, rispettivamente a dritta ed a sinistra,
cominciando inoltre a zigzagare (i trasporti continuarono invece su rotta
diretta). Iniziò così la navigazione nel Canale d’Otranto, alla modesta velocità
di otto nodi, per quella che gli equipaggi credevano sarebbe stata solo una
normale, anonima traversata priva di eventi, come le tante effettuate in
precedenza.
All’1.10, una dozzina
di miglia ad ovest di Saseno, il convoglio accostò per 315°, così rivolgendo la
prua verso Brindisi.
Dopo aver
attraversato indisturbata il canale d’Otranto, senza essere notata da nessuno,
la formazione di Pridham-Wippell raggiunse la congiungente Brindisi-Valona,
mentre – per questioni di tempo – non poté arrivare alla congiungente
Bari-Durazzo. Restava solo mezz’ora per un’eventuale azione contro navi
italiane; all’una di notte del 12 novembre il gruppo britannico raggiunse il
limite settentrionale della zona da perlustrare, quindi invertì la rotta per
tornare indietro.
Fu all’1.15 che il Mohawk, il quale si trovava a prora
sinistra dell’Orion, avvistò navi
oscurate su rilevamento 120°, a circa otto miglia di distanza. Era il convoglio
di cui faceva parte il Capo Vado. I
britannici identificarono le navi avvistate, quasi esattamente, come quattro
mercantili in convoglio, scortati da un cacciatorpediniere (unico errore: in realtà
era il RAMB III) e da una
torpediniera (la Fabrizi), che
procedevano con rotta nordovest in direzione di Brindisi. Il convoglio si
trovava a dodici miglia per 315° da Saseno con rotta nord, mentre la Forza X
aveva rotta sud.
Il Mohawk accelerò a 25 nodi e lanciò il
segnale d’allarme al Nubian, poi virò
per 120° per avvicinarsi alle navi italiane, mentre queste ultime avvistavano a
loro volta i nuovi arrivati. Mentre i mercantili accostavano subito di 90° a
dritta, in direzione opposta a quella di provenienza delle navi britanniche
(nonché verso la costa albanese, dove cercare rifugio), la Fabrizi si diresse incontro alla Forza X per tentare di
contrattaccare.
All’1.25 il Mohawk aprì il fuoco da 3660 metri di
distanza, contro la Nicola Fabrizi;
stimò di aver messo a segno un colpo con la quarta salva, dopo di che la
torpediniera ripiegò emettendo una cortina fumogena.
L’Orion, che aveva avvistato il convoglio
contemporaneamente al Mohawk, tagliò
la strada alle navi italiane – passando a proravia del convoglio – ed all’1.28
aprì a sua volta il fuoco con i pezzi da 152 mm sul terzo mercantile, cioè il Capo Vado, sparando al contempo quattro
salve da 100 mm contro la Fabrizi, da
una distanza di 5850 metri, rilevamento 088°. Il comandante Barbini della Fabrizi ordinò di lanciare i siluri
contro l’Orion, ma i colpi da 100 mm
giunti a bordo causarono vari danni e troncarono anche le comunicazioni, così
l’ordine di lanciare non raggiunse l’ufficiale addetto. All’1.28 la
torpediniera virò a dritta, aprì il fuoco con i suoi cannoni da 100 mm ed
iniziò ad emettere cortine fumogene per tentare di dare al convoglio il tempo
necessario a diradarsi per fuggire, ma era un tentativo vano.
La reazione del RAMB III, che si trovava in quel momento
sul lato opposto del convoglio, fu anch’essa diametralmente opposta a quella
della Fabrizi. L’incrociatore
ausiliario, infatti, virò verso nordest insieme al convoglio e si limitò a
sparare 17 salve da 120 mm in direzione delle vampe che indicavano la posizione
delle navi nemiche, poi si ritirò, dato che il comandante De Angelini ritenne –
probabilmente non a torto – che se avesse tentato il contrattacco la sua nave
sarebbe andata perduta inutilmente. (Il RAMB
III raggiunse Bari indenne, ma all’arrivo De Angelini sarebbe stato immediatamente
sollevato dal comando e processato per aver abbandonato il convoglio a lui
affidato.)
Di diverso avviso era
il comandante Barbini della Fabrizi,
che continuò accanitamente a tentare di fermare le navi britanniche: invertì la
rotta, per continuare ad interporsi tra gli attaccanti ed i mercantili da
proteggere, e, benché centrata e devastata da diversi colpi, seguitò a
rispondere al fuoco con i cannoni ancora funzionanti, per attirare su di sé
l’attenzione degli avversari. Quando i danni divennero troppo gravi per poter
proseguire nell’azione – parte dei cannoni fuori uso, incendi a bordo, molti
morti e feriti gravi tra cui lo stesso comandante Barbini, la nave a rischio di
affondare –, Barbini diresse verso i campi minati difensivi di Valona, nel tentativo
di farsi seguire ed attirare le navi britanniche sulle mine. La sua eroica
difesa, purtroppo, non poté egualmente salvare il convoglio dal massacro.
Centrato da ben 31
salve da 152 mm dell’Orion, il Capo Vado venne “gradualmente demolito”
dall’intenso e continuo fuoco nemico: i colpi da 152, una vera pioggia
ininterrotta, centrarono ripetutamente e devastarono la plancia, il timone e la
sala macchine; il timone colpito andò in avaria, poi i danni subiti in sala
macchine fecero mancare la luce. Parecchi membri dell’equipaggio rimasero
uccisi o feriti.
Ritenendo di aver
cannoneggiato a sufficienza il suo bersaglio, che giaceva in fiamme e
gravemente danneggiato, all’1.33 l’Orion
completò la sua opera distruttiva col lancio di due siluri, uno dei quali colpì
la nave; a bordo dell’incrociatore britannico si ritenne che il Capo Vado fosse affondato, ma non era
così. All’1.48 – dopo venti minuti di martellamento – il piroscafo venne
avvolto da una vampata, cui seguì un’esplosione (da parte italiana non si parla
delle sue origini, ma potrebbe essere stato il siluro dell’Orion: in tal caso, però, vi è una forte discrepanza tra gli orari);
ma rimase a galla, continuando a bruciare. Nondimeno, il Capo Vado stava iniziando a sbandare a sinistra, ed era evidente che
fosse spacciato; i comandanti civile e militare (quest’ultimo era il tenente di
vascello di complemento Aristide Lagorio) distrussero i documenti segreti, poi
ordinarono all’equipaggio di mettersi in salvo sulle imbarcazioni. Queste
vennero messe a mare, ed i marinai superstiti si tuffarono in acqua, e le
raggiunsero a nuoto.
Il direttore di
macchina del Capo Vado, Amelio
Pagano, riferì in seguito che i naufraghi erano stati mitragliati da circa 500
metri di distanza, ma nessun altro superstite fece affermazioni analoghe. Forse
Pagano vide delle raffiche di mitragliera, sparate nella confusione del
combattimento, cadergli vicino, e pensò che si stesse sparando ai naufraghi.
Dopo aver illuminato
la scena con proiettili illuminanti sparati dai cannoni da 100 mm,
l’incrociatore di Pridham-Wippell spostò il tiro delle artiglierie da 152 sulla
quarta nave mercantile, la Catalani, distante
4850 metri su rilevamento 063°. Anche questa venne centrata più volte,
incendiata ed abbandonata dall’equipaggio, dopo di che l’Orion la colpì con un siluro (lanciato da 4570 metri, con
rilevamento 012°) e la motonave iniziò ad appopparsi.
L’Ajax, che aveva avvistato il convoglio
all’1.25, aprì il fuoco all’1.30 verso il “cacciatorpediniere” – in realtà il RAMB III –, che però non fu colpito e si
ritirò passando a poppavia dell’Ajax,
al di fuori della portata delle sue artiglierie. L’incrociatore, allora, cambiò
bersaglio, incendiando uno dei mercantili; poi spostò ancora il tiro su un
altro mercantile, mancandolo con un siluro ma centrandolo con due salve, dopo
di che questi iniziò ad affondare.
Il Sydney, ultima nave della fila
britannica, aveva avvistato cinque navi oscurate all’1.21 ed aprì il fuoco da
6400 metri contro la nave di testa, l’Antonio
Locatelli, che venne incendiata. Spostò poi il tiro sulla seconda nave da
destra, il Premuda, che aveva
avvistato all’1.32 alla luce di un proiettile illuminante, mentre questa
tentava di allontanarsi circondata dalle esplosioni dei proiettili; poi il Sydney spostò ancora il tiro, stavolta
contro la Fabrizi, che stava
emettendo fumo ma si allontanò, e l’incrociatore tornò a sparare contro Locatelli e Premuda, che si trovavano ora raggruppati. Lì colpì, poi li perse
di vista nel buio. All’1.40 la scia di un siluro fu vista passare sotto il Sydney (doveva essere stato lanciato
dalla Fabrizi). L’incrociatore cambiò
ancora bersaglio, sparando ora contro una nave immobilizzata e già oggetto del
tiro di altre unità britanniche: era il Capo
Vado, che venne nuovamente colpito, subendo ulteriori danni. Dopo aver
accostato verso sudest, il Sydney
lanciò due siluri all’1.48, contro una nave che si trovava sulla dritta di
quella già in fiamme, ed all’1.50 cessò il fuoco. In quel momento si vedevano
sue navi su rilevamento 020° e 025° ed una in fiamme su rilevamento 349°;
quest’ultima venne vista affondare alle due di notte.
Il Nubian, che all’1.19 aveva avvistato
quattro mercantili a prora sinistra (rilevamento 110°), aveva aperto il fuoco
all’1.31, da 7300 meti, contro una nave di colore grigio chiaro; quando questa
fu incendiata, il cacciatorpediniere spostò il tiro su un’altra che si trovava
alla sua dritta. Il Mohawk, dopo lo
scontro con la Fabrizi, lanciò un
siluro contro il secondo mercantile da sinistra; il convoglio si stava
sparpagliando. All’1.45 le navi britanniche videro la terra verso sudest.
Mentre il Nubian ritornava nella sua posizione in
coda alla formazione, il Mohawk
spostò il tiro sulla quarta nave da sinistra. L’ultima nave – la Catalani –, colpita a poppa da una
salva, era immobilizzata ed emetteva nuvole di vapore; il Nubian iniziò a cannoneggiarla ed il Mohawk stava per virare a dritta per portarsi a poppavia del Nubian e lanciare i propri siluri contro
le navi immobilizzate, quando all’1.53 Pridham Wippell gli ordinò di assumere
rotta 160° e velocità 28 nodi.
Così fu fatto, e le
navi britanniche interruppero l’attacco, allontanantosi. Pridham-Wippell aveva
preso questa decisione perché aveva ricevuto un messaggio dall’addetto navale
ad Ankara, nel quale si diceva che la flotta italiana intendeva uscire in mare
quella notte per bombardare Corfù (in realtà era pianificato un bombardamento
contro Suda da parte degli incrociatori pesanti della I Divisione, poi non
eseguito a causa dell’attacco a Taranto). Temendo che una superiore formazione
di incrociatori italiani potesse essere in arrivo nel Canale d’Otranto, con il
proposito di impedirgli la ritirata, l’ammiraglio britannico, considerando che
il convoglio era comunque ormai stato distrutto – uno dei mercantili era
affondato, altri due erano avvolti dalle fiamme ed in lento affondamento ed il
quarto era stato visto per l’ultima volta mentre arrancava in fiamme verso
Valona –, decise di andarsene.
Pridham-Wippell si
ricongiunse al resto della Mediterranean Fleet alle undici del mattino del 12
novembre.
La Nicola Fabrizi, gravemente danneggiata e
con incendi a bordo e perdite tra l’equipaggio (11 morti e 17 feriti), riuscì
faticosamente a raggiungere Valona.
I quattro mercantili,
ridotti a relitti in fiamme, affondarono uno dopo l’altro nel corso della
notte. Il Capo Vado affondò alle 3.30
di quella notte, a dodici miglia da Saseno, mentre la Catalani, dopo un vano tentativo di fuga, era colata a picco per
prima, già alle due, il Locatelli
andò a fondo alle 3.35 ed il Premuda
s’inabissò per ultimo, alle 4.05.
A Valona le notizie
su cosa stesse accadendo giunsero inizialmente frammentarie e confuse, anche
perché l’unico piroscafo che avesse chiesto aiuto via radio, il Locatelli (i marconisti degli altri tre
non erano in turno di guardia al momento dell’attacco), aveva per sbaglio
lanciato, nella concitazione del momento, il segnale di attacco aereo. Verso le
quattro del mattino presero il mare per i soccorsi, su ordine di Marina Valona,
le torpediniere Solferino e Curtatone; le comunicazioni dei
soccorritori vennero ostacolate dalle conseguenze dell’attacco contro Taranto,
che aveva provocato un fitto scambio di messaggi che occupava le linee
radiotelegrafiche in modo quasi ininterrotto. Passando davanti a Saseno, Solferino e Curtatone incontrarono la malridotta Fabrizi, in attesa dell’autorizzazione ad entrare in porto, che
riferì loro le coordinate del luogo dell’attacco. La Curtatone si diresse subito verso la posizione indicata, mentre
ordinò alla Solferino di ispezionare
la fascia costiera. Alle ricerche si unirono poi anche alcuni motovelieri. Le
navi si spinsero fino ai margini dei campi minati, dopo di che, non potendo
avanzare ulteriormente, vi inviarono le proprie imbarcazioni.
Alla fine, la Solferino riuscì a salvare 75 naufraghi
e la Curtatone recuperò 65
sopravvissuti dei quattro mercantili; in tutto le vittime furono 25 ed i feriti
altrettanti (oltre alle perdite della Fabrizi).
Verso mezzogiorno, le due torpediniere ed i motovelieri, concluso il
salvataggio, entrarono a Saseno e trasbordarono i naufraghi sulla nave ospedale
California, sulla quale erano già stati portati i feriti della Fabrizi. Nel primo pomeriggio venne
inviato un idrovolante CANT Z. 501 ad effettuare un ultimo controllo nelle
acque del combattimento, ma l’aereo vide solo una gran copia di rottami e
grandi chiazze di nafta.
Il Capo Vado fu, tra i quattro mercantili
affondati, quello che ebbe le perdite più pesanti: morirono undici uomini del
suo equipaggio (di uno solo fu recuperato il corpo, gli altri dieci furono
dichiarati dispersi) ed altri sette rimasero feriti.
L’attacco dell’11/12
novembre 1940 nel Canale d’Otranto fu l’unico attacco compiuto da navi di
superficie ai danni di un convoglio italiano in navigazione tra l’Italia e
l’Albania; fu anche la prima azione notturna da parte di navi britanniche
contro un convoglio italiano, e rispecchiava, nei tristi risultati, quelle che
sarebbero seguite sulle rotte per il Nordafrica. L’attacco indusse comunque i
comandi italiani a potenziare le scorte dei convogli da e per l’Albania,
prevedendo l’impiego di tre torpediniere ed un incrociatore ausiliario per i
convogli composti da quattro mercantili.
Il nonno Francesco Catanzano era capocannoniere della Fabrizi e fu insignito della medaglia d'argento per l'incitamento ai marinai a continuare a combattere durante l'attacco inglese, poichè il Comandante Barbini, medaglia d'oro, era stato colpito pesantemente e gli altri superiori uccisi.
RispondiEliminaMio nonno (Francesco Clemente) era l'ufficiale marconista della Catalani, disperso in mare. lasciava 1 moglie e 5 figli.
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