venerdì 25 novembre 2016

Marcantonio Colonna

Il Marcantonio Colonna (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone ed i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999)

Sommergibile di media crociera della classe Pisani (dislocamento di 880 tonnellate in superficie e 1057 in immersione). Svolse in guerra 12 missioni offensive/esplorative e 6 di trasferimento, percorrendo complessivamente 6718 miglia in superficie e 908 in immersione, il che fece del Colonna il più “attivo”, in guerra, tra i quattro sommergibili della sua classe. Non venne, comunque, mai in contatto con forze nemiche.

Breve e parziale cronologia.

3 dicembre 1925
Impostazione presso il Cantiere Navale Triestino di Monfalcone (numero di costruzione 151).
26 dicembre 1927
Varo presso il Cantiere Navale Triestino di Monfalcone.

Il sommergibile pronto al varo (da “I sommergibili di Monfalcone” di Alessandro Turrini, supplemento alla “Rivista Marittima” n. 11 del novembre 1998)

10 luglio 1929
Entrata in servizio. Rimane a Monfalcone per ultimare l’allestimento e compiere le prove di collaudo ed accettazione. Per via dei problemi di stabilità trasversale presto emersi, tutte le unità della classe devono essere modificate con l'applicazione di controcarene laterali al livello del galleggiamento.
Assegnato con i gemelli (Vettor Pisani, Giovanni Bausan e Des Geneys) alla V Squadriglia Sommergibili di Media Crociera, avente base a Napoli, con la quale ultima le prove ed inizia l’addestramento; effettua poi attività addestrativa all’Italia ed all’estero.
10 ottobre 1929
Raggiunge la profondità di 109 metri nel corso di una prova d’immersione.
2 marzo 1930
Riceve a Civitavecchia la bandiera di combattimento, consegnata dalla famiglia Colonna.
Settembre 1930
Svolge, insieme ai gemelli, una lunga crociera addestrativa in acque metropolitane e nel Mediterraneo orientale, facendo scalo in diversi porti italiani ed anche greci (come Volo e Salonicco) oltre che nel Dodecaneso. Il Colonna, da solo, si spinge anche fino a Porto Said.

Il Colonna, in primo piano, fotografato a Monfalcone insieme ai sommergibili Ondina e Galatea ed ad un battello della classe Argonauta (più indietro) (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone ed i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999). Dato che la prua del Colonna appare danneggiata, è probabile che la foto sia stata scattata dopo l’urto contro un molo avvenuto nel 1933 (vedi sotto).

1933
Durante una missione addestrativa, per avaria del timone il Colonna urta il molo antemurale di Napoli, subendo seri danni a prua.
1935
Dislocato a La Spezia.

Il Marcantonio Colonna a Zara il 15 febbraio 1935 (foto Aldo Fraccaroli, via Stefano Cioglia e www.betasom.it

1936
Trasferito a Lero, assegnato alla II Squadriglia Sommergibili (VI Gruppo Sommergibili).
1937
Effettua una missione clandestina nell’ambito della guerra civile spagnola, senza risultati.
1938
Colonna e gemelli vengono trasferiti a Messina, formando la III Squadriglia Sommergibili (III Gruppo Sommergibili), della quale il Colonna diviene caposquadriglia.
25 novembre 1938
Perde il ruolo di caposquadriglia della III Squadriglia Sommergibili.
17 gennaio 1939
Torna ad essere caposquadriglia della III Squadriglia Sommergibili.

Il Colonna negli anni Trenta (g.c. STORIA militare)

10 giugno 1940
All’entrata in guerra dell’Italia, il Colonna appartiene alla XXXI Squadriglia Sommergibili (III Grupsom di Messina), assieme ai gemelli Vettor Pisani, Giovanni Bausan e Des Geneys.
Inizialmente il Colonna, al comando del tenente di vascello Guido Gozzi, opera nelle acque di Bengasi e Tobruk; per la sua vetustà, non sarà mai impiegato in compiti di “prima linea”.
Fine settembre 1940
Il Colonna (tenente di vascello Guido Gozzi) viene inviato in agguato difensivo al largo di Tobruk.
19 settembre 1940
Alle 20.34, 59 miglia a sud di Morciano di Leuca (ed al largo di Navarino), il Colonna viene attaccato da un sommergibile che si crede essere nemico: in realtà si tratta dell’italiano Serpente (capitano di corvetta Vittorio Emanuele Tognelli), che ha scambiato il Colonna per un sommergibile britannico e gli ha lanciato un siluro. Il Colonna evita il siluro con la manovra.
6 ottobre 1940
Rientra alla base.
31 gennaio 1941
Inviato in agguato nelle acque ad est di Malta, è costretto al rientro da una grave avaria ai motori diesel, non riparabile in mare.
Vetusto nei macchinari e nelle strumentazioni, il Colonna viene a relegato a frequenti agguati difensivi notturni, dapprima nel Golfo di Napoli e successivamente nel Golfo di Genova.
(Per altra fonte, dal luglio 1941 viene destinato alla Scuola Idrofonisti di La Spezia, effettuando alcune missioni addestrative e di sorveglianza).

Un’altra immagine del battello (dall’Almanacco Storico delle Navi Militari Italiane 1861-1995, di Giorgio Giorgerini e Augusto Nani)

30 luglio 1941
Viene inviato in agguato nel Golfo di Genova, con altri due sommergibili (H 1 e H 4), a contrasto dell’operazione britannica «Style» , consistente anch’essa nell’invio di un convoglio a Malta (l’incrociatore posamine Manxman e gli incrociatori leggeri Hermione ed Arethusa in missione di trasporto di 1750 uomini e 130 tonnellate di rifornimenti, con la scorta diretta di due cacciatorpediniere ed indiretta di parte della Forza H) ed azioni diversive (bombardamento di Alghero da parte dei cacciatorpediniere Maori e Cossack e di aerei della portaerei Ark Royal). Non essendo noti a Supermarina gli obiettivi dell’operazione britannica, il Colonna ed i due “H” vengono inviati nel Golfo di Genova per intervenire nel caso la Royal Navy volesse replicare il bombardamento navale di Genova effettuato in febbraio.
Febbraio 1942
Svolge un’esercitazione per conto della scuola antisommergibili di La Spezia.
1° giugno 1942
In considerazione della sua obsolescenza e delle sue mediocri qualità, il Colonna viene posto in disarmo e trasformato in pontone di carica a Genova. La torretta viene parzialmente smantellata; l’unità viene impiegata per ricaricare le batterie di altri sommergibili ed anche per produrre energia elettrica destinata ad impianti a terra.
Rimarrà in queste condizioni fino a dopo la fine della guerra, non tornando mai più operativo.
18 ottobre 1946
Radiato e successivamente avviato alla demolizione.
 

Il Colonna a Genova il 21 agosto 1943, dopo la sua conversione in pontone di carica. Parte della torretta è stata smantellata, e sono stati piazzati degli osteriggi sopra i locali motori (g.c. STORIA militare)

sabato 19 novembre 2016

Butterfly

Il Butterfly con il nome di Suevier nei primi anni 30 (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net

Piroscafo da carico da 5127 tsl e 3176 tsn, lungo 121,92 metri, largo 15,85 e pescante 8,7, con velocità di 10,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima Industrie Navali di Genova (di proprietà dell’armatore Giovanni Gavarone, appassionato di teatro: ogni sua nave portava così il nome di un’opera lirica) ed iscritto con matricola 1798 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

17 agosto 1920
Varato nei cantieri Bartram & Sons Ltd. di South Dock, Sunderland (numero di cantiere 252) come Suevier, nave da carico standard di tipo B (progetto ideato durante la seconda guerra mondiale per la costruzione in serie di navi mercantili).
15 settembre 1920
Completato come Suevier per il Lloyd Royal Belge S. A., di Anversa. Stazza lorda e netta originarie sono 4983 (poi 5075) tsl e 3171 (poi 3141) tsn.
20 agosto 1927
Durante una violenta tempesta al largo del New Jersey il Suevier (capitano Sadl Gonthier), appena salpato da New York, avvista 18 miglia a levante del faro di Ambrose la chiatta Talbot, che chiede aiuto con segnali effettuati mediante bandiere. La Talbot è in difficoltà, perché trovatasi con il timone fuori uso; il Suevier mette a mare una lancia per tentare di soccorrerla, ma un’enorme ondata getta la lancia contro la murata del piroscafo: dodici uomini (i sette che occupavano la lancia, offertisi volontari per il tentativo di soccorso, ed i cinque che manovravano le gruette dell’imbarcazione, travolti anch’essi dall’onda) finiscono in mare. Il secondo ufficiale del Suevier, Robert Rybuck, scompare tra le onde, mentre gli altri vengono recuperati (alcuni aggrappandosi a cime gettate da bordo, altri, troppo storditi per farlo, recuperati da marinai calatisi lungo una scaletta di corda calata lungo la murata). Molti sono feriti alla testa, alle spalle od alle gambe per aver sbattuto contro la scialuppa.
Il Suevier rimane sul posto fino all’arrivo di un rimorchiatore, che prende a rimorchio la Talbot.
1930
Trasferito alla Compagnie Maritime Belge du Congo S.A., di Anversa, che ha assorbito il Lloyd Royal Belge; in gestione alla Agence Maritime Internationale.
1929-1932
Con altre navi della compagnia, il Suevier presta servizio sulla linea che collega Londra, Rotterdam ed Anversa al Congo Belga.
1932
Acquistato dalle Industrie Navali Società Anonima (INSA) di Genova, e ribattezzato Butterfly.

Violatore di blocco

Alla data dell’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, il Butterfly si trovava nel porto brasiliano di Recife, nello stato del Pernambuco: come più di duecento altre navi mercantili italiane, si ritrovò bloccato in un porto straniero a migliaia di chilometri dall’Italia, senza possibilità di potervi rientrare in patria.
Essendo il Brasile uno stato neutrale, il Butterfly venne internato. Condivisero la sua sorte, in vari porti del Paese sudamericano, il transatlantico Conte Grande, le navi cisterna Frisco e Franco Martelli ed altre quattordici navi da carico.
Lo Stato Maggiore della Regia Marina, tuttavia, non si rassegnò alla perdita completa e definitiva di tutte le navi internate in porti extramediterranei: non era infatti possibile farle tornare in Italia, ma se si fosse riusciti a farle arrivare nei porti atlantici della Francia occupata esse avrebbero potuto comunque svolgere un ruolo utile per le forze dell’Asse, operando per conto della Germania nelle acque del Mare del Nord e del Mar Baltico, mentre i loro carichi (ancora a bordo dal 10 giugno 1940) sarebbero potuti giungere via terra in Italia. Naturalmente sarebbe stato un viaggio molto rischioso, sfidando il blocco navale britannico.
Venne quindi organizzata la partenza dei mercantili internati nei paesi neutrali più relativamente favorevoli all’Italia: la Spagna, il Giappone ed appunto anche il Brasile. Quale principale porto di destinazione dei violatori di blocco fu scelta Bordeaux, dove la Regia Marina aveva costituito la base sommergibilistica di Betasom; altra destinazione fu Saint-Nazaire, la maggiore base atlantica tedesca nella Francia occupata. Le navi destinate al viaggio non furono comunque requisite.
Le prime navi a salpare furono quelle internate nella Spagna continentale, tra febbraio e giugno 1941: tre navi, che giunsero tutte felicemente a destinazione. Poi, tra aprile e giugno, venne il turno dei mercantili bloccati alle Canarie: su nove che partirono, cinque giunsero in Francia, mentre quattro furono catturati od affondati.
A questo punto venne il turno dei bastimenti internati in Brasile. Al largo delle coste brasiliane, la Royal Navy aveva inviato diverse unità a pattugliare l’oceano con l’espresso compito di intercettare i violatori di blocco; tra queste navi erano anche i grossi incrociatori ausiliari Asturias e Circassia.
La posacavi britannica Norseman andava e veniva continuamente a Recife, caricando provviste, acqua, carburante ed altri rifornimenti che poi trasbordava sulle navi da guerra che, non potendo entrare in un porto neutrale per via delle convenzioni internazionali, attendevano al largo. Al contempo, la Norseman aveva modo di tenere d’occhio le navi italiane bloccate a Recife, per osservare eventuali mutamenti che potessero far pensare ad un’imminente partenza.
Per mezzo dell’addetto navale in Brasile, capitano di fregata Torriani, e del suo vice, tenente di vascello Di Vicino, Supermarina si mise in contatto con i comandanti delle 18 navi mercantili italiane bloccate in porti brasiliani allo scopo di selezionare quelle in condizioni adeguate alla traversata oceanica che le attendeva. Ne risultò che undici dei bastimenti non ce l’avrebbero potuta fare: tra i sette scelti per il tentativo (cinque piroscafi, una motonave ed entrambe le navi cisterna), invece, vi fu anche il Butterfly.
Le prime due navi a partire furono le due navi cisterna, la Frisco (da Fortaleza) e la Franco Martelli (da Recife), che salparono la sera del 28 marzo 1941. La prima riuscì a raggiungere la Francia senza alcun inconveniente, la seconda fu invece silurata ed affondata dal sommergibile britannico Urge quando aveva quasi ultimato la traversata.
Il Butterfly, al comando del capitano di lungo corso Domenico Canevelli, partì con il secondo gruppo di navi, tre mesi dopo il primo: tra il 28 ed il 29 giugno 1941 presero furtivamente il mare il Butterfly, il piroscafo XXIV Maggio (da Recife, come il Butterfly) ed il piroscafo Mombaldo (da Belem). Per primo partì il Mombaldo, subito dopo – alle 23.30 del 29 giugno – Butterfly e XXIV Maggio, insieme (ma si divisero una volta in mare), distanziati di un centinaio di miglia dal primo. Sul Butterfly si trovava un carico di 1024 tonnellate di materie prime e merci varie, tra cui 200 tonnellate di preziosa gomma naturale.

La partenza di Butterfly e XXIV Maggio, avvenuta a luci spente, non era però passata inosservata: la sera stessa della partenza, infatti, a Berlino era stato intercettato e decrittato un messaggio radio cifrato inviato da Montevideo all’Ammiragliato britannico, nel quale si annunciava che «Pernambuco informa che piroscafi italiani Butterfly e XXIV Maggio sono usciti alle 23.30».
Navi ed aerei britannici, pertanto, si posero alla ricerca dei due piroscafi italiani al largo della costa brasiliana. Sul Butterfly (giunto intanto in mare aperto), tuttavia, stava già verificandosi una disgrazia di tutt’altra natura: mentre l’ufficiale marconista, aiutato da due marinai, stava allestendo le antenne della radio, uno dei due marinai perse l’equilibrio e cadde dalla coffa di trinchetto, precipitando in coperta e morendo sul colpo.
A seguito di questo incidente, il comandante Canevelli decise di tornare in porto: il Butterfly invertì subito la rotta e rientrò a Recife, dove la salma dello sfortunato marinaio venne consegnata alle autorità locali per la sepoltura. Espletate le relative pratiche, il piroscafo mollò nuovamente gli ormeggi e raggiunse nuovamente il mare aperto.
Per ridurre la possibilità di essere scoperti, dopo la partenza dal Brasile i tre piroscafi (che viaggiarono separatamente) si camuffarono in modo da assomigliare a navi mercantili di nazioni Alleate: il Butterfly si mascherò da panamense Penelope. Le operazioni di camuffamento, per ordine del comandante Canevelli (che a sua volta aveva ricevuto in merito precise disposizioni), ebbero inizio solo quando la nave fu lontana dalla costa, al riparo da occhi indiscreti.
Per evitare spiacevoli incidenti di fuoco amico (se n’era verificato già uno, quando il piroscafo Ernani era stato affondato da un U-Boot tedesco), l’11 luglio 1941 Betasom informò tutti i sommergibili italiani in agguato nelle zone di passaggio dei violatori di blocco (Malaspina, Finzi, Bianchi, Torelli, Bagnolini, Barbarigo) del previsto transito di queste navi, nonché del loro camuffamento e di nomi e bandiere dei mercantili Alleati per i quali esse si facevano passare.
Dopo qualche giorno, il comandante Canevelli ritenne prudente modificare nuovamente l’aspetto del Butterfly: riverniciata la nave, aggiunti alberetti e tughe fittizie e posizionati anche numerosi cannoncini e mitragliere in legno compensato, il piroscafo si “trasformò” in una corvetta della Royal Navy.
Il viaggio attraverso l’Atlantico, della durata di un mese (a 9-10 nodi di velocità), trascorse senza particolari problemi. A inizio luglio il Butterfly avvistò più volte relitti alla deriva, silenziosi testimoni dei risultati colti dai sommergibili dell’Asse nella loro offensiva contro il naviglio Alleato nelle acque del Sudamerica; l’8 luglio venne invece avvistato sul mascone di dritta (sulla linea dell’orizzonte) un piroscafo sconosciuto, per evitare il quale la nave italiana modificò temporaneamente la propria rotta. Per il resto, il Butterfly passò inosservato ed a fine luglio giunse finalmente in vista della costa francese. Anziché i soliti dragamine tedeschi (M-Boote), il piroscafo trovò ad attenderlo due grossi cacciatorpediniere della Kriegsmarine, che gli si affiancarono e lo scortarono nel porto di Saint-Nazaire, dove si ormeggiò nel tardo pomeriggio del 29 luglio 1941.
Per il forzamento del blocco, il comandante Canevelli venne decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Comandante di nave mercantile, priva di armamento bellico, effettuava senza scorta la traversata atlantica, percorrendo zone di mare intensamente vigilate dal nemico e raggiungeva felicemente un porto di nazione alleata".

La carriera di violatore di blocco del Butterfly non era però giunta al termine. Dopo un lungo periodo di tranquillità il piroscafo, passato sotto controllo tedesco, ma mantenendo gran parte del suo equipaggio civile italiano (ancora al comando del capitano Canevelli), venne armato con cannoni e mitragliere ed imbarcò 36 militari tedeschi della Flak, addetti a tale armamento; poi, nella notte del 27 aprile 1943, salpò da Saint Nazaire (per altra fonte, da Nantes) diretto a Le Havre. Avrebbe dovuto attraversare il Canale della Manica affrontando il pericolo di attacchi aeronavali britannici (la Royal Navy e la Royal Air Force esercitavano una ferrea vigilanza sul Canale, attaccando tutte le navi dell’Asse che tentassero di attraversarlo), nonché delle artiglierie costiere presenti a Dover, in grado di sparare fin sull’altro lato dello stretto; il viaggio, da compiersi di notte, col favore del buio, era molto più rischioso della traversata dell’Atlantico intrapresa nel 1941, sebbene ora la nave fosse scortata da unità tedesche: i cacciasommergibili UJ 1402 e UJ 1403 (della 14. U-Jagdflottille) e la vedetta V 424. La nave era quasi scarica (in zavorra), eccetto che per un ridotto quantitativo di benzina.
Oltrepassata l’isola di Ouessant, la scorta tedesca venne rinforzata, per il tratto di navigazione compreso tra Brest e Cherbourg, da altre due unità, il dragamine ausiliario M 4014 e la vedetta V 722, inviate da Brest.
La formazione era su tre colonne: le due vedette formavano la colonna di dritta, mentre Butterfly e M 4014 costituivano la colonna centrale ed i due cacciasommergibili quella di sinistra. La tensione era palpabile; le vedette setacciavano il mare circostante in continuazione, mentre le navi avanzavano nel Canale nel buio della notte.
I britannici sapevano di questi movimenti: i loro servizi d’informazione avevano ricevuto notizia dell’avvistamento di un convoglio a nordovest di Perros Guirec, e sapevano che esso sarebbe dovuto passare al largo della costa bretone. Pertanto i cacciatorpediniere Goathland (capitano di corvetta Edward Nigel Pumphrey, capo sezione) ed Albrighton (tenente di vascello Ronald John Hanson) salparono da Plymouth per intercettarlo; presero il mare, per attaccare il convoglio, anche numerose motocannoniere e motosiluranti.
Goathland ed Albrighton avvistarono la loro preda all’1.30, mentre questa attraversava la baia di Morlaix, ma non attaccarono subito. Non viste, nonostante la notte serena e la luminosità delle stelle, le navi britanniche aggirarono il convoglio e si portarono tra esso e la costa, su rotta parallela; serrarono le distanze fino a soli 460 metri prima di aprire il fuoco, da poppa dritta.
Alle 2.45 le vedette di alcune navi tedesche avvistarono delle sagome a dritta, ma il caposcorta, essendo stato avvisato per radio della presenza in zona sia di navi britanniche che di dragamine tedeschi della 24. Minensuchflotille, non sapeva quale fosse la nazionalità dei nuovi arrivati, e pertanto non fece nulla per alcuni minuti.
Alle 2.50 (o le tre) di notte del 28 aprile, infine, circa 60 miglia a nordest di Ouessant, ogni dubbio fu chiarito: i due cacciatorpediniere e numerose motosiluranti e motocannoniere britanniche (a seconda delle fonti, sette, dieci, dodici od anche quindici) apparvero dal buio ed aprirono un fuoco infernale sul piccolo convoglio, cogliendolo completamente di sorpresa. L’attacco fu lanciato da entrambi i lati: i due cacciatorpediniere attaccarono da dritta, le motosiluranti e motocannoniere da sinistra. Si scatenò un violento e confuso scontro con fuoco di cannoni e mitragliere da ambo le parti, nonché lancio di siluri. Le navi britanniche presero di mira soprattutto il Butterfly, loro obiettivo, avvicinandoglisi e tentando di isolarlo dalle unità tedesche della scorta.
In plancia, in sala macchine e nei ponti inferiori innumerevoli proiettili fecero scempio di cose e persone; scoppiarono incendi dappertutto, e le tubature dell’acqua e del vapore vennero colpite in più punti e tranciate, così impedendo qualsiasi tentativo di arginare le fiamme. La nave venne colpita anche da due siluri, lanciati dal Goathland, mentre un siluro lanciato dall’Albrighton mancò il bersaglio.
Gran parte dell’equipaggio del Butterfly venne rapidamente falciata ai propri posti; cannoni e mitragliere furono distrutti o posti fuori uso, i serventi tedeschi quasi tutti uccisi mentre continuavano a rispondere al fuoco.
Infine, una cannonata mise fuori uso il timone, ed il Butterfly prese a girare su sé stesso, ingovernabile. Non c’era più nulla da fare: il comandante Canevelli ordinò il “si salvi chi può”, e parte degli uomini ancora vivi cercarono di mettere a mare l’unica scialuppa ancora utilizzabile (seppure danneggiata), mentre altri si buttarono direttamente in mare. Le ultime salve nemiche andarono a segno centro nave ed a poppa.
Sul relitto in fiamme del Butterfly, scosso dalle esplosioni ed in lento affondamento, rimasero in dodici: il comandante Canevelli, il primo ed il secondo ufficiale di coperta, il direttore di macchina Luigi Tovani ed otto artiglieri tedeschi.
Alle sei del mattino, con un’ultima violentissima esplosione, il piroscafo s’inabissò quattro miglia a nordest del villaggio bretone di Trégastel, non lontano dalle Sept-Îles (al largo di Roscoff, in Bretagna). Il comandante Canevelli e gli undici uomini ancora a bordo, tra cui molti feriti, si aggrapparono ad uno zatterone e vennero successivamente recuperati dalle vedette tedesche della scorta, che diressero verso Saint-Malo, il porto più vicino.

Intanto, il combattimento si era concluso: avendo raggiunto il proprio obiettivo, e trovandosi ora di fronte alla rabbiosa reazione delle unità della scorta (cui verso le 3.40 si unirono anche la vedetta V 210 della 2. Vorpostenflotille ed i dragamine M 422, M 475 e M 483 della 24. Minensuchflotille, al comando del capitano di corvetta Fritz Breithaupt, attratti sul posto dalle cannonate dello scontro), i due cacciatorpediniere britannici manovrarono per allontanarsi (il Goathland, con lievi danni da schegge), ma l’Albrighton divenne temporaneamente ingovernabile a causa di schegge che distrussero i collegamenti del timone, e fu colpito da due proiettili e da numerose schegge, riportando vari danni e perdite (8 morti e 25 feriti) prima di poter ripristinare gli apparati di governo ed allontanarsi. Due unità veloci britanniche furono affondate. Tra le unità tedesche, l’UJ 1402 riportò gravi danni (e tre vittime), tanto da affondare alle nove del mattino per esplosione delle sue bombe di profondità, mentre la V 722 ebbe anch’essa seri danni e 16 uomini uccisi (compreso il suo comandante, tenente di vascello Johannsen), ma rimase a galla e riuscì a rimettere in moto verso le nove.

Non era ancora finita per gli stremati naufraghi del Butterfly: intorno alle undici del mattino, durante la navigazione verso Saint-Malo, le unità tedesche – difese soltanto da due caccia Messerschmitt Bf 109 – furono attaccate da 24 caccia Supermarine Spitfire (del 310th e 313rd Squadron della RAF) e quattro caccia Westland Whirlwind (del 263rd Squadron della RAF), che le attaccarono con bombe e le mitragliarono. La reazione della V 722, mancata di poco da due bombe e colpita da due altre che però non esplosero, abbatté tre degli aerei attaccanti (uno Spitfire e due Whirlwind), ma altri uomini rimasero uccisi o feriti.
Le vedette con i naufraghi arrivarono a Saint-Malo verso le 19 del 28 aprile; qui i feriti furono immediatamente caricati sulle ambulanze, ma per alcuni non c’era già più nulla da fare.
I morti tra l’equipaggio italiano del Butterfly furono undici, oltre ad un imprecisato numero di artiglieri tedeschi.

Per la sua condotta durante il combattimento, il comandante Canevelli fu insignito di una seconda Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Comandante di nave mercantile armata, sosteneva insieme con le unità di scorta un violento combattimento contro preponderanti unità leggere nemiche. Essendo inutilizzate le macchine e la nave senza governo, mentre già divampava l'incendio, provvedeva a mettere in salvo nelle imbarcazioni rimaste la maggior parte del suo equipaggio. Restava con pochi uomini a bordo nella speranza che ad azione ultimata fosse possibile salvare la nave facendola rimorchiare in porto. Resa successivamente vana questa speranza da ulteriore offesa nemica, lasciava il bastimento al suo comando solamente quando era in procinto di affondare. Esempio di sereno coraggio, sprezzo del pericolo e forte attaccamento al dovere". Analoga decorazione venne conferita al direttore di macchina Tovani, con motivazione "Direttore di macchina di nave mercantile armata coadiuvava con sereno coraggio e con l'esperienza di vecchio e provato navigante l'opera del suo comandante, durante un violento combattimento, sostenuto insieme con le unità di scorta contro preponderanti forze leggere nemiche. Essendo inutilizzate le macchine e la nave senza governo, mentre già divampava l'incendio, cooperava per mettere in salvo la maggior parte dell'equipaggio. Restava a bordo a fianco del comandante sino a quando il bastimento era in procinto di affondare. Esempio di sereno coraggio, sprezzo del pericolo e forte attaccamento al dovere".
 

Un’altra immagine della nave sotto il precedente nome di Suevier (da www.wrecksite.eu) 


domenica 13 novembre 2016

Libeccio

Il Libeccio negli anni Trenta (di Carlo Di Risio, da “Cacciatorpediniere in guerra”, supplemento alla Rivista Marittima dell’ottobre 2009, via Marcello Risolo)

Cacciatorpediniere della classe Maestrale (dislocamento standard 1680 tonnellate, in carico normale 2025, a pieno carico 2235).
Durante il secondo conflitto mondiale effettuò in tutto 59 missioni di guerra (otto con le forze da battaglia, due di posa di mine, due di caccia antisommergibili, otto di scorta convogli, quattro di addestramento e 35 di trasferimento o di altro tipo), percorrendo complessivamente 20.987 miglia nautiche e passando 142 giorni ai lavori.

Breve e parziale cronologia.

29 settembre 1931
Impostazione nei Cantieri Navali del Tirreno di Riva Trigoso (numero di costruzione 115).
4 luglio 1934
Varo nei Cantieri Navali del Tirreno di Riva Trigoso.


 Il varo del Libeccio (dal libro di Edoardo Bo “Riva Trigoso, il cantiere e la sua storia”, via Franco Lena e www.naviearmatori.net)


23 novembre 1934
Entrata in servizio. Inizialmente è classificato come esploratore, e va quindi a formare, con i gemelli Maestrale, Grecale e Scirocco, la X Squadriglia Esploratori; solo a fine anni ’30 le navi saranno riclassificate cacciatorpediniere e di conseguenza la squadriglia cambierà nome in X Squadriglia Cacciatorpediniere.
1935
È comandante del Libeccio il capitano di fregata Franco Rogadeo.
1936-1937
Al comando del capitano di fregata Vittorio De Pace, il Libeccio partecipa alle operazioni connesse alla guerra civile spagnola. La nave ha base a Tangeri, insieme a numerose altre unità (i tre gemelli, gli incrociatori leggeri Muzio Attendolo ed Alberto Di Giussano, gli esploratori Quarto, Aquila, Falco, Carlo Mirabello, Augusto Riboty, Nicoloso Da Recco, Giovanni Da Verrazzano, Emanuele Pessagno, Antonio Pigafetta, Luca Tarigo ed Antoniotto Usodimare, la torpediniera Audace), con il compito di controllare il traffico navale da e per la Spagna.

Il Libeccio nel 1936 (da www.travelphotos.co.uk

7 aprile 1939
Prende parte allo sbarco ed invasione italiana dell’Albania (Operazione «Oltremare Tirana») inquadrato nel 3° Gruppo Navale, che il Libeccio forma insieme ai gemelli Grecale e Scirocco, ad un quarto cacciatorpediniere, il Saetta, alle corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour, alle torpediniere Castore, Climene, Centauro e Cigno, al posamine Azio, alla cisterna militare Isonzo ed al grosso piroscafo Sannio. Il 3° Gruppo, al comando dell’ammiraglio di squadra Arturo Riccardi (che ha il comando generale delle operazioni navali) ed incaricato dell’occupazione di Valona, giunge dinanzi al proprio obiettivo nelle prime ore del 7 aprile. Lo sbarco avviene con un ritardo di circa un’ora, e le truppe italiane – sbarcano per prime le compagnie da sbarco di marinai, seguite poi dalla fanteria – sono accolte da quelle albanesi, asserragliate negli edifici della gendarmeria, della dogana e del museo archeologico, con tiro di fucili e mitragliere che viene però ridotto al silenzio dopo un cannoneggiamento di circa dieci minuti da parte delle torpediniere. Così spezzate le resistenze nell’area portuale, il resto della città sarà agevolmente occupato dai reparti italiani.

Il Libeccio in transito presso il ponte girevole di Taranto negli anni Trenta (da www.marina.difesa.it

1939-1940
In seguito a lavori di modifica dell’armamento, le due mitragliere singole da 40/39 mm Vickers-Terni 1917 e le due binate da 13,2/76 mm vengono rimosse, e l’armamento contraereo viene potenziato e ammodernato con l’imbarco di sei mitragliere Breda singole da 20/65 mm modello 1939/1940 (in controplancia ed a poppavia del fumaiolo); sono imbarcati anche due scaricabombe per bombe di profondità.
31 maggio 1940
Il Libeccio fa parte della X Squadriglia Cacciatorpediniere, che forma con i gemelli Maestrale, Grecale e Scirocco: la Squadriglia dei “Quattro Venti”. La X Squadriglia è assegnata alla II Divisione Navale (incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolmeo Colleoni) della 2a Squadra Navale.

Il Libeccio ed il gemello Scirocco ad Augusta nell’aprile 1940 (g.c. Alberto Villa)

10 giugno 1940
L’Italia entra nella seconda guerra mondiale.
Lo stesso 10 giugno la X Squadriglia esegue una ricognizione notturna tra Marettimo e Capo Bon; in suo appoggio escono da Messina e Napoli gli incrociatori pesanti Pola (nave ammiraglia), Trento e Bolzano (III Divisione Navale), gli incrociatori leggerei Eugenio di Savoia, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli (VII Divisione Navale) e quattro cacciatorpediniere. Tutte le navi rientrano alle basi entro la sera dell’11 giugno.
22-24 giugno 1940
La X Squadriglia prende il mare insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX e XII, alle Divisioni incrociatori I, II e III ed all’incrociatore pesante Pola (tutta la II Squadra Navale, più la I Divisione) per fornire copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo occidentale. Le forze della II Squadra, partite da Messina (Pola e III Divisione), Augusta (I Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21 ed il 22) e Palermo (II Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto dello stesso giorno a nord di Palermo. L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.
2 luglio 1940
Il Libeccio, le tre unità gemelle, la I Divisione (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia), la II Divisione (incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) forniscono scorta indiretta ai trasporti truppe Esperia e Victoria, di ritorno vuoti da Tripoli (da dove sono partiti alle 13 del 2) a Napoli con la scorta delle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso.
4 luglio 1940
Il convoglio raggiunge Napoli alle 23.
6 luglio 1940
Salpa da Napoli (per altra fonte da Augusta) alle 19.45, insieme ai tre gemelli ed agli incrociatori leggeri Bande Nere e Colleoni, costituendo il gruppo di scorta diretta al primo convoglio di grandi dimensioni inviato in Libia (operazione «TCM»): lo compongono il piroscafo Esperia (con 1571 militari a bordo) e le motonavi Calitea (con 619 militari a bordo), Marco Foscarini, Francesco Barbaro e Vettor Pisani (queste ultime tre, da carico, aventi a bordo in tutto 232 automezzi, 5720 tonnellate di carburanti e lubrificanti e 10.445 tonnellate di altri rifornimenti), partite da Napoli alle ore 18 (tranne la Barbaro che si aggiungerà l’indomani da Catania) e scortate dalle moderne unità della XIV Squadriglia Torpediniere (Orsa, Procione, Orione e Pegaso).
A protezione del convoglio è in mare pressoché tutta la flotta italiana: 35 miglia ad est, per scorta indiretta, vi sono l’incrociatore pesante Pola, la I e III Divisione con cinque incrociatori pesanti e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII con dodici unità in tutto; 45 miglia ad ovest vi sono i quattro incrociatori leggeri della VII Divisione ed i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia. In più vi è un gruppo di protezione/sostegno costituito dall’intera 1a Squadra Navale, con le due corazzate della V Divisione, i sei incrociatori leggeri della IV e VIII Divisione ed i tredici cacciatorpediniere della VII, VIII, XV e XVI Squadriglia.
7 luglio 1940
In mattinata si uniscono al convoglio la Barbaro e le obsolete torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Cesare Abba, assegnate alla sua scorta, provenienti da Catania. Il convoglio, procedendo a 14 nodi, segue rotta apparente verso Tobruk fino a giungere in un punto situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, quindi assume rotta verso quest’ultimo porto; dopo altre 100 miglia il convoglio si divide, lasciando proseguire a 18 nodi le più veloci Esperia e Calitea, mentre le motonavi da carico manterranno una velocità di 14 nodi.
8 luglio 1940
All’1.50 l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta italiana, a seguito di avvistamenti della ricognizione che rivelano la presenza in mare della Mediterranean Fleet britannica (anch’essa uscita a tutela di convogli), ordina al convoglio, che si trova in rotta 147° (per Bengasi) di assumere rotta 180°, in modo da essere pronto ad essere dirottato su Tripoli in caso di necessità. Alle 7.10, appurato che la Mediterranean Fleet non può essere diretta ad intercettare il convoglio, Campioni ordina a quest’ultimo di tornare sulla rotta per Bengasi.
Il convoglio «TCM» arriva a Bengasi, dopo una navigazione tranquilla, tra le 18 e le 22; la II Divisione e la X Squadriglia vengono inviate a Tripoli.
9 luglio 1940
La II Divisione e la X Squadriglia vengono dislocate a Tripoli. Queste unità non parteciperanno quindi alla battaglia di Punta Stilo, scatenatasi il giorno seguente tra la flotta italiana (1a e 2a Squadra Navale) e quella britannica e conclusasi senza vincitori né vinti.
Successivamente, mentre la II Divisione sarà inviata in Mediterraneo Orientale (subendo la perdita del Colleoni ed il danneggiamento del Bande Nere nello scontro di Capo Spada del 20 luglio), la X Squadriglia rientrerà in Italia scortando un convoglio.
19 luglio 1940
Libeccio, Maestrale, Grecale, Scirocco, provenienti da Tripoli, vengono mandati in mattinata a rinforzare la scorta diretta di un convoglio (trasporti truppe Esperia e Calitea, motonavi da carico Marco Foscarini, Vettor Pisani e Francesco Barbaro, con la scorta diretta di Orsa, Procione, Orione e Pegaso) salpato da Bengasi alle 6 per rientrare in Italia. Da Taranto esce in mare anche la VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi, più i cacciatorpediniere di scorta) per fornire al convoglio scorta a distanza.
21 luglio 1940
Il convoglio giunge a Napoli alle 00.30.
31 luglio 1940
Il Libeccio, assieme a Maestrale, Grecale e Scirocco, salpa da Catania il mattino del 31 quale rinforzo (od in sostituzione) alla scorta diretta (torpediniere Orsa, Procione, Orione e Pegaso) di un convoglio composto dai piroscafi Maria Eugenia, Bainsizza e Gloriastella e dalle motonavi Mauly, Col di Lana, Francesco Barbaro e Città di Bari, in navigazione da Napoli a Tripoli nell’ambito dell’operazione «Trasporto Veloce Lento». Si tratta del convoglio lento, avente velocità 7,5 nodi
A protezione di questo e di un secondo convoglio diretto a Bengasi (quello veloce, che procede a 16 nodi: trasporti truppe Marco Polo, Città di Palermo e Città di Napoli, torpediniere Alcione, Airone, Aretusa ed Ariel) sono in mare, dal 30 luglio al 1° agosto, gli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume, Trento e Gorizia (I Divisione), gli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano della IV Divisione e Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo della VII Divisione, e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XII (Lanciere, Corazziere, Carabiniere, Alpino), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Ascari) e XV (Pigafetta, Malocello, Zeno).
30 luglio 1940
Intorno alle 14 il convoglio viene attaccato, circa 20 miglia a sud di Capo dell’Armi (ed a sudovest di Capo Spartivento), dal sommergibile britannico Oswald (capitano di corvetta David Alexander Fraser), che lancia alcuni siluri contro il Grecale e la Col di Lana: il cacciatorpediniere riesce però a schivare le armi, che mancano anche la motonave. (La data dell’attacco è tuttavia visibilmente incongruente con quella della partenza del convoglio da Catania: ad ora l’autore non ha trovato una spiegazione, se non che una delle due date dev’essere errata).
1° agosto 1940
Il convoglio raggiunge indenne Tripoli alle 9.45.
8 agosto 1940
Il Libeccio (capitano di fregata Enrico Simola), insieme a Maestrale (caposquadriglia, capitano di vascello Franco Garofalo), Grecale (capitano di fregata Edmondo Cacace) e Scirocco (capitano di fregata Franco Gatteschi), lascia Palermo diretto a Trapani in preparazione della posa degli sbarramenti di mine 5 AN (200 mine tipo P 200) e 5 AN bis (240 mine tipo Elia), tra Pantelleria e la Tunisia. Qui i quattro cacciatorpediniere della X Squadriglia imbarcano le mine da posare, per poi partire alle 17.40, preceduti di quaranta minuti dal posamine ausiliario (ex traghetto ferroviario) Scilla che è scortato dalle torpediniere Antares (tenente di vascello Pasquale Senese) e Sagittario (capitano di fregata Adone Del Cima).
9 agosto 1940
La posa – effettuata dallo Scilla per il 5 AN e dalla X Squadriglia per il 5 AN bis – avviene regolarmente; per determinare correttamente la posizione, vengono usati oltre al faro di Pantelleria anche quelli di Capo Bon e Kelibia, accesi dal Comando francese di Biserta su richiesta della Commissione Italiana di Armistizio con la Francia (CIAF) a sua volta sollecitata da Supermarina.
Il 23 agosto il cacciatorpediniere britannico Hostile (capitano di corvetta Anthony Frank Burnell-Nugent) urterà una delle mine dello sbarramento 5 AN, riportando danni tanto gravi da costringere il gemello Hero a dargli il colpo di grazia, affondandolo nel punto 36°53’ N e 11°19’ E, una ventina di miglia a sudest di Capo Bon.
Libeccio, Maestrale, Grecale, Scirocco, Scilla, Sagittario ed Antares rientrano a Trapani tra le 11 e le 12; le quattro unità della X Squadriglia e lo Scilla imbarcano subito le mine per altri due campi minati, il 6 AN (200 mine tipo P 200) ed il 6 AN bis (240 mine tipo Elia), e ripartono nel pomeriggio (lo Scilla è scortato ancora da Antares e Sagittario). Anche queste operazioni di posa (effettuate dallo Scilla per il 6 AN e dalla X Squadriglia per il 6 AN bis) sono effettuate regolarmente; la X Squadriglia raggiunge poi Palermo, da dove ripartirà per ricongiungersi con la sua Squadra.
16 agosto 1940
Il Libeccio ed i tre gemelli, unitamente alla I Squadriglia Torpediniere (Airone, Alcione, Aretusa, Ariel), vanno a rinforzare nella notte la scorta diretta (torpediniere Procione, Orsa, Orione, Pegaso) dei trasporti truppe Marco Polo, Città di Palermo e Città di Napoli, di ritorno in Italia.
18-19 agosto 1940
Il convoglio giunge a Palermo alle 3 del 18 ed a Napoli alle 19 del 19.
1° settembre 1940
A seguito della riorganizzazione delle forze navali e dello scioglimento della II Divisione a seguito dello scontro di Capo Spada, la X Squadriglia Cacciatorpediniere viene assegnata, insieme alla XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), alla IX Divisione Navale (corazzate Littorio e Vittorio Veneto) della 1a Squadra Navale.
1-2 settembre 1940
Il Libeccio partecipa all’uscita in mare della flotta a contrasto dell’operazione britannica «Hats». La X Squadriglia cui appartiene (con Maestrale, Grecale e Scirocco) parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione (corazzate Littorio, nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione (corazzate DuilioConte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia), all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed ad alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), XV (Antonio Pigafetta, Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano e Nicolò Zeno), e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno, Antoniotto Usodimare). Complessivamente all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina 4 corazzate, 13 incrociatori della I, III, VII e VIII Divisione e 39 cacciatorpediniere. Alle 22.30 la formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante, dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da nordovest forza 9, che verso le 13 costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in formazione né usare l’armamento). Poco dopo la mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare. Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova occasione.
7-9 settembre 1940
Il Libeccio lascia Taranto alle 16 del 7, insieme ai tre gemelli, al resto della 1a Squadra (corazzate Littorio e Vittorio Veneto della IX Divisione, Cesare e Cavour della V Divisione e Duilio della VI Divisione; cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia, Freccia, Saetta e Dardo della VII Squadriglia, Folgore, Fulmine e Baleno dell’VIII Squadriglia) ed alla 2a Squadra (incrociatore pesante Pola, ammiraglia della squadra; incrociatori pesanti Zara e Gorizia della I Divisione, Trento, Trieste e Bolzano della III Divisione; cacciatorpediniere Carabiniere, Ascari e Corazziere della XII Squadriglia, Alfieri della IX Squadriglia e Geniere della XI Squadriglia). La flotta italiana, che procede a 24 nodi, è diretta a sud della Sardegna (in modo da trovarsi 50 miglia a sud di Cagliari entro le 16 del giorno seguente), per intercettare la Forza H britannica che si presume diretta verso Malta; in realtà tale formazione, salpata da Gibilterra alle 6, ha soltanto simulato un’incursione in Mediterraneo, per coprire il vero obiettivo per della propria uscita in mare: dirigersi in Atlantico e raggiungere Freetown, per poi attaccare le forze francesi a Dakar. Qualora non sia possibile ottenere il contatto con il nemico, gli ordini prevedono di dirigere per il Basso Tirreno a levante della congiungente Capo Carbonara-Marettimo, poi raggiungere il meridiano 8° Est per le ore 7 del 9 settembre.
Le due squadre navali attraversano lo stretto di Messina nella notte tra il 7 e l’8 e raggiungono il punto prestabilito a sud della Sardegna alle 16 dell’8 settembre; però, dato che la ricognizione non ha avvistato alcuna nave nemica (visto che la Forza H, dopo la “finta”, si è diretta in Atlantico), la formazione italiana inverte la rotta e, per ordine di Supermarina, raggiunge le basi del Tirreno meridionale (Napoli per la 1a Squadra, Palermo e Messina per la I e III Divisione rispettivamente). Le navi si riforniscono di carburante e rimangono pronte  a muovere, ma non ci sono novità sul nemico, ergo nel pomeriggio del 10 settembre lasciano Napoli e Palermo per tornare nelle basi di dislocazione; la 1a Squadra giungerà a Taranto nel tardo pomeriggio dell’11.
29 settembre-1° ottobre 1940
Il Libeccio lascia Taranto la sera del 29 settembre, insieme ai tre gemelli nonché all’incrociatore pesante Pola, alle Divisioni I (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia), V (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour), VII (incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, da Brindisi), VIII (incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi e Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi) e IX (corazzate Littorio e Vittorio Veneto) e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale), XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino), XV (Da Mosto, Da Verrazzano) e XVI (Pessagno, Usodimare) (il Pola con la I Divisione e 4 cacciatorpediniere partono alle 18.05 e le altre unità alle 19.30) e da Messina la III Divisione con 4 cacciatorpediniere per contrastare un’operazione britannica in corso, la «MB. 5». La formazione uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18 nodi, riunendosi con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre. In mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da Scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.

Il Libeccio in Mar Piccolo a Taranto nell’ottobre 1940 (g.c. Alberto Villa)

11-12 novembre 1940
Il Libeccio si trova ormeggiato in Mar Piccolo a Taranto (banchina torpediniere/banchina di Porta Ponente) insieme al resto della X Squadriglia, quando la base viene attaccata da aerosiluranti britannici che affondano la corazzata Conte di Cavour e pongono fuori uso la Littorio e la Duilio.
Mentre gli aerosiluranti attaccano le corazzate, cinque bombardieri attaccano a più riprese le unità presenti in Mar Piccolo, a scopo diversivo, sganciando complessivamente una sessantina di bombe.
Alle 23.15 dell’11 le navi in Mar Piccolo aprono il fuoco contro alcuni aerei che sganciano bombe da una quota valutata in 500 metri; gli ordigni inquadrano i posti d’ormeggio dei cacciatorpediniere.
Secondo fonti britanniche, questo particolare attacco sarebbe stato portato invece da un singolo velivolo: l’E5Q pilotato dal tenente di vascello J. B. Murray e dal sottotenente di vascello S. M. Paine, che sgancia da 915 metri di quota quattro bombe semiperforanti da 250 libbre (113 kg). (Fonti italiane identificano invece il bombardiere che colpì il Libeccio nell’E5A del capitano di vascello O. Patch e del tenente di vascello D. G. Goodwin, che raggiunse il Mar Piccolo dopo aver sorvolato alle 23.06 l’isola di San Pietro, identificò le navi ormeggiate e sganciò le sue bombe scendendo in picchiata, alle 23.15).
Una sola bomba va a segno, e colpisce proprio il Libeccio, a prora sinistra (all’altezza del complesso binato prodiero da 120 mm): per colmo di fortuna, però, l’ordigno non esplode, e così i danni subiti dal cacciatorpediniere rimangono alquanto lievi, limitandosi al (grosso) buco aperto dalla bomba inesplosa nell’opera morta (all’altezza della prima linea di oblò, molto al di sopra della linea di galleggiamento).
Nel pomeriggio del 12 novembre la X Squadriglia, insieme alla XIII Squadriglia ed alle corazzate Vittorio VenetoGiulio Cesare ed Andrea Doria (uniche uscite indenni dall’attacco) lascia Taranto, base non più sicura, e raggiunge Napoli; il Libeccio, tuttavia, rimane invece a Taranto, per riparare nel locale Arsenale i leggeri danni causati dalla bomba.



Alcune immagini che mostrano i danni subiti da Libeccio nella “notte di Taranto”, scattate dal guardiamarina Vittorio Villa del Grecale (per g.c. del figlio Alberto)



26 novembre 1940
Lasciata Taranto per raggiungere il resto della X Squadriglia a La Spezia, il Libeccio (capitano di fregata Enrico Simola) incontra in Mar Tirreno la flotta da battaglia italiana, uscita in mare da Napoli e Messina per intercettare un convoglio britannico diretto a Malta nell’ambito dell’operazione "Collar": ne scaturirà la battaglia di Capo Teulada. Sono in mare, al comando dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, le corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare, l’incrociatore pesante Pola, la I Divisione Navale (Fiume e Gorizia), la III Divisione Navale (Trento, Trieste e Bolzano) e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII (FrecciaSaetta e Dardo), IX (AlfieriOrianiGiobertiCarducci), XII (Ascari, Lanciere, Corazziere e Carabiniere) e XIII (GranatiereBersagliereFuciliereAlpino). Il Libeccio riceve ordine di aggregarsi alla squadra; in tal modo, sarà l’unico cacciatorpediniere della X Squadriglia a partecipare alla battaglia. Secondo una fonte, viene aggregato alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere, sostituendo temporaneamente il Carabiniere; secondo un’altra, invece, viene aggregato alla squadriglia che scorta la I Divisione Navale (cioè, la IX).
Riunitasi alle 18 nel punto 39°20’ N e 14°20’ E, 70 miglia a sud di Capri, la formazione italiana assume rotta 260° e velocità 16 nodi, per intercettare il convoglio britannico. Quest’ultimo, entrato in Mediterraneo il 24 novembre, è composto dai mercantili New Zealand StarClan Forbes e Clan Fraser, con la scorta diretta dell’incrociatore leggero Despatch, l’incrociatore antiaerei Coventry, i cacciatorpediniere DuncanWishart ed Hotspur e le corvette HyacinthPeonySalvia e Gloxinia. La Forza F di protezione ravvicinata (ammiraglio Lancelot Holland) comprende l’incrociatore pesante Berwick e gli incrociatori leggeri ManchesterNewcastleSheffield e Southampton, mentre come forza di copertura a distanza è uscita da Gibilterra la Forza H (ammiraglio James Somerville) con la corazzata Ramillies, l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark Royal ed undici cacciatorpediniere (KelvinJaguarEncounterFaulknorFiredrakeFuryForesterGallant, GreyhoundGriffin e Hereward).
27 novembre 1940
Alle otto del mattino, la formazione italiana procede nel seguente ordine: in testa sono il Pola, nave ammiraglia della 2a Squadra (che è formata dalla I e dalla III Divisione; il tutto sotto il comando dell’ammiraglio Angelo Iachino), e la I Divisione, con rotta 250° e velocità 16 nodi; la III Divisione procede a cinque miglia per 180° dal gruppo Pola-I Divisione; la 1a Squadra (le due corazzate ed i cacciatorpediniere della VII e della XIII Squadriglia, al comando dell’ammiraglio Campioni) è più a poppavia.
La formazione italiana ha rotta 260°, verso la Sardegna, ed il mattino del 27 incrocia nove miglia a sud di Capo Spartivento Sardo, per intercettare uno dei due gruppi britannici in mare (uno partito da Alessandria ed uno da Gibilterra) prima che possano riunirsi: quello proveniente da Alessandria viene avvistato alle 9.45 da un idroricognitore lanciato dal Bolzano alle 7.55, che comunica che una corazzata, due incrociatori e quattro cacciatorpediniere si trovano a 26 miglia per 20° da Cap de Fer, con rotta 90° e velocità 16 nodi. Il messaggio del ricognitore viene ricevuto alle 10.05 dall’ammiraglio Iachino e dieci minuti dopo dall’ammiraglio Campioni. Poco dopo il velivolo aggiunge che si mantiene in contatto visivo con le navi nemiche; continuerà a tenere il contatto fino alle 10.40.
Sebbene la posizione indicata sia piuttosto lontana dal vero (troppo ad ovest), questo avvistamento è il primo concreto segnale, per il comandante superiore in mare, della presenza delle forze nemiche.
A questo punto, la formazione italiana dirige per sudest, in modo da intercettare il gruppo nemico e tagliargli la rotta.
Alle 11.01 la III Divisione riceve ordine da Iachino di portarsi a poppavia (a tre miglia per 270°) del resto della 2a Squadra, ed alle 11.28 l’intera formazione assume rotta 135°, per intercettare la formazione britannica che (dalle segnalazioni dei ricognitori) risulta avere posizione differente da quella prevista.
Durante l’inversione di rotta conseguente all’ordine delle 11.01, tuttavia, si verifica una certa confusione causata dall’errata interpretazione di un segnale da parte del Trento (che per invertire la rotta vira di contromarcia, mentre gli altri due incrociatori virano ad un tempo), così che il Trieste, nave ammiraglia, finisce al centro della formazione, invece che in testa, e la III Divisione si ritrova arretrata rispetto al resto della 2a Squadra: ultima della formazione, 8 km a poppavia della I Divisione.
Alle 11.35 la 2a Squadra riceve dall’ammiraglio Campioni di portarsi su rilevamento 195° rispetto alla sua nave ammiraglia (la Vittorio Veneto), in modo che la formazione divenga perpendicolare alla probabile direzione d’avvicinamento della squadra britannica.
A mezzogiorno il Lanciere viene colto da un’avaria di macchina, restando fermo per un breve lasso di tempo; in conseguenza di ciò, la XII Squadriglia rimane un po’ arretrata.
Alle 12.07, in seguito alla constatazione che la formazione britannica appare superiore a quella italiana (i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di sicura superiorità), essendosi i due gruppi riuniti, l’ammiraglio Campioni ordina di assumere rotta 90° per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e tre minuti dopo ordina alla 2a Squadra di aumentare la velocità per riunirsi alle corazzate, pertanto la 2a Squadra accelera a 25 nodi, poi a 28.
Alle 12.15, tuttavia, le unità della 2a Squadra avvistano improvvisamente quattro cacciatorpediniere britannici, diretti verso gli incrociatori italiani: le siluranti nemiche spariscono subito, avendo apparentemente invertito la rotta, ma poco dopo vengono avvistati altri cacciatorpediniere, incrociatori, corazzate: è la squadra britannica, che comprende le corazzate Renown e Ramillies, la portaerei Ark Royal e gli incrociatori Berwick (pesante), SheffieldSouthamptonNewcastle e Manchester (leggeri), oltre a numerosi cacciatorpediniere. In questo momento la III Divisione si trova in linea di fila 8 km a poppa della I Divisione, con rotta 90° e velocità 25 nodi, in aumento, mentre le corazzate sono a proravia della I Divisione. A seguito dell’avvistamento delle forze nemiche, l’ammiraglio Campioni ordina di incrementare ancora la velocità. Inizia così la battaglia di Capo Teulada.
Alle 12.20, prima che l’ammiraglio Campioni possa ordinare di non impegnarsi, gli incrociatori della I Divisione aprono il fuoco, seguiti in successione dal Pola e da quelli della III Divisione: questi ultimi sono i più vicini alle navi britanniche, ad una distanza di 21.500 metri (Pola e I Divisione sono invece a 22.000 metri di distanza). Subito gli incrociatori britannici (uno, il Manchester, viene mancato dalla prima salva italiana, sparata dal Trieste o dal Trento, scartata lateralmente di circa 90 metri) rispondono al fuoco; BerwickManchesterSheffield e Newcastle concentrano il loro tiro contro le unità della III Divisione. Gli incrociatori italiani della 2a Squadra, in linea di fila, sono in posizione favorevole (da “taglio del T”) per sparare con tutte le artiglierie su quelli britannici, che si trovano invece in linea di fronte e possono usare solo le torri prodiere, ma per via dell’ordine di Campioni di disimpegnarsi devono accostare verso nordest. Durante lo scontro, le navi italiane continuano a ritirarsi verso nordest, sparando quasi esclusivamente con le torri poppiere, mentre quelle britanniche le inseguono tirando quasi solamente con le torri prodiere (la distanza media del combattimento è 22.500 metri, che per la III Divisione – segnatamente il Trento – scende ad un minimo di 18.000 metri). All’inizio dello scontro l’ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione (che è rimasta indietro ed aveva aumentato la propria velocità in ritardo rispetto al resto della Squadra, ed i cui apparati motori non hanno ancora raggiunto la massima andatura) di portare la velocità a 30 nodi e di allontanarsi dal nemico prima possibile, vedendo che essa sembra avere qualche difficoltà ad allontanarsi dalle unità britanniche, mentre salve da 152 degli incrociatori leggeri e qualche rara salva da 381 delle corazzate cade nella loro direzione. Il tiro degli incrociatori italiani è intenso dall’apertura del fuoco fino alle 12.42, poi diventa intermittente tra le 12.42 e le 12.49 a causa di ripetute accostate necessarie a disturbare l’attacco di aerosiluranti britannici frattanto apparsi, poi nuovamente intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi, a causa dell’aumento delle distanze e del fumo (causato soprattutto dalla combustione forzata delle caldaie, in particolare sulle navi della III Divisione), il ritmo di tiro deve di nuovo calare, fino a cessare alle 13.15, quando la distanza è diventata di 26.000 metri.
Due salve da 203 mm degli incrociatori italiani colpiscono, alle 12.22 ed alle 12.35, l’incrociatore pesante britannico Berwick: la prima uccide sette uomini, ne ferisce nove e mette fuori uso la terza torre da 203 dell’unità britannica, la seconda danneggia il quadrato ufficiali ed i locali adiacenti, ma il Berwick continua a fare fuoco con le torri rimaste funzionanti. Nello schieramento italiano, tra le 12.33 e le 12.40 tre colpi sparati da un incrociatore britannico colpiscono in sala macchine il cacciatorpediniere Lanciere, che rimane immobilizzato e verrà successivamente preso a rimorchio dal gemello Ascari.
Fino alle 12.40 le navi britanniche (soprattutto gli incrociatori) sparano intensamente contro la III Divisione, poi spostano il tiro sulla I Divisione, che è divenuta più vicina (ma il loro tiro è disturbato dal fumo prodotto dalle navi italiane). Le corazzate britanniche intervengono solo sporadicamente, trovandosi più indietro rispetto agli incrociatori, senza comunque colpire nulla.
Nel frattempo anche la 1a Squadra si è riavvicinata alla 2a Squadra, ed alle 13.00 la Vittorio Veneto apre il fuoco da poco meno di 29.000 metri, ma le unità britanniche subito accostano a dritta e la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare il fuoco già alle 13.10. Alle 13.05, su richiesta del Fiume (nave di bandiera dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci, comandante la I Divisione), le unità della IX Squadriglia stendono una cortina nebbiogena, disturbando il tiro degli incrociatori britannici contro quelli italiani. Alle 13.15, essendo la distanza (della 2a Squadra dalle forze britanniche) salita a 26.000 metri, il tiro viene cessato anche dagli incrociatori, viene rotto il contatto. Ha così fine l’inconclusiva battaglia di Capo Teulada. Alle 15.20 le unità della 2a Squadra vengono attaccate da nove aerosiluranti decollati dalla portaerei Ark Royal: l’attacco si protrae per dieci minuti, ma nessun siluro (lanciati tutti contro PolaFiume e Gorizia) va a segno. Alle 21 del 27 novembre le navi italiane assumono rotta nord a 15 nodi.
28 novembre 1940
Alle 00.30 la flotta italiana dirige verso est fino alle 7.30 del 28, dopo di che segue le rotte costiere, arrivando a Napoli tra le 13.25 e le 14.40 del 28. 
L’allora tenente di vascello Ennio Giunchi, all’epoca imbarcato sul Libeccio, così ricorda – nel libro di memorie “Epilogo in Mar Rosso” – le peripezie del Libeccio nella notte di Taranto ed a Capo Teulada: “La Spezia, dicembre 1940: da alcuni giorni, dopo un mese di assenza, il Libeccio (capitano di fregata Simola) si era ormeggiato accanto ai compagni della 10a Squadriglia Cacciatorpediniere (…) La famosa notte dell’11 novembre, a Taranto, il Libeccio era stato colpito da una bomba sul castello di prora: uno scossone, come un rude colpo di mare, e la bomba, inesplosa, aveva attraversato l’infermeria ed era finita in acqua. Il giorno dopo la Squadra aveva lasciato Taranto (…) la Squadriglia Maestrale fu trasferita direttamente a La Spezia (…) Noi [Libeccio] dovemmo restare in Arsenale per riparare la falla, e quel ritardo fece sì che partecipassimo alla battaglia di Punta Teulada. Infatti, in navigazione di trasferimento per La Spezia, incrociammo la Squadra che, uscita da Napoli, dirigeva a ponente della Sardegna. Ci fu segnalato di prender posto nella formazione, aggregandoci alla scorta della Divisione Pola. (…) Il Libeccio, scortando il Fiume, si trovò all’avvistamento proprio sul lato del nemico. Cominciarono a zampillarci intorno le fontanelle candide e silenziose dei proietti inglesi. Un incrociatore ci sparava addosso da 19.000 metri coi suoi 152; a intervalli sempre più brevi si vedevano sul suo scafo le vampe dei colpi in partenza, poi si aspettava di vedere dove andassero a cadere, sperando di non pigliarseli addosso. Non c’era altro da fare che schizzare di qua e di là studiandosi di sconcertare il tiro; sparammo inutilmente qualche salva, poiché la distanza era eccessiva per i nostri 120. Me ne stavo sull’ala di plancia di sinistra, guardando verso poppa, e annunciavo al comandante gli scarti dei colpi che vedevo cadere, per permettergli di manovrare in conseguenza. Accanto a me Gianni De Luca, il “maestrino” di casa [cameriere civile addetto al quadrato ufficiali] specialista in squisite tartine, mi avvisava quando cadevano colpi verso prora. Nulla, tranne le fontanelle ipocrite sempre più vicine, pareva diverso da una esercitazione di pace in una bella giornata di sole. Eppure la morte ci sfiorava ad ogni istante (…) Nello spettacolo terribilmente bello della battaglia, fumo greve e vampe rossastre che trascorrevano sul mare calmo a sessanta chilometri l’ora, la gragnuola di colpi che piovevano sul Libeccio era destinata ad essere dimenticata dalla storia, perché nessuno di quei colpi avrebbe toccato il segno. Ma furono centosettantacinque gli zampilli sornioni che ne inquadrarono lo scafo, e qualcuno tanto vicino che una volta il segnalatore scrisse sul brogliaccio di navigazione: «ora tot, siamo colpiti»; poi, in bacino, si dovettero batter le bugne prodotte nell’opera viva dalla violenza delle esplosioni. Il Libeccio si fece beffa di tutte le dotte statistiche di percentuali di colpi utili; e un giornalista, Paolo Monelli, doveva poi scrivere: «Quel caccia mi fa l’effetto di uno scampato a cento pistolettate da venti metri». Quando poi uno Swordfish, venuto all’attacco di sorpresa nella scia del sole, lanciò vicinissimo un siluro, ebbene il siluro andò a fondo piuttosto che colpirci giusto sotto la plancia com’era diretto, poiché il Libeccio quel giorno si era intestardito a restare a galla. (Il velivolo ci passò sul fumaiolo mitragliando: il pilota aveva un casco giallo, lo vedemmo in viso; i traccianti delle nostre armi si spegnevano nel corpaccio nero del suo apparecchio ma non riuscimmo a tirarlo giù, e forse non ci dispiacque). (…) Al rientro in porto apprendemmo da radio Londra [che] (…) quanto al Libeccio, il nemico lo aveva visto «sbandare fortemente» e presumeva riposasse in fondo al mare. La notizia fu per noi motivo di allegria, non per i nostri familiari che, nella quotidiana ansiosa ricerca di tutte le voci dell’etere, ascoltarono la consolante trasmissione. (…) Dopo una permanenza a Napoli movimentata da vari bombardamenti aerei, ricevemmo l’ordine di trasferirci a La Spezia, che raggiungemmo dopo una breve sosta di puggiata a Portoferraio imposta dal mare grosso”.
11-12 gennaio 1941
Il Libeccio, insieme ai tre gemelli, ad una sezione della XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere ed Alpino) ed ai cacciatorpediniere Freccia e Saetta della VII Squadriglia, parte da La Spezia alle 4 dell’11 gennaio, scortando le corazzate Andrea Doria e Vittorio Veneto (nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino) inviate ad intercettare e finire la portaerei britannica Illustrious, che è stata gravemente danneggiata dalla Luftwaffe, nel canale di Sicilia (cioè a più di un giorno di navigazione da La Spezia). Le navi dirigono verso sud a 20 nodi, ma alle 14.30 Supermarina, informata che l’Illustrious ha già raggiunto Malta nella notte precedente, ordina a Iachino, che si trova in quel momento nelle acque delle Isole Pontine, di tornare indietro. Durante il rientro alla base le navi effettuano una serie di esercitazioni di tiro e di manovra, per poi giungere a La Spezia alle 9 del 12 gennaio.
8-11 febbraio 1941
Alle 18.30 dell’8 febbraio il Libeccio ed il resto della X Squadriglia (Maestrale, Grecale e Scirocco) superano le ostruzioni foranee uscendo per primi dal porto di La Spezia, insieme alle corazzate Vittorio Veneto (ammiraglia dell’ammiraglio Iachino), Giulio Cesare ed Andrea Doria (della V Divisione) ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Fuciliere, Alpino) per intercettare l’aliquota della Forza H britannica (incrociatore da battaglia Renown, corazzata Malaya, portaerei Ark Royal, incrociatore leggero Sheffield, cacciatorpediniere Fury, Foxhound, Foresight, Fearless, Encounter, Jersey, Jupiter, Isis, Duncan e Firedrake) che sta facendo rotta su Genova con l’intento di bombardare il capoluogo ligure (ma l’obiettivo della Forza H non è noto ai comandi italiani). Una volta in mare la X Squadriglia assume posizione di scorta ravvicinata a dritta (la XIII Squadriglia assume invece la scorta ravvicinata a sinistra) delle tre navi da battaglia, che procedono su rotta 220° ad una velocità di 16 nodi. Alle otto del mattino del 9 le unità uscite da La Spezia si riuniscono, a 40 miglia ad ovest di Capo Testa sardo, alla III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) partita da Messina unitamente ai cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere della XII Squadriglia, ed alle 8.25 l’intera formazione assume rotta 230°, dirigendo per quella che è ritenuta la probabile zona ove si trovano le navi nemiche, nell’ipotesi, errata, che la loro azione sia diretta contro la Sardegna.
La squadra italiana, in navigazione verso sudest (verso la posizione in cui si ritiene probabile trovarsi il nemico), non raggiunge così la Forza H prima che il bombardamento di Genova si compia (questo avviene dalle 8.14 alle 8.54, mentre la squadra italiana, del tutto ignara di quanto sta accadendo, si sta radunando al largo dell’Asinara, e la ricognizione aerea sta cercando inutilmente il nemico ad ovest della Sardegna: le navi britanniche sparano 273 colpi da 381 mm, 782 da 152 mm e 405 da 114 mm, distruggendo o danneggiando gravemente 254 edifici, uccidendo 144 civili e ferendone 272 ed affondando due mercantili), e viene inviata alla sua ricerca mentre questa rientra a Gibilterra: alle 9.35 le navi italiane assumono rotta 270° (verso ovest), ed alle dieci, in seguito alle informazioni pervenute con nuovi messaggi (solo alle 9.50 Iachino viene a sapere del bombardamento di Genova), fanno rotta verso nord, con le corazzate precedute di 10 km dalla III Divisione. La formazione si trova 30 miglia più a sud di quanto previsto. Alle 12.44, dopo vari messaggi contraddittori su rotta e posizione delle forze britanniche, la formazione italiana assume rotta 330° in modo da poterle intercettare nel caso stiano navigando verso ovest costeggiando la Provenza (una ipotesi corretta, che avrebbe effettivamente permesso alle forze italiane di intercettare la Forza H entro un’ora), ma alle 13.16, dopo aver ricevuto nuovi messaggi su (errati) avvistamenti delle navi britanniche (una portaerei ancora nel Golfo di Genova, diretta a sud, ed altre tre navi ad ovest-sud-ovest di Capo Corso con rotta nordest: queste ultime sono in realtà un convoglio francese, il «CN 4», in navigazione da Tolone a Bona), che spingono Iachino a pensare che le forze britanniche, divise in due gruppi, intendano riunirsi ad ovest di Capo Corso per poi ritirarsi verso sud lungo la costa occidentale della Sardegna (impressione rafforzata dal fatto che un idroricognitore catapultato dal Trieste non ha avvistato nulla nelle acque della Provenza, nonché da rilevamenti radiogoniometrici sospetti che sembrano confermare tale ipotesi), le corazzate accostano di 60° assumendo rotta 30° (la III Divisione assume invece rotta 50° alle 13.07), accelerando a 24 nodi (30 per gli incrociatori), e la X Squadriglia riceve l’ordine di riunirsi e posizionarsi all’estremità settentrionale della formazione (analogamente fa la XIII Squadriglia, che però si posiziona all’estremità meridionale).
Alle 13.21 viene diramato l’ordine a tutte le unità di prepararsi al combattimento, ritenendo prossimo l’incontro con il nemico, ed alle 15.24 e 15.38 vengono avvistate delle navi sospette, che però si rivelano essere mercantili francesi in navigazione: quelli del convoglio «CN 4». Alle 15.50 la squadra italiana accosta verso ovest (rotta 270°) e prosegue a 24 nodi (per il gruppo delle corazzate; 30 per gli incrociatori) per intercettare la Forza H nel caso stia navigando verso ovest lungo la costa francese (infatti Supermarina ha comunicato che tra le 12 e le 13 aerei italiani hanno avvistato ed attaccato la Forza H a sud della Provenza), ma alle 17.20 la velocità viene ridotta a 20 nodi, mentre vengono meno le speranze di trovare le navi britanniche. Alle 18 le navi accostano verso nord, ed alle 19 verso est, riducendo la velocità a 18 nodi e cessando il posto di combattimento. Durante la notte, in seguito ad un ordine ricevuto alle 22.50, la squadra italiana incrocia nel golfo di Genova a 15 nodi (accelerando poi a 20 nodi alle otto del mattino del 10), venendosi così a trovare, alle nove del mattino del 10, al centro del quadratino 19-61, come ordinato. Alle 9.07 viene ricevuto l’ordine di rientrare a Napoli (Messina per la III Divisione), dove le navi arrivano nel mattino dell’11 febbraio, in quanto l’accesso al porto di La Spezia è temporaneamente ostruito dalle mine lanciate da aerei britannici durante l’attacco; dragate queste ultime, il gruppo delle corazzate potrà lasciare Napoli nel tardo pomeriggio dell’11, giungendo a La Spezia nel pomeriggio del 12.
22 marzo 1941
Il Libeccio e le altre tre unità della X Squadriglia, insieme alla XIII Squadriglia (che poi prosegue per Messina) ed ad una sezione della VII Squadriglia, lasciano La Spezia per Napoli, scortando la corazzata Vittorio Veneto, che giunge nel porto partenopeo il mattino del 23, per poi attendere l’inizio dell’operazione «Gaudo».
26-27 marzo 1941
Libeccio (capitano di fregata Errico Simola), Maestrale (caposquadriglia, capitano di vascello Ugo Bisciani), Scirocco (capitano di fregata Domenico Emiliani) e Grecale (capitano di fregata Edmondo Cacace) lasciano Pozzuoli alle 21 per scortare da Napoli a Messina la corazzata Vittorio Veneto (nave di bandiera dell’ammiraglio Angelo Iachino, partita da Napoli alle 20.30), che insieme alla I Divisione (Zara, Pola, Fiume), alla III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano), alla VIII Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci), alla XVI Squadriglia (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno) ed alla XII Squadriglia (Ascari, Corazziere, Carabiniere), parteciperà all’operazione «Gaudo», un’incursione contro il naviglio britannico nel Mediterraneo orientale, a nord di Creta. Alle 6.15 del 27, davanti a Messina, la X Squadriglia viene rilevata dalla XIII Squadriglia (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino) che scorterà la Vittorio Veneto per il resto della missione, e poi entra a Messina, rifornendosi di carburante e restandovi poi pronta a muovere in due ore. La X Squadriglia non prenderà quindi parte all’operazione, che sfocerà nella tragica sconfitta di Capo Matapan.
28 marzo 1941
Alle 22.20 la X Squadriglia, su richiesta dell’ammiraglio Iachino, viene fatta partire da Messina per raggiungere in un punto a 92 miglia per 231° da Capo Matapan la I Divisione Navale (incrociatori pesanti Zara e Fiume, cacciatorpediniere Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci della IX Squadriglia), che è stata inviata in soccorso del Pola, immobilizzato da aerosiluranti britannici nel punto sopraindicato. Proprio in quei minuti, però, le corazzate britanniche Valiant, Warspite e Barham, giunte vicine al Pola prima della I Divisione, si accingono ad aprire il fuoco contro quest’ultima: colta completamente di sorpresa, la I Divisione viene annientata, con l’affondamento di Zara, Fiume, Alfieri e Carducci (oltre al Pola) ed il danneggiamento dell’Oriani, che riesce a sfuggire insieme all’indenne Gioberti.
29 marzo 1941
Iachino, che ha assistito a distanza al disastro, all’1.18 chiede che la X Squadriglia – per la I Divisione non c’è più nulla da fare – raggiunga la Vittorio Veneto (anch’essa danneggiata da un aerosilurante la giornata del 28, e costretta a procedere a velocità ridotta) a 60 miglia per 139° da Capo Colonne. Ciò viene fatto; con le luci dell’alba, la X Squadriglia assume posizione di scorta a sinistra dell’VIII Divisione, che a sua volta è posizionata a sinistra della Vittorio Veneto (mentre alla dritta della corazzata c’è la III Divisione), in formazione diurna di marcia. Alle 6.23 sopraggiungono cinque bombardieri tedeschi Junkers Ju 88 di scorta aerea, seguiti più tardi da caccia tedeschi e poi (già dentro il Golfo di Taranto) anche tre caccia italiani. Alle 9.08 la formazione italiana assume rotta 343°, ed alle 9.40 Libeccio e Maestrale vengono distaccati per raggiungere l’Oriani, rimasto immobilizzato per i danni a 110 miglia per 280° da Capo Matapan.
Sul posto giungono anche le torpediniere Giuseppe Dezza e Simone Schiaffino ed il minuscolo incrociatore ausiliario Lago Zuai; l’Oriani, preso a rimorchio, giungerà ad Augusta alle 5 del 30 marzo.

La poppa del Libeccio dilaniata dalla collisione con l’Esperia, all’arrivo a Palermo (16 aprile 1941); sullo sfondo le torpediniere Giuseppe La Farina ed Antonio Mosto (da www.regiamarinaitaliana.it

14 aprile 1941
Il Libeccio salpa da Napoli alle tre di notte scortando il piroscafo Esperia, per unirsi al convoglio «Aviere» (piroscafi tedeschi AlicanteMaritzaProcida e Santa Fè, scortati dai cacciatorpediniere Aviere – caposcorta –, GeniereGrecale e Camicia Nera e dalla torpediniera Pleiadi), partito da Palermo per Tripoli all’1.45. A cinque miglia da Capo Gallo, però, l’Esperia sperona accidentalmente il Libeccio durante una delle accostate effettuate per mettere in difficoltà eventuali sommergibili presenti nei paraggi: non ci sono vittime, ma gli ultimi sette metri della poppa del cacciatorpediniere vengono “tranciati” dalla prua del transatlantico.
La torpediniera Orione, giunta sul posto, prende a rimorchio il cacciatorpediniere mutilato, ed insieme all’Esperia (che ha imbarcato 300 tonnellate d’acqua da una falla apertasi a prua) le due unità dirigono verso Palermo. Qui Libeccio, Orione ed Esperia arrivano alle 15 del 15 aprile.
Successivamente il Libeccio sarà rimorchiato a Napoli, dove sarà sottoposto a riparazioni provvisorie, per poi essere portato a Genova e qui subire la completa ricostruzione della poppa. (Per una fonte tali lavori avrebbero avuto conclusione a fine agosto 1941, ma, come si vede, il Libeccio era già tornato a navigare ad inizio luglio).


 Privo della poppa, il Libeccio viene rimorchiato nel porto di Palermo (sopra, Coll. E. Bagnasco via M. Brescia e www.associazione-venus.it; sotto, Coll. G. Vaccaro via “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia)


6 luglio 1941
Salpa da Palermo alle 19.30 insieme a Maestrale, Grecale e Scirocco, per scortare la IV Divisione (Bande Nere e Di Giussano, al comando dell’ammiraglio Porzio Giovanola) che deve prendere parte alla posa della terza tratta («S 3», con le spezzate «S 31» e «S 32» per un totale di 292 mine e 444 boe esplosive) dello sbarramento «S».
7 luglio 1941
Poco dopo le cinque del mattino la X Squadriglia e la IV Divisione si accodano alla VII Divisione (Attendolo e Duca d’Aosta, che ha a bordo l’ammiraglio Casardi, comandante superiore in mare) ed ai cacciatorpediniere Da Recco, Da Mosto, Da Verrazzano, Pigafetta e Pessagno (questi ultimi due partiti da Trapani, mentre le altre unità sono salpate da Augusta). Data la scarsa visibilità, l’ammiraglio Casardi tiene i cacciatorpediniere in posizione di scorta ravvicinata anche di notte, e fa zigzagare nelle zone dove più probabile è l’incontro con sommergibili avversari.
Alle 7 le navi (le mine saranno posate dagli incrociatori nonché da Pessagno e Pigafetta) iniziano a manovrare per assumere rotta e formazione di posa – durante tale manovra un aereo della ricognizione marittima avvista una mina, che segnala con una fumata verde: uno dei cacciatorpediniere della X Squadriglia viene quindi distaccato per distruggerla –, ed alle 7.45 iniziano a posare le mine, terminando alle 8.57.
La VII Divisione dirige poi per Taranto; alle 15.11 la IV Divisione viene lasciata libera di raggiungere Palermo.
21-22 luglio 1941
Libeccio, Maestrale, Grecale e Scirocco scortano le corazzate Littorio e Vittorio Veneto della IX Divisione durante esercitazioni di tiro diurno e notturno.
15 agosto 1941
A seguito di una nuova riorganizzazione delle forze navali, la X Squadriglia Cacciatorpediniere viene assegnata alla VII Divisione Navale (incrociatori leggeri Montecuccoli, Attendolo e Duca d’Aosta).

Il Libeccio in uscita da Taranto negli anni Trenta; sullo sfondo un cacciatorpediniere classe Navigatori (g.c. Marcello Risolo)

Il convoglio “Duisburg

Alle 3.30 di notte dell’8 novembre 1941 il Libeccio, al comando del capitano di fregata Corrado Tagliamonte, salpò da Messina insieme al gemello Grecale (capitano di fregata Giovanni Di Gropello) ed al cacciatorpediniere Alfredo Oriani (capitano di fregata Vittorio Chinigò), scortando il piroscafo Rina Corrado (capitano di lungo corso Guglielmo Schettini) e la pirocisterna Conte di Misurata (capitano di lungo corso Mario Penco), che dovevano unirsi al grosso del convoglio «Beta» (poi divenuto meglio noto come “Duisburg”) proveniente da Napoli. Tale convoglio era originariamente formato dai piroscafi tedeschi Duisburg (capitano di lungo corso Arno Ostermeier, capoconvoglio) e San Marco (capitano di lungo corso Paul Ossemberg), dall’italiano Sagitta (capitano di lungo corso Domenico Ingegneri), dalla motonave Maria (capitano di lungo corso Angelo Pogliani) e dalla grande e moderna nave cisterna Minatitlan (capitano di lungo corso Guido Incagliati), scortati dai cacciatorpediniere Maestrale (caposcorta, capitano di vascello Ugo Bisciani), Euro (capitano di corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi), Fulmine (capitano di corvetta Mario Milano), Bersagliere, Granatiere, Fuciliere ed Alpino.
Libeccio, Grecale ed Oriani avevano precedentemente scortato Conte di Misurata e Rina Corrado da Palermo, da dov’erano partiti poco prima della mezzanotte del 6 novembre, a Messina, dov’erano giunti verso le 14 del 7 novembre.
Dopo la partenza da Messina, Libeccio, Grecale ed Oriani, insieme ai due bastimenti mercantili, assunsero rotta sud e bassa velocità, in modo da farsi raggiungere dal gruppo proveniente da Napoli.
La riunione tra i due gruppi del convoglio avvenne alle 4.30 dell’8 novembre, a sud dello stretto di Messina; si formò un unico convoglio di sette mercantili scortati da Libeccio, Maestrale, Grecale, Oriani, Fulmine ed Euro, mentre gli altri quattro cacciatorpediniere (costituenti la XIII Squadriglia del capitano di vascello Ferrante Capponi), dopo essersi riforniti a Messina, si unirono alla III Divisione (incrociatori pesanti Trento e Trieste, nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi), uscita in mare per fornire scorta indiretta al convoglio. Alle 16.45, con l’arrivo della III Divisione (che raggiunse il convoglio in posizione 37°40’ N e 15°57’ E, a 19 miglia per 155° da Capo dell’Armi, e si posizionò a poppavia dello stesso) la formazione era completa.
Il convoglio procedeva su tre colonne: destra, composta da San Marco e Conte di Misurata preceduti dal Maestrale e seguiti dall’Oriani; centrale, Duisburg, Sagitta e Rina Corrado; sinistra, Minatitlan e Maria precedute dall’Euro e seguite dal Grecale. Il Libeccio era posizionato a sinistra della prima colonna, il Fulmine a dritta della terza colonna. Le navi procedevano a 8 nodi di velocità.
In tutto i sette mercantili trasportavano 34.473 tonnellate di materiali, 389 autoveicoli e 243 uomini. Vi era anche – ma solo di giorno – una scorta aerea per la quale furono mobilitati in tutto 64 aerei (58 dell’Armata Aerea e 6 idrovolanti antisommergibili), mantenendo sempre otto velivoli costantemente in volo sul cielo del convoglio.
Dalle 7.30 fino alle 17.30, sul cielo del convoglio e della III Divisione si alternarono dieci idrovolanti CANT Z. 506 della Ricognizione Marittima, due bombardieri Savoia Marchetti SM. 79 “Sparviero” e 66 caccia (34 Macchi MC 200 del 54° Stormo della Regia Aeronautica, due FIAT CR. 42 del medesimo stormo, 22 CR. 42 del 23° Gruppo e otto Messerschmitt Bf 110 della 9° Squadriglia del 3° Gruppo del 26° Stormo da Caccia della Luftwaffe). I caccia si alternavano sul convoglio in numero di quattro per volta: una coppia ad alta quota per contrastare eventuali attacchi di bombardieri, e una
coppia a 1000 metri di quota per contrastare attacchi a volo radente e di aerosiluranti.
Tre coppie di SM. 79 decollarono dalla Sicilia ed effettuarono ricognizione marittima verso sudest; altri aerei dell’Aeronautica della Sicilia avrebbero effettuato missioni di ricognizione e bombardamento sul porto della Valletta.
Ad ulteriore protezione del convoglio, Supermarina aveva inviato nelle acque di Malta, dove si era da poco dislocata una formazione navale britannica – la Forza K – i sommergibili Delfino e Luigi Settembrini, con compiti esplorativi ed offensivi nei confronti di unità britanniche in partenza dall’isola.
L’incrociatore pesante Gorizia (anch’esso appartenente alla III Divisione) ed i cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere della XII Squadriglia erano a Messina, pronti a muovere in due ore qualora se ne fosse manifestata la necessità.

Il Libeccio a fine anni Trenta (Coll. E. Bagnasco, da “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia, Naval Institute Press, 2012)

Una volta in franchia dello stretto di Messina (la riunione avvenne subito dopo il suo superamento da parte del primo gruppo di navi), il convoglio mise la prua verso est (rotta 90°), per imboccare la rotta che passava ad est di Malta, al largo della costa occidentale greca (così da restare fuori dal raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta, stimato in 190 miglia), nonché per ingannare i britannici circa la destinazione del convoglio, facendo credere che questa fosse un porto della Grecia oppure Bengasi. Durante la navigazione verso est, inoltre, le unità effettuarono diverse accostate verso ovest per confondere le idee ad eventuali ricognitori circa la loro rotte; ciò non bastò ad impedire che, nel pomeriggio dell’8 novembre – alle 16.45, poco prima del tramonto, secondo il resoconto italiano; già alle 13.55, secondo quello britannico – il convoglio (ma non la III Divisione) venisse comunque localizzato, in posizione 37°38’ N e 17°16’ E (40 miglia ad est di Capo Spartivento Calabro), da un ricognitore Martin Maryland della Royal Air Force (69th Reconnaissance Squadron), decollato da Luqa (Malta) e pilotato dal tenente colonnello John Noel Dowland.
Le navi della scorta (precisamente l’Euro), da 5000 metri, avvistarono il ricognitore, e fecero segnali luminosi alla scorta aerea (con cui non era possibile comunicare via radio) per richiedere che attaccasse il velivolo nemico, ma gli aerei della scorta non fecero nulla (per altra fonte, invece, le segnalazioni previste per avvisare gli aerei della presenza del ricognitore non furono effettuate, “per grave disservizio”). (Contrariamente a molte altre occasioni, il servizio di intercettazione e decrittazione britannico “ULTRA” non ebbe alcun ruolo nelle vicende del convoglio «Beta»). Il Maryland si trattenne in vista del convoglio solo il tempo strettamente necessario a rilevarne gli elementi del moto, che comunicò prontamente a Malta («Un convoglio di 6 navi mercantili e 4 cacciatorpediniere diretto verso levante, nel punto 40 miglia per 95° da Capo Spartivento», anche se la velocità, nella realtà 9 nodi, era sovrastimata in 10-12 nodi). L’orientamento verso est della rotta del convoglio (che virò verso sud solo più tardi) non ingannò i comandi britannici: un convoglio tanto grande non poteva essere diretto né in Grecia né a Bengasi (porto dalle capacità ricettive insufficienti). L’unica destinazione plausibile era Tripoli, e le navi italiane avrebbero cercato di raggiungerla tenendosi al di fuori del raggio della portata degli aerosiluranti: il che permetteva di intuire che il convoglio sarebbe dovuto passare circa 200 miglia ad est di Malta, per poi puntare verso un porto della Libia.

Alle 17.30, di conseguenza, salpò da Malta la Forza K britannica, formata dagli incrociatori leggeri Aurora (capitano di vascello William Gladstone Agnew, comandante della Forza K) e Penelope (capitano di vascello Angus Dacres Nicholl) e dai cacciatorpediniere Lance (capitano di corvetta Ralph William Frank Northcott) e Lively (capitano di corvetta William Frederick Eyre Hussey): una forza costituita appositamente per intercettare e distruggere i convogli italiani diretti in Libia. La partenza della Forza K fu tanto fulminea che il comandante del Penelope, capitano di vascello Nicholl, dovette raggiungere la sua nave con un’imbarcazione, in quanto l’incrociatore stava già manovrando per uscire dal porto.
La ricognizione aerea italiana (due CANT Z. 1007 dell’Aeronautica dell’Egeo) e tedesca (due Junkers Ju 88 del X Fliegerkorps) non avvistò le navi britanniche.
Anche un bombardiere Wellington munito di radar (del 211st Squadron della RAF) ed otto aerosiluranti Fairey Swordfish (dell’830th Squadron della Fleet Air Arm, di base a Hal Far) decollarono da Malta per rintracciare il convoglio (il primo per seguirlo e mantenere il contatto con esso, i secondi per attaccarlo), ma non riuscirono a trovarlo: il Wellington per malfunzionamento della radio e del radar, gli Swordfish perché il convoglio seguiva appunto una rotta che lo teneva al di fuori del loro raggio d’azione.
Niente di tutti ciò era a conoscenza delle navi del convoglio «Beta», che proseguivano regolarmente per la loro rotta. Il tempo era buono: mare calmo, nubi leggere e vento debole, forza 3. La scorta aerea venne ritirata al tramonto.
Tra le 18 e le 18.30, mentre la III Divisione Navale e la XIII Squadriglia Cacciatorpediniere zigzagavano sulla sinistra del convoglio, quest’ultimo manovrò per passare dalla formazione su tre colonne a quella su due colonne, distanziate di 1000-1500 metri. La nuova formazione era così composta: a destra, nell’ordine, Duisburg, San Marco e Conte di Misurata; a sinistra, nell’ordine, Minatitlan, Maria e Sagitta, mentre il Rina Corrado procedeva più a poppavia degli altri sei mercantili, in posizione centrale rispetto alle due colonne. Tutt’intorno la scorta diretta: Maestrale in testa al convoglio, Grecale in coda, Libeccio seguito dall’Oriani sul lato sinistro (scorta laterale sinistra), ed Euro seguito dal Fulmine sul lato destro.
Fino alle 19.30 il convoglio seguì rotta 090°, poi accostò per 122°, ed alle 19.55 per 161°, sempre per tenersi al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti.
Alle 20.45 la III Divisione si portò a poppa del convoglio, e tra le 22 e le 24 le navi  di Brivonesi risalirono il convoglio sino a portarsi a 30° di prora a dritta del Maestrale; poi, a mezzanotte, invertirono la rotta a un tempo per defilare di controbordo al convoglio.
Intanto, la Forza K navigava verso la sua ignara preda: avendo inizialmente assunto rotta verso est, la formazione britannica virò verso sudest subito dopo il tramonto, ed attraversò, senza essere avvistata, la zona d’agguato del Settembrini. Le unità britanniche erano disposte in linea di fila, con l’Aurora in testa seguito nell’ordine da Lance, Penelope e Lively, distanziati tra loro di 750 metri.
Agnew aveva già da tempo preparato e discusso con i comandanti dipendenti un piano d’azione in caso di attacco ad un convoglio: le navi britanniche sarebbero rimaste in linea di fila, per evitare problemi di riconoscimento e per poter lanciare liberamente siluri; prima di attaccare dei mercantili, la Forza K avrebbe neutralizzato le navi di scorta presenti sul lato attaccato; nel caso altre unità di scorta fossero apparse durante l’attacco ai mercantili, esse sarebbero divenute immediatamente bersaglio prioritario; l’Aurora (capofila) avrebbe mantenuto ogni nave di scorta bene di prora fino ad averla posta fuori uso.

Alle 00.39 del 9 novembre il convoglio venne avvistato otticamente – il radar non ebbe alcun ruolo di rilievo nell’individuazione del convoglio: le navi italiane vennero avvistate perché illuminate dalla luce lunare, il radar fu poi impiegato nel puntamento dei cannoni durante il combattimento – dalla Forza K. Secondo il rapporto britannico, in quel momento le navi italiane si trovavano in posizione 36°55’ N e 17°58’ E (135 miglia a sud di Siracusa, 100 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento e 180 miglia ad est di Malta), a 5 miglia per 30° dalla Forza K (per altra fonte, a 7 miglia per 30° dall’Aurora, autore dell’avvistamento); la documentazione italiana indica invece il punto dell’attacco come 37°00’ N e 18°10’ E, a circa 120 miglia dalle coste della Calabria. Secondo Agnew, la visibilità notturna era ottimale, la luna splendente e luminosa, e le condizioni perfette per un’intercettazione (vento forza 3da nord-nord-ovest, nubi leggere e calma di mare); nel suo rapporto, Bisciani registrò brezza moderata verso sud-est, nuvolaglia leggera e luna scoperta, con «orizzonte ottimo nel secondo quadrante, buono nel terzo, fosco nel quarto».
Il convogli avanzavano su rotta 170° alla velocità di 9 nodi, nella formazione su due colonne assunta alle 18.30; la III Divisione, quale scorta indiretta, seguiva a quattro chilometri a poppavia.
Qualcuna delle unità della scorta diretta, grazie alla luna piena, avvistò anche la Forza K, 3-5 km a poppavia, ma ritenne trattarsi della III Divisione.
Anziché attaccare subito il convoglio, il comandante Agnew manovrò flemmaticamente per portarsi nella posizione più favorevole all’attacco, approfittando del fatto che nessuna nave italiana sembrasse accorgersi della sua presenza. La Forza K ridusse la velocità da 28 a 20 nodi ed accostò a sinistra per 350°, quindi aggirò il convoglio con una manovra che richiese 17 minuti, portandosi a poppa dritta rispetto ad esso, di modo che i bersagli si stagliassero contro la luce lunare. I bersagli vennero identificati e scelti dai puntatori, i cannoni puntati e preparati ad aprire il fuoco a colpo sicuro. L’Aurora puntò l’armamento principale, asservito al radar tipo 284, sui cacciatorpediniere della scorta, ed i cannoni da 100 mm di sinistra, asserviti al radar tipo 290, sui mercantili Alle 00.52 la Forza K avvistò la III Divisione, della cui presenza nessuno, da parte britannica, aveva fino a quel momento avuto sentore; ma ciò non modificò le intenzioni di Agnew, il quale poco dopo concluse che le due “navi maggiori” (che erano, in effetti, il Trento ed il Trieste) ed i cacciatorpediniere che le accompagnavano dovessero essere degli altri mercantili con la loro scorta. Alle 00.56 il Lively stimò che il convoglio avesse rotta 150° e velocità 8 nodi; in base ai dati del suo radar, il Maestrale distava 10.060 metri, i mercantili che lo seguivano 8230 metri.
Solo alle 00.57 la Forza K, giunta circa 5 km a sudest del convoglio, aprì il fuoco sulle ignare navi italiane da una distanza di 5200 metri, orientando il tiro con l’ausilio dei radar tipo 284 e defilando lungo il fianco dei mercantili.

Il tiro britannico si abbatté per primo sui cacciatorpediniere che proteggevano il lato più vicino alla Forza K, cioè quello opposto a quello ov’era il Libeccio: vi si trovavano invece Fulmine, Euro e Grecale. Il primo e l’ultimo furono ripetutamente centrati senza avere il tempo di poter imbastire una reazione efficace: il Fulmine affondò dopo pochi minuti, il Grecale rimase alla deriva con danni gravissimi e decine di morti e di feriti gravi, completamente fuori combattimento. L’Euro scampò invece alla strage iniziale (fu anch’esso colpito, ma i danni non furono gravi), e tentò di coprire i mercantili con una cortina fumogena, imitato da Libeccio e Maestrale.
Subito dopo l’Aurora, il cui primo bersaglio fu il Grecale, anche Lance e Penelope aprirono il fuoco: quest’ultimo tirò prima su un piroscafo e poi sul Maestrale, che accostò per 80°, accelerò a 20 nodi ed emise cortine fumogene, seguito dal convoglio. Libeccio ed Euro manovrarono anch’essi aumentando la velocità, per tentare di occultare le navi di testa del convoglio con cortine fumogene.
Per ordine del Maestrale (che aveva ordinato alle unità della scorta di radunarsi intorno a lui), il Libeccio e gli altri cacciatorpediniere della scorta diretta emisero cortine fumogene per nascondere i mercantili, poi assunsero rotta verso est ed incrementarono la velocità. Nella generale confusione, il caposcorta Bisciani riteneva erroneamente che l’attacco provenisse dal lato sinistro del convoglio (in realtà ad essere sotto attacco era il lato destro), e che le navi sul lato destro fossero quelle della III Divisione (mentre era la Forza K).
Intanto, all’1.18, l’Euro andava al contrattacco silurante, unica unità della scorta ad abbozzare un effettivo tentativo di reazione; il suo comandante, tuttavia, ebbe il dubbio di stare attaccando le navi della III Divisione, così rinunciò a lanciare i siluri ed abbandonò il contrattacco, accostando a sinistra per riunirsi a Maestrale, Libeccio ed Oriani, che dirigevano verso est inquadrati dal tiro delle artiglierie della Forza K.
Poco dopo fu colpito da schegge anche il Maestrale; i danni furono lievi ma compresero l’abbattimento dell’aereo radiotelegrafico, il che impedì al caposcorta di trasmettere ulteriori ordini alle unità dipendenti. I cacciatorpediniere della scorta diretta che si trovavano sul lato orientale del convoglio (cioè, appunto, Libeccio ed Oriani) si ritrovarono così disorientati e senza ordini; per la loro posizione, non avevano neanche compreso – per lo meno nei primi minuti, quelli decisivi – quale fosse il tipo di attacco lanciato contro il convoglio. Si limitarono ad emettere fumo. Alcuni, compresi i comandanti di diversi mercantili, ritenevano che le navi fossero sotto attacco aereo, e non da parte di altre navi di superficie.
I mercantili, nel vano tentativo di sfuggire alla Forza K (proveniente da ovest), misero la prua verso est; lo stesso fece il Maestrale, per motivo difficilmente spiegabile, e Libeccio ed Oriani, in mancanza di ordini, lo seguirono per imitazione di manovra, continuando ad avvolgere i mercantili in inutili cortine nebbiogene (più tardi, alzata un’antenna radio di fortuna, fu il Maestrale stesso ad ordinare ai cacciatorpediniere superstiti di seguirlo verso est). L’Euro, unico altro cacciatorpediniere rimasto in efficienza, fece come loro. Fu così che, eccetto che per l’abortito tentativo iniziale dell’Euro, nessuna unità della scorta tentò di contrattaccare attivamente le navi nemiche, a differenza di quanto accadeva di solito in queste circostanze.

Neutralizzata parte della scorta diretta, mentre il resto di quest’ultima brancolava nel buio, alle 00.59 l’Aurora accostò a dritta e guidò la Forza K in una manovra avvolgente, una sorta di volta tonda nella quale aggirò i mercantili da ovest verso est, facendo fuoco su ognuno di essi finché questo s’incendiava od esplodeva. Primi ad essere colpiti furono Maria e Sagitta, i più vicini alla zona di provenienza della Forza K, poi anche gli altri, uno dopo l’altro. Nessun trasporto poté sfuggire, data la bassa velocità massima sviluppabile; le cortine fumogene non servirono a nulla, né servì il violento e confuso fuoco di mitragliere che molti dei mercantili – alcuni dei quali credevano ancora di avere a che fare con un attacco aereo – aprirono disordinatamente. Molte delle navi, continuando a non capire se fossero sotto attacco navale od aereo, non tentarono nemmeno di fuggire: Agnew scrisse poi che sembrava che aspettassero il loro turno per essere distrutte.
Il Lance colpì ripetutamente Maria e Sagitta (oltre al Fulmine), mentre il Lively, che aprì il fuoco per ultimo (all’una di notte), colpì il Duisburg. L’Aurora cannoneggiò ed incendiò il Rina Corrado, quindi mitragliò il già danneggiato Fulmine, che venne poi finito dal Penelope. Il Conte di Misurata tentò di dare la poppa al fuoco nemico per allontanarsi, ma fu rapidamente colpito ed incendiato dall’Aurora. Quest’ultimo prese poi di mira la Minatitlan, che non ebbe miglior fortuna, ed impegnò un cacciatorpediniere, forse il Maestrale.
All’1.25 l’Aurora accostò a sinistra, di prora al convoglio, per tagliarli la rotta ed assicurarsi che nessun mercantile potesse sfuggire, ed all’1.45 diresse verso ovest per girargli intorno: tutti i mercantili erano ormai avvolti dalle fiamme. Alle 2.06, completata la propria opera di distruzione, la Forza K accelerò a 25 nodi e diresse per rientrare a Malta, senza aver subito alcun danno (eccetto uno lievissimo, un foro da scheggia, al fumaiolo del Lively).
Deludente la reazione della III Divisione: avvistate, all’1.01, le vampe dei cannoni della Forza K che aprivano il fuoco sul convoglio, le navi di Brivonesi accostarono a dritta, su rotta 240°, poi a sinistra; il Trieste aprì il fuoco all’1.03 ed il Trento due minuti dopo, da grandissima distanza (8 km). All’1.08 la III Divisione assunse rotta 180°; pur potendo raggiungere velocità superiori ai 30 nodi, Brivonesi mantenne inspiegabilmente la velocità delle sue navi a 15-16 nodi (la Forza K procedeva a 20 nodi), aumentandoli a 18 solo all’1.12, ed a 24 all’1.18. All’1.25, essendo la distanza divenuta ormai eccessiva (alzo 17 km), la III Divisione cessò il fuoco: a quell’ora il convoglio “Duisburg” non esisteva già più. Gli incrociatori di Brivonesi avevano sparato 207 colpi da 203 mm e 82 da 100 mm, senza metterne uno solo a segno. All’1.29 l’ammiraglio fece assumere alle sue navi rotta nord e velocità 24 nodi, per intercettare le unità britanniche dirette verso Malta, ma l’incontro non avvenne, perché Brivonesi, informato da Supermarina del possibile pericolo di un attacco di aerosiluranti, credette di trovarsi nel raggio d’azione di una portaerei britannica ed all’1.35 assunse rotta nordovest, allontanandosi dal luogo dello scontro e dalla Forza K.
All’1.38, proprio nel momento in cui il comandante Tagliamonte ordinò di cessare l’emissione di fumo, il Libeccio venne inquadrato da due salve britanniche, i cui proiettili esplosero tutt’intorno; una singola granata colpì il Libeccio, passando lo scafo da parte a parte ed uscendo sul lato opposto prima di esplodere in mare, così che i danni subiti furono molto lievi. Due uomini rimasero feriti.

All’1.41 Libeccio, Maestrale, Euro ed Oriani assunsero rotta 90°, che seguirono per un po’ a 30 nodi di velocità, mentre il caposcorta Bisciani attendeva che giungesse qualche notizia sugli accadimenti in corsa.
(Secondo una fonte, i quattro cacciatorpediniere si ritirarono una decina di miglia ad est del convoglio per riorganizzarsi, poi andarono al contrattacco aprendo il fuoco con le proprie artiglierie, ma astenendosi dal lanciare siluri per evitare di colpire i mercantili, che si trovavano al di là della Forza K. Il Libeccio sarebbe stato danneggiato in questo frangente. Le quattro unità di Bisciani avrebbero poi seguitato a fare fumo ed ad impegnare le navi britanniche ogni volta che queste divenivano visibili, senza però riuscire a concludere nulla. Niente di tutto ciò, però, risulta dall’approfondita ricostruzione dello scontro fatta dallo storico Francesco Mattesini).
All’1.44 l’ammiraglio Brivonesi ordinò a Bisciani di tornare presso i mercantili per recuperarne i naufraghi; alle due di notte i cacciatorpediniere, tutti spostatisi verso est seguendo il caposcorta (ormai distavano ben 17 miglia da quel che restava del convoglio), invertirono finalmente la rotta per riavvicinarsi al convoglio, procedendo a 18 nodi. Raggiunsero i relitti in fiamme alle tre di notte. Non vi era a galla un solo piroscafo che fosse salvabile; alcuni erano già affondati, altri lo avrebbero fatto più tardi. La Minatitlan, con le sue novemila tonnellate di carburante in fiamme, illuminava la notte in uno spaventosi rogo. Avrebbe continuato a bruciare fino al mattino seguente.
Poco dopo le tre di notte, il Libeccio e gli altri tre cacciatorpediniere iniziarono a recuperare centinaia di naufraghi dal mare cosparso di nafta e rottami; l’operazione di soccorso, cui molto più tardi si unirono anche alcuni cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, sarebbe proseguita per tutta la mattinata del 9 novembre. Intanto, il malconcio Grecale arrancava verso nord; alle quattro del mattino rimase definitivamente immobilizzato e dovette chiedere aiuto via radio. Venne inviato in suo soccorso l’Oriani, che lo rimorchiò a Crotone.
Il Libeccio recuperò dal mare cosparso di nafta circa 150 naufraghi, forse anche 200; molti essi erano superstiti del Fulmine, sul cui punto di affondamento il Libeccio giunse verso le sei del mattino del 9 novembre. Molti erano sul punto di morire assiderati: qualcuno si riprese dopo vigorosi massaggi, altri spirarono non appena giunsero a bordo. Molti dei feriti vennero portati sottocoperta per le prime cure, ma alcuni morirono quasi subito.
Dalle 7.30 iniziarono a sopraggiungere anche gli aerei: nel corso della giornata, si alternarono sui cieli delle navi superstiti numerosi caccia Messerschmitt Bf 110 del 26° Stormo da Caccia della Luftwaffe, dieci SM. 79 del 10° Stormo Bombardieri della Regia Aeronautica e 22 caccia italiani tra CR. 42 e Reggiane Re 2000 del 23° Gruppo Autonomo e Macchi Mc 200 del 7° Gruppo del 54° Stormo. Tali velivoli esercitarono vigilanza sia antiaerea sia antisommergibili.
La III Divisione Navale, invertita la rotta, stava anch’essa dirigendo per tornare sul luogo dove il convoglio era stato distrutto (vi giunse alle 9.20, unendosi ai superstiti cacciatorpediniere della scorta diretta in posizione 37°02’ N e 18°03’ E).
All’insaputa delle navi italiane, intanto, era giunta sul posto una nuova unità britannica: il sommergibile Upholder, al comando del capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn. Informato della presenza del convoglio alle 18.22 dell’8 novembre, a seguito dell’avvistamento da parte del ricognitore britannico, si era diretto sul posto per partecipare all’attacco. Durante la notte, per evitare di attaccare unità amiche (Wanklyn non sapeva se e quanto la Forza K si sarebbe trattenuta sul posto), il sommergibile si astenne dall’attaccare, limitandosi a navigare in superficie tra i piroscafi in fiamme; giunta l’alba, si era immerso e si era preparato ad attaccare i cacciatorpediniere fermi a recuperare i naufraghi, bersagli perfetti.
La scelta cadde sul Libeccio, che aveva appena rimesso in moto dopo aver completato il recupero dei naufraghi. Dall’Upholder, in posizione 37°08’ N e 18°30’ E, partirono tre siluri diretti contro il cacciatorpediniere, distante 1830 metri.

Alle 6.40 un siluro colpì il Libeccio a poppa: tutta la parte poppiera del cacciatorpediniere, compreso il complesso binato poppiero da 120 mm e parte dell’osteriggio di macchina di poppa, scomparve di colpo, staccata dal resto della nave ed inabissata nel volgere di un istante. Gran parte degli uomini che erano a poppa affondarono con essa, altri furono buttati in mare; il Libeccio sbandò di 15°-20° sulla dritta e si appoppò pericolosamente, minacciando di affondare rapidamente di poppa, mentre dalla poppa troncata fuoriuscivano nuvole di vapore. All’altezza della caldaia numero 3, il ponte di coperta rimase vistosamente ingobbato.
Il siluramento uccise numerosi membri dell’equipaggio del Libeccio, ma soprattutto provocò una ulteriore strage tra i già provati sopravvissuti del Fulmine: molti di loro, al momento del siluramento, si trovavano infatti proprio nei locali poppieri, per cambiarsi ed asciugarsi.
Il comandante Tagliamonte, ritenendo che la nave stesse per affondare da un momento all’altro, ordinò al personale presente in plancia con lui di gettarsi in mare, e diede inoltre ordine di mettere a mare gli zatterini Carley. Sceso dalla plancia, Tagliamonte si recò sul castello ed ordinò di calare la motolancia, facendo inoltre lanciare in acqua una zattera tipo Castellammare (che si trovava a poppavia del fumaiolo), lo zatterino del fuoribordo e diverse plancette di legno, per il soccorso agli uomini che già si trovavano in mare. Recatosi a centro nave, sul lato di dritta, il comandante incontrò il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Morando, il quale gli spiegò di stare intercettando vapore e di aver fatto spegnere le caldaie; concluse che lo avrebbe informato delle condizioni della nave non appena possibile.
Tagliamonte ordinò al comandante in seconda di dirigere la messa a mare della motolancia; se il Libeccio fosse rimasto a galla per un tempo sufficiente, essa sarebbe dovuta servire a trasbordare i feriti e poi il resto del personale.

Una ventina di minuti dopo il siluramento, l’Euro attraccò rapidamente sul lato dritto del Libeccio, per imbarcarne l’equipaggio; gli uomini del Libeccio si prepararono a trasbordare, ma intanto lo sbandamento era diminuito (attestandosi sui 10° circa) ed il direttore di macchina informò il comandante Tagliamonte che la paratia poppiera del locale di macchina prodiero resisteva, sebbene con considerevoli infiltrazioni: la situazione era grave, ma c’era ancora speranza di poter salvare la nave. Intanto, il comandante Cigala Fulgosi dell’Euro riferì a Tagliamonte che, quando si era attraccato al Libeccio, il Maestrale gli aveva ordinato di mollarlo: i due comandanti, nelle rispettive plance, si parlavano da qualche metro di distanza in linea d’aria.
Tagliamonte disse a Cigala Fulgosi “Fai quello che ti dicono, può essere pericoloso per te stare qui, credo si tratti di un sommergibile”, poi si rivolse verso l’equipaggio della sua nave, radunato a prua, ed ordinò al personale che si preparava al trasbordo di restare a bordo, dicendo “Libeccio, noi rimaniamo a bordo!”.
Il Maestrale ribadì l’ordine all’Euro, ed il cacciatorpediniere mollò definitivamente le cime; un marinaio del Libeccio, nel mollare l’ultima cima a prua, disse “Noi del Libeccio non abbiamo bisogno di trasbordare”.
Dal castello, il comandante del Libeccio dichiarò ai suoi uomini di essere fermamente convinto che la nave si sarebbe salvata, chiedendo a tutti di fare l’impossibile per fare che così accadesse.
Venne riaccesa una caldaia, ma il direttore di macchina Morando tornò da Tagliamonte e riferì che non era possibile intercettare le tubolature danneggiate: di conseguenza, continuavano a verificarsi perdite di vapore di entità tale che, restando ancora soltanto poche tonnellate d’acqua, non sarebbe stato possibile tenere la caldaia accesa per più di tre ore. In aggiunta alle perdite di vapore dalle tubolature danneggiate, l’esplosione del siluro aveva anche provocato delle fenditure nei pozzi caldi, con conseguenti ulteriori fughe di vapore, il che contribuiva alla rapida diminuzione dell’acqua. Morando chiese a Tagliamonte l’autorizzazione, una volta prosciugata l’acqua che aveva allagato la sala macchine prodiera, di spegnere la caldaia, tentare di tamponare le infiltrazioni d’acqua e – se possibile – mettere sui tronchi di tubolature che non era possibile intercettare delle flangie cieche già preparate da tempo. Il comandante diede il suo assenso e la caldaia fu spenta, ma non si riuscì poi a mettere in posizione le flangie cieche.
Intanto, dopo molti sforzi (una coppiglia delle gru si era ingobbata a causa dell’esplosione del siluro, rendendo impossibile sfilarla), il comandante in seconda era riuscito a mettere a mare la motolancia; Tagliamonte gli ordinò di trasbordare sul Maestrale, che restava nei pressi (si era appunto avvicinato per imbarcare i naufraghi precedentemente recuperati dal Libeccio), tutto il personale non necessario: i membri dell’equipaggio feriti ed i naufraghi delle altre navi, recuperati in precedenza. La motolancia prese pertanto a traghettare feriti e naufraghi dal Libeccio al Maestrale, ma poté effettuare soltanto quattro viaggi, a causa di ripetute avarie al motore e della perdita del timone.

Nel mentre l’Upholder avvertendo le esplosioni di quelle che a Wanklyn parvero cinque bombe di profondità, si era ritirato verso nordest alla profondità di 21 metri. In realtà, il Maestrale, dopo aver inviato l’Euro in aiuto del Libeccio (altri cacciatorpediniere disponibili non ve n’erano, con l’Oriani impegnato nel rimorchio del Grecale), si era mantenuto nei loro pressi incrociando ad alta velocità, ma senza lanciare bombe di profondità: Bisciani preferì correre il rischio di un nuovo attacco da parte del sommergibile, rispetto a quello di uccidere, con le esplosioni delle bombe di profondità, i molti uomini caduti o gettatisi in mare dal Libeccio.
Quando l’Upholder tornò ad osservare il risultato dei suoi lanci, tre quarti d’ora dopo il primo attacco, Wanklyn vide che il Libeccio galleggiava ancora, ma immobilizzato e privo della poppa, con Euro e Maestrale che lo assistevano; avendo ancora tre siluri, il comandante britannico pensò di usarne uno per finire il Libeccio e di lanciare i due restanti contro gli altri due cacciatorpediniere, ma l’arrivo di tre aerei lo indusse a rinunciare, per il momento, ad ulteriori attacchi, ed a scendere in profondità per attendere sviluppi.
Frattanto, il capoposto radiotelegrafista riferì al comandante Tagliamonte di aver steso un aereo di fortuna, allacciandolo al tono di soccorso, e di aver quindi rimesso in funzione tutti gli apparati radiotelegrafici della plancia. Tagliamonte si mise allora in contatto col Maestrale per radiosegnalatore, riferendo che la paratia del locale macchina prodiero reggeva, pur dando luogo ad infiltrazioni, e che riteneva possibile il contenimento delle vie d’acqua per qualche ora: pertanto, chiese ed ottenne di essere preso a rimorchio.
Subito sul Libeccio furono preparate il cavo e la braga; non appena essi furono pronti, il Libeccio comunicò per radiosegnalatore al Maestrale «sono pronto al rimorchio». Bisciani ordinò all’Euro di prendere il Libeccio a rimorchio; erano le otto del mattino. Fu a questo punto che il Maestrale iniziò a lanciare in mare bombe di profondità, a scopo intimidatorio, per dissuadere l’Upholder dal tornare all’attacco.
L’Euro tornò pertanto sottobordo al Libeccio ma, ritenendo che il cavo dato dal Libeccio fosse troppo corto, mandò a bordo il suo cavo d’acciaio. Ebbe finalmente inizio al rimorchio, tra mille difficoltà ed ad una lentezza esasperante (stimata da Tagliamonte in appena due nodi) a causa del precario stato del Libeccio.


Il Libeccio, agonizzante, preso a rimorchio dall’Euro (sopra: dal saggio di Francesco Mattesini “Il disastro del convoglio Duisburg”; sotto: g.c. STORIA militare)


Rapidamente l’Euro provvide a preparare un rimorchio più pesante, con catena, da dare al Libeccio per tentare di aumentare la velocità; ma la situazione sul cacciatorpediniere danneggiato andò precipitando. Nonostante si fosse intanto provveduto al tamponamento di varie vie d’acqua, il livello dell’acqua nella sala macchine prodiera andò aumentando, ed il locale officina venne completamente inondato. Il direttore di macchina Morando ipotizzò che la paratia e lo scafo fossero danneggiati in un punto non visibile o non accessibile; si riaccese la caldaia e si rimisero in funzione i mezzi d’esaurimento, provvedendo inoltre a preparare la pompa a braccia per il prosciugamento delle sentine, e distribuendo buglioli e gamelle per tentare di espellere quanta più acqua possibile anche con mezzi di fortuna. Morando avvisò Tagliamonte che l’allagamento con l’eiettore e con la pompa di sentina non era possibile, pertanto sarebbe stato difficile riuscire ad esaurire gli allagamenti con i modesti mezzi disponibili; Tagliamonte rispose che occorreva fare l’impossibile, ed ordinò al comandante in seconda di organizzare una catena di buglioli con tutto il personale disponibile.
Dopo un po’, il direttore di macchina Morando informò il comandante Tagliamonte che l’acqua era finita, e che si era quindi dovuta spegnere la caldaia.
I tentativi di contenere gli allagamenti mediante la pompa a braccia e le gamelle risultarono vani: la pompa a braccia, avente portata estremamente limitata, dovette anzi essere ripetutamente smontata perché si riempiva di sfilaccie, che non si riusciva ad aspirare. Nel mentre, lo sbandamento sulla dritta e l’appoppamento crescevano sempre più: lentamente e continuamente, l’acqua invadeva il ponte di coperta. A questo punto Tagliamonte dovette cedere: non era più possibile salvare il Libeccio. Diede ordine di abbandonare la nave.

Un’altra immagine del Libeccio agonizzante durante il rimorchio, scattata dall’Euro (Coll. Cigala Fulgosi, via Francesco Mattesini)

Tagliamonte comunicò all’Euro la propria decisione, dicendogli di abbandonare il rimorchio; così fu fatto, poi il comandante Cigala Fulgosi riferì a Tagliamonte che avrebbe attraccato subito con l’Euro sul fianco del Libeccio, per recuperarne l’equipaggio.
Il comandante Tagliamonte ordinò al direttore di macchina Morando di tenersi pronto a far allagare il deposito munizioni prodiero (il deposito non sarebbe poi stato allagato, perché il successivo rapido affondamento lo rese inutile), ed al comandante in seconda di fare aprire il portello d’accesso a tale locale per consentire il rapido sfogo dell’aria (ordine, quest’ultimo, che il comandante in seconda eseguì di persona). Dispose inoltre che ogni feriti fosse affidato alle cure di due uomini validi, incaricati di trasbordarlo sull’Euro.
Su ordine del comandante, tutto l’equipaggio del Libeccio si radunò sulla murata di sinistra; poi Tagliamonte si sincerò dal comandante in seconda, il quale aveva ispezionato tutti i locali insieme all’ufficiale al dettaglio, che tutti gli uomini a bordo fossero in coperta e pronti a trasbordare.
L’Euro, nonostante i problemi causati dall’instabilità e dallo scarroccio dell’agonizzante Libeccio, attraccò sul lato sinistro di quest’ultimo e gettò a prua una cima, cui però non fu possibile dar volta: nel frattempo, lo sbandamento del Libeccio era aumentato così velocemente da far apparire che la nave stesse per capovolgersi da un momento all’altro.
A questo punto, il comandante Tagliamonte ordinò all’equipaggio di scavalcare la battagliola e di sistemarsi sulla murata, ormai inclinata di almeno 45°; poi, dato che lo sbandamento continuava ad aumentare rapidamente – la murata divenne presto perfettamente orizzontale, i ponti perpendicolari rispetto alla superficie del mare – diede ordine a tutti di gettarsi in mare.
Per parte sua, Tagliamonte decise di seguire la sorte della sua unità: mentre il Libeccio prendeva ad affondare decisamente, il suo comandante salì verso l’aletta di plancia, e qui attese la fine. Nel prendere commiato dal suo equipaggio e da Cigala Fulgosi, Tagliamonte lanciò una sferzante accusa nei confronti dell’ammiraglio Brivonesi, che riteneva il responsabile di quella catastrofe.
Alle 11.18 del 9 novembre 1941 il Libeccio, abbattutosi sul lato di dritta, impennò la prua verso il cielo e scivolò sotto la superficie infilandosi di poppa, ultimo atto dell’amarissima tragedia del convoglio “Duisburg”. La posizione dell’affondamento era 36°50’ N e 18°10’ E.
Così il comandante Cigala Fulgosi, che assisté all’affondamento dall’Euro, descrisse la scena: «l’ultima visione che ho di questa unità [il Libeccio] è la sua prua dritta verso il cielo ed il suo magnifico comandante che aggrappato in alto, in tenuta di panno, con colletto duro e berretto, senza salvagente, salutava col braccio. Ho fischiato l’“attenti” ma non ce n’era bisogno perché tutto il mio equipaggio dopo mollate le cime si era spontaneamente messo in riga per rendere l’ultimo onore al Regio Cacciatorpediniere Libeccio».
Negli ultimi istanti, il cacciatorpediniere si raddrizzò parzialmente, così che il comandante Tagliamonte finì col cadere improvvisamente in acqua; bolle d’aria lo riportarono a galla e lo allontanarono dalla nave. Dal mare, Tagliamonte vide la coffa del proiettore e le draglie di sinistra del castello venire rapidamente verso di lui, sprofondando intanto nel mare; gli passarono vicino, prima scomparire definitivamente. La prua si levò altissima nel cielo, poi la nave colò a picco, e l’ondata da essa generata sospinse lontano il comandante. Tagliamonte nuotò in direzione di una vicina zattera, dalla quale gli fu lanciata una cima; vi si arrampicò a bordo e fece remare verso l’Euro, a bordo del quale salì una ventina di minuti più tardi.


 Il Libeccio in affondamento (g.c. STORIA militare)


Il comandante Cigala Fulgosi elogiò in seguito, nel suo rapporto, sia il comportamento dell’equipaggio del Libeccio durante i tentativi di salvare e rimorchiare la nave (avevano fatto tutto il possibile per agevolare la sua opera), sia il comportamento dei naufraghi di Libeccio e Fulmine: nessuno di essi si era lamentato od aveva chiesto aiuto, e tutti – feriti compresi – avevano fatto il possibile per assistere l’equipaggio dell’Euro nel prestare aiuto a chi più necessitava di cure.
I naufraghi del Libeccio, finiti in mare aggrappati a zatterini ed altri galleggianti, furono tratti in salvo dall’Euro (che recuperò anche 51 naufraghi del Fulmine precedentemente raccolti dal Libeccio, tra i quali un solo ufficiale), dal Maestrale (che tra equipaggio e naufraghi recuperati, del Libeccio e dei mercantili, si trovò ad avere a bordo oltre seicento uomini) e dal Fuciliere, frattanto sopraggiunto, che recuperò dal mare 35 sopravvissuti.

I morti tra l’equipaggio del Libeccio furono 27 (due sottufficiali, 24 tra graduati e marinai, ed un militarizzato), ai quali va aggiunto un imprecisato numero di naufraghi del Fulmine e di altre navi che esso aveva recuperato, e che rimasero a loro volta uccisi nel siluramento. I naufraghi vennero sbarcati dalle unità soccorritrici a Messina.


Le vittime tra l’equipaggio del Libeccio (risulta mancante un nome):

Giuseppe Alioto, marinaio, deceduto in territorio metropolitano il 25 ottobre 1943 (per ferite?)
Vincenzo Balistreri, marinaio, disperso
Mario Bellandi, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Brocato, marinaio, disperso
Raffaele De Crescenzo, marinaio, disperso
Giovanni De Luca, secondo capo furiere, disperso
Oreste Felici, marinaio, disperso
Angelo Fiordelmondo, marinaio, disperso
Antonio Frigeri, marinaio cannoniere, disperso
Pietro Garlaschelli, marinaio fuochista, disperso
Settimo Gasperi, sergente cannoniere, disperso
Nicola Giaconia, marinaio, disperso
Lido Giampedroni, marinaio, disperso
Antonio Giannattasio, marinaio, disperso
Rosario Greco, secondo capo radiotelegrafista, disperso
Sebastiano Moncada, marinaio, disperso
Angelo Orbecchi, sottocapo cannoniere, disperso
Gennaro Orbinato, capo cannoniere di prima classe, disperso
Carlo Pampagnini, sottocapo cannoniere, disperso
Guerrino Perozzi, sottocapo cannoniere, disperso
Elzo Ragni, sottocapo segnalatore, disperso
Guido Rizzo, marinaio, disperso
Ionio Salvadorini, sergente elettricista, disperso
Idolo Scortechini, marinaio, disperso
Nicola Serino, sottocapo fuochista, disperso
Giovanni Serretta, marinaio, disperso
Giuseppe Sorgini, marinaio, disperso


Il Libeccio (terzo da sinistra) ormeggiato ad Ancona insieme ai tre gemelli (da sinistra a destra, Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) (da www.associazione-venus.it

L’affondamento del Libeccio nel giornale di bordo dell’Upholder (da Uboat.net):

“0604 hours - Started an attack on a group of three destroyers, two 'Soldati'-class and one Turbine-class.
0645 hours - In position 37°08'N, 18°30'E fired one torpedo at a destroyer of the 'Soldati'-class from 2000 yards.
0646 hours - The torpedo hit the target in the stern. Five depth charges were dropped following this attack. The Turbine-class destroyer proceeded to circle the damaged ship while the other 'Soldati'-class destrroyer went alongside and took off the damaged destroyers crew. Upholder retired to the North-East at 70 feet.
1026 hours - In position 37°10'N, 18°37'E came to periscope depth to investigate heavy HE and sighted two Trento-class cruisers bearing 120°. The cruisers passed out of range.
1040 hours - Closed the damaged destroyer that was torpedoed a few hours earlier. She was in tow of the Turbine-class destroyer. It was hoped that the cruisers might come in again.
1055 hours - Sighted the cruisers approaching, bearing 250°. Started attack.
1108 hours - Fired the last three torpedoes at the rear cruiser from 2500 yards. One of these had a gyro failure and was heard to pass twice overhead as Upholder had gone deep on firing.
1111 hours - Two torpedo explosions were heard 25 seconds apart.
1119 hours - Heard the noise of a ship breaking up in deep water.
1130 hours - Sighted both cruisers still afloat and undamaged but with only one destroyer in company (two had seen before). It was thought that the other destroyer had been hit and that the breaking up noises heard were that of the destroyer sinking [in realtà, nessuna unità era stata colpita in questo secondo attacco: i rumori sentiti dall’Upholder alle 11.19 erano quelli del Libeccio in affondamento].”


Il tenente di vascello Ennio Giunchi, che sul Libeccio aveva passato 21 mesi prima di sbarcare nel dicembre 1940 per essere trasferito in Mar Rosso sul cacciatorpediniere Pantera, così ricorda il “suo” cacciatorpediniere nel suo già citato libro di memorie di guerra: 

"Lasciai il Libeccio, dopo ventun mesi d’imbarco, con dolore. Mi ero affiatato coi superiori, mi ero “fatto” i miei ottimi siluristi (più d’una gara di lancio prebellica avevamo vinta insieme); soprattutto ero legato di amicizia fraterna con alcuni ufficiali: Bacconi, Cassanello, Pellegrino, Bracco, Contento, superstiti del più armonioso quadrato che mai sia stato in Marina, quando c’erano Biagi comandante e Zambardi secondo. Era quella la nave che, navigando in oceano con la Squadra, scadeva di formazione per… dedicarsi alla pesca d’alto mare (quando il comandante sovrintendeva alla cucina si gustavano i più squisiti caciucchi della sua Livorno); era il “quadrato” delle famose bisbocce, che del resto non escludevano, all’occasione, conversari filosofici o magari teologici; il “quadrato” in cui più volte al giorno si faceva solennemente la “deposizione del duce” (l’obbligatorio ritratto l’avevamo appeso proprio sullo sportello della “vinicola”, che stava più aperto che chiuso, e che non si poteva aprire senza fare la “deposizione”). Ma non finirei più se mi lasciassi andare a parlare del Libeccio; che, con tutto il suo spirito di fronda e forse per quello, era poi uno dei cacciatorpediniere dall’equipaggio più affiatato e marinarescamente più brillanti. L’uomo di mare lascia un pezzetto di cuore su ogni nave da cui sbarca; sul Libeccio lascia il più grosso della mia carriera. Se lo saranno mangiato i pescicani, perché ora il mio vecchio caccia riposa in fondo al Canale di Sicilia, dove lo buttò un siluro mentre, fermo in un’alba tragica sul mare gonfio, raccoglieva i naufraghi del Fulmine. La guerra è guerra, siamo d’accordo: ma non so perdonare al comandante inglese che silurò il Libeccio sorprendendolo fermo, distratto in un’opera generosa. Duro a morire, dopo averne passate tante, il vecchio caccia fedele e buono morì per salvare degli uomini. Lo scoppio del siluro gli asportò la poppa, e con la poppa scomparvero una ventina dei suoi marinai e gli ufficiali del Fulmine, che erano stati ricoverati negli alloggi. Andò sotto anche Gianni De Luca, il maestrino specialista in gamberetti con maionese; lui civile, neppure in guerra aveva voluto abbandonare la sua nave. L’Euro prese a rimorchio il troncone, che dopo qualche ora si inabissò d’un tratto. A prua, sottocastello, c’erano ancora duecento marinai del Fulmine. Mi par di vedere il Libeccio ostinato, tenace, ancora a galla senza la poppa, nella prima luce livida di un giorno di lutto, ancora a galla, piegarsi, sussultare, ma non so vederlo colare a picco, giù per sempre coi suoi morti che non lo lasciarono nell’ora estrema. Non lo vedo affondare, il Libeccio duro a morire, e mi pare rappresenti tutta la nostra Marina, mutilata e silenziosamente tenace, (...) silurata anch'essa quando meno se l'aspettava...".

Altra immagine del Libeccio (dal saggio di Francesco Mattesini “Il disastro del convoglio Duisburg”).