venerdì 8 ottobre 2021

Galileo Galilei

Il Galilei esce da Taranto per le prove in mare, 1934 (g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net)

Sommergibile di grande crociera della classe Archimede. 
Battelli del tipo "Cavallini" a doppio scafo parziale, gli Archimede erano un’evoluzione, ingrandita, della classe Settembrini, di cui riproducevano le forme di scafo, con maggiori riserve di carburante (grazie ai maggiori spazi ricavati grazie alla diversa disposizione delle casse di zavorra), migliori qualità evolutive e tenuta al mare ed armamento potenziato (due cannoni invece che uno, ed un maggior numero di siluri di riserva); avevano un dislocamento standard di di 970 o 980 tonnellate in superficie (in carico normale; 880 tonnellate standard) e 1239 o 1260 in immersione (sui Settembrini erano rispettivamente 953 e 1153 tonnellate), erano lunghi 70,51 metri, larghi 6,87 e pescavano 4,4 metri. La loro profondità di collaudo era di 100 metri (con coefficiente di sicurezza 3), quella operativa di 90.
L’apparato propulsivo per la navigazione in superficie era composto da due motori diesel Tosi da 3000 CV (2208 kW) complessivi, su due eliche, che consentivano di raggiungere una velocità di 17 nodi; quello per la navigazione in immersione era formato da due motori elettrici Ansaldo (per altra fonte, probabilmente erronea, Marelli) da 1400 CV (1030 kW) totali, alimentati da una batteria a 124 celle, che permettevano una velocità di 7,7 nodi. L’autonomia in superficie, sensibilmente aumentata rispetto ai Settembrini grazie alle maggiori scorte di carburante in sovraccarico, era di 10.294 miglia ad otto nodi in sovraccarico e 5900 miglia alla stessa velocità in carico normale (100 tonnellate di nafta, mentre per altra fonte il carico normale era di sessanta tonnellate mentre cento erano in sovraccarico); di 1882 alla velocità massima di 17 nodi. Quella in immersione era di 105 miglia a tre nodi, ottanta miglia a quattro nodi e 7,7 miglia a 7,7 nodi.


Il Galilei ed il capoclasse Archimede in costruzione a Taranto (da “Navi e bugie” di Nino Bixio Lo Martire, Schena Editore, 1983, via www.betasom.it; e g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)


L’armamento constava di otto tubi lanciasiluri da 533 mm, quattro a prua e quattro a poppa, con una riserva di dodici siluri (metà a prua e metà a poppa; per altra fonte, invece, sedici, quattro in più rispetto ai Settembrini); di due cannoni OTO Mod. 1927 da 100/43 mm (con una riserva di 230 proiettili) e di due mitragliere singole Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm (con una riserva di 3000 colpi). Erano muniti di idrofono.
La classe era composta da quattro unità, tutte intitolate a scienziati italiani: oltre al Galilei, Archimede, Galileo Ferraris ed Evangelista Torricelli. Archimede e Torricelli furono ceduti alla Marina nazionalista spagnola nell’aprile 1937, durante la guerra civile spagnola (ricevendo i nuovi nomi di General Mola e General Sanjurjo), riducendo così il numero di unità della classe in servizio sotto bandiera italiana a due; i loro nomi, per dissimulare il loro trasferimento ai falangisti, vennero assegnati a due nuovi sommergibili della classe Brin.
Nel complesso i sommergibili della classe furono giudicati molto ben riusciti, robusti e sicuri, e diedero eccellenti prestazioni di manovrabilità e qualità nautiche.
 
Il motto del Galilei era “Pur cieco vedo”. Durante il conflitto effettuò una sola missione di guerra della durata di nove giorni, percorrendo 160 miglia in superficie e 35 in immersione, affondando una nave mercantile di 8215 tsl per poi essere catturato.
 
Breve e parziale cronologia.
 
15 ottobre 1931
Impostazione nei cantieri Franco Tosi di Taranto.
19 marzo 1934
Varo nei cantieri Franco Tosi di Taranto.


Il Galilei ed il gemello Archimede pronti al varo, il 10 dicembre 1933 (g.c. Pietro Berti e Giorgio Parodi)

Una serie di immagini del varo del Galilei:

(da www.naviearmatori.net, utente tetide)

(Coll. Alberto Scuz, via ANMI)


(g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net)

(da www.marinaiditalia.com)

16 ottobre 1934
Entrata in servizio. Assegnato alla XII Squadriglia Sommergibili della III Flottiglia Sommergibili di Taranto, insieme ai gemelli Archimede, Galileo Ferraris ed Evangelista Torricelli.
Uno dei suoi primi comandanti è il capitano di corvetta Primo Longobardo.
Dopo un periodo di intenso addestramento e brevi crociere, il Galilei viene dislocato a Tobruk assieme ai gemelli.

Il Galilei in uscita dal Mar Piccolo di Taranto nel 1935 (g.c. STORIA militare)

12 gennaio 1937
Il Galilei (capitano di corvetta Alfredo Criscuolo), inquadrato nel III Gruppo Sommergibili di Messina, salpa da Napoli per una missione clandestina in appoggio alle forze franchiste durante la guerra civile spagnola. Dovrà pattugliare le acque al largo di Almeria e di Alicante, a caccia di naviglio impegnato nel contrabbando di rifornimenti a favore della fazione spagnola repubblicana.
Tra fine gennaio ed inizio febbraio 1937 sono ben diciassette (oltre al Galilei, anche Ferraris, Diamante, Otaria, Torricelli, Enrico Tazzoli, Domenico Millelire, Giovanni Bausan, Tito Speri, Ciro Menotti, Pietro Micca, Ettore Fieramosca, Topazio, Nereide, Balilla e Jantina) i sommergibili italiani schierati in agguato nelle acque tra Almeria e Barcellona, con il compito di insidare i porti spagnoli in mano alla fazione repubblicana e tagliare i flussi di rifornimenti ivi diretti: una vera e propria campagna sottomarina clandestina, ufficialmente ignorata dal resto del mondo, per quanto in realtà si sappia bene chi c’è dietro ai “misteriosi” attacchi di sommergibili “sconosciuti” contro il naviglio diretto nei porti repubblicani. Nella seconda metà di gennaio l’attività subacquea italiana, iniziata nel precedente autunno, è stata fortemente incrementata per volere di Mussolini, che in una riunione svoltasi il 15 gennaio ha sottolineato la necessità di troncare i rifornimenti verso i porti della Spagna repubblicana.

Il Galilei nel 1936 circa (g.c. STORIA militare)

28 gennaio 1937
Il Galilei conclude la missione rientrando a Napoli, senza aver colto successi.
16 agosto 1937
Inquadrato ora nel IV Gruppo Sommergibili di Taranto, il Galilei (capitano di corvetta Alfredo Criscuolo) salpa da Lero per un’altra missione “spagnola”; stavolta dovrà pattugliare un settore del Mar Egeo, al largo dei Dardanelli, per interdire il flusso di rifornimenti che dai porti sovietici sul Mar Nero vengono inviati verso la Spagna.
Conclusa nel febbraio 1937, al fine di evitare incidenti con il Regno Unito e Francia, dopo circa quattro mesi dal suo inizio, la prima campagna subacquea italiana della guerra di Spagna, dopo una pausa di alcuni mesi si è deciso, nell’agosto 1937, di iniziarne una seconda su richiesta di Francisco Franco, in risposta all’incremento del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica alla Spagna repubblicana, lungo la rotta Sebastopoli-Cartagena. I comandi spagnoli nazionalisti sostengono, esagerando di molto, che l’Unione Sovietica stia per rifornire le forze repubblicane spagnole con oltre 2500 carri armati, 3000 “mitragliatrici motorizzate” e 300 aerei. Il 3 agosto Francisco Franco ha chiesto urgentemente a Mussolini di usare la sua flotta per fermare un grosso “convoglio” sovietico appena partito da Odessa e diretto nei porti repubblicani; sulle prime era previsto il solo impiego di sommergibili, ma Franco è riuscito a convincere Mussolini ad impiegare anche le navi di superficie. Nel suo telegramma Franco affermava: «Tutte le informazioni degli ultimi giorni concordano nell’annunciare un aiuto possente della Russia ai rossi, consistente in carri armati, dei quali 10 pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri (sic), 3 000 mitragliatrici motorizzate, 300 aerei e alcune decine di mitragliatrici leggere, il tutto accompagnato da personale e organi del comando rosso. L’informazione sembra esagerata, poiché le cifre devono superare la possibilità di aiuto di una sola nazione. Ma se l’informazione trovasse conferma, bisognerebbe agire d’urgenza e arrestare i trasporti al loro passaggio nello stretto a sud dell’Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna. Per far ciò, bisogna, o che la Spagna sia provvista del numero necessario di navi o che la flotta italiana intervenga ella stessa. Un certo numero di cacciatorpediniere operanti davanti ai porti e alle coste dell’Italia potrebbe sbarrare la rotta del Mediterraneo ai rinforzi rossi: la cattura potrebbe essere effettuata da navi battenti apertamente bandiera italiana, aventi a bordo un ufficiale e qualche soldato spagnolo, che isserebbero la bandiera nazionalista spagnola al momento stesso della cattura. Invierò d’urgenza un rappresentante a Roma per negoziare questo importante affare. Nell’intervallo, e per impedire l’invio delle navi che saranno già in rotta per la Spagna, prego il governo italiano di sorvegliare e segnalare la posizione e la rotta delle navi russe e spagnole che lasciano Odessa. Queste navi devono essere sorvegliate e perquisite da cacciatorpediniere italiani che segnaleranno la loro posizione alla nostra flotta. Vogliate trasmettere in tutta urgenza al Duce e a Ciano l’informazione di cui sopra e la nostra richiesta, unita all’assicurazione dell’indefettibile amicizia e della riconoscenza del generalissimo alla nazione italiana».
Questa seconda campagna vede l’impiego di ben dieci sommergibili in Egeo, 17 nel Canale di Sicilia e 24 nel Mediterraneo occidentale, ed è accompagnata da un servizio di sorveglianza con aerei ed unità di superficie nel Canale di Sicilia. Il blocco navale, ordinato da Roma il 7 agosto, ha avuto inizio due giorni più tardi; il dispositivo di blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all’Alto Comando Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all’uscita dei Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali) troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della Tunisia e dell’Algeria. Infine, come ultima barriera per i bastimenti che riuscissero ad eludere anche tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato lungo le coste della Spagna.
Il blocco si protrae dal 7 agosto al 12 settembre con intensità variabile; ordini tassativi sono emanati per evitare interferenze o incidenti con bastimenti neutrali (il che talvolta obbliga a seguire un mercantile “sospetto” per tutto il giorno al fine di identificarlo, dato che talvolta quelli diretti nei porti repubblicani usano bandiere false), e questo rende piuttosto complessa e delicata la missione delle unità che partecipano al blocco.
Il blocco navale così organizzato (del tutto illegale, dato che l’Italia non è formalmente in guerra con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche, l’elevato rischio comportato dalla traversata a causa del blocco italiano porta in breve tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona col favore della notte. Entro settembre, l’invio di mercantili con rifornimenti per i repubblicani dall’Unione Sovietica attraverso il Bosforo è praticamente cessato, tanto che i comandi italiani si possono ormai permettere di ridurre di molto il numero di navi in mare per la vigilanza, essendo quest’ultima sempre meno necessaria.
Oltre alla grave crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si verifica proprio nel momento cruciale della conquista nazionalista dei Paesi Baschi (principale centro di produzione di armi tra le regioni in mano repubblicana), il blocco ha un impatto notevole anche sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di procurarsi beni di prima necessità) quanto nei vertici politico-militari, che si rendono conto di come, mentre i nazionalisti ricevono dall’Italia supporto incondizionato, persino sfacciato, con largo dispiegamento di mezzi, Francia e Regno Unito non sembrano disposte ad appoggiare la causa repubblicana se non a parole (in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte manifestazioni contro queste due nazioni, da cui i repubblicani si sentono abbandonati).
Il blocco italiano impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani, ma scatena anche gravi tensioni internazionali (specie col Regno Unito) e feroci proteste sulla stampa spagnola repubblicana ed internazionale, con accuse di pirateria – essendo, come detto, un’operazione in totale violazione di ogni legge internazionale – nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston Churchill. Il governo britannico, invece, evita di accusare apertamente l’Italia, dato che il primo ministro Neville Chamberlain intende condurre una politica di “riavvicinamento” verso l’Italia per allontanarla dalla Germania; anche questo fa infuriare i repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono già, dato che l’Operational Intelligence Center dell’Ammiragliato intercetta e decifra svariate comunicazioni italiane relative alle missioni “spagnole”), solo per vedere questi ultimi fingere di attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti spagnoli.
Nel periodo 5 agosto-12 settembre, i sommergibili italiani effettuano complessivamente 59 missioni ed iniziano ben 444 attacchi, portandone però a termine soltanto 24 (a causa delle citate regole restrittive sulla necessità di identificare con assoluta certezza i bersagli prima di lanciare), con il lancio di 43 siluri ed il conseguente affondamento di quattro mercantili e danneggiamento di un cacciatorpediniere.
29 agosto 1937
Rientra alla base senza aver colto risultati.

Il Galilei a Messina nel settembre 1936 (da Pinterest)

Settembre 1937
Scoppia la "crisi dei sommergibili fantasma": si scatenano a livello internazionale – non solo dalla Spagna repubblicana, ma anche dal Comitato di Non Intervento e dalla Società delle Nazioni – violente proteste per gli attacchi illegali da parte di sommergibili italiani (ufficialmente "non identificati", perché operano clandestinamente e senza segni di riconoscimento, ma tutti ne intuiscono la vera identità) contro il naviglio spagnolo repubblicano ed anche il naviglio mercantile di altri Paesi (specialmente quello sovietico, che trasporta rifornimenti per i repubblicani). Il 10 settembre i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna, URSS, Bulgaria, Jugoslavia, Egitto, Grecia, Turchia e Romania danno il via alla conferenza di Nyon, tenuta nell’omonima località della Svizzera e durata quattro giorni: al termine della conferenza, viene stabilito che le Marine francesi e britannica pattuglieranno le acque internazionali del Mediterraneo con un totale di 60 cacciatorpediniere nonché forze aeree, e che ogni sommergibile "pirata" (non si menziona esplicitamente l’Italia) che attaccherà naviglio neutrale dovrà essere attaccato e distrutto. All’Italia, che ha rifiutato di partecipare per via di una controversia in corso con l’Unione Sovietica, viene offerta la possibilità di pattugliare il Mar Tirreno.
I comandi italiani decidono allora di sospendere definitivamente l’offensiva subacquea in corso contro il traffico repubblicano (effettuata clandestinamente, ed illegalmente, dato che l’Italia non è un Paese belligerante), foriera di troppi rischi di incidenti internazionali (e non più necessaria, avendo già sortito l’effetto di ridurre drasticamente il traffico dall’Unione Sovietica verso la Spagna, mentre anche sul fronte terrestre la situazione sta volgendo in favore dei nazionalisti), richiamando tutte le unità in Italia il 3 settembre.
Questa decisione desta il malcontento dei vertici falangisti, che chiedono insistentemente che la campagna riprenda almeno fino a fine settembre o che altri sommergibili (in aggiunta ai due, Archimede e Torricelli, già ceduti ai falangisti in via definitiva alcuni mesi prima) siano ceduti alla loro Marina. Quest’ultima richiesta, insieme a quella del totale blocco dei porti repubblicani, è stata avanzata dalla Marina franchista già in agosto: Nicolas Franco, fratello di Francisco Franco, durante una visita a Roma ha anzi chiesto a nome di quest’ultimo che l’Italia ceda alla sparuta flotta nazionalista (composta solo dagli incrociatori pesanti Canarias e Baleares, dall’incrociatore leggero Almirante Cervera e dal cacciatorpediniere Velasco, più alcune unità minori ed ausiliarie: gli equipaggi delle altre navi sono rimasti infatti fedeli alla Repubblica, uccidendo gli ufficiali traditori schieratisi con Franco) l’incrociatore leggero Taranto, i cacciatorpediniere Aquila, Falco, Guglielmo Pepe, Alessandro Poerio e Audace e due sommergibili di media crociera. Questi ultimi due dovrebbero ampliare l’esigua componente subacquea dei nazionalisti, la cui flotta sottomarina consiste esclusivamente negli ex Archimede e Torricelli, ora General Mola e General Sanjurjo, ceduti dall’Italia nell’aprile precedente: tutti i dodici sommergibili della Marina spagnola prebellica sono infatti rimasti fedeli alla Repubblica. Prima di Franco, già nel luglio 1937 analoga richiesta è stata presentata al governo italiano da Pedro Garcia Conde, ambasciatore della Spagna nazionalista a Roma; venendo però accolta piuttosto freddamente dall’ammiraglio Domenico Cavagnari, capo di Stato Maggiore della Regia Marina, riluttante a privarsi di altre unità – e soprattutto di sommergibili – specialmente in considerazione della turbolenta situazione internazionale in Mediterraneo dovuta proprio alla guerra civile in Spagna ed al coinvolgimento in essa dell’Italia. Oltre a questo, peraltro, la Marina franchista dispone di poco personale specializzato, ed ha stentato a mettere insieme gli equipaggi di General Mola e General Sanjurjo: ci vorrebbero dei mesi per addestrare gli equipaggi spagnoli da destinare a nuovi sommergibili, tempo che i franchisti non possono permettersi di perdere.
Si è pertanto deciso per una soluzione di compromesso, raggiunta il 15 settembre nonostante l’opposizione della Marina: "prestare" alcune unità subacquee alla Marina nazionalista spagnola, onde evitare che Francisco Franco possa ridimensionare i rapporti con l’Italia a favore della Germania, o, peggio ancora, denunciare pubblicamente l’intervento clandestino della Marina italiana nella guerra civile. Conseguentemente, quattro sommergibili italiani saranno temporaneamente trasferiti alla Legione Spagnola (Legión Española o Tercio de Extranjeros), la legione straniera dell’Esercito spagnolo, schieratasi con i nazionalisti di Francisco Franco: il Galilei è uno dei quattro battelli scelti, insieme a Galileo Ferraris, Iride ed Onice. (Secondo una fonte spagnola, inizialmente si era pensato di vendere anche Galilei e Ferraris agli spagnoli, come Archimede e Torricelli, decisione però cambiata dopo gli accordi di Nyon).


18 settembre 1937
Sempre al comando del capitano di corvetta Criscuolo, il Galilei lascia Cagliari ufficialmente alla volta di La Maddalena, ma diretto in realtà a Soller, nell’isola di Maiorca, dove opererà sotto bandiera spagnola come sommergibile “legionario”.
I quattro battelli, cui è stata assegnato un distintivo ottico formato dalla lettera "L" (per “legionario”) e da un numero (il Galilei è L 1, il Ferraris L 2, Iride ed Onice rispettivamente L 3 e L 4; per gli spagnoli sono invece B. E. da 3 a 6, dove B. E. sta per “buque especiale”, nave speciale, ed i B. E. 1 e 2 sono General Mola e General Sanjurjo), dovranno operare esclusivamente all’interno delle acque territoriali spagnole; batteranno bandiera nazionalista, assumeranno temporaneamente nomi spagnoli e manterranno i loro stati maggiori ed equipaggi italiani, composti interamente da volontari, che però risulteranno formalmente arruolati nel Tercio des Extranjeros, la Legione Straniera spagnola, vestiranno uniformi spagnole, useranno insegne e gradi spagnoli (equivalenti ai loro gradi italiani) ed imbarcheranno un ufficiale di collegamento spagnolo che, in caso di incontro con navi da guerra delle potenze incaricate di vigilare sul rispetto degli accordi di Nyon, dovrà figurare ufficialmente come comandante (secondo Navypedia, Galilei e Ferraris avrebbero imbarcato, oltre all’ufficiale di collegamento, anche sei motoristi spagnoli ciascuno). Non solo: ufficiali e marinai “legionari” riceveranno una paga dalla Marina spagnola, secondo il loro grado spagnolo, in aggiunta a quella corrisposta dalla Regia Marina, e saranno soggetti alle leggi ed ai regolamenti della Marina franchista. È prevista un’indennità per la famiglia in caso di morte o mutilazione.
Tra gli ufficiali “legionari” compaiono diverse figure destinate alla fama negli anni a venire: Teseo Tesei, Giuseppe Roselli Lorenzini, Luigi Durand de la Penne, Junio Valerio Borghese. Ufficiale di collegamento presso il comando spagnolo è il capitano di corvetta Stefano Pugliese.
Le quattro unità giungono a Soller tra il 20 ed il 23 settembre; le regole per le missioni dei sommergibili “legionari”, posti alle dirette alle dipendenze dell’ammiraglio Francisco Moreno (comandante in capo della Marina spagnola nazionalista, ed autore delle Norme di massima per i sommergibili legionari emanate il 3 ottobre 1937), sono molto restrittive, per evitare incidenti: non attaccare nessuna nave non identificata con certezza come spagnola repubblicana al di fuori delle acque territoriali spagnole; non attaccare nessuna nave di bandiera straniera al di fuori delle acque territoriali; non attaccare mai, nemmeno dentro le acque territoriali, navi britanniche, francesi, statunitensi e giapponesi. È invece permesso attaccare navi spagnole repubblicane sia dentro che fuori delle acque territoriali, e navi di qualsiasi nazionalità, eccetto le quattro sopra menzionate, scortate da navi da guerra repubblicane entro le acque territoriali spagnole. La conferenza di Nyon ha stabilito che qualsiasi sommergibile in navigazione in acque internazionali nel Mediterraneo dovrà essere scortato da un’unità di superficie, pena l’essere considerato nemico ed ostile da qualsiasi nave del servizio di pattugliamento franco-britannico; siccome la Marina franchista non dispone di un numero di unità di superficie sufficiente per scortare i propri sommergibili e svolgere gli altri compiti delegati alle siluranti, il relativo Ministero ha disposto che i sommergibili potranno navigare in superficie di giorno soltanto entro le acque territoriali spagnole, mentre al di fuori delle stesse dovranno mantenersi sempre pronti all’immersione in caso di avvistamento di unità di superficie o di ricezione di segnali di scoperta relativi ad esse. Di notte, invece, potranno procedere in superficie per ricaricare le batterie.
La convivenza con gli spagnoli nazionalisti dà luogo in origine ad alcuni inconvenienti, che si riesce tuttavia a superare; l’arrivo dei quattro sommergibili nella piccola base di Soller mette in evidenza anche le carenze di questa base in termini di attrezzature e di alloggi, carenze però che verranno risolte in tempi brevi. Gli accordi presi tra Marina italiana e Marina spagnola franchista prevedono che ciascun sommergibile "legionario" effettui mediamente una missione ogni 24 giorni, con agguati di 8 giorni; cause contingenti impediranno di attenersi strettamente a tale decisione. La zona d’operazioni sarà costituita dalle coste della Catalogna e dell’Andalusia.
Ufficialmente, durante il suo impiego come sommergibile “legionario”, il Galilei risulterà essere di base a La Maddalena, mentre sotto bandiera spagnola gli viene assegnato un nome fittizio, General Mola II (dato che il nome di General Mola è stato assegnato all’Archimede; proprio in questo periodo General Mola e General Sanjurjo, ex Torricelli, sono inviati in Italia per un turno di lavori di manutenzione, e secondo alcune fonti il temporaneo trasferimento alla Spagna dei quattro sommergibili “legionari” sarebbe stato deciso anche allo scopo di sostituire queste due unità mentre erano ai lavori). Il Ferraris verrà analogamente “ribattezzato” General Sanjurjo II, mentre Iride ed Onice assumeranno rispettivamente i nomi di González López ed Aguilar Tablada.
26 settembre 1937
Arriva a Soller.
9 ottobre 1937
Il General Mola II (capitano di corvetta Alfredo Criscuolo) salpa da Soller per un pattugliamento al largo di Cartagena e Barcellona, tra Capo San Sebastiano e Capo Tortosa, con a bordo come ufficiale di collegamento il tenente di vascello Manuel Álvarez Osorio (per altra fonte, Francisco Núñez) della Marina franchista. Si tratta della prima missione di un sommergibile “legionario”.
13 ottobre 1937
Non avendo colto alcun risultato, si sposta dalle acque di Barcellona a quelle di Tarragona.
14 ottobre 1937
Poco dopo mezzanotte il Galilei/General Mola II (capitano di corvetta Alfrdo Criscuolo) avvista al largo di Capo Salou un piropeschereccio che identifica come del tipo Tramontana. Si tratta proprio del Tramontana, convertito dai repubblicani in trasporto militare ed in navigazione da Tarragona a Barcellona; all’1.12 il Galilei/Mola, in condizioni di mare calmo, lancia contro di esso un primo siluro, che però lo manca passandogli a proravia, come osservato dallo stesso comandante Criscuolo. Pochi minuti dopo il sommergibile lancia un secondo siluro, che stavolta passa a poppavia del bersaglio, mancandolo nuovamente di stretta misura; infine viene lanciato un terzo siluro da soli 400 metri che stavolta passa sotto lo scafo del Tarragona, senza esplodere. A questo punto l’unità repubblicana accosta verso il Galilei/Mola con l’apparente intenzione di speronarlo, ed il sommergibile deve immergersi per evitare la collisione.
Siccome con questo attacco il Galilei/Mola ha rivelato la sua presenza al largo di Tarragona, il comandante Criscuolo, paventando un’imminente reazione antisommergibili della Marina repubblicana, decide di spostarsi nuovamente nelle acque di Barcellona.
15 ottobre 1937
In mattinata attacca infruttuosamente un’altra nave mercantile al largo di Capo Tossa de Mar (vicino a Barcellona), lanciando due siluri.
17 ottobre 1937
Fa ritorno a Soller.
9 novembre 1937
Il Galilei/General Mola II (capitano di corvetta Alfredo Criscuolo) prende il mare per una seconda missione “legionaria”, nelle acque tra Alicante e Cartagena; stavolta l’ufficiale di collegamento spagnolo è il tenente di vascello Francisco Núñez.
18 novembre 1937
Conclude la missione rientrando a Soller.
1° dicembre 1937
Prende il mare per la terza missione “legionaria”, da svolgersi nelle acque antistanti Mahon (Minorca); di nuovo l’ufficiale di collegamento è il tenente di vascello Núñez.
5 dicembre 1937
A causa delle avverse condizioni meteomarine nelle acque di Mahon, il sommergibile è costretto ad interrompere la missione e tornare alla base.
Viene poi inviato in Italia per lavori di manutenzione, al termine dei quali fa ritorno a Soller.
26 dicembre 1937
Al comando del tenente di vascello Mario Ricci (l’ufficiale di collegamento è sempre il tenente di vascello Núñez), il Galilei/General Mola II parte da Soller per un pattugliamento al largo di Tarragona, Capo Creus e Capo San Sebastiano.
27 dicembre 1937
Durante la giornata incrocia al largo di Capo Salou, pattugliando gli approcci di Tarragona; non avendo rilevato il benché minimo traffico, il comandante Ricci decide di spostarsi nelle acque di Barcellona, dove rimarrà per il resto della missione. (Una fonte afferma che il giorno di Natale il Galilei/Mola avrebbe avvistato, mentre era in pattugliamento davanti a Tarragona, la petroliera statunitense Nantucket Chief, proveniente da Port Arthur e diretta proprio a Tarragona – una delle pochissime navi statunitensi ad entrare in un porto repubblicano durante il conflitto – con 6200 tonnellate di benzina, astenendosi dall’attaccarla per via delle limitazioni operative menzionate in precedenza. Ciò risulta però in contrasto col fatto che il Galilei/Mola iniziò la missione solo il 26 dicembre).
5 gennaio 1938
Rientra alla base senza aver compiuto alcun avvistamento.
26 gennaio 1938
Fa ritorno in Italia per riparare un’avaria al periscopio d’attacco, ponendo fine alla sua carriera “legionaria”.
Anche gli altri tre sommergibili “legionari” vengono rimpatriati nello stesso periodo, dopo quattro mesi di servizio sotto bandiera spagnola, in seguito ad una nuova ondata di proteste internazionali scatenata dall’affondamento di alcuni mercantili neutrali da parte di General Mola e General Sanjurjo (ex Archimede e Torricelli): la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato, il 31 gennaio 1938, l’affondamento del piroscafo britannico Endymion da parte del General Sanjurjo, preceduto nelle settimane precedenti da altri attacchi, seppur infruttuosi, contro altri due mercantili britannici. A spingere Mussolini ad ordinare, ad inizio febbraio, il rimpatrio dei sommergibili “legionari” è la dichiarazione del ministro degli Esteri britannico, Anthony Eden, che d’ora innanzi la Royal Navy si riserverà di affondare tutti i sommergibili sorpresi in immersione nella sua zona di sorveglianza; da parte italiana non si vogliono compromettere, con altri incidenti relativi a naviglio mercantile neutrale, le trattative in corso con i britannici per un accordo sulle rispettive sfere d’influenza in Mediterraneo. Anche Francisco Franco, contro il parere dei vertici della sua Marina, decide di sospendere l’impiego dei propri sommergibili per scongiurare un ulteriore deterioramento dei rapporti con il Regno Unito.
In tutto i quattro battelli “legionari” hanno effettuato tredici missioni (la prima nell’ottobre 1937, l’ultima nel febbraio 1938: quattro ciascuno Galilei e Ferraris, tre l’Onice, due l’Iride) ed eseguito cinque attacchi con il lancio di un totale di otto siluri, ma senza alcun successo, principalmente a causa delle regole d’ingaggio estremamente restrittive descritte più sopra (come riconosciuto anche dalla storiografia della Marina: “troppi vincoli, troppe restrizioni. Per di più il traffico dei rossi si svolgeva ormai quasi interamente con navi che battevano spesso abusivamente, bandiere inglesi e francesi. Essi di notte navigavano sempre a luci accese mantenendosi però entro i limiti delle acque territoriali con la certezza che non sarebbero stati attaccati”). Hanno passato 119 giorni in mare, percorso 7127 miglia in superficie e 2687 in immersione (il Galilei, nello specifico, ha percorso 1923 miglia in superficie e 900 in immersione).
Il tenente di vascello Ricci sarà severamente criticato dal comandante del gruppo dei sommergibili “legionari”, capitano di corvetta Francesco Baslini, e dal capo della missione navale italiana capitano di vascello Giovanni Ferretti, che attribuirà alla sua scarsa perizia la mancanza di successi.
1938
Assegnato, con il gemello Galileo Ferraris ed i più moderni BrinArchimedeGuglielmottiTorricelli e Galvani, alla XLIV Squadriglia Sommergibili del VII Gruppo Sommergibili di Taranto.

La flottiglia del Mar Rosso nella primavera del 1940, nel porto di Massaua: Galilei e Ferraris sono il secondo e terzo sommergibile visibili nella foto, nella quale si riconoscono anche i più moderni sommergibili Archimede e Guglielmotti, tre sommergibili di piccola crociera del tipo “600”, le torpediniere Giovanni Acerbi e Vincenzo Giordano Orsini, il cacciatorpediniere Pantera, un cacciatorpediniere classe Sauro, il posamine Ostia, una cannoniera ed alcuni rimorchiatori (g.c. STORIA militare)


1939
Trasferito, insieme al Ferraris, alla XLI Squadriglia Sommergibili, inquadrata nel IV Grupsom di Taranto.
Marzo 1940
Galilei e Ferraris vengono trasferiti a Massaua, in Eritrea (parte dell’Africa Orientale Italiana), sul Mar Rosso, dove formano la LXXXI Squadriglia del VIII Gruppo Sommergibili.
10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Galilei (capitano di corvetta Corrado Nardi) si trova a Massaua, dove ha base la LXXXI Squadriglia Sommergibili di cui fa parte insieme al gemello Galileo Ferraris ed ai più moderni sommergibili Guglielmotti e Galvani.
           
(da “Italian Warships of World War Two” di Aldo Fraccaroli, Ian Allan Ltd., Shepperton, 1968)

Cattura
 
Il mattino del 10 giugno 1940, il giorno stesso della dichiarazione di guerra dell’Italia, il Galilei, al comando del capitano di corvetta Corrado Nardi, lasciò Massaua per la sua prima missione di guerra: un agguato a sud di Aden, sulla costa dello Yemen all’estremità meridionale del Mar Rosso, principale base navale britannica della regione. Il settore assegnato per la missione non era molto ampio, ma alquanto rischioso, proprio a causa della vicinanza alla base principale della Royal Navy dello scacchiere Africa Orientale-Penisola araba; la storia ufficiale dell’USMM definisce anzi la zona d’agguato del Galilei come “la più rischiosa di tutte quelle in cui dovevano tenere l’agguato i sommergibili di Massaua”.
Le condizioni operative per i sommergibili del Mar Rosso rasentavano l’infernale, con temperature elevatissime che logoravano uomini e materiali ed umidità dell’aria prossima al 100 %, il che oltre a rendere i locali interni dei sommergibili, intrinsecamente caratterizzati da scarsa ventilazione, pressoché invivibili, provocava sensibili dispersioni nei circuiti elettrici e nei motori. Come scrive la storia ufficiale dell’USMM, i battelli dislocati a Massaua erano unità mediamente moderne, ma “nessuno speciale accorgimento era stato adottato per migliorare, su quegli otto battelli, le possibilità di vita degli equipaggi ed assicurare il funzionamento delle armi e dei macchinari, in condizioni ambientali particolarmente avverse per le caratteristiche climatiche e meteorologiche del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano”. C’erano su tutti i sommergibili degli impianti di condizionamento dell’aria, ma rischiavano di peggiorare la situazione invece che migliorarla: il gas refrigerante in essi usato era infatti l’altamente tossico cloruro di metile, incolore ed inodore, le cui accidentali fuoriuscite avrebbero provocato non pochi lutti tra gli equipaggi della flottiglia di Massaua.
Per i sommergibili di base in Africa Orientale, la Di. Na. 4 ("Direttive per l’impiego delle forze in A.O.I."), emanata da Supermarina nel settembre 1939, prescriveva "per i primi giorni di ostilità impiegare i tre quarti dei sommergibili pronti; in seguito organizzare le missioni dei sommergibili nelle zone che in base alle informazioni del momento ed all’apprezzamento della situazione offrono maggiori probabilità di successi, senza ritenersi vincolati a mantenere, di massima, agguati in continuazione nelle medesime posizioni. La condotta della guerra al naviglio mercantile da parte di sommergibili sarà regolataconformemente ai particolari ordini che saranno tempestivamente emanati dall’Alto Comando Marina". Inizialmente il Comando superiore della Marina in A.O.I. (Marisupao) aveva stabilito che subito dopo la dichiarazione di guerra cinque sommergibili sarebbero stati inviati in agguato: uno al largo di Porto Sudan, per una missione della durata di otto giorni; uno al largo di Gibuti, per dodici giorni; uno al largo di Aden, anch’esso per dodici giorni; uno al largo di Berbera, per diciotto giorni; ed uno nel Golfo di Oman, per ben 28 giorni (tempistiche che comprendevano anche il tempo necessario a raggiungere il settore d’agguato ed a fare ritorno alla base). Ai comandanti era data facoltà di tornare in anticipo o di prolungare la missione, se le circostanze avessero suggerito l’una o l’altra decisione. Nel maggio 1940, però, il comandante in capo delle forze italiane in Africa Orientale, il duca d’Aosta Amedeo di Savoia, aveva informato il responsabile di Marisupao, ammiraglio Carlo Balsamo, che l’intervento della Marina era richiesto per un impedire l’afflusso di rinforzi e rifornimenti a Gibuti e nella Somalia britannica, in previsione di un’offensiva contro questi territori. Il 28 maggio, di conseguenza, l’ammiraglio Balsamo aveva rivisto i suoi piani per l’impiego dei sommergibili, riducendo a tre il numero di unità subacquee che sarebbero uscite in mare in seguito alla dichiarazione di guerra (non sarebbe stato possibile mantenerne di più in mare nello stesso momento, date le necessità di permanenza in questi agguati), e stabilendo di inviarle tutte nei golfi di Tagiura e di Aden per coprire l’attacco contro Gibuti.
Prima della dichiarazione di guerra, però, il piano fu cambiato ancora una volta; così che il 10 giugno 1940 furono quattro i sommergibili che presero il mare: Galileo GalileiGalileo Ferraris, GalvaniMacallè, assegnati a zone e compiti molto differenti (solo il Ferraris fu effettivamente inviato nelle acque di Gibuti). Galilei, Ferraris e Macallè avrebbero preso posizione rispettivamente al largo di Aden, Gibuti e Port Sudan, per insidiare le comunicazioni britanniche nel Mar Rosso ed il traffico isolato che transitava nel Golfo di Aden prima di iniziare la navigazione in convoglio verso Suez; il Galvani invece venne inviato nel Golfo di Oman per attaccare le petroliere provenienti dall’Iran.

Il Galilei (in primo piano) a Massaua il giorno della dichiarazione di guerra: dietro di esso i sommergibili Macallè, Perla, Torricelli, Guglielmotti, Galvani e Ferraris, le torpediniere Acerbi ed Orsini e la nave coloniale Eritrea (da www.qattara.it)

Il 12 giugno il Galilei attraversò lo stretto di Bab el Mandeb, entrando nell’Oceano Indiano, e poche ore più tardi raggiunse il settore assegnato per la missione al largo di Aden.
Quattro giorni trascorsero senza avvistamenti, fino alle tre di notte del 16 giugno, quando il sommergibile, in emersione, avvistò e fermò una nave mercantile. Si trattava della nave cisterna James Stove, norvegese, di 8215 tsl: al comando del capitano Olaus Eliassen ed a noleggio della Anglo Saxon Petroleum Company (ramo marittimo della Shell), era partita da Singapore il precedente 29 maggio diretta a Suez, via Aden (dove avrebbe dovuto scaricare una piccola parte del carico), con un carico di 10.800 tonnellate di benzina per aerei destinato alla RAF. Aveva regolato la velocità in modo da arrivare davanti ad Aden all’alba del 16 giugno, ed aveva in quel momento rotta 260°.
Anche la nave norvegese aveva avvistato il sommergibile: il comandante Eliassen ed il primo ufficiale Rolf G. Karlsen, di guardia in plancia, lo videro quando si trovava a circa quattro miglia di distanza, al traverso a dritta (secondo il primo rapporto sommario redatto dalle autorità britanniche di Aden sulla scorta dell’interrogatorio dei naufraghi, invece, al momento dell’avvistamento, verificatosi verso le cinque del mattino, la distanza sarebbe stata di due miglia e mezzo, ed il Galilei si sarebbe trovato a proravia dritta della James Stove), ma pensarono che si trattasse di un’unità francese o britannica, pertanto proseguirono per la loro rotta secondo le istruzioni ricevute dal Comando navale di Singapore (durante la traversata dell’Oceano Indiano, la James Stove aveva seguito con la maggior accuratezza possibile la rotta indicatale dalle autorità navali britanniche a Singapore). Notarono però che il nuovo arrivato, che aveva rotta simile alla loro, sembrava iniziare ad avvicinarsi; un’altra cosa che notarono fu una nube nera di gas di scarico che aleggiava tutt’intorno al sommergibile, tanto che il primo ufficiale di macchina Bjarne Lillebø, che si trovava in plancia, commentò che "Ci sono dei pessimi macchinisti a bordo di quel sommergibile".
Alle 5.15 circa, venticinque minuti dopo aver avvistato il Galilei, la James Stove avvistò la terraferma, ed accostò verso nord per imboccare il canale dragato a sud di Elephant Back. In seguito all’accostata, il sommergibile passò dal trovarsi sulla dritta della petroliera al trovarsi a proravia sinistra; accelerò, girò intorno alla poppa della James Stove e, giunto al traverso, assunse rotta leggermente convergente, apparentemente pronto ad immergersi, seguendo tale rotta per parecchio tempo, durante il quale ridusse progressivamente le distanze. Il comandante Eliassen affermò in seguito di non aver tentato di contattare le autorità britanniche a terra con la radio perché credeva che il sommergibile fosse britannico; il primo ufficiale Karlsen, invece, avrebbe detto di ritenere che tale decisione fosse stata presa nel timore di essere affondati senza preavviso se avessero tentato di usare la radio.
 
Poco prima delle sei del mattino il Galilei, giunto a poppavia dritta della James Stove ed ad una distanza di tre quarti di miglio, issò un segnale che l’equipaggio della petroliera non riuscì a leggere a causa della distanza eccessiva. Nondimeno, i norvegesi risposero fermando le macchine ed issando la bandiera nazionale ed il numero identificativo della nave. Dopo alcuni minuti, l’equipaggio della James Stove riuscì a leggere il segnale issato dal Galilei: CGB, cioè “mandate un’imbarcazione”. Siccome il Galilei non batteva nessuna bandiera né mostrava alcun tipo di segni di riconoscimento, il capitano Eliassen ed i suoi uomini continuavano a credere che si trattasse di un sommergibile Alleato, e che la richiesta di mandare una lancia potesse essere dovuta alla necessità, da parte del sommergibile, di consegnare alla nave cisterna nuovi ordini relativi alla disposizione dei campi minati. Eliassen ordinò quindi di mettere a mare la scialuppa di dritta e di mandarla dal sommergibile, con a bordo il primo ufficiale Karlsen ed alcuni altri uomini.
Quando la lancia giunse a portata di voce del Galilei, i suoi occupanti ebbero una sgradita sorpresa: ad attenderli trovarono un ufficiale italiano “che indossava una camicia nera”, che disse loro di rimanere a distanza e poi annunciò in inglese: "Aden è un porto inglese. La vostra nave sta per essere affondata ed avete un quarto d’ora per abbandonarla". Karlsen avrebbe poi affermato che l’ufficiale italiano si era comportato con grande cortesia, come “un perfetto gentiluomo”.
La scialuppa fece dunque ritorno sulla James Stove, dove Karlsen dovette riferire al suo comandante la ferale notizia; il capitano Eliassen ordinò di abbandonare la nave, e venne messa a mare anche la scialuppa di sinistra. L’abbandono della nave si svolse “con perfetto ordine e disciplina, salvo che per uno o due cinesi che erano inclini al panico”.
Dopo che le scialuppe si furono allontanate, alle 6.15 (6.25 per altra fonte), il Galilei lanciò un siluro da soli 450 metri contro la petroliera, colpendola a poppa, in sala macchine (il capitano Eliassen asserì poi di aver osservato della schiuma vicino al sommergibile e poi vicino alla nave, il che lo indusse a ritenere che un primo siluro fosse stato lanciato ma avesse mancato il bersaglio passandogli a poppa; poi il sommergibile ne lanciò un secondo, stavolta facendo centro. Eliassen credette anche che il primo siluro fosse stato lanciato da un tubo situato a centro nave, che però il Galilei non aveva).
La James Stove iniziò subito ad affondare di poppa; il Galilei s’immerse, e gli ufficiali della James Stove furono colpiti dalla rapidità di tale manovra (il che risulta piuttosto curioso, se si considera che una delle grandi piaghe dei sommergibili italiani nella fase iniziale del conflitto fu costituita proprio dai lunghi tempi d’immersione). Dopo due o tre minuti, tuttavia, il battello italiano riemerse nella stessa posizione in cui era scomparso e lanciò dai tubi di prua un secondo siluro che colpì la nave al centro a dritta, facendole assumere un forte sbandamento. Un terzo siluro, infine, provocò una violenta esplosione ed incendiò la petroliera, dopo di che il Galilei s’immerse nuovamente e si dileguò. (Anche qui esistono delle divergenze tra le varie versioni: secondo una il Galilei colpì la James Stove con tre siluri, dei quali il primo la colpì in sala macchine, il secondo a centro nave facendola sbandare, ed il terzo la incendiò; secondo un’altra il primo siluro andò a vuoto, mentre fu il secondo a colpire la sala macchine ed il terzo, a centro nave, scatenò l’incendio).
Rapidamente circondata da un mare di fiamme (che si diffusero rapidamente sulla superficie del mare, spinte dal vento, e minacciarono anche le scialuppe, che stentarono ad allontanarsi in tempo), la James Stove affondò nel punto 12°35’ N e 45°03’ E, una dozzina di miglia a sud di Aden (altra fonde indica l’affondamento come avvenuto al largo di Gibuti, ma si tratta di un errore). Si trattò della prima nave affondata da un’unità della flottiglia italiana dell’A.O.I.
 
Il fumo dell’incendio fu visto fino ad Aden, come riferì in seguito il console italiano Umberto Campini; le fiamme continuarono a bruciare per tre giorni, destando notevole impressione tra la popolazione indigena.
I 34 uomini dell’equipaggio della James Stove (solo sei dei quali erano effettivamente norvegesi: il comandante Eliassen, il primo ufficiale Karlsen, il primo ufficiale di macchina Bjarne Lillebø, il quarto ufficiale di macchina Anders Bergquist, il marinaio Sverre Jensen ed il meccanico Johannes Jacobsen, mentre la maggior parte degli altri marittimi erano cinesi) vennero soccorsi dopo circa un’ora, non senza qualche difficoltà dovuta alla minaccia del carburante in fiamme che galleggiava sulle onde, dal peschereccio armato antisommergibili Moonstone, che prese a rimorchio le scialuppe e le condusse ad Aden. Il comandante Eliassen, il primo ufficiale Karlsen ed alcuni altri vennero interrogati dalle locali autorità britanniche non appena giunsero a terra; successivamente sarebbero stati inviati a Bombay, dove avrebbero nuovamente riferito l’accaduto in un’udienza tenutasi il 23 gennaio 1941. Dalla descrizione che ne fecero i naufraghi, i britannici identificarono correttamente l’affondatore come un sommergibile classe Archimede, dipinto in un grigio-verde molto scuro e sprovvisto sia di bandiera che di segni di riconoscimento di qualsiasi tipo.
La storia ufficiale italiana rileva con una certa sorpresa che l’affondamento della James Stove, avvenuto a così poca distanza da Aden, non sembrò produrre alcuna reazione da parte britannica, ma in realtà qualche reazione ci fu: l’incrociatore leggero neozelandese Leander, in navigazione al largo di Aden, catapultò il proprio idrovolante da ricognizione Supermarine Walrus per cercare il sommergibile affondatore, ma non riuscì a trovarne traccia (secondo una fonte, un’unità britannica aveva segnalato l’avvistamento di una torretta, ma il messaggio non fu ricevuto dal Walrus). Il Walrus condusse altri voli di ricerca nei due giorni successivi, ma senza risultato.
 
Passarono dunque altri due giorni senza che nulla accadesse, fino alle 13.35 del 18 giugno, quando il Galilei avvistò un altro mercantile e gli intimò di fermarsi con un colpo di cannone sparato a proravia, come prescritto dai regolamenti internazionali: stavolta si trattava di un piroscafo jugoslavo, il Drava. La nave fu sottoposta ad ispezione; siccome la Jugoslavia era all’epoca ancora neutrale, una volta verificati i documenti ed il carico per accertarsi che la nave non stesse svolgendo contrabbando di materiale militare a vantaggio dei britannici, il piroscafo fu lasciato proseguire. Il colpo di cannone, però, era stato sentito da guardacoste britannici (tra di essi Brian Hartley, dell’Adenese Camel Corps), che avevano subito lanciato l’allarme. (Altra fonte afferma invece che sarebbe stato il Drava stesso a dare comunicazione via radio dell’incontro con il sommergibile italiano, un’altra ancora che sarebbe stato il Moonstone ad avvertire il colpo di cannone, lanciando un razzo di segnalazione).
Stavolta i britannici non rimasero con le mani in mano: un aereo da caccia Gloster Gladiator del 94th Squadron della RAF (l’aereo N2279, pilotato dal tenente Gordon S. K. Haywood) fu immediatamente inviato sul posto e sorprese il Galilei in superficie trenta miglia a sudest di Aden, comunicandone la posizione via radio ad un bombardiere Bristol Blenheim dell’8th Squadron (altra fonte parla di due Blenheim) e mantenendo il contatto visivo con l’unità italiana fino all’arrivo del bombardiere. Soltanto quando questi giunse a sua volta sul posto e passò all’attacco, verso le 16.30 del 18 giugno, Nardi decise di immergersi. L’attacco andò a vuoto: le tre bombe sganciate dal Blenheim caddero in mare, e parimenti infruttuoso fu il passaggio di mitragliamento a bassa quota effettuato dal Gladiator; intervenne anche un terzo aereo, un bombardiere Vickers Vincent, che gettò senza successo due bombe di profondità da quota così bassa che per poco non venne travolto dall’esplosione dei suoi stessi ordigni.
 
Terminato l’attacco ed allontanatisi gli aerei, il comandante del Galilei decise, per ragioni che non poté mai spiegare (la storia ufficiale dell’USMM appare velatamente critica su questa decisione, affermando che "sarebbe stato opportuno, a questo punto, che il Galilei si fosse allontanato dalla zona"), di non allontanarsi dalla zona, pur essendo a quel punto evidente che la sua posizione era stata scoperta; calata la sera, anzi, riemerse per ricaricare le batterie. Durante tale operazione venne avvistata una formazione avversaria, e Nardi decise di attaccare; localizzato prima di poter lanciare i siluri, tuttavia, il Galilei fu costretto all’immersione rapida e fu sottoposto a pesante ma infruttuosa caccia con bombe di profondità per tutta la notte, salvo una breve interruzione durante la quale tentò vanamente di riemergere per ricaricare le batterie (secondo una fonte britannica, sarebbe effettivamente riuscito ad emergere dall’1.55 alle 2.22 del 20 giugno, o da mezzanotte alle 2.30).
Le navi avvistate ed attaccate dal Galilei erano il cacciatorpediniere Kandahar (capitano di fregata William Geoffrey Arthur Robson) e la cannoniera Shoreham (tenente di vascello Francis Duppa Miller), inviati proprio a dare la caccia al sommergibile italiano, trovandosi già nei paraggi, dopo la segnalazione degli aerei che avevano attaccato il Galilei, che ne avevano indicato la posizione come 26 miglia per 110° da Aden. Una terza unità, il peschereccio armato antisommergibili Moonstone (lo stesso che aveva soccorso l’equipaggio della James Stove), che si trovava a nordest di Aden (stava pattugliando una zona compresa tra le 7 e le 25 miglia per 060° da tale base), era stata al contempo messa in allarme, così come altre unità minori di pattuglia, inviate a cercare il sommergibile. Il Kandahar aveva radiogoniometrato un messaggio radio trasmesso dal Galilei quando era emerso per ricaricare le batterie, alle 18.30; fu invece la Shoreham, alle 19.30, ad avvistare il Galilei mentre questi si accingeva a lanciare, inducendolo ad immergersi alle 19.35. La Shoreham effettuò due attacchi con bombe di profondità, ma senza successo; il suo comandante giudicò efficaci le manovre evasive eseguite dal sommergibile. Shoreham e Kandahar proseguirono infruttuosamente la caccia per tutta la notte, poi lasciarono la zona, avendo perso il contatto (secondo una fonte, la Shoreham perse il contatto ASDIC dopo l’esplosione delle bombe di profondità), e diressero per rientrare ad Aden.
Alle otto del mattino del 19 giugno il Galilei si adagiò sul fondale, a 45 metri di profondità, per consentire all’equipaggio di riposare un poco: gli effetti di nove giorni di missione nel torrido clima yemenita (temperature di 45 °C), peggiorate dall’avaria dell’impianto di condizionamento, totalmente fuori uso, si stavano facendo sentire. Si erano verificati anche alcuni principi di intossicazione da cloruro di metile, gas tossico usato come refrigerante nell’impianto di condizionamento: si era però trattato soltanto di casi lievi, a differenza di quanto accaduto negli stessi giorni su altri sommergibili di Massaua.
 
Rimaneva a continuare la caccia il Moonstone (al comando del nostromo William Joseph Henry Moorman, al suo primo comando e noto tra i suoi uomini come “Bosun Bill”), salpato da Aden per dare la caccia all’intruso seguendo un’indicazione di un Blenheim del 203rd Squadron RAF (aerei di questo tipo e squadriglia avevano condotto una ricerca all’alba in un’area di 90 miglia per 100, ma non erano riusciti ad avvistare il sommergibile a causa delle condizioni meteomarine determinate dal monsone, con densa copertura nuvolosa). La piccola unità era partita in fretta e furia la sera del 18 giugno, costringendo il comandante Moorman a richiamare precipitosamente a bordo la metà del suo equipaggio che si trovava a terra in franchigia: tre uomini, tra cui il puntatore del cannone da 101 mm, avevano dovuto raggiungere la nave mentre questa stava già uscendo dal porto, a bordo di una motobarca privata.
Alle 11.37 dello stesso 19 giugno il Moonstone ottenne un contratto elettroacustico all’ASDIC a 4570 metri di distanza, ed alle 11.51 lo attaccò con il lancio di una singola bomba di profondità, regolata per esplodere a 45 metri (Moorman temeva che regolandola per una profondità inferiore, l’esplosione avrebbe danneggiato anche la sua nave); non ne poté lanciare un pacchetto perché la sua velocità era insufficiente a contrastare le onde lunghe, e procedendo così lentamente l’esplosione di un intero pacchetto di bombe avrebbe rischiato di investire e danneggiare la nave stessa. Dopo l’esplosione, però, fu perso il contatto.
Alle 12.20 il Moonstone ottenne un altro contatto, ad appena 274 metri di distanza, e lo attaccò con un’altra bomba di profondità regolata per 45 metri (di nuovo, non aveva velocità sufficiente per un pacchetto intero), seguita da una terza alle 12.26. Sul Galilei questi attacchi, fiacchi e poco precisi, non destarono troppa preoccupazione, anche perché agli idrofoni veniva captato soltanto un rumore di macchine alternative che appariva prodotto da un’unità di modeste dimensioni; il comandante Nardi decise anzi di salire a quota periscopica per osservare meglio il suo avversario.
Il Moonstone non aveva certo un aspetto minaccioso, anche se non era un avversario da sottovalutare: nato nel 1934 come Lady Madeleine, era un piropeschereccio di 615 tonnellate, lungo 46 metri, costruito per la pesca del merluzzo con base a Hull; requisito dalla Royal Navy già dal gennaio 1939, era armato con un cannone da 101 mm, due mitragliere Lewis da 7,62 mm e dieci bombe di profondità, oltre ad essere munito di ASDIC per la ricerca di sommergibili. Nel corso della guerra la Royal Navy avrebbe trasformato in cacciasommergibili ausiliari innumerevoli altri pescherecci d’altura, e non pochi sommergibili dell’Asse sarebbero stati affondati da questi avversari dall’apparenza così poco temibile.
Nessuno può sapere quali pensieri passarono per la mente del comandante del Galilei: vedendo che la nave che gli stava dando la caccia era effettivamente una piccola unità ausiliaria, armata con un solo cannone mentre il suo Galilei ne aveva due, Nardi pensò probabilmente di poterla affrontare con successo in superficie, invece di continuare a subirne passivamente l’iniziativa; forse ritenne anche che sarebbe stato meglio risolvere la questione alla svelta prima che l’intossicazione da cloruro di metile assumesse una maggiore gravità. Prese così la fatidica decisione di emergere per ingaggiare combattimento con il cannone: scelta che sarebbe costata la vita a lui ed a molti altri.
Era mezzogiorno e mezzo: una volta in superficie (secondo il rapporto del Moonstone il Galilei emerse 1830 metri a poppavia, quattro minuti dopo il lancio dell’ultima bomba di profondità), le brutte sorprese non tardarono a manifestarsi. I cannonieri scoprirono che l’apparato di mira del cannone prodiero era allagato, obbligandoli a puntare ad occhio, con tiro che risultò del tutto inefficace; il tiro del cannone poppiero procedette invece senza intoppi, ma il piccolo Moonstone si rivelò più agile del previsto, spostandosi con tale velocità da impedire di mettere un solo colpo a segno. (Secondo fonti britanniche, fu il Galilei ad aprire il fuoco per primo, mancando il bersaglio, mentre il Moonstone, sorpreso dalla sua improvvisa emersione, virava il più rapidamente possibile nella sua direzione). Furono portate in plancia e messe nei loro alloggiamenti le mitragliere da 13,2 mm, con le quali fu iniziato un tiro che fu giudicato efficace contro il ponte e le sovrastrutture dell’unità avversaria (che tuttavia non riportò alcun danno o perdita tra il suo equipaggio durante il combattimento); dal canto suo il Moonstone, messa la prua sul sommergibile, iniziò a sparare alle 12.32 con il suo unico cannone e con numerose mitragliere Lewis, e quando la distanza fu calata a 450 metri tutti gli uomini che non avevano un incarico specifico furono mandati in coperta ed iniziarono a sparare sul sommergibile anche con i fucili, spazzandone i ponti con un tiro lento ma accurato (sul Galilei si ritenne che la nave britannica fosse armata con mitragliere quadrinate).
Per una decina di minuti le due unità si scambiarono colpi senza costrutto, poi il Moonstone colpì il Galilei con una prima cannonata: il proiettile esplose in plancia ferendo il comandante Nardi (ad un braccio ed al fianco), il sottonocchiere Sincero Tabacchi, il nostromo Angelo Bellini, il capo furiere Antonino Ailara, il mitragliere Rodolfo Dubrovich ed altri. Bellini, Ailara e Dubrovich, feriti mortalmente, spirarono dopo pochi minuti. Ailara lasciava nella sua Ustica la moglie, Clelia, ed un figlio di pochi anni, Vito.
Il comandante in seconda, tenente di vascello Bruno Ferraiolo, aiutava personalmente la “catena” che portava le munizioni al pezzo di prua; ad un tratto i cannonieri lo videro abbattersi esanime sul ponte, e videro che aveva un buco nella fronte. Anche diversi serventi di quel cannone caddero uccisi o feriti. Il guardiamarina Ferruccio Mazzucchi, che stava dirigendo il tiro del cannone prodiero, riferì al comandante Nardi che il comandante in seconda era morto; Nardi cercò di rincuorare i suoi uomini, e raccomandò loro: "Sparate magari più lentamente ma con più precisione".
Ma le cose continuarono ad andare di male in peggio. Nardi aveva da poco finito di parlare, quando il cannone poppiero dovette cessare il tiro in seguito all’inceppamento in sede di caricamento di un bossolo, che non si riuscì più ad estrarre; dopo qualche altro minuto una seconda cannonata del Moonstone colpì la plancia del Galilei ed esplose in torretta, uccidendo il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Felice Dellarole, il suo sottordine, tenente del Genio Navale Vincenzo Cametti, ed il contabile, capo di prima classe Francesco Pappagallo. Un terzo colpo centrò ancora una volta la plancia del sommergibile ed uccise il comandante Nardi, ferendo mortalmente altri uomini.
 
Privato di quasi tutti gli ufficiali (ne rimanevano in vita tre, giovani e feriti: i guardiamarina di complemento Aurelio Magri e Ferruccio Mazzucchi ed il sottotenente del Genio Navale Direzione Macchine Elvezio Sperduto) e dei sottufficiali più anziani ed esperti, con entrambi i cannoni sostanzialmente inutilizzabili e gravi danni allo scafo, il Galilei fermò i motori (per altra versione, questi andarono in avaria). Il peso del comando ricadeva sul guardiamarina di complemento Mazzucchi, giovane, inesperto e per giunta ferito; prima di spirare il comandante Nardi aveva raccomandato di evacuare ed autoaffondare il sommergibile, ma quando al Moonstone si aggiunse anche il cacciatorpediniere Kandahar, comparso all’orizzonte, Mazzucchi diede ordine di arrendersi. L’equipaggio, salito in coperta, ammainò la bandiera ed agitò indumenti bianchi per segnalare la resa (secondo Giorgio Giorgerini, il Galilei si fermò ed alzò il segnale «ci siamo arresi»).
Erano le 12.55 (12.25 per altra fonte); il combattimento era durato meno di mezz’ora. Prima preoccupazione del guardiamarina Mazzucchi, a questo punto, fu di richiedere ai britannici un’imbarcazione per evacuare i feriti gravi, ritenendo che il loro salvataggio costituisse il suo primo dovere. Inizialmente il Moonstone si avvicinò al Galilei con l’intenzione di prendere contatto con il suo equipaggio, ma poi il comandante Moorman, vedendo che gli uomini del sommergibile si preparavano a gettarsi in mare e ritenendo di non poter gestire adeguatamente coi suoi pochi uomini tutti quei prigionieri – che erano probabilmente più numerosi dell’equipaggio della sua nave –, intimò all’unità italiana di non autoaffondarsi, minacciando in caso contrario di riaprire il fuoco, e tornò a distanza di sicurezza, lasciando che fosse il Kandahar ad occuparsi della cattura (Stephen Roskill, invece, afferma che la decisione di Moorman di delegare al Kandahar il compito della cattura fosse dovuta al fatto che la lancia del Moonstone era stata danneggiata durante il combattimento, risultando così inutilizzabile per un abbordaggio).
I superstiti del Galilei rischiarono la vita anche dopo la fine del combattimento: poco dopo, infatti, sopraggiunse un aereo britannico che, non informato che il Galilei si era arreso, lo mitragliò e lo attaccò col lancio di due bombe, sebbene senza riuscire a colpirlo.
Passata anche quest’ultima minaccia, il Kandahar giunse sul posto alle 13.34 e mise a mare un’imbarcazione con un drappello d’abbordaggio, al comando del direttore di macchina Christopher Havergal, che inviò a bordo del Galilei; la squadra del cacciatorpediniere salì a bordo del sommergibile e lo catturò, facendo prigionieri i sopravvissuti, che furono trasbordati sul Kandahar sotto la direzione del comandante in seconda del cacciatorpediniere, tenente di vascello John Melvill Alliston. Il Kandahar cercò quindi di prendere il malridotto sommergibile a rimorchio, ma il cavo si spezzò dopo poco a causa del mare mosso; alcuni uomini del cacciatorpediniere salirono nuovamente a bordo e riuscirono a rimettere in funzione i motori, così che il Galilei, con la bandiera britannica che sventolava sopra quella italiana, come si usava ai tempi della marineria velica, ed i fuochisti di Havergal schierati in coperta, entrò ad Aden con i propri mezzi nelle prime ore del 20 giugno.


Il Galilei ormai catturato, al termine del combattimento (foto Derek Simons, via Grame Andrews, Horatio J. Kookaburra e Flickr; e www.gunboards.com)…



…viene preso a rimorchio dal Kandahar (Imperial War Museum e www.gunboards.com)


 Una serie di immagini del Galilei ad Aden dopo la cattura:

(Imperial War Museum)

Vistoso lo squarcio nella torretta (Imperial War Museum)


Anche in questa immagine è ben visibile lo squarcio aperto nella torretta dalle cannonate della Moonstone (da www.rnsubs.co.uk)

(Imperial War Museum)


Il Galilei fu il primo dei quattro sommergibili catturati dalla Royal Navy nel corso del conflitto: oltre ad esso, sarebbero caduti in mano britannica anche gli italiani Perla (9 luglio 1942) e Bronzo (12 luglio 1943, in circostanze molto simili a quelle della cattura del Galilei) ed il tedesco U 570 (27 agosto 1941).
 
La posizione del combattimento e della cattura del Galilei è indicata dalle fonti britanniche come 12°48’ N e 45°12’ E, a sud di Aden (per altra fonte, una decina di miglia ad est di tale base). Dei 54 uomini che componevano l’equipaggio del sommergibile, sette ufficiali e 47 tra sottufficiali e marinai, in quattordici avevano perso la vita nello scontro, più di un quarto del totale, mentre altri dieci erano rimasti feriti (tra di essi tutti e tre gli ufficiali superstiti nonché il sottocapo radiotelegrafista Mario Bonavita, i sottocapi nocchieri Sincero Tabacchi e Boccadamo, il sottocapo cannoniere Emilio Egidi, il marinaio elettricista Umberto Causin ed il marinaio Angelo Figliè). Uno dei feriti morì poco dopo, portando il totale delle vittime a quindici.
 
Le vittime:
 
Antonino Ailara, capo furiere di terza classe, da Ustica, disperso
Angelo Bellini, sergente nocchiere, da Villafranca in Lunigiana, disperso
Vittorio Boldarino, marinaio fuochista, da Mortegliano, disperso
Vincenzo Cametti, sottotenente del Genio Navale, da Roma, deceduto
Dante De Gregorio, secondo capo elettricista, da Campobasso, disperso
Felice Dellarole, capitano del Genio Navale (direttore di macchina), da Costanzana, deceduto
Rodolfo Dubrovich, marinaio cannoniere, da Fiume, disperso
Mauro Farina, secondo capo silurista, da Rescaldina, disperso
Bruno Ferraiolo, tenente di vascello (comandante in seconda), da Napoli, disperso
Manfredo Manfredi, capo silurista di terza classe, da Ferrara, disperso
Corrado Nardi, capitano di corvetta (comandante), da Tarquinia, deceduto
Francesco Pappagallo, capo meccanico di prima classe, da Terlizzi, deceduto
Italo Tamburlini, marinaio fuochista, da Trieste, deceduto
Pasquale Virtù, secondo capo meccanico, da Taranto, disperso
Roberto Zanotti, marinaio cannoniere, da Pavullo nel Frignano, disperso
 

Il capitano di corvetta Corrado Nardi (Fam. Nardi, via ANMI). Anche suo fratello, maggiore del Genio Navale Mario Nardi, morì in mare durante la guerra: scomparve il 9 gennaio 1943 nell’affondamento del cacciatorpediniere Corsaro, del quale era direttore di macchina. Il gruppo ANMI di Tarquinia è intitolato alla memoria dei due fratelli, così come una scuola elementare della città.


La Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di corvetta Corrado Nardi, nato a Tarquinia il 21 luglio 1906:
 
"Comandante di sommergibile operante in acque lontane, in ardita missione di guerra attaccava ed affondava una petroliera avversaria. Successivamente muoveva all’attacco di formazione navale composta da un incrociatore ed alcune siluranti. Scoperto e sottoposto a prolungata caccia, manovrava con freddezza e perizia fino a che, ripetutamente colpito, era costretto ad emergere. Malgrado la preponderanza avversaria impegnava combattimento in superficie. Gravemente ferito nell’impari lotta, con l’equipaggio decimato dal fuoco nemico, incitava i superstiti alla estrema resistenza finché, investito da scoppio di granata, faceva olocausto della vita alla Patria. Esempio di nobili virtù militari e coraggio.
(Mar Rosso, 19 giugno 1940)."
 
La tomba del comandante Nardi nel cimitero di Aden (g.c. Giovanni Pinna)

Lettera scritta dall’ammiraglio Domenico Cavagnari, capo di Stato Maggiore della Marina, alla famiglia del comandante Nardi (g.c. Giovanni Pinna)

La motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del tenente di vascello Bruno Ferraioli, nato a Napoli il 2 maggio 1910:
 
"Ufficiale in 2a di sommergibile operante in acque lontane, esplicava i propri compiti con perizia e fermezza, contribuendo validamente all’affondamento di una petroliera avversaria. Successivamente, dopo prolungata caccia da parte di unità avversarie, partecipava con la sua nave ad impari combattimento in superficie, dirigendo efficacemente il tiro, finché, investito da scoppio di granata, cadeva gloriosamente al suo posto di combattimento.
(Mar Rosso, 19 giugno 1940)."
 
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capitano del Genio Navale Felice Dellarole, nato a Costanzana il 3 novembre 1912:
 
"Direttore di macchina di sommergibile operante in acque lontane, espletava i propri compiti con bravura e fermezza, contribuendo efficacemente all’affondamento di una petroliera avversaria. Successivamente, dopo prolungata caccia da parte di unità di superficie avversarie, partecipava con il sommergibile ad aspro combattimento, assicurando il perfetto funzionamento dei macchinari, finché, investito da scoppio di granata, cadeva gloriosamente al suo posto di combattimento.
(Mar Rosso, 19 giugno 1940)."
 
Un articolo dell’8 settembre 1940 che commemora il comandante Nardi ed il direttore di macchina Dellarole (da www.marinaiditalia.com)

La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del sottotenente del Genio Navale Direzione Macchine Vincenzo Cametti, nato a Roma il 21 ottobre 1917:
 
"Sottordine al Capo Servizio Genio Navale su sommergibile operante in acque lontane, espletava i propri compiti con perizia e fermezza, dando valido contributo all’affondamento di una petroliera avversaria. Successivamente, dopo prolungata caccia da parte di unità avversaria, partecipava con il sommergibile ad impari combattimento in superficie, assicurando il normale funzionamento dei macchinari fino a quando, investito da scoppio di granata, cadeva gloriosamente al suo posto di combattimento.
(Mar Rosso, 19 giugno 1940)."
 
Il sottotenente G. N. Vincenzo Cametti (Archivio storico Istituto Nautico di Gaeta, via www.lavocedelmarinaio.com)

La motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita alla memoria del capo meccanico di prima classe Francesco Pappagallo (nato a Terlizzi il 14 settembre 1901), del capo furiere di terza classe Antonino Ailara (nato ad Ustica il 19 luglio 1905), del capo silurista di terza classe Manfredo Manfredi (nato a Ferrara il 5 aprile 1907), del secondo capo elettricista Dante De Gregorio (nato a Campobasso il 18 novembre 1911), del secondo capo silurista Mario Farina (nato a Rescaldina il 19 gennaio 1911), del secondo capo meccanico Pasquale Virtù (nato a Taranto il 20 marzo 1910), del sergente nocchiere Angelo Bellini (nato a Villa Lunigiana il 4 febbraio 1915), del cannoniere puntatore mitragliere Rodolfo Dubrovich (nato a Fiume il 6 settembre 1919), del cannoniere ordinario Roberto Zanotti (nato a Frignano il 5 giugno 1919) e dei fuochisti motoristi navali Vittorio Baldarino (nato ad Udine il 12 ottobre 1919) ed Italo Tamburini (nato a Trieste il 3 ottobre 1919):
 
"Imbarcato su sommergibile operante in acque lontane, espletava le proprie mansioni con perizia e fermezza, cooperando validamente all’affondamento di una petroliera avversaria. Successivamente, in aspro combattimento contro forze di superficie avversarie, partecipava con il sommergibile ad impari combattimento in superficie, assicurando il normale funzionamento dei macchinari fino a quando, investito da scoppio di granata, cadeva gloriosamente al suo posto di combattimento.
(Mar Rosso, 19 giugno 1940)."
 
 
Alcuni siti Internet indicano nelle esalazioni di cloruro di metile la causa primaria della cattura del Galilei, affermando che avrebbero costretto l’unità ad emergere e/o avvelenato l’equipaggio impedendogli di autoaffondare il battello e distruggere i documenti segreti (qualcuno si spinge persino ad affermare che il Moonstone avrebbe abbordato il sommergibile trovando tutto l’equipaggio privo di sensi); anche il vecchio libro "Che ha fatto la Marina?" di Marc’Antonio Bragadin afferma che l’avvelenamento da cloruro di metile avrebbe messo i superstiti completamente fuori combattimento, lasciando il sommergibile alla deriva e nell’incapacità di difendersi, e simile versione è raccontata da Ennio Giunchi nel suo "Epilogo in Mar Rosso". Si tratta di esagerazioni; in realtà le perdite verificatesi sul Galilei furono di modesta entità e provocarono solo pochi casi di intossicazione lieve, a differenza di quanto accaduto negli stessi giorni su altri sommergibili del Mar Rosso (Archimede, Perla, Macallè) sui quali fughe ben più gravi di cloruro di metile provocarono l’intossicazione di interi equipaggi, con decine di morti od intossicati gravi. La Commissione d’Inchiesta Speciale istituita nel dopoguerra sulla perdita del Galilei non diede molto peso al ruolo delle perdite di cloruro di metile negli eventi che portarono alla cattura dell’unità, così come non vi dà peso il volume "Le operazioni in Africa Orientale" dell’Ufficio Storico della Marina Militare (mentre "Navi militari perdute", anch’esso dell’USMM, menziona l’intossicazione da cloruro di metile come una delle ragioni per cui non si provvide ad attuare le manovre di autoaffondamento).
 
La sorte dei cifrari e dei documenti segreti presenti a bordo del Galilei è stata al centro di una controversia mai sopita. Secondo le dichiarazioni del guardiamarina Mazzucchi e di tutti i sopravvissuti, tutti i documenti segreti vennero distrutti prima della cattura; i britannici, invece, affermarono di aver catturato intatti cifrari, carte nautiche ed ordini d’operazione, servendosene per tendere un agguato ad altri due sommergibili italiani, il Galvani ed il Torricelli, affondati nei giorni successivi. (Il sito www.naval-history.net afferma anzi che dai documenti catturati i britannici sarebbero risaliti alla posizione di ben quattro sommergibili italiani, tra i quali, oltre a Torricelli e Galvani, anche il Macallè, che nel frattempo era già andato perduto per incaglio in seguito all’intossicazione dell’equipaggio causata dal cloruro di metile. Secondo tale sito i britannici avrebbero individuato il relitto del Macallè; ma ciò è impossibile, perché poche ore dopo l’incaglio il sommergibile era affondato ad oltre seicento metri di profondità, ed il suo relitto non è mai stato individuato).
Secondo la versione britannica, in particolare, sul Galilei furono catturati i codici in uso presso la Marina italiana e l’ordine d’operazioni che, inviato sull’incrociatore Leander (nave ammiraglia del contrammiraglio Arthur Murray, comandante delle forze della Royal Navy in Mar Rosso), venne tradotto da due ufficiali britannici, Stark e Stewart. Questi, che conoscevano un po’ l’italiano, appresero dal documento che il Torricelli era stato inviato in agguato al largo di Gibuti, e che il Galvani era partito da Massaua il 10 giugno ed avrebbe raggiunto il Golfo di Oman il 23 giugno, per poi operare in un raggio di otto miglia dall’ingresso del golfo; l’ammiraglio Murray, informato per telefono, dispose immediatamente l’uscita in mare entro un’ora dei cacciatorpediniere Kandahar, Kingston, Karthoum e Kimberley e dello sloop Falmouth, i primi tre per intercettare il Torricelli, gli ultimi due per tendere un agguato al Galvani. Al contempo, venne deviato il traffico mercantile che passava per il Golfo di Oman, costituito soprattutto da grosse petroliere.
Meno utili dovettero essere i cifrari, in quanto il servizio di decrittazione della stessa Marina italiana (che ebbe un buon grado di successo nell’intercettare e decifrare molte comunicazioni britanniche fino al settembre 1940, quando la Royal Navy cambiò i suoi metodi di cifratura) intercettò e decifrò dei messaggi da cui traspariva che i britannici si erano impadroniti delle nuove tabelle di sopracifratura dei codici italiani, basate su combinazioni di cinque cifre ed usate per le comunicazioni tra sommergibili e Comandi a terra, e conseguentemente Supermarina dispose l’immediata sostituzione di tali tabelle, così come di tutti gli altri documenti segreti che si sapevano essere sul Galilei.
Del resto già dal 22 giugno si sapeva da parte italiana che il Galilei era stato catturato dal nemico: la radio britannica ne aveva dato trionfalmente notizia, e la stampa d’oltre Manica aveva pubblicato le fotografie del sommergibile catturato ad Aden. Il sospetto che i britannici potevano essersi impadroniti dei cifrari presenti a bordo era subito balenato negli alti comandi della Regia Marina, inducendoli a sostituire in pochi giorni tutti i codici e documenti segreti in uso a bordo delle unità navali, inviandoli «in tutti i teatri di operazione e con tutti i mezzi, anche aerei». Il 5 luglio Supermarina compilò una nuova tabella cifrata per la flotta di superficie, cui ne fu aggiunta una seconda dodici giorni dopo. Grazie a questi provvedimenti, i progressi compiuti dai decrittatori avversari nelle prime settimane di guerra furono azzerati, e le comunicazioni italiane sarebbero tornate impenetrabili per i britannici fino all’autunno, quando i decrittatori britannici operanti nella centrale di Bletchley Park (organizzazione “ULTRA”) riuscirono a decifrarle anche grazie allo studio dei codici catturati sul Galilei e su un altro sommergibile affondato in Mediterraneo nel giugno 1940, l’Uebi Scebeli.
 
La notizia della cattura del Galilei sul giornale statunitense “Florence Times” del 26 settembre 1940

La versione britannica sulla cattura dei documenti del Galilei è accettata tra gli altri da "Il vero traditore" di Alberto Santoni, "In guerra sul mare" di Erminio Bagnasco e "Struggle for the Middle Sea" di Vincent O’Hara.
Tra coloro che ritenevano che la cattura dei documenti del Galilei fosse stata inventata per coprire altre fonti informative di cui i britannici si servivano nella regione vi era anche Antonio Mondaini, comandante in seconda del Galvani col grado di tenente di vascello e poi divenuto ammiraglio di squadra nel dopoguerra (e comandante dei sommergibili della Marina Militare dal 1968 al 1970): nel marzo 1990 questi elencò, in un articolo pubblicato sulla rivista dei sommergibilisti “Aria alla rapida!”, varie ragioni per cui riteneva che le informazioni che avevano permesso ai britannici di trovare il Galvani avessero diversa provenienza. In primo luogo, le direttive per l’impiego dei sommergibili in Africa Orientale, comunicate da Supermarina a Massaua nel settembre 1939, prevedevano che il comandante del Gruppo Sommergibili di Massaua convocasse separatamente i comandanti di ogni sommergibile, comunicando solo a loro la destinazione delle rispettive unità (in modo che il comandante di ogni sommergibile fosse l’unico a sapere dove fosse diretto il proprio battello); a Massaua, soltanto il comandante del Gruppo Sommergibili (capitano di fregata Ferrini) ed il suo segretario conoscevano le destinazioni di tutti i sommergibili, e solo comandanti ed ufficiali in seconda di ciascuno di essi conoscevano la destinazione del proprio. Tali misure che non avrebbero avuto molto senso, se poi la destinazione di tutti i sommergibili avesse dovuto essere riportata su un ordine d’operazione generale consegnato a ciascuno di essi. Difatti, sul Galvani non si trovavano ordini d’operazione che rivelassero la destinazione degli altri sommergibili di Massaua, e non c’era motivo perché dovessero invece esserci sul Galilei (ed il guardiamarina Mazzucchi negò sempre che vi fossero). Le disposizioni per i sommergibili venivano inviate da Roma all’Africa Orientale mediante aerei civili che facevano scalo in Egitto, e non era impossibile che durante tale sosta i servizi segreti britannici potessero riuscire a carpire qualcosa.
Dopo la fine della guerra, per giunta, si venne a sapere che il barista dell’Albergo dell’Asmara, frequentato abitualmente dagli ufficiali della Regia Marina, non era siciliano, come si pensava, ma maltese: una spia britannica infiltrata nel 1938, che certamente non era rimasta inattiva.
Lo stesso Mondaini, quando venne recuperato, nudo, dal Falmouth dopo l’affondamento del Galvani, fu avvicinato da un ufficiale britannico che lo guardò bene in faccia e poi gli disse “Lei è il Tenente di Vascello Mondaini, secondo in comando del Galvani”; ed il capitano di corvetta Salvatore Pelosi, comandante del Torricelli, affermò che durante la prigionia i britannici gli avevano mostrato le note caratteristiche sulla maggior parte degli ufficiali italiani imbarcati sui sommergibili di Massaua.
Considerato quanto sopra, non appare implausibile che i britannici potessero disporre, in Africa Orientale, di una efficiente rete di spionaggio che era stata in grado di reperire le informazioni sulle destinazioni dei sommergibili italiani nello scacchiere, determinando l’intercettazione e distruzione di Galvani e Torricelli, e persino gli specchi caratteristici dei loro ufficiali; e che la notizia della cattura di documenti sul Galilei fosse stata inventata per “coprire” le vere fonti delle informazioni (spie come il barista dell’Asmara), che avrebbero potuto essere ancora utili in futuro, sviando da esse l’attenzione.
D’altra parte, se così fosse, non si comprende perché la storiografia britannica avrebbe continuato a mentire ed attribuire tali informazioni a documenti catturati sul Galilei anche dopo la guerra, quando non c’era più motivo di nascondere l’esistenza di una rete di spie; lo storico Alberto Santoni, cercando negli archivi britannici (Public Record Office, fondo ADM 199, cartella 136: East Indies Station, attack on Italian U-Boats, reports), trovò documenti che convalidavano la versione della cattura di materiale segreto sul Galilei (materiale cifrato ed ordini di operazioni relativi ad altri quattro sommergibili di Massaua, Galvani compreso), ed il capitano di corvetta Roselli Lorenzini, comandante del sommergibile Ammiraglio Cagni, fu informato da ufficiali britannici ad Aden, il 25 novembre 1943 (dopo l’armistizio, quando Italia e Regno Unito non erano più nemici), che nel 1940 il Galilei era stato rimorchiato in quel porto “con conseguente cattura dei cifrari”, come testimoniò nel dopoguerra davanti alla Commissione d’Inchiesta Speciale istituita sulla perdita del Galilei.
Altre fonti affermano invece che il solo Galvani venne localizzato dai britannici grazie a documenti trovati sul Galilei, mentre non vi era alcun collegamento tra la cattura di quest’ultimo e la perdita del Torricelli. Dalla storia ufficiale dell’USMM risulterebbe pressoché impossibile che il Torricelli possa essere stato individuato a causa di piani d’operazione catturati sul Galilei, perché quando il Galilei partì per la missione in cui venne catturato, il 10 giugno, la partenza del Torricelli non era prevista: essa fu decisa soltanto il 14 giugno, in sostituzione del Ferraris avariato. Inoltre, dopo aver raggiunto in un primo momento la posizione precedentemente assegnata al Ferraris, che poteva anche trovarsi su eventuali documenti catturati dai britannici, il Torricelli aveva ricevuto ordine di spostarsi in una nuova zona, situata decine di miglia più a nord della precedente, e questo, ovviamente, negli eventuali documenti del Galilei non poteva essere indicato.
Una versione ancora differente ritiene che fu effettivamente la cattura del Galilei a permettere l’intercettazione del Torricelli, ma non per mezzo di ordini d’operazione, bensì a causa del rinvenimento dei cifrari, che consentirono al comando britannico di Aden di intercettare e decifrare le comunicazioni radio tra il Torricelli ed il Comando di Massaua avvenute il 19 giugno, quando il sommergibile ricevette i nuovi ordini, così apprendendo della sua nuova posizione. A quest’opera avrebbe collaborato persino l’esploratrice britannica Freya Stark, che aveva trascorso gran parte della sua infanzia e giovinezza in Italia, e che apparentemente era l’unica persona ad Aden a conoscere l’italiano. Tutto considerato, quest’ultima versione sembra la più plausibile.
Interessante è il commento della storia ufficiale dell’USMM ("Le operazioni in Africa Orientale") secondo cui “il fatto che per sei giorni [dal 12 al 18 giugno] nessuna unità britannica, navale o aerea, abbia attaccato il Galilei, e nemmeno lo abbia ricercato, deve essere messo nel dovuto rilievo poiché costituisce la più convincente e decisiva smentita a certe voci che circolarono, allora e dopo, secondo le quali gli inglesi sarebbero stati a conoscenza delle zone di agguato dei nostri sommergibili dell’A.O.I. È ovvio che se i Comandi britannici avessero avuto preventiva conoscenza delle acque in cui i nostri battelli avrebbero operato in guerra, non avrebbero mancato di dar loro subito caccia, e nessuno vi si prestava più facilmente del Galilei che era lì, a portata, per così dire, delle loro mani”. La stessa storia ufficiale esprime il dubbio che non tutti i documenti segreti fossero stati distrutti dall’equipaggio prima della cattura, e che i superstiti, che affermarono che fossero stati tutti distrutti, non ricordassero esattamente “ciò che fecero, videro, sentirono, in quei momenti che furono certamente tragici”; si spinge anzi ad affermare che “È comunque certo che gli inglesi trovarono sul Galilei l’ordine generale di operazione per i sommergibili di Massaua e se ne impadronirono servendosene poi per disporre la caccia al Galvani”. Il libro "Trawlers go to War" di Paul Lund ed Harry Ludlam offre una spiegazione che potrebbe conciliare l’asserzione dei superstiti del Galilei di aver “distrutto” i documenti prima della resa, e quella dei britannici di averli catturati: “Per la mortificazione dell’equipaggio del sommergibile, i documenti confidenziali che avevano frettolosamente gettato in mare non affondarono, e vennero ripescati dal mare dalla squadra d’abbordaggio del cacciatorpediniere [Kandahar]”.
Degna di nota è infine la menzione, fatta nel gennaio del 1941 dall’ammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in Africa Orientale, in una lettera a Supermarina, che le mappe dei canali di accesso a Massaua attraverso le insidiose acque delle Dahlak erano «in possesso dei nostri nemici dopo la cattura del Sm Galilei»: sorge spontaneo chiedersi se questa fosse solo una deduzione di Bonetti, o se l’ammiraglio lo fosse venuto a saperlo per certo ed in tal caso, attraverso quale canale.
 
In seguito alla vicenda del Galilei, i britannici inviarono il posamine ausiliario Teviot Bank a posare un campo minato antisommergibili a protezione delle rotte di accesso ad Aden.
Il comandante Moorman del Moonstone, per la cattura del sommergibile, venne decorato con la Distinguished Service Cross e promosso a tenente di vascello; la stessa decorazione fu conferita al comandante in seconda, aspirante guardiamarina Matthew Jarvie Hunter della Royal Naval Reserve. Il sergente Frederick G. Quested, puntatore del cannone durante il combattimento, fu insignito della Distinguished Service Medal.
Nel suo rapporto, il comandante Moorman scrisse che “Tutti gli uomini del mio equipaggio hanno mostrato calma e fermezza sotto il fuoco, ma il successo dell’azione è dipeso a mia opinione dai seguenti ufficiale e marinai. Il mio secondo, aspirante guardiamarina M. J. Hunter della Royal Naval Reserve, che ha garantito che le squadre di rifornimento continuassero a svolgere il loro lavoro, ed ha inoltre organizzato il gruppo di “cecchini” (…) Il sergente F. Quested, il puntatore, il cui tiro è stato eccellente, considerando lo stato del mare, le onde e le mie manovre…”.
 
Interrogando i superstiti del Galilei, i britannici appresero che pochi avevano ricevuto addestramento specifico per il servizio sui sommergibili prima di essere assegnati a questo ramo, e che in generale i livelli di addestramento erano bassi; c’erano state poche occasioni per compiere esercitazioni in mare, e da quando il Galilei era arrivato in Mar Rosso, nel febbraio 1940, aveva compiuto un’unica uscita per addestrarsi con cannone e siluri prima dell’entrata in guerra.
Dopo un iniziale periodo di prigionia ad Aden per poche settimane, il 12 luglio 1940 i 39 superstiti del Galilei vennero imbarcati sul piroscafo Takliva ed inviati in prigionia in India, nel Central Internment Camp di Ahmednagar (250 km ad est di Bombay), insieme ai naufraghi del Torricelli e del Galvani, vittime proprio della cattura del Galilei: in tutto, 16 ufficiali e 102 tra sottufficiali e marinai. Furono i primi dei quasi 67.000 prigionieri di guerra italiani ad arrivare in India nel corso del conflitto.
Il campo di Ahmednagar era sorto nel settembre 1939 come campo per internati civili tedeschi; nel giugno 1940 era stato ampliato con la creazione di un settore per internati civili italiani (circa 400, cittadini italiani residenti in India ed arrestati a ridosso della dichiarazione di guerra: perlopiù religiosi e missionari, tra cui il delegato apostolico in India Vincenzo Scuderi, ma anche gli equipaggi delle navi mercantili italiane sorprese dalla dichiarazione di guerra nei possedimenti britannici dell’India o del Medio Oriente). Creato utilizzando delle installazioni in precedenza adibite ad acquartieramento e riposo delle truppe britanniche, quello di Ahmednagar era migliore di molti altri campi di prigionia; sorgeva in una zona con clima piuttosto gradevole, era pulito e bene organizzato. C’erano anche letti con materassi, lenzuola e cuscini di crine, zanzariere e persino un cinema, aperto due volte a settimana, ed una piccola piscina realizzata durante la prima guerra mondiale da prigionieri turchi.
Dato il loro ridotto numero, i prigionieri di guerra italiani vennero inviati nel campo creato per gli internati civili loro connazionali, ancorché in una parte separata (e non comunicante, nemmeno a voce, con la sezione per gli internati civili) che divenne così il primo campo per prigionieri di guerra italiani dell’India britannica. Qui i prigionieri erano alloggiati in ampie tende (a due posti per gli ufficiali, ad otto posti per sottufficiali e marinai); mancando l’illuminazione elettrica (se non per il reticolato della recinzione), ogni tenda aveva una lampada a petrolio, che veniva ritirata ogni mattina dal contabile del Torricelli, capo di prima classe Giuseppe De Giosa, il quale la riforniva di petrolio (e, se necessario, di stoppino) e poi la restituiva la sera.
La mensa ufficiali, allestita sotto una grande tenda, era servita da personale indiano, che cucinava pietanze “all’inglese” (essendo abituato a servire i britannici): abbondante colazione con caffè, tè, latte, uova al bacon, uova al tegamino, uova sode, salamini di bacon, frutta fresca e succhi di frutta; pranzo leggero con roast beef freddo e talvolta insalata; cena con zuppa, piatto di carne con contorno e dolce. Più sbrigativo il trattamento riservato ai marinai: dovevano radunarsi in fila indiana davanti alla baracca della cucina per la consegna del cibo, che dovevano poi cucinare da sé (tra i prigionieri, comunque, tale compito era delegato ai sottufficiali e marinai con la qualifica di cuochi). Inizialmente la distribuzione delle provviste per i marinai veniva effettuata allo scoperto, ma dopo che un grosso uccello locale ebbe rubato un pezzo di carne buttandosi in picchiata sulla colonna di marinai, si preferì svolgere la distribuzione, per il futuro, sotto una tettoia.
Successivamente vennero realizzati due distinti campi, per ufficiali e per soldati, affiancati e comunicanti tra loro durante il giorno; accanto avevano il campo per internati civili italiani, mentre quello per gli internati civili tedeschi era frontistante ad essi, sul lato opposto della strada. In base alle regole della convenzione di Ginevra, i britannici fornivano ai prigionieri delle banconote appositamente stampate, da utilizzare per comprare merce nello spaccio del campo; dato però che la paga per i soldati e marinai era molto magra (poche annas al giorno), si decise di operare una trattenuta sulle paghe degli ufficiali, per creare un fondo comune in favore della truppa.
 
Nell’agosto 1940 il numero dei prigionieri si accrebbe di oltre cinquecento unità con l’arrivo dei superstiti dell’incrociatore Bartolomeo Colleoni, affondato in Mediterraneo dall’HMAS Sydney. Quando, nel dicembre 1940, cappellani ed ufficiali medici vennero rimpatriati, per l’assistenza spirituale ai prigionieri vennero trasferiti nel campo due missionari salesiani (Padre Alfonso Ferrero e Padre Guglielmo Balocco), che oltre al conforto religioso si dedicarono anche all’insegnamento della lingua inglese. Alla fine dell’anno, la popolazione del campo per prigionieri di guerra di Ahmednagar ammontava ad oltre un centinaio di ufficiali ed un migliaio di soldati, avieri e marinai: più di metà erano personale della Marina, il resto in gran parte personale dell’Esercito catturato durante le prime schermaglie di confine tra Libia ed Egitto (presa della Ridotta Capuzzo, distruzione della colonna D’Avanzo) e durante infiltrazioni di autoblindo britanniche in Cirenaica (tra di essi anche un generale: Romolo Lastrucci).
Nel medesimo periodo, iniziarono ad affluire in India migliaia di prigionieri italiani, in massima parte personale dell’Esercito, catturati in Egitto e Cirenaica durante l’offensiva britannica nota come "Operazione Compass"; per alloggiare questa notevole massa di prigionieri venne creato un nuovo campo di prigionia a Ramgarh, nell’India nordorientale (460 km a nordovest di Calcutta, ai confini tra gli stati del Bengala e del Bihar, dalla parte opposta dell’India rispetto ad Ahmednagar). In questo campo vennero trasferiti anche i prigionieri in precedenza detenuti ad Ahmednagar, che lasciarono Ahmednagar in tre scaglioni, ognuno composto da 40 ufficiali e 350 soldati e marinai; il primo gruppo partì a inizio dicembre, l’ultimo il 12 dicembre 1940.
A Ramgarh, cittadina circondata dalla giungla, esistevano tre campi per prigionieri di guerra, numerati dal 18 al 20. Le condizioni climatiche e sanitarie, nonostante la presenza nel campo di un ospedale da campo con medici italiani, erano peggiori rispetto ad Ahmednagar; il caldo era soffocante e l’acqua, impura (un ex prigioniero la ricordava addirittura come “torbida, color terra”), causò la rapida diffusione della dissenteria e di altre malattie, che mieterono diverse vittime tra i prigionieri.
A seguito dell’invasione della Birmania da parte delle forze giapponesi (aprile-maggio 1942), i prigionieri detenuti a Ramgarh vennero in seguito nuovamente trasferiti verso altri campi di prigionia più lontani dal fronte, separando gli ufficiali dai soldati e marinai (sia per ragioni pratiche, che su direttiva del Political Warfare Executive): gli ufficiali vennero mandati nel campo di Yol, i marinai e soldati in quelli di Bangalore e Bhopal.
I prigionieri in India furono rimpatriati tra il 1945 ed il 1946.
 
Tragica fu la sorte del radiotelegrafista del Galilei Andrea Dei Grandi: prigioniero in India (nel POW Camp 18 di Bombay), dopo l’armistizio di Cassibile (8 settembre 1943) si arruolò volontario nella "Force A", organizzazione britannica il cui scopo era di assistere i prigionieri Alleati in fuga in Italia dopo l’armistizio; dopo un periodo di addestramento fu paracadutato con questa missione in Veneto, in provincia di Treviso, vicino alle terre di proprietà di un suo zio. Atterrato però in un punto diverso da quello stabilito, venne arrestato da un soldato repubblichino che lo derubò dei suoi averi prima di consegnarlo ai tedeschi, finendo imprigionato nel campo di transito di Bolzano fino al 12 settembre 1944, quando fu fucilato insieme ad altri 22 prigionieri, tutti militari italiani facenti parte di varie missioni Alleate, nella caserma Francesco Mignone di Oltrisarco.
 
La Commissione d’Inchiesta Speciale (C.I.S.) istituita nel dopoguerra sulla perdita del Galilei, nella sua relazione finale del 31 ottobre 1946, ritenne il guardiamarina Mazzucchi responsabile di aver permesso, con la sua “mancata azione di comando”, la cattura del sommergibile, pur riconoscendo che si era comportato valorosamente durante il combattimento contro la Moonstone, dirigendo il tiro del cannone di prua mentre i suoi superiori cadevano uno dopo l’altro. Per aver permesso la cattura del battello Mazzucchi, che aveva giustificato la sua scelta con la necessità di salvare i superstiti dell’equipaggio, e soprattutto i feriti, venne sospeso dal grado per un anno. (Un articolo britannico afferma che attorno al Galilei, al momento della resa, vi sarebbero stati diversi squali, la cui presenza avrebbe impedito all’equipaggio di gettarsi in mare in caso di autoaffondamento. Nessun’altra fonte, italiana o britannica, menziona però questo particolare).
 
Il Galilei ad Aden nell’agosto 1940 (Australian War Memorial)

Ribattezzato X 2, l’ormai ex Galilei fu riparato e messo in servizio nella Royal Navy; il 10 settembre 1940 lasciò Aden diretto a Suez insieme al convoglio BN. 5 (proveniente da Bombay e formato dai mercantili britannici Akbar, Alavi, Ancylus, Antenor, Ashbury, Bankura, Bhima, British Emperor, City of Christiania, Clearpool, Crista, Cyclops, Glenlea, Guido, Heron, Jalaganga, Karoa, Nils Moller, Ovington Court, Pellicula, Santhia, Talma, Theseus, Treminnard e Westralia e dallo jugoslavo Tomislav, scortati dal Leander e dagli sloop Indus, Auckland e Parramatta, rispettivamente indiano, neozelandese ed australiano, e dal posareti ausiliario Protector), ma subì un’avaria che lo costrinse a rientrare ad Aden con la scorta del posareti Protector.
Riparato il guasto, nel dicembre 1940 l’X 2 risalì il Mar Rosso e fu inviato ad Alessandria d’Egitto, dove venne accuratamente esaminato, utilizzato in alcuni test ed impiegato come unità per addestramento di base nel porto egiziano (per altra fonte, invece, in Estremo Oriente e/o nelle Indie Orientali; Roskill scrive che rimase ad Alessandria per tutta la guerra e che fu impiegato esclusivamente nell’addestramento antisommergibili, presumibilmente come bersaglio, mentre Erminio Bagnasco in "Navi e marinai italiani nella seconda guerra mondiale" afferma che fu impiegato come unità addestrativa nelle Indie Orientali fino al 1944, e poi in Mediterraneo). Primo suo comandante, dal 22 settembre 1940 alla fine del 1941, fu il capitano di corvetta Patrick Ernest Heathfield, della riserva della Royal Navy; successivamente il comando passò al sottotenente di macchina (Commissioned Engineer) James Stephens. Nel gennaio 1941 l’X 2 risultava dislocato a Suez, dove aveva ancora base nel luglio successivo (sempre al comando di Heathfield) e nel gennaio 1942, sempre alle dipendenze dell’East Indies Command. Un membro dell’equipaggio dell’X 2, il sottocapo fuochista Robert William Wood, morì ad Aden il 24 novembre 1940 e venne sepolto nel cimitero di Maala.
Nel giugno 1942 il nome del sommergibile venne cambiato in P 711 (per altra fonte, sarebbe effettivamente entrato in servizio sotto bandiera britannica soltanto nel 1942, prima come X 2 e poi come P 711, mentre in precedenza sarebbe stato ormeggiato a Port Said ed usato solo per la ricarica delle batterie dei sommergibili britannici); nel corso del conflitto ricevette un radar tipo 286W o 291W ed un sonar tipo 129.
Finita la guerra ed esauritasi ogni sua residua utilità, il sommergibile ex italiano fu radiato dai quadri della Royal Navy il 1° gennaio 1946, e demolito nel corso di quello stesso mese.
Dato degno di nota, la Marina italiana radiò formalmente il Galilei dai suo quadri dopo la Royal Navy: la radiazione del sommergibile dai ruoli della Marina Militare avvenne infatti il 18 ottobre 1946, dieci mesi dopo quella dai ruoli della Marina britannica ed a più di sei anni dall’ultima volta che il Galilei – ormai non più esistente – aveva prestato servizio sotto bandiera italiana.
 
La bandiera ed i guidoni del Galilei finirono ad ornare le pareti del bar della Railway Commercial Inn in St. John’s Road, a Ryde, nell’Isola di Wight.
 
Curiosamente, sul monumento che al Museo Tecnico Navale di La Spezia commemora i sommergibili italiani perduti in pace ed in guerra, elencandoli per nome uno per uno, il nome del Galilei – così come quelli di altri due sommergibili perduti per cattura, il Bronzo ed il Perla – sembra essere stato aggiunto solo in un secondo momento: i tre nomi formano infatti una riga visibilmente più recente delle altre, aggiunta sotto le altre (mentre gli altri nomi sono ordinati cronologicamente, per data di perdita). Probabilmente all’epoca della realizzazione del monumento si decise di omettere i nomi dei tre sommergibili perduti per cattura, invece che per affondamento, perché la loro cattura era considerata una circostanza “disonorevole”, quasi da nascondere e dimenticare; in epoca successiva, tuttavia, si decise opportunamente che anche gli uomini caduti su questi tre battelli meritavano di essere commemorati al pari dei loro tremila compagni affondati con le loro unità.
 
 
Il combattimento e la cattura del Galilei nel rapporto del nostromo William Henry Moorman, comandante del Moonstone:
 
Ore 12.30: Un sommergibile viene osservato emergere a poppavia. Distanza iniziale – 2000 iarde (circa). Il sommergibile ha aperto il fuoco, mentre il Moonstone virava il più rapidamente possibile.
Ore 12.32: Aperto il fuoco. Mantenuta la prua sul sommergibile che sembrava stare lanciando dei siluri. Distanza in lenta diminuzione.
Ore 12.38: Distanza rapidamente in calo. Le mitragliatrici Lewis mantenevano un fuoco feroce, che manteneva i cannonier nemici lontano dai loro cannoni. Il terzo ed il quarto colpo sono risultati troppo corti o troppo lunghi, di poco. Il tiro nemico era molto irregolare. Quando la distanza è calata a 500 iarde, il mio equipaggio, tutti gli uomini non impegnati, armati con fucili, usando le murate come riparo, hanno aperto a loro volta un tiro lento e deliberato. In tal modo i ponti del nemico sono stati soggetti ad una fucileria decisamente letale.
La distanza è calata a 450 iarde. A questo punto il sommergibile si era fermato quando un colpo a segno alla base della torretta, seguito da un altro sulla sommità, ha posto fine all’azione. L’equipaggio è stato visto precipitarsi in coperta, bandiere ammainate, e quelli che avevano qualche indumento di colore bianco o simile, lo agitavano freneticamente. Questo è stato accettato come un segnale di resa, ed è stato dato l’ordine di cessare il fuoco. Le ore erano le 12.55. Il Moonstone si è avvicinato al sommergibile con l’obiettivo di prenderne a bordo il comandante, e stabilire un contatto. Tale tentativo non ha avuto successo in quanto l’equipaggio sembrava in procinto di buttarsi in mare, così da costringermi a ripescarli. Il nemico non sembrava in pericolo di affondamento. Pertanto mi sono allontanato a distanza di sicurezza ed ho aspettato che il Kandahar, che a questo punto era apparso all’orizzonte, mi aiutasse a decidere cosa fare con la preda.
Ore 13.34: Kandahar arrivato, ha assunto il controllo della preda”.

L’incontro tra il Galilei ed il Drava nelle memorie del marinaio Frane Šale di Sabbioncello (da “Gradimir Radivojević: Posejdonovi Izazovi”, Dušević & Kršovnik d.o.o., Fiume, 1996; si ringrazia Danilo Prestint per la traduzione):
 
"Mi imbarcai sul piroscafo Drava (Jugoslavenska oceanska plovidba, Sušak) nel 1940 al Pireo e partimmo per Calcutta, dove caricammo carbone per Singapore. Dopo, a Jakarta zucchero per Suez. Navigando per Suez, dovevamo fermarci ad Aden per rifornirci di combustibile. Già allora si stava navigando in cospirazione [?], le rotte erano segrete. Il nostro comandante, Josip Šikić di Costerna, inviò un telegramma cifrato a Aden. In quel mio primo giorno di guerra soffiava il monsone. Faceva caldo, stavamo, noi due, all’ombra sotto la prua, era mezzogiorno. Guardavo il mare e vidi che qualcosa era apparso in mare, un grande pesce? Dissi a Smiljan, il mio compagno, che si trattava di una balena. Lui rispose che non era sicuro, perché era troppo rotonda.
Aveva ragione. Non era una balena, per la prima volta nella vita avevamo visto una torretta di sommergibile. Il capitano disse che era italiano. Venne a galla, sembrava grandissimo: nero. Due cannoni ci guardavano, c'erano delle bandierine segnaletiche. Uno dei nostri ufficiali, Mato, disse: vogliono che lasciamo la nave. Il capitano ci invitò a stare calmi ed a prepararci a lasciare la nave se non c’era un altra soluzione.
Le scialuppe di salvataggio erano pronte e ben fornite. Il cannone aprì il fuoco, per farci capire che facevano sul serio. Il nostro telegrafista captò che dal sommergibile chiamavano Roma: chiedevano che fare con noi, che eravamo pieni di zucchero. Šikić ordinò: lancia il SOS... il mare e troppo agitato per le nostre scialuppe. Da Aden, dalla base militare inglese risposero: arriviamo, resistete.
Captarono il nostro messaggio, la torretta si aprì, uscì il comandante pieno di strisce gialle sull’uniforme. Fece un gesto con le mani. Per noi sembrava che comandasse l’aprite il fuoco. Ma si trattava del comando di ammainare le bandierine. Giunse l'ordine: proseguite... Ci  silurano?
Non passarono nemmeno 20 minuti che arrivò il Catalina, l'aereo con le bombe anti sommergibile. Chiese dov’era il sommergibile. Il nostro telegrafista diede la posizione, ma il sommergibile non c'era più. Dall’aereo: prosegua per Aden, la situazione è sotto nostro controllo.
Un ora dopo arrivarono due cacciatorpediniere, da uno sbarcarono due marinai ... il mare era forza 5-6... vennero da noi ... ci dissero: Signori questa volta siete stati fortunati, questo sommergibile ha silurato una cisterna. Presero i dati della nave e se ne andarono.
Arrivammo a Aden, l’indomani gli Inglesi scortarono il sottomarino. Si diceva che gli aerei avevano sganciato le bombe di profondità, il cacciatorpediniere aveva aperto il fuoco con i cannoni – avevano centrato la torretta. Poi gli Italiani si erano arresi. Tra l’equipaggio c’erano diversi Istriani (…) Ritornai a casa dopo lunghi sei anni (...) Nel 1953 a Venezia comprai un giornale e trovai la storia del comandante del “nostro” sommergibile con il titolo: Il sommergibile italiano ha attaccato il piroscafo jugoslavo Drava".

Taranto, fine anni ’30 (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)